Francesco Petrarca
La riflessione di Francesco Petrarca si svolge all’interno di una tradizione insolitamente estesa per gli orizzonti del tempo e rivisitata alla luce di una programmatica predisposizione a combinare materiali dottrinali ed elementi formali eterogenei. Stretta tra i due estremi del poeta-vate di virtù civili, ispirate alla Roma repubblicana, e del saggio di ascendenze stoico-agostiniane, indifferente ai tumulti del mondo, la sua opera avrebbe influenzato le elaborazioni delle generazioni a venire che, rivolgendosi alla città degli uomini o alla cura dell’anima, agiteranno ancora motivi enucleati all’interno di un’incessante quanto originale rivisitazione della lezione degli antichi.
La nascita di Petrarca, il 20 luglio del 1304 ad Arezzo, avviene nello stesso giorno in cui alle porte di Firenze falliva l’ultimo tentativo dei guelfi bianchi di riconquistare la città, dalla quale il padre si era allontanato due anni prima per sottrarsi alle persecuzioni dei guelfi neri. Situandosi da subito ai margini della civiltà comunale, la sua esistenza si sarebbe svolta sotto il segno di un sentimento di estraneità che lo avrebbe portato a sentirsi «straniero dovunque» e «cittadino in nessun luogo». La sua formazione del resto si sarebbe svolta per intero negli ambienti cosmopoliti di Avignone, dove la famiglia si trasferiva nel 1312, prendendo casa presso la vicina Carpentras. Dopo gli studi giuridici, mai amati né conclusi, dapprima a Montpellier e poi a Bologna, a causa dell’improvvisa morte del padre, nel 1326 Petrarca rientra ad Avignone dove, il 6 aprile dell’anno seguente, incontra Laura, sembianza materiale di un’idea di amore che lo avrebbe tormentato per tutta la vita.
Presi gli ordini minori nel 1330, entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna, dedicandosi per lo più ai classici latini ma senza trascurare la letteratura religiosa né la composizione di rime in volgare, avviate già negli anni bolognesi: tre tavoli sui quali sarebbe stato impegnato per tutta la vita. Grazie all’abile patronato dei Colonna e alla fama conseguita con l’avvio delle due opere romane, il De viris illustribus e l’Africa, nell’aprile del 1341, dopo aver sostenuto un esame presso il re di Napoli, Roberto d’Angiò, è incoronato poeta et historicus e gli viene conferita la laurea poetica in una fastosa cerimonia in Campidoglio che doveva ulteriormente spronarlo a farsi promotore delle antichità romane e dei diritti della città eterna: già nel 1335, con un’epistola a Benedetto XII, aveva iniziato a perorare il ritorno della curia pontificia a Roma, come farà ininterrottamente fino alla vigilia della morte.
Salvo due soggiorni di diversa durata a Parma e alcuni viaggi in Italia e nell’Europa del Nord e una missione a Napoli, fino al 1347 Petrarca si sarebbe trattenuto in Provenza, alternandosi tra Avignone e Valchiusa, dove aveva comprato una casa per ripararsi dalla confusione di una città mai amata. Nel 1347 s’infiamma d’entusiasmo per il tentativo rivoluzionario di Cola di Rienzo, con prese di posizione pubbliche che dovevano segnare la fine dei suoi rapporti con i Colonna, fino a decidersi di raggiungere Cola a Roma: ancora in viaggio, apprende però del fallimento del suo progetto. La peste del 1348 lo coglie in Italia e, con la morte di Laura e del cardinale Colonna, si chiude una stagione della sua vita.
Nel maggio del 1351 è richiamato ad Avignone da Clemente VI, che invano gli offre la carica di segretario apostolico, allo stesso modo in cui inutilmente il Comune di Firenze gli aveva offerto una cattedra nello Studio fiorentino: grazie anche ai numerosi benefici ecclesiastici susseguitisi negli anni, Petrarca gode ormai di una agiata situazione economica.
Nel maggio del 1353 si stabilisce a Milano, sotto la protezione dei Visconti, trascorrendovi otto anni che segnano l’apice del suo prestigio intellettuale: anche l’imperatore Carlo IV si dichiara suo ammiratore. Nel 1361, a causa del diffondersi della peste, lascia Milano per trasferirsi prima a Padova e poi a Venezia dove resterà fino al 1368, dedicandosi ancora ai suoi studi, alle molte opere intraprese e non ancora completate, riprendendo ad adoperarsi con Urbano V per il ritorno della Santa Sede a Roma. Si trasferisce a Padova, sotto la protezione di Francesco da Carrara, che gli concede un terreno in Arquà dove avvia la costruzione di quella che sarebbe stata la sua ultima dimora.
Secondo un’immagine da lui stesso evocata e ripresa dai suoi biografi, si ritiene che la morte l’abbia colto, la notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374, tra le sue amate carte, intento a lavorare forse al Trionfo dell’eternità, più verosimilmente al Canzoniere di cui aveva approntato già nove stesure.
La nitidezza dei risultati raggiunti da Petrarca con il restauro degli Ab Urbe condita di Tito Livio, concluso attorno al 1330, ha messo in ombra le motivazioni di fondo di queste fatiche letterarie che non sono riconducibili, in un autore così giovane, a una piena consapevolezza dei criteri scientifici di una filologia ancora da venire. A orientarlo verso il recupero di reliquie dell’antica Roma era infatti un amore alimentato dal fascino del mito che si riverberava, fino a occultarla, sulla miseria del presente. Suggestioni letterarie e aneliti del cuore velavano così la considerazione del presente, inteso come continuazione di un passato mai interrotto. Dopo i Romani, il mondo ai suoi occhi era desolatamente vuoto né avrebbe mai trovato motivi di interesse nei contemporanei, intenti a occupazioni che disprezzava, senza mai comprendere i significativi sviluppi che alcune discipline, dalla medicina al diritto, avevano nel frattempo conseguito.
Estraneo all’humus culturale e al contesto storico della civiltà comunale, nei suoi primi componimenti civili assumeva prese di posizione altisonanti quanto irrelate alla specificità del momento. Nelle deprecazioni per la cattività babilonese, condite da giudizi ingenerosi nei confronti di pontefici che si segnalavano per gli intenti riformatori e spesso anche per virtù personali, non vi sono riferimenti significativi ai conflitti che agli inizi del secolo avevano posto l’una contro l’altro Chiesa e Impero, da lui indicati a lungo come i «due sposi» di Roma. Vaghezza di riferimenti a contesti e situazioni ancor più sorprendente in un letterato che, dalla posizione privilegiata che occupava, non poteva non conoscere le rivendicazioni di autori come Marsilio da Padova e Guglielmo di Occam e le scelte di ecclesiastici come Michele da Cesena, generale dei francescani, che nel 1328 avevano raggiunto a Roma Ludovico il Bavaro a suggello della loro ribellione all’autorità pontificia. Nei suoi accorati lamenti attorno alla decadenza italiana, allo stesso modo, non si trova traccia di una riflessione specificamente politica attorno alla naturalità dell’ordine civile, il rapporto tra spirituale e temporale, i modi possibili di ripristinare in Terra un’idea di giustizia che, sempre nel nome di Roma, aveva portato Dante Alighieri a scelte dolorose, nonché a una revisione delle proprie convinzioni. Più che temi e ragioni politiche, sembra affastellare motivi e argomenti che richiamano alla mente le febbrili esaltazioni e le stravaganti pretese che albergavano, fin dal 12° sec., negli animi dei Romani, immersi in sogni vestiti all’antica attorno alla centralità di Roma. Recependo di fatto gli indirizzi politici della potente famiglia presso la quale prestava servizio, impegnata da tempo in una lotta antimperiale e antitedesca che nel primato di Roma aveva individuato i motivi per giustificare il dominio pontificio in Italia, per tutta la vita avrebbe agitato la bandiera della ‘sacra Italia’ e del primato della città eterna, auspicando nel loro nome tanto il ritorno della Santa Sede a Roma quanto la discesa di imperatori disinteressati alle faccende italiane, oltre che il progetto di Cola di Rienzo a sua volta in contrasto sia con la Chiesa sia con l’Impero.
La costruzione di un’identità, alla quale era chiamato dalla sua condizione di sradicato ma verso la quale era sospinto dall’ambizione di consacrare come emblematica la propria vicenda intellettuale, avrebbe trovato una definizione coerente soltanto nello spazio letterario: né poteva essere diversamente per un autore intento per tutta la vita in solitari colloqui con i suoi «compagni segreti», quegli autori che «tutti i secoli a un tempo mi inviano da tutte le terre, famosi per l’eloquio, l’ingegno e l’arte militare» (F. Petrarca, Epystole, in Id., Poëmata minora quae exstant omnia, a cura di D. Rossetti, 1° vol., 1829, 6, 180-95).
Intrecciando le proprie ambizioni ai bagliori della maestà di Roma, Petrarca ancorava la sua opera a un orizzonte politico, delimitato dal riferimento ai valori di una civiltà ineguagliata. Nel De viris illustribus e nell’Africa, poste l’una sotto la protezione di Tito Livio e Valerio Massimo e l’altra di Virgilio e Lucano, si proponeva in particolare di celebrare lo splendore inarrivabile di una città che si era conquistata sul campo l’epiteto di eterna, rivelando come un agire collettivo, basato su una strutturata idea di razionalità e di moralità allo stesso tempo, potesse sottrarsi al perenne mutamento delle cose umane. Chiamato a esaltare un agire capace di armonizzare istanze etiche e aspirazioni civili, il letterato avrebbe ricercato nel passato eroi illustri e gesta esemplari capaci di rianimare speranze collettive e progetti condivisi, secondo gli intenti dichiarati nell’orazione per la laurea, dominata dall’immagine di un poeta destinato a rinnovare l’alleanza tra la speculazione teorica e l’agire concreto.
L’avvio nel 1342 di una prima sistemazione organica delle Rime sembra rivolto ad animare anche nei versi in volgare un’idea di sé e della sua opera fortemente connotata dalle suggestioni della cerimonia capitolina. La tradizione lirica, in particolare, doveva essere rinnovata attraverso un ampliamento delle sue opzioni tematiche e secondo una curvatura classicheggiante, dettata dai riverberi luminosi di fasti lontani. L’innesto di temi derivati dai classici sul tronco della tradizione lirica trasfigurava così la materia amorosa, imprimendo una connotazione allegorica alle proprie vicissitudini sentimentali per cui quell’amore infelice era indicato ora come la scaturigine della vocazione letteraria del poeta consacrato a Roma. Determinato a ripensare la sua attività alla luce delle suggestioni della cerimonia capitolina, Petrarca non poteva prescindere dal confronto con il grande modello dantesco la cui influenza è ormai accertata come precoce e prolungata nel tempo. Spogliato il sogno di ogni capacità profetica, ridotta l’allegoria a espediente narrativo e caduta la struttura escatologica delle opere dantesche, innestava su grandiose archeologie erudite un’ammirazione verso le antichità letterarie priva delle sofferte distinzioni con cui Dante aveva celebrato gli «spiriti magni» che, ignari della Rivelazione, avevano vissuto «in desio» inestinguibile e dunque «senza speme» (D. Alighieri, Inferno, IV, 42).
La rivisitazione dei classici si andava infatti realizzando all’insegna di un riferimento esclusivo ai valori dell’antichità per cui, tra le biografie del De viris e tra le righe dell’Africa, si delineava il proposito di conferire un proprio senso alle cose di questo mondo. Le imprese di una gloria tutta mondana erano testimonianze di una grandezza individuale che incarnava però potenzialità e facoltà proprie dell’uomo. Il successo e la gloria, invece che beni effimeri scampati casualmente al dominio della fortuna, si tramutavano nella riprova della moralità di un’azione finalizzata alla realizzazione di un disegno civile in cui si disperdevano anche i residui connotati di vanità legati al desiderio di gloria. Con toni ed espressioni che tradiscono la loro origine ciceroniana, la fortuna, rappresentata altrove come una ruota dai movimenti imprevedibili, era evocata come una donna intenta a elargire i propri doni in rapporto alla virtù dei destinatari, secondo motivi più specifici mutuati da Tito Livio per il quale il progresso dei Romani, determinato dal loro valore, era stato accompagnato dal favore della fortuna. Come accadrà poi anche in Niccolò Machiavelli sulla scorta delle stesse suggestioni, si disperdeva così l’idea di un potere cieco che si dispiegava per il mondo indifferente ai meriti dei singoli e dei popoli. La fortuna derideva impietosa le imprese di Pirro, la cui azione non era posta sotto la protezione di una virtù per definizione negata agli orientali, mentre assisteva benevola le imprese di Scipione, eroe sommo perché virtuoso e tale in quanto romano.
In questa direzione Petrarca enucleava istanze, temi e prospettive che avrebbero dominato il cosiddetto Umanesimo civile, incline a ravvisare nella Roma repubblicana il fondamento della libertà fiorentina e votato a esaltare il valore di una virtù civile che doveva coronare un sapere profondamente rinnovato sulla base di un fondamentale richiamo alla tradizione classica. A partire da Coluccio Salutati, i risultati da lui conseguiti nelle humanae litterae furono del resto invocati a riprova della grandezza di Firenze, per quanto, nel vivo del secondo conflitto con la Milano dei Visconti, Leonardo Bruni nel 1436 doveva riconoscere che «Dante nella vita attiva e civile fu di maggior pregio che ’l Petrarca, perocché nell’armi per la patria e nel governo della repubblica laudabilmente si adoperò» (Le vite di Dante e del Petrarca, a cura di A. Lanza, 1987, p. 62). L’elogio degli organismi rappresentativi della città, rapportati alle forme repubblicane di Roma, e la giustificazione del desiderio di gloria come fattore di un processo di perfezionamento civile sembrano però attestare che la difesa della libertà fiorentina si poneva su un terreno già battuto dal cantore della grandezza di Scipione.
Molto tempo dopo, un altro autore, intento come lui in solitari colloqui con gli antichi quando al suo scrittoio si spogliava della «veste cotidiana» per indossare «panni reali et curiali» (N. Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, 19812, p. 304), avrebbe evidenziato a quali esiti poteva giungere l’assunzione del mondo classico a orizzonte esclusivo di una disincantata considerazione del mondo politico. Nel riportare, a conclusione de Il principe, la più celebre delle canzoni civili del Petrarca, Machiavelli conferiva a quei versi la forza di una proposta politica che nemmeno poteva presagire chi, nel proprio presente, aveva ricercato soprattutto i segni di una continuità con un glorioso passato per poi, deluso, rinvenire in quel passato un riparo dalle brutture del mondo.
Nell’estate del 1346 Petrarca avvia la composizione del Bucolicum carmen che, inscrivendosi all’interno di un genere letterario investito di una forte valenza allegorica, poteva consentirgli di delineare più agevolmente il carattere esemplare della propria formazione. Le prime ecloghe risuonano in tal modo delle esaltazioni romane, con riferimento soprattutto alla cerimonia capitolina in cui era stato incoronato il genio di un autore destinato a consacrare una continuità ideale con gli antichi (Argus). Giustificate le pene d’amore dalla conversione dell’amante infelice in poeta forgiato nelle sofferenze degli eletti (Pastorius), l’attività poetica si prospettava come conseguenza di una vocazione preclusa ai più (Dedalus). La rappresentazione della poesia come dono divino era però lontana dallo stabilire una connessione con la teologia, che si sarebbe imposta nella sua mente solo più tardi: più che da qualche verità assoluta, lontana e trascendente il mondo, la grandezza del poeta riverberava dagli effetti benefici che dalla sua arte derivavano a se stesso e agli altri in una dimensione mondana. La bucolica Partenia era così impostata sulla delimitazione dei due ambiti, sacro e profano, in un’intonazione ancora più autobiografica evidenziata dal confronto con il diverso destino del fratello Gherardo, che tre anni prima era entrato in convento. Pur non ignorando quel pastore che, sulle sponde del Giordano, elevava inni a un solo Dio, «dinanzi al quale la turba degli dei vinta trema», il protagonista dichiarava di preferire un «nuovo genere di canto» per cui il suo amore andava ai pastori che cantavano «Roma, Troia e le battaglie dei re, che cosa possa il dolore, che cosa l’amore, che cosa l’impeto dell’ira» (Bucolicum carmen, in Il “Bucolicum carmen” e i suoi commenti inediti, a cura di A. Avena, 1969, I, 18 e 75-78).
L’orgoglio del letterato e la consapevolezza della propria vocazione emergono anche dai trattati composti nello stesso periodo, il De otio religioso e il De vita solitaria, intesi spesso come le prime manifestazioni di una crisi sfociata nell’abbandono del progetto delineato all’ombra delle antichità romane. Sorrette dall’accostamento a opere successive e puntellate da vaghi riscontri biografici, queste interpretazioni non spiegano perché, intenzionato a presentarsi al pubblico come ispirato cantore di virtù civili e politiche nel Bucolicum, Petrarca abbia coltivato, come in una camera oscura, pensieri e propositi del tutto diversi che non avrebbe avuto ragione a tenere ‘segreti’ perché di gran lunga più conformi al sentire comune. Come sempre nel caso di Petrarca, la questione investe il problema della datazione delle diverse parti del De vita solitaria la cui composizione si protrasse per oltre un ventennio, dal 1346 al 1366, con aggiunte e inserti anche posteriori e continui rimaneggiamenti che ci consegnano un’opera attraversata da due concezioni di solitudine, intesa come condizione più appropriata agli studi oppure come porto in cui ripararsi dalle tempeste della vita.
Fin dall’avvio del trattato, Petrarca dichiarava di volersi affidare alla propria «esperienza, senza cercare altra guida» per quanto non ignorasse che «alcuni santi uomini hanno scritto molto su questo argomento» (De vita solitaria, a cura di M. Noce, 1992, p. 17), quasi a indicare per contrasto la peculiarità di una riflessione che mirava all’acquisizione di una «quiete libera da incombenze ma non inutile e inoperosa», dalla quale anzi «essere utile a molti»: una solitudine ricolma di occupazioni il cui obiettivo fosse non «la fatica, il profitto o il disonore ma il diletto, la virtù e la gloria» da conseguire con l’aiuto di «compagni graditi e fedeli» (pp. 313-15), quali soltanto i libri riescono a essere. Una solitudine non molto diversa da quella già prospettata nei Rerum memorandarum dove era stata intesa come un luogo e una condizione dello spirito grazie ai quali il letterato, mosso non da «urbis odio» ma da «literarum et virtutis amore» (Rerum memorandarum libri, I, 1, 2, a cura di G. Billanovich, 1943) poteva attendere a un’opera dai forti connotati civili per quanto la sua applicazione fosse da differire a tempi migliori. In questa prospettiva si situava anche il capitolo dedicato, nel De vita solitaria, alla crociata di Pietro l’Eremita in cui, in continuità con i suoi primi componimenti civili, insorgeva contro l’ignavia dei sovrani cristiani le cui divisioni impedivano la liberazione dei luoghi santi da «quei cani d’Egiziani» (De vita solitaria, cit., p. 229).
Costruita come un florilegio di citazioni, in particolare di Giovenale, Orazio e Ovidio, l’apologia della solitudine discendeva per lo più da suggestioni mutuate da Seneca che dettavano il ritmo dell’esposizione, piegando a una caratura essenzialmente etica anche le fonti derivate dai testi sacri e patristici. Adattando all’ambito mondano, e all’attività letteraria in particolare, una forma di dedizione assoluta riferita nella tradizione alla sfera spirituale, Petrarca fissava i termini di un’etica del lavoro intellettuale, orientata a esaltare il valore intrinseco dello studio che, sufficiente a colmare il cuore di un uomo e a tacitarne gli affanni dell’animo, poteva reggere il confronto con l’ideale di santi e asceti, mistici e religiosi. Sul finire della vita, avrebbe così ribadito le sue convinzioni a Giovanni Boccaccio che gli aveva consigliato di desistere dagli studi:
La fatica e l’applicazione continue sono l’alimento dell’animo mio. Quando comincerò a rallentare e a cercare riposo, stai pur certo che cesserò di vivere. Conosco bene le mie forze e sento che non basterebbero a certe fatiche. Ma il leggere e lo scrivere, che tu mi consigli di accantonare, sono per me una fatica assai lieve, anzi un dolce riposo che conforta e fa dimenticare preoccupazioni più gravi (Senilium rerum libri, in Id., Opera quae extant omnia, 1554, XVII, 2).
Sulla consapevolezza di una diversa vocazione è fondato anche il De otio religioso che, composto nella quaresima del 1347, è costruito su una disordinata raccolta di esempi e citazioni tratte per lo più da testi religiosi: a incitare il fratello a resistere alle diaboliche tentazioni del mondo è il «poeta Francesco Petrarca coronato di lauro» o, comunque, la «voce di un peccatore» che dichiara anche di evitare considerazioni già svolte in «quel libro Sulla vita solitaria» che evidentemente aveva fini diversi da quelli perseguiti dai certosini del convento di Montrieux (De otio religioso, a cura di G. Goletti, 2006, pp. 17, 19 e 31).
Con il trattato gemello, il De otio condivideva una sempre più acuta insofferenza verso Avignone che anima anche le bucoliche composte nello stesso periodo, sovrastate dalla preoccupazione per lo stato della cristianità. Nella quinta ecloga, composta nell’estate del 1347, Petrarca ritornava a imputare alle fazioni nobiliari la responsabilità della decadenza della città eterna, estendendo però l’accusa anche ai Colonna, contro i quali rivolgeva la loro stessa ideologia della ‘sacra Italia’: a renderli inadeguati alla difesa di Roma erano infatti le loro origini, provenendo «dai pascoli del Reno», come gli Orsini discendevano dalla non meno «barbara» valle di Spoleto (Bucolicum carmen, cit., V, 137-40). Solito a muoversi con una prudenza esagerata, Petrarca ostentava ora la determinazione sopraggiunta con le notizie provenienti da Roma dove, approfittando dell’assenza di Stefano Colonna e delle sue milizie, il 20 maggio 1347 Cola di Rienzo aveva posto fine al regime baronale.
Impegnato in una riepilogazione della propria esperienza intellettuale dalle forti carature politiche, Petrarca accoglieva la notizia come l’avverarsi di un sogno a lungo accarezzato tra i continui rimandi agli uomini illustri del passato e l’altrettanto persistente deprecazione dei contemporanei. Con una significativa tempestività, già nel giugno del 1347 indirizzava al tribuno e a tutto il popolo romano la celebre Hortatoria, congratulandosi per la riconquistata libertà e meditando «pensieri degnissimi dello stile d’Omero», rispondenti alla solennità del momento (Dispersa 8, in Lettere disperse. Varie e Miscellanee, a cura di A. Pancheri, 1994, p. 41). Il suo discorso, dettato dalla volontà di farsi partecipe di quella rivoluzione, guadagnava in linearità e concretezza, fino a mostrarsi consapevole anche della connotazione giuridica delle rivendicazioni di Cola e del loro radicamento in quei ceti sociali – mercanti, agricoltori e legulei – da lui tanto disprezzati. Nell’esultanza del momento, infatti, invitava i Romani a perseverare nella loro azione perché «difendendo lo Stato ciascuno difende i suoi beni: il mercante la sicurezza dei traffici; il soldato la gloria; il contadino la fertilità dei campi, gli ecclesiastici il loro culto, gli intellettuali i loro studi» (p. 73). In un’altra lettera del 1352, in coincidenza con l’arrivo ad Avignone di un Cola ormai sconfitto e in catene, ricordava che il delitto di cui era accusato era «di avere affermato che l’impero di Roma è ancora a Roma e risiede nel popolo di Roma» (Sine nomine 4, in Sine nomine. Lettere polemiche e politiche, a cura di U. Dotti, 1974, pp. 39 e 41), con riferimento al continuo appellarsi del tribuno alla Lex de imperio che identificava nel popolo romano il depositario dei diritti di sovranità. Eliminato ogni riferimento al Papato e all’Impero, attorno a questo stesso principio Petrarca aveva costruito l’Hortatoria, incentrata sulla maestà di Roma e il carattere ineliminabile dei suoi diritti che, dopo una plurisecolare latitanza, potevano finalmente essere ripristinati.
A conferire ulteriore concretezza alle sue considerazioni era soprattutto la constatazione che i propositi coltivati lungo tutto il decennio erano ormai in procinto di realizzarsi. La vicenda emblematica, che aveva preso a narrare sotto il linguaggio allegorico delle bucoliche, grazie a Cola di Rienzo poteva svilupparsi coerentemente avendo il privilegio di vivere accanto a un nuovo Scipione, rispetto al quale poteva assumere le sembianze di vate e ispirato cantore che si era attribuito nell’Africa. Era giunto dunque il momento di rompere ogni indugio e fare ritorno nella patria dei padri. Il 20 novembre, approfittando di una missione affidatagli dal pontefice, lasciava Avignone, intenzionato a raggiungere Cola per porsi al suo fianco. Mentre era ancora in viaggio, gli giungevano però voci inquietanti sull’operato del tribuno per cui, verso la fine di novembre, gli inviava una lettera che, impostata come una richiesta di chiarimenti, era in realtà un congedo dalle speranze suscitate da chi da «duce dei buoni» si andava convertendo in «satellite dei malvagi» (Familiarum rerum libri, a cura di V. Rossi, U. Bosco, 1933-1942, VII, 7, 8). Pochi giorni dopo, una sedizione circoscritta al quartiere dei Colonna e tale da poter essere facilmente domata, metteva fine al governo tribunizio e il 15 dicembre 1347 Cola rinunciava a un potere mai seriamente messo in pericolo, ritrovandosi esposto alla vendetta dei baroni, oltre che al rimprovero di Petrarca di non averli sterminati quando aveva avuto il potere di farlo.
Preso da grande sconforto, Petrarca iniziava un’inquieta peregrinazione per l’Italia settentrionale, con soste più o meno prolungate a Parma, Verona, Padova, Mantova e altre città fino al 1351. A preoccuparlo non erano le conseguenze di un’ostentata scelta di campo, in contrapposizione alla curia e ai suoi patroni avignonesi, ma qualcosa di più intimo, interno al suo stesso disegno culturale che, senza Cola, rischiava di precipitare di nuovo nella vaghezza di aneliti incerti e contraddittori. Il tribuno aveva rappresentato lo sbocco per tanti versi obbligato di quella vicenda intellettuale che, nelle bucoliche, sembrava doversi chiudere rinnovando l’antica alleanza tra le lettere e le armi. Senza Cola, dunque, era inevitabile rimettere mano al progetto per salvarne le esigenze di fondo, riconducibili alla smisurata ambizione dell’autore che era ora alle prese con un bilancio, tutt’altro che soddisfacente, di un apprendistato protrattosi oltre l’età della formazione: varcata da tempo la soglia dei quarant’anni, non aveva ancora scritto nulla o, per lo meno, nulla di compiuto da licenziare al pubblico.
Petrarca si ritrova così nel mezzo di quella profonda crisi che avrebbe poi riferito a quel fatidico 1348 carico di «perdite irreparabili» e di «ferite insanabili» (Familiarum rerum libri, cit., I, 1, 1-3), quando tragedie collettive e lutti privati lo avevano obbligato a fare i conti con le proprie ambizioni. Determinato a mettere ordine tra le sue carte, si era ritrovato di fronte a un mucchio «disperato e confuso» (I, 1, 4-5) di scritti per cui aveva deciso di riordinare, sotto forma di libri, l’epistolario, le ‘rime sparse’ e i componimenti metrici in latino, avviando un grandioso progetto autobiografico che, con un’intonazione fortemente letteraria, avrebbe guardato sempre più ad Agostino e a Seneca e, sul versante dei moderni, avrebbe ampliato spunti tematici e istanze espressive suggeriti soprattutto da Dante. Sull’immediato, la ricomposizione di ordine morale, cui rimandavano i modelli di riferimento nel raccontare il percorso che conduce un io lacerato e disperso all’unità della coscienza, si traduceva nell’esigenza di riordinare carte e scritti al fine di salvare l’unità della propria opera dall’incombenza della morte che, minacciando di interrompere l’attività intrapresa, evidenziava tutto il suo carico di orrore. Legato all’urgenza di un’opera da completare, il tempo, misura desolante della precarietà umana, costituendo la sola dimensione nella quale l’uomo poteva saggiare la forza delle proprie ambizioni, diventava un bene «inestimabile» la cui perdita sarebbe stata «irreparabile» (XVI, 11, 4-5). Sulla percezione della labilità estrema dell’esistenza, Petrarca innestava, in tal modo, il significato della propria attività che, protesa a trionfare del tempo, accentuava ulteriormente la connotazione etica del lavoro intellettuale, in una prospettiva originale quanto gravida di implicazioni riguardo alla dignità dell’agire umano che, nella dedizione assoluta alla propria vocazione, doveva rinvenire la speranza di un riscatto dalla propria condizione mortale.
Spinto anche dalle contraddizioni tra vita e opere ravvisate in un autore come Cicerone dopo la scoperta di alcune sue raccolte epistolari, Petrarca maturava l’idea di consegnare il racconto di una vita a tutte le sue opere, disponendole in modo che risultassero i capitoli di un unico libro, destinato a raccontare le tappe di una sola vicenda che, declinando ogni velleità politica, avrebbe assunto la cadenza di una personale ricerca di saggezza in cui Tito Livio e Valerio Massimo avrebbero lasciato il posto a Seneca e, soprattutto, ad Agostino. Nel Secretum, avviato nel 1347 ma completato o, per meglio dire, riscritto nel 1353, intendeva in particolare rappresentare una fase ormai trascorsa della propria formazione intellettuale, attribuendo a Francesco le aspirazioni di quell’età ormai lontana e a se stesso, in quanto autore, la sopraggiunta consapevolezza riguardo alla loro vanità, rappresentata nel dialogo da Agostino. Delineando come in filigrana una nuova poetica, straordinariamente ricca di implicazioni e rimandi, nelle resistenze di Francesco a liberarsi dalle «due catene di diamante», l’amore per Laura e il desiderio di gloria (Secretum, a cura di E. Fenzi, 1992, p. 201), in realtà erano trasfigurate le intenzioni dell’autore, determinato a declinare al passato le sue esaltazioni perché impossibili a conciliarsi con quella saggezza che andava configurandosi tra le diagnosi e i relativi rimedi terapeutici prospettati da Agostino.
Il Secretum apriva così una nuova fase nella produzione di Petrarca, sempre più incline a modellare la sua figura sulle sembianze di un saggio che, nutrito di motivi radicati nella tradizione platonica e stoica, si sarebbe rivolto a indagare la costituzionale impotenza della volontà umana, malata perché incapace di sollevarsi oltre i fantasmi radicati nella sua dimensione corporea, e l’intrinseca vanità di ogni ambizione terrena, scaturita dalla cecità di chi, dimentico dell’incombenza della morte, coltivava impossibili speranze di sopravvivenza nella memoria dei posteri.
Intento ad assicurarsi un’originalità per il tramite di impercettibili variazioni alla lezione apparentemente riproposta, nel dialogo si animava in realtà un disegno diverso dalla contrapposizione tra cultura pagana e ortodossia cristiana che, nelle argomentazioni di Agostino, sembrava sorreggere la necessità di una conversio in deum. Per nulla disposto a una così radicale sconfessione della sua formazione, Petrarca mirava ad affermare piuttosto la possibilità di una sintesi superiore la cui più evidente riprova era data dalla raffigurazione di Agostino, a immagine e somiglianza dello stesso autore, come un letterato formatosi alla scuola degli antichi che, nell’approntare i rimedi più salutari per la cura dell’anima, poteva ricorrere a Cicerone, Virgilio e persino a Ovidio. Nell’accorata meditazione sulla fragilità umana unita alla labilità estrema del suo sentire, Petrarca avrebbe cercato di ricomporre i «frammenti» della propria anima oltre che le diverse componenti della sua opera (Secretum, cit., p. 283).
L’opera più coerentemente ispirata al disegno tratteggiato nel Secretum è senza dubbio il De remediis utriusque fortune in cui Petrarca si riproponeva di dare una forma più sistematica alle istanze stoiche emerse nel dialogo con Agostino. Avviato nel 1354 ma concluso nel 1366, il De remediis ha un’impostazione dialogica che vede la Ragione intrattenersi, nel primo libro, con la Gioia e la Speranza e, nel secondo, con il Dolore e il Timore al fine di dissolvere le vane illusioni coltivate dall’uomo tanto nella buona quanto nella cattiva sorte. Costretta entro la rigidità di uno schema che si ripete stancamente di capitolo in capitolo, la trattazione non va oltre un arido elenco di problemi appena abbozzati, considerati secondo moduli più vicini all’ascetismo medievale che alla tradizione stoica per cui una desolata sapienza non trovava altra condotta da suggerire che la pazienza nelle avversità e la temperanza nella prosperità, trattandosi comunque di beni e mali propri di una condizione transitoria. La rinuncia a ogni velleità politica e civile, che serpeggia per tutto il dialogo, discendeva in ogni caso da una posizione già maturata nel Secretum dove Agostino aveva consigliato a Francesco di «acquetare il tumulto del cuore» e porsi «al sicuro sull’asciutta riva» da dove guardare «il naufragio degli altri» e ascoltare le loro misere grida senza dovervi unire anche le sue (p. 197).
La metafora del ‘naufragio con spettatore’ delimitava infatti il discrimine tra una vita esposta al rischio di un’irreparabile dissipazione e la possibilità di ricomporre i frammenti della propria anima, indicando allo stesso tempo il passaggio da consumare per superare quella crisi collocata dallo stesso Petrarca al centro della sua opera. Nel De remediis, che più di ogni altra doveva testimoniare il distacco avvenuto nel frattempo da Francesco, la grandezza dei Romani e lo splendore della loro organizzazione politica e militare erano così invocati per attestare la vanità di disegni rivolti alla città degli uomini che, anche nelle loro massime espressioni, si erano rivelati incapaci di durare nel tempo. Il dispiegarsi di una sempre più acuta disillusione, prospettata come il suggello definitivo di una riconquistata saggezza, investiva così la sfera civile e politica dove si levava incontrastato il dominio della fortuna: e il veloce rimando a un uomo che «aveva osato definirsi patrono della Repubblica romana, attribuendosi il titolo di tribuno» per poi precipitare in carcere con il «variare della fortuna», provava che la lezione era stata appresa, ormai completata la conversione (De remediis utriusque fortune, in Id., Opera quae extant omnia, cit., I, 89).
L’incedere cieco della fortuna doveva in particolare ammonire il saggio a non valicare i confini della propria anima in un processo di salvezza altrimenti impossibile. Monito ineludibile soprattutto per chi aveva avuto la sventura di nascere in quell’epoca il cui degrado poteva essere descritto soltanto superando i grandi autori della satira antica. Con questo intento e appellandosi a Giovenale, già nel 1353 Petrarca aveva maturato l’idea, realizzata poi sul finire del decennio, di riunire nella silloge Sine nomine, così denominata perché ne taceva per prudenza anche i destinatari, alcune epistole in cui la cattività avignonese era investita di una violenza apocalittica e rappresentata per il tramite di raffigurazioni così grottesche da smarrire ogni residua valenza politica: anche queste epistole, del resto, dovevano restare ‘segrete’ dovendo testimoniare alle generazioni a venire quanto grande fosse stata la sua indignazione per le condizioni miserrime della cristianità.
Per quanto in gran parte derivazione dell’adagio monumentum aere perennius al quale si era votato fin dal suo primo componimento, la reiterazione del motivo Posteritati è anche indizio del mutamento sopraggiunto nell’animo del più prestigioso intellettuale del tempo che, sempre più, si volge a dialogare con i posteri piuttosto che con i suoi contemporanei, a significare che l’insofferenza verso il presente si era ormai tradotta in una condanna senza appello. Nel segno di una sofferta scissione tra l’io e il mondo andava situandosi così la ricerca di una saggezza che, giustificata dal riferimento a una verità superiore, risultava motivata da più stringenti ragioni attorno alla necessità di salvare almeno se stesso in una società in rovina. Il congedo dalle esaltazioni civili delle opere romane obbligava pertanto a un confronto con una tradizione che, nel riferimento agli altri e nella subordinazione al bene comune, aveva ravvisato il fine dell’attività intellettuale. Questo confronto, mai svolto sistematicamente ma disseminato nelle opere successive agli entusiasmi per Cola di Rienzo e tale da costituire uno degli esiti più originali della riflessione di Petrarca, approdava a una risoluta affermazione della legittimità di perseguire fini e obiettivi personali, nell’impossibilità di adoperarsi ancora sulla strada tracciata dai padri dove, perseverando in un’azione di impegno civile o anche di carità cristiana, chiunque avrebbe finito con il perdere se stesso.
Nel Secretum questa posizione era prospettata come già acquisita dato che Agostino riconosceva a Francesco di essersi posto in salvo dalla follia di chi consuma i suoi pochi giorni tra gli uomini, odiandoli e senza riuscire a far loro del bene: «che giova rovinare sé e gli altri? Perché perdere preziosi istanti del nostro pochissimo tempo?» (Secretum, cit., p. 169).
Gli stessi interrogativi sono agitati nel De vita solitaria dove, secondo le due istanze che attraversano il trattato, la solitudine si prospettava come una condizione per così dire ‘neutra’ che poteva subordinarsi al bene comune oppure indirizzarsi alla cura esclusiva del proprio animo a seconda delle possibilità che si davano di agire a favore degli altri. La decadenza del momento era sufficiente a giustificare un’esenzione dagli obblighi che discendevano tanto dalla morale cristiana quanto dalla tradizione etica. La subordinazione dell’interesse personale al bene comune costituiva infatti un principio invalicabile la cui attuazione doveva però demandarsi a un mondo diverso da quello attuale dove era preferibile frequentare «orsi e tigri» piuttosto che il prossimo perché «non soltanto vile e ripugnante ma anche pericoloso, volubile, ambiguo, feroce, sanguinario animale è l’uomo» (De vita solitaria, cit., p. 11). Evidenziando una piena consapevolezza della caratura teorica del problema, Petrarca si rivolgeva contro coloro che, «sventolando per i crocicchi un Aristotele che volentieri se ne starebbe in pace, avanzano in ordine d’attacco tra l’ammirazione del volgo» (p. 11), cercando di trasformare una supposta inclinazione naturale in un obbligo inderogabile per ogni uomo, condannato pertanto a vivere con gli altri. La legittimità del disimpegno dalle incombenze pubbliche era esplicitata nel rovesciamento del giudizio dantesco su Celestino V il cui rifiuto della carica pontificia, che «ciascuno è libero di attribuire a viltà d’animo», era riferito alla saggezza di chi, riappropriandosi del proprio essere, aveva assunto l’unica decisione possibile per essere «utile a se stesso e al mondo» (pp. 219-21). Persistere oltre in una disposizione di abnegazione era infatti pericoloso per la propria salute, dato il rischio di contagio insito nella malvagità umana: «quante volte è successo che un pastore sia morto» mentre «legava una pecora errante del gregge» o che un medico in buona salute «visitando i malati abbia contratto una malattia?» (p. 51).
Nel più intimo desiderio di Francesco, «non comandare e non essere comandato», Agostino aveva ravvisato i tratti di un’imperdonabile superbia, dovendosi spogliare della propria umanità e trasformarsi in Dio per poterlo realizzare (Secretum, cit., p. 163). Quel desiderio poteva però salvarsi dal suo peccato d’origine nel riferimento a una dimensione di fede, per quanto sempre più intrisa di tinte stoiche. Per non «disimparare l’umanità tra gli uomini», infatti, si poteva decidere, malgrado l’ammonimento contrario dell’Apostolo, di «vivere e morire solo per se stessi così da vivere e morire per nessun altro che per il Signore» e, nel frattempo, «stare come di vedetta», osservando da lontano le vicende e le preoccupazioni degli uomini (De vita solitaria, cit., pp. 85-87) e, di fronte al «naufragio del volgo», ridere «a un tempo di me e degli altri e di tutto ciò che vi è nel mondo» (Epystole, cit., 2° vol., 1831, 18, 60-64).
La decisione di Petrarca, nel maggio del 1353, di stabilirsi a Milano, in quella Gallia Cisalpina che solo un anno prima aveva indicato come «oppressa da eterna tirannide» (Familiarium rerum libri, cit., XV, 7, 3), discendeva da questa diversa disposizione d’animo per cui l’importanza dell’opera da completare, oltre che l’urgenza di dedicarsi alla salvezza della propria anima, rendeva del tutto irrilevante l’ambito politico. Con ogni probabilità avrà dunque accolto con fastidio le proteste dei suoi amici italiani, in particolare i fiorentini che, impegnati da tempo contro la politica espansionistica dei Visconti, non avevano colto l’istanza di libertà insita in quella scelta, orientata ad assicurarsi le condizioni migliori per proseguire nelle proprie occupazioni. Nelle lettere inviate loro nel corso dell’anno e nell’Invectiva contro il cardinale Giovanni di Caraman, che qualche anno dopo l’avrebbe accusato a sua volta di vivere in compagnia di tiranni, Petrarca delineava il quadro dei rapporti che l’intellettuale, rinato a nuova vita meditando sull’incombenza della morte, poteva e voleva intrattenere con il potere politico.
Malgrado le nobili aspirazioni degli amici italiani che non a caso si trasformavano in motivo di «discordie civili» all’interno delle loro comunità (Familiarium rerum libri, cit., XV, 8, 14), la ragion d’essere del dominio politico era data dalla brutale necessità di governare la malvagità umana. L’accusa mossa ai Visconti di vivere «delle fatiche dei poveri e delle vedove» doveva pertanto estendersi a tutti i regnanti perché dalla stessa fonte derivavano il loro potere e l’agio della loro vita (Invectiva contra quendam magni status hominem, a cura di F. Bausi, 2005, p. 195). Volgendosi in qualsiasi parte della Terra si poteva constatare che «nessun luogo è libero dalla tirannide» perché «dove non ci sono tiranni, tiranneggiano i popoli» e per sfuggire al comando di uno si poteva soltanto ricadere sotto il dominio di molti (p. 201). L’impossibilità per le società umane di organizzarsi diversamente era sintetizzata nel laconico detto di Cesare, ‘l’umanità vive per pochi’, la cui verità, per via delle dinamiche conflittuali tra sudditi e sovrani, si estendeva agli stessi governanti dato che «non sono più temuti dai popoli di quanto i popoli non siano temuti da loro» (p. 201).
A fronte di un ambito politico ridotto a rapporti di dominio, si levava l’orgoglio del letterato che, nel riconoscimento pubblico del valore della sua opera e nella conquista delle condizioni migliori per continuare a dedicarsi ai suoi studi, trovava l’unica regola alla quale attenersi nel rapporto con il mondo.
Nel caso specifico, la sua scelta non era stata dettata da necessità o bisogno, potendosi indirizzare altrove una volta assunta la decisione di lasciare Avignone, né era stata condizionata da alcuna attesa al di fuori della promessa di «solitudine e quiete»: piuttosto era l’arcivescovo di Milano a desiderare la sua presenza, per il prestigio che ne sarebbe derivato a «lui e al suo stato», avendogli già fatto presente di non essere «adatto né disponibile a fare nulla di cui lui sembrava aver bisogno» (Familiarium rerum libri, cit., XV, 12, 8). Orgogliosa rivendicazione dell’autonomia e della libertà del saggio ancora più significativa perché collocata nel baratro in cui aveva precipitato le sue stesse velleità politiche, i suoi trascorsi entusiasmi attorno a un’impossibile riforma del mondo. La tiepidissima difesa dei Visconti, tanto affrettata da occupare appena un inciso, «sono governanti della patria, non tiranni», era subito sormontata dal sospetto che potessero essere come a lui non apparivano oppure diventarlo nel tempo, data la cecità degli uomini e l’incertezza dei loro propositi: ma cosa importava a lui che viveva «con loro, non sotto di loro» e abitava «nelle loro terre, non nelle loro case»? (Invectiva, cit., p. 203). Quasi prefigurando tesi che, oltre un secolo dopo, avrebbero gettato ombre ancora più sinistre sull’ambito secolare, Petrarca poteva così affermare che «nell’anima non sono sottomesso a nessuno, se non a Colui che mi ha donato l’anima», mentre era solo la parte corporea a vivere «sottomessa ai signori della terra, nei cui paesi risiede» (p. 201).
In questo distacco, assunto come unico spazio sul quale erigere la propria libertà e con tanta consapevolezza da risultare ormai depurato dalla delusione che l’aveva originato, si è intravista la percezione dell’ineluttabilità del tramonto della civiltà comunale e dell’avvento delle Signorie, attribuendo a Petrarca preoccupazioni estranee al suo orizzonte di vita oltre che assenti nell’articolazione dei suoi testi.
In una prospettiva risolutamente impolitica e nel nome di una scissione che sopravanza le ambizioni civili dell’Umanesimo italiano, Petrarca, nel distaccarsi da una tradizione che reclamava la subordinazione dell’interesse individuale al bene comune, fondava il proprio diritto di continuare a vagheggiare quei sogni, fantasmi e aspirazioni che gli agitavano la mente. Il solitario, che nella dedizione alla sua opera aveva «imparato ad aggiungere notte al giorno e giorno alla notte» per non disperdere altro tempo (De vita solitaria, cit., pp. 133-35), coincideva con la figura del saggio che, negli scritti polemici contro medici e aristotelici, egli installava al centro della scena come conclusione di quel percorso esemplare che, descritto in tutta la sua opera, culminava nella conquista reale di una libertà impossibile però a declinarsi oltre il proprio io. Ormai prossimo alla morte, nello stendere il «registro delle spese», calcolava infatti in sette mesi il tempo «perso in ossequio al volere dei principi» (Senilium rerum libri, cit., XVIII, 2), quasi a sottolineare che nella sua stessa persona doveva trovarsi una splendida eccezione all’ammonimento di Agostino attorno all’impossibilità per gli uomini di vivere davvero liberi, dato che anche Cesare era stato obbligato «a vivere per gli altri dopo aver ridotto il genere umano a vivere per lui solo» (Secretum, cit., p. 189).
Intento a imprimere «con il ferro splendente e infuocato della letteratura» un «indelebile marchio di infamia» (De vita solitaria, cit., p. 247) su principi e pontefici con i quali intratteneva più prosaici rapporti di convenienza, tra le proteste dei suoi amici disorientati dalle sue scelte di vita quasi che la vita potesse uniformarsi allo splendore della letteratura, lontano dai rumori del mondo e indifferente ai suoi tumulti, Petrarca, nato per sua sventura nel peggiore dei secoli e desideroso di appartenere a qualsiasi altra epoca, avrebbe continuato fino alla fine dei suoi giorni a inseguire le sue ossessioni, guardando alla storia e alla letteratura come a due momenti strategici di una stessa febbrile lotta contro il tempo, dato che l’una preservava il ricordo dei padri e l’altra garantiva il diritto di vivere accanto a loro nel ricordo dei posteri.
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