Germania
Per M. la G. era una potenza della quale nessuno avrebbe mai dovuto dubitare, perché abbondava di «uomini, di ricchezze e d’arme» (Ritratto delle cose della Magna, § 1), tuttavia «in modo da non se ne valere» (§ 41). M. intendeva chiarire perché di questa «potentia grande», il re dei Romani non avrebbe mai potuto profittare per portare a compimento i propri disegni politici che in vario modo coinvolgevano la penisola italica e Firenze. La sua G., che conosce direttamente, sia pure in modo superficiale, ma che non esiterà a indagare sui testi, fatti ricercare appositamente, è essenzialmente quella di Massimiliano I d’Asburgo (→), un imperatore «povero», perché non sostenuto dall’impero e perché troppo «liberale», del quale sottolineò la debolezza fin dal Discursus de pace inter imperatorem et regem (1501). Emerge già in quello scritto la constatazione della disunione dell’impero e della disaffezione per la politica dell’imperatore da parte dei principi e delle comunità, più inclini a perseguire i propri interessi particolari. Un dato «evidentissimo», aggiungeva M., che non aveva «bisogno d’altro comento» (Discursus de pace, § 6). Nel cap. x del Principe ricordò che le «città della Magna sono liberissime, hanno poco contado e obbediscono allo Imperadore quando le vogliono, e non temono né quello né alcuno altro potente che le abbiano intorno», perché fortificate e armate a sufficienza, ricche e dedite all’esercizio militare. Almeno in potenza, dunque, il re dei Romani, se fosse stato «uno re di Spagna» avrebbe potuto, «in poco tempo far tanto fondamento da sé», che gli sarebbe riuscita ogni cosa (Rapporto di cose della Magna, § 28). La fine del sogno universalistico dell’impero, di cui M. è uno straordinario testimone, aveva però reso ormai chiaro che l’imperatore, nel nuovo contesto europeo dominato dagli Stati nazionali, non era più «né una potenza di rilievo, né forte e potente, né un vero sovrano» (Elze 1995, p. 367). L’idea che il titolo d’imperatore non comportasse una «vera e propria sovranità», poiché egli restava pur sempre soggetto agli Stati, che potevano imporre la propria legge, fu presto assunta dai giuristi di fine Cinquecento, e in particolare da Jean Bodin, che la elaborò servendosi del passo della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini in cui si rievocava il discorso pronunciato da Massimiliano alla Dieta di Costanza (1507). In quell’occasione il re dei Romani dichiarava di voler passare in Italia per ricevere «la corona dello imperio (solennità, come vi è noto, più di cerimonia che di sostanza, perché la degnità e l’autorità imperiale depende in tutto dalla vostra elezione)» (Storia d’Italia VII vii). In termini squisitamente politici, tutto ciò era già chiaro a M., impegnato insieme a Francesco Vettori a seguire gli apparecchiamenti di quell’impresa fallimentare (dic. 1507 - giugno 1508).
L’impero che il re dei Romani aveva ereditato nel 1493 aveva già mostrato molti segni di debolezza rispetto alle più moderne formazioni statali, come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna. Fin dalla metà del 15° sec. erano emerse al suo interno continue richieste di riforme politiche e istituzionali che miravano a una sua trasformazione. Di questa storia e dei suoi sviluppi M. pare essere pienamente consapevole. Massimiliano fu eletto re dei Romani nel 1486, in un momento in cui suo padre aveva bisogno di aiuti dall’impero, per via del conflitto ungherese nel quale era impegnato. In quell’occasione i principi elettori risposero all’imperatore avanzando, come era ormai consuetudine, alcune richieste, tra le quali innanzitutto l’istituzione di un tribunale camerale dotato di poteri ordinari e non di pieni poteri imperiali, con il fine di garantire un rafforzamento della loro giurisdizione sui propri territori. Fu allora che prese una forma stabile anche l’istituzione della Dieta imperiale (Reichstag). Questa era costituita da tre collegi: il Consiglio dei principi elettori con otto (poi nove) membri; il Consiglio dei principi, a cui appartenevano i dignitari ecclesiastici e religiosi, e il Consiglio delle città imperiali. La Dieta, la cui convocazione spettava all’imperatore, d’accordo con i principi elettori, era il luogo nel quale si tentava un coordinamento delle politiche attuate dai signori territoriali appartenenti ai ceti imperiali, nel quadro dell’impero. Nella Dieta l’imperatore presentava le sue propositiones in merito alle questioni da discutere. Tuttavia per quel che concerneva i contratti, le leghe o la legislazione, egli restava legato all’accordo con i ceti imperiali (De Benedictis 2001, pp. 40-41). Sotto Massimiliano queste tendenze che garantivano ai ceti una maggiore partecipazione al governo dell’impero, soprattutto nell’amministrazione della giustizia e della fiscalità, assunsero una forma più definita. L’imperatore restava tuttavia colui che rappresentava l’impero all’esterno e anche per questo il disegno politico faticosamente avviato da Massimiliano, indipendentemente dai suoi esiti concreti, fu essenzialmente volto a ricostruire e a rinvigorire dinanzi alle potenze europee un ideale di impero cristiano universale (Wiesflecker 1971-1986). Queste mire furono all’origine del desiderio di Massimiliano di ricevere la corona a Roma direttamente dal pontefice, e furono gli insistenti tentativi di realizzarlo a condurlo più volte in Italia. Dell’Italia, ove pensava risiedessero i fondamenti dell’autorità imperiale, Massimiliano aveva una precisa percezione, acuita dalla sua eccelsa formazione umanistica. Le guerre che dilaniarono la penisola, e alle quali prese parte con poca fortuna, furono dunque una necessità alla quale non poteva sottrarsi, viste anche le ricorrenti notizie che indicavano nel re di Francia un potenziale usurpatore della dignità imperiale. L’inimicizia con la Francia fu pressoché costante nella sua azione politica. Nel 1494 i legami con la penisola si consolidarono, grazie alle nozze con Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro. Nel 1495 si unì a quest’ultimo, ad Alessandro VI, a Ferdinando il Cattolico e a Venezia, contro Carlo VIII, re di Francia, calato in Italia l’anno precedente e giunto fino a Napoli. Alla richiesta di aiuti finanziari per l’impresa, l’assemblea degli Stati rispose negativamente, anteponendo l’urgenza di riformare le istituzioni dell’impero. Il disegno di Massimiliano di rafforzare il potere imperiale, insidiato dai signori territoriali, dalle città e dai principi elettori subì dunque un duro colpo nella Dieta di Worms (1495), dalla quale l’autorità dell’imperatore uscì ancor più limitata. Massimiliano giunse in Italia per la prima volta nel 1496, impegnato nella fallimentare impresa pisana, che contribuì a diminuire notevolmente il suo prestigio politico e militare. Nel giro di pochi anni, altri eventi generarono più dubbi sulla sua reale capacità di servirsi della potenza della Germania. I cantoni svizzeri si resero indipendenti nel 1499, e nel 1501 Massimiliano fu costretto a riconoscere le conquiste francesi nell’Italia settentrionale, come peraltro M. aveva previsto. La sua azione politica in Italia si caratterizzò, fatti salvi alcuni brevi frangenti, per una particolare avversione contro Venezia, della quale, come del resto accadeva ad altri sovrani europei, mal tollerava l’espansione sulla terraferma e sull’Adriatico. Nel 1500 riuscì comunque ad annettere all’impero Gorizia e altri territori che lo portarono a un passo dai confini veneziani. L’opposizione della Repubblica al passaggio dell’imperatore in Italia nel 1508, finalizzata ancora una volta all’incoronazione a Roma e a riportare ordine nei territori dell’impero, con chiaro intento antifrancese, si trasformò in una guerra contro Venezia. L’evento, preannunciato a Costanza l’anno precedente, ebbe inizio con l’assunzione del titolo di «imperatore romano eletto» il 4 febbraio del 1508 nel duomo di Trento, presente M., che informava Firenze. Gli sviluppi dell’impresa furono fallimentari e culminarono nella battaglia di Rusecco a Pieve di Cadore, dove le truppe imperiali furono sconfitte da Bartolomeo d’Alviano. In breve tempo, questi riuscì a riconquistare Gorizia, Pordenone e Trieste. Massimiliano aderì quindi alla lega di Cambrai – formalmente intesa contro la minaccia ottomana – che fu siglata il 10 dicembre 1508, insieme al papa, alla Francia e alla Spagna. La lega, tuttavia, si mosse innanzitutto contro Venezia, considerata un elemento di divisione tra i potentati cristiani. La Repubblica riportò una dura sconfitta ad Agnadello il 14 maggio 1509 in quella terribile «giornata di Vailà», nella quale «il furore di Bartolomeo d’Alviano trovò uno maggiore furore» (Ritratto di cose di Francia, § 25). Massimiliano in quell’occasione recuperò Verona, Vicenza e Padova. Furono però conquiste effimere. Egli dovette apparire per molti versi un «imperadore instabile e vario», come lo definì M. nella lettera a Vettori del 26 agosto 1513, al quale comunque né il pontefice, né gli altri Stati italiani avrebbero potuto attribuire un’aspirazione alla monarchia universale: Roma restò per lui la sede originaria del trono imperiale. Questo equilibrio mutò con Carlo V, che riunì in sé la potenza della Spagna e dell’impero. A quel punto fu chiaro anche a M. che la monarchia asburgica non aveva più nella G. il suo baricentro. In occasione dell’elezione di Carlo V, i ceti imperiali, desiderosi di conservare le proprie prerogative, presentarono un elenco di libertà e diritti che egli giurò di rispettare. La capitolazione imperiale del 1519, prima di una serie, era un patto o convenzione con cui l’imperatore designato dai voti degli elettori accettava, prima della solennità dell’incoronazione, alcune condizioni relative all’amministrazione dell’impero e si impegnava a osservarle (De Benedictis 2001, p. 44). L’elezione fu caratterizzata anche dalle ostilità con Francesco I, re di Francia e da una politica scaltra di Leone X, che evitava di parteggiare per uno dei due contendenti. Quando fu chiara la vittoria di Carlo V, anche il pontefice si schierò apertamente per quest’ultimo, che mirava a recuperare il ducato di Milano caduto in mano francese. Il sostegno all’impero aveva in quel frangente anche una finalità ulteriore, volta a riunire le massime autorità cristiane contro la sfida all’unità religiosa lanciata in G. da Martin Lutero, che da qualche tempo aveva reso pubbliche le sue tesi (31 ott. 1517). Il riformatore, già scomunicato dal pontefice, fu convocato a Worms davanti alla Dieta, nel 1521, per ritrattare le sue idee.
L’editto di Worms emanato in quell’occasione, con cui si impediva la circolazione dei suoi scritti, e che nella visione di Carlo V rispondeva alla tradizionale concezione della dignità imperiale quale protettrice della Chiesa e della fede, ebbe però un effetto assai limitato nei territori dell’impero. Alla diffusione inarrestabile delle opere di Lutero si accompagnava anche il rifiuto da parte di alcuni ceti imperiali di rilevante peso politico di dargli esecuzione: secondo le consuetudini e norme del diritto imperiale non vi erano, infatti, regole vincolanti per il dissenso originato nel 1521 e neppure era possibile trovare una soluzione pronta. Su un piano schiettamente politico e giuridico si confrontarono, in assenza dell’imperatore, i principi luterani e la maggioranza cattolica nelle Diete imperiali di Spira (1526 e 1529) e quindi, presente Carlo V, nella Dieta di Augusta (1530). Sul versante italiano, la contesa con la Francia che teneva occupato Carlo V si consumò a Pavia nella notte del 24 febbraio 1525, quando Francesco I cadde prigioniero. Allora il re dei Romani, rimasto senza alcun rivale e con il re di Francia nelle sue mani, ebbe la concreta possibilità di diventare il signore d’Italia. Come scrisse M. a Guicciardini poco dopo il 21 ottobre del 1525, era ormai chiaro che anche il papa sarebbe presto finito preda dell’imperatore. Egli quasi antivedeva lo scenario disastroso seguito al fallimento della lega antiasburgica stretta a Cognac (22 maggio 1526) e culminata con il sacco di Roma a opera dei lanzichenecchi (6 maggio 1527) e la prigionia di Clemente VII.
Gli scritti sulla G. di M., se si eccettua il Discursus de pace, nascono in seguito alla sua missione diplomatica presso la corte di Massimiliano (1508), intenzionato, come si è ricordato, a passare in Italia per ricevere la corona da Giulio II. Il 27 aprile 1507, Massimiliano, che non disponeva di una propria forza militare e non poteva costringere l’impero a fornirla, aprì la Dieta di Costanza, dichiarando la sua ferma volontà di avviare una campagna nella penisola per liberare dalle mani del re di Francia le città tributarie dell’impero. Ciò costrinse tutti gli Stati italiani a inviare un ambasciatore o almeno un proprio uomo, per comprendere quali fossero le reali possibilità di riuscita dell’impresa militare. La minaccia del re di Francia, che secondo il papa sarebbe stato intenzionato a usurpare il soglio pontificio e con esso la dignità imperiale, si rivelò presto infondata, facendo raffreddare gli animi dei partecipanti alla Dieta. I signori, laici ed ecclesiastici, erano particolarmente ostili all’imperatore e le comunità, come aveva ben compreso M., non avevano alcun interesse a che si rafforzasse l’autorità imperiale. Per Firenze, che perseguiva una politica filofrancese cementata dall’alleanza siglata fin dal novembre 1494, era indispensabile comprendere in anticipo se l’impresa avesse una qualche speranza di successo, al fine di trovare con l’imperatore un accordo di carattere finanziario che garantisse, se non la soluzione della questione pisana, almeno la sicurezza dei domini della Repubblica. La questione aveva dunque molti risvolti interni nella politica fiorentina. Mentre il gonfaloniere Piero Soderini (e con lui M.) intendeva mantenere fermi i legami con la Francia, gli ottimati, scontenti e sospettosi del suo operato, che faceva loro presagire la concreta volontà di «occupare la tirannide», speravano nell’arrivo di Massimiliano per restaurare i «passati governi», secondo le parole di Bartolomeo Cerretani. Acconsentendo alla volontà di Soderini, Firenze evitò di mandare un’ambasciata, poiché ciò avrebbe compromesso di fatto i rapporti con la Francia. Si preferì optare piuttosto per un mandatario, senza facoltà di concludere alcun accordo. Il desiderio di Soderini di inviare M., tuttavia, si arrestò dinanzi all’opposizione ottimatizia, che, considerandolo troppo vicino al gonfaloniere, riuscì a far eleggere Francesco Vettori. Fu una sconfitta per Soderini e lo fu anche per Machiavelli. L’occasione di partire per la G. si ripresentò a quest’ultimo poco dopo, quando la città, in seguito alle allarmanti e confuse notizie inviate da Vettori, stabilì di affiancargli qualcuno che all’occorrenza, perdendosi le lettere, potesse riferire «a bocca». Fu allora che Soderini riuscì a inviare M., in luogo dell’ambasciata richiesta dagli ottimati. Si trattò di un’esperienza particolarmente importante per M., nella quale ebbe modo di affinare alcuni elementi che caratterizzarono da lì in avanti il suo particolare giudizio politico, oltre che di consolidare l’amicizia con Vettori. Ai due legati si richiedevano previsioni quanto più possibili corrette circa la riuscita dell’impresa di Massimiliano: entrambi, richiamati nella loro coscienza dalle istruzioni dei Dieci, tenevano in mano in quei giorni la politica estera e dunque il futuro della Repubblica. Benché Vettori non avesse alcun mandato per concludere un accordo, anche il solo avvio di un «abboccamento» con l’imperatore avrebbe potuto produrre effetti particolarmente dirompenti nell’alleanza con la Francia. Nel gennaio 1508, però, la situazione di Massimiliano apparve a M. alquanto critica: senza alcun sostegno finanziario, con l’esiguo contingente che minacciava di abbandonarlo, Venezia che non aveva ceduto alle sue richieste e gli svizzeri che non avevano risposto alle sue offerte. Con queste premesse, che disegnavano un quadro del tutto diverso rispetto a quel che aveva presentato Vettori, prese il via l’impresa volta a stringere militarmente Venezia, che si rivelò fallimentare. M. fece ritorno a Firenze nel giugno 1508, dopo la tregua siglata tra il re dei Romani, Venezia e la Francia. Fu allora che M. iniziò a scrivere il suo Rapporto di cose della Magna, dove discute i due requisiti in grado di garantire il successo del disegno di Massimiliano: egli può sperare in una riuscita qualora sia in grado di mutare il proprio carattere politicamente così dannoso e qualora la Magna stabilisca di aiutarlo «daddovero». Se Massimiliano sapesse valersi bene del suo Stato e delle sue entrate, scriveva M., non sarebbe secondo ad alcun sovrano cristiano. M. finisce per delineare in questo scritto un ritratto di Massimiliano che è anche un ritratto dell’impero all’inizio del 16° sec., posto accanto al suo apprezzamento per le città della «Tedescheria». Nei suoi scritti M. non nasconde l’ammirazione per i costumi e per il modo di vivere dei loro abitanti ricchi, perché usi a vivere con poco, dignitosamente e senza sprechi, specialmente se paragonati agli italiani e all’opulenza delle loro città, come in più occasioni ha modo di ricordare. Tutto ciò, però, non invoglia loro a prendere le armi in favore dell’imperatore. Nel Ritratto delle cose della Magna, venuti meno i motivi che avevano mosso la penna del Rapporto, emergono le medesime considerazioni presentate con maggiore consapevolezza, arricchite di ulteriori notizie e soprattutto liberate dai connotati temporali. Il punto centrale del Ritratto non è più Massimiliano, ma la G. e la disunione dell’impero. Le ricche comunità, scrive M., sono «il nervo di quella provincia», ma non hanno altra mira che conservare la propria libertà, e nessun interesse «di acquistare inperio». Si trattava, insomma di una potenza davvero poco utile a un imperatore che non era il re di Spagna.
Bibliografia: N. Rubinstein, Firenze e il problema della politica imperiale in Italia al tempo di Massimiliano I, «Archivio storico italiano», 1958, 116, pp. 5-35 e 147-77; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, 1° vol., Napoli 1958, Bologna 19933, in partic. pp. 249-83; H. Wiesflecker, Maximilian I. Kaiserproklamation zu Trient (4. Februar 1508). Das Ereignis und seine Bedeutung, in Österreich und Europa. Festgabe für Hugo Hantsch zum 70. Geburtstag, Graz 1965, pp. 15-38; R. Devonshire Jones, Some observations on the relations between Francesco Vettori and Niccolò Machiavelli during the embassy to Maximilian I, «Italian studies», 1968, 23, pp. 93-113; H. Wiesflecker, Kaiser Maximilian I. Das Reich, Österreich und Europa an der Wende zur Neuzeit, 5 voll., Wien-München 1971-1986; V. Bertolini, L’imperatore Massimiliano nei giudizi del Machiavelli, in Studi machiavelliani, Verona 1972, pp. 301-19; M. Luzzati, M. Sbrilli, Massimiliano d’Asburgo e la politica di Firenze in una lettera inedita di Niccolò Machiavelli ad Alamanno Salviati (28 settembre 1509), «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1986, 3, 16, pp. 825-54; J.M. Najemy, Between friends. Discourses of power and desire in the Machiavelli-Vettori letters of 1513-1515, Princeton 1993; R. Elze, Una Coronatio Caesaris a Trento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 1995, 21, pp. 363-72; A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna 2001, in partic. pp. 33-70; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, in partic. pp. 121-26; P. Carta, Machiavelli a Trento, «Studi trentini di scienze storiche», 2008, 87, sezioni 1-4, pp. 719-41; H. Noflatscher, L’«Italia» nella percezione politica di Massimiliano I, «Studi trentini di scienze storiche», 2008, 87, sezioni 1-4, pp. 663-68 (si veda, più in generale, l’intero fascicolo dedicato alla proclamazione imperiale di Massimiliano I d’Asburgo, 4 febbr. 1508).
La fortuna di Machiavelli in Germania. – Rispetto alla Francia e alla Spagna, dove, già alla metà del 16° sec., parte considerevole degli scritti di M. era stata tradotta, nell’area linguistica germanofona la ricezione del suo pensiero restò a lungo circoscritta agli eruditi in grado di leggere il latino e fu, perciò, sensibilmente più tardiva. In particolare, nelle regioni nord-orientali, influenzate in maniera più diretta dall’ortodossia luterana, la penetrazione della sua opera fu poi frenata dall’asprezza della polemica anticattolica, destinata ben presto ad abbinarsi alla diffusa diffidenza nei confronti della cultura latina tout court. Sullo sfondo delle passioni suscitate dai contrasti confessionali, i ritardi e le riserve che accompagnarono l’iniziale ricezione dell’opera di M. in G. finirono dunque per condizionarne a fondo la fortuna, facendo sì che essa rimanesse qui, più a lungo che altrove, vittima di letture pregiudiziali.
Muovendosi lungo le principali vie di irradiazione della cultura rinascimentale italiana, gli scritti di M. giunsero in G. attraverso due direttrici principali: da sud, passando dall’Italia alla Svizzera e da ovest, transitando dalla Francia alle regioni dell’Alsazia, del Palatinato e dell’Assia. A incaricarsi della loro diffusione in Svizzera furono soprattutto gli esuli italiani religionis causa. A Basilea, ad appena un anno dalla pubblicazione dell’Indice di Paolo IV (1559), vide infatti la luce, su iniziativa di Silvestro Tegli e Pietro Perna, la prima traduzione latina del Principe, che nella successiva edizione del 1581 sarebbe stata accompagnata da un’introduzione di Johann Nikolaus Stupanus (1542-1621; W. Kaegi, Machiavelli in Basel, «Basler Zeitschrift für Geschichte und Altertumskunde», 1940, 39, pp. 5-51). E, sempre a Basilea, già qualche anno prima, il luterano di origine istriana Matthias Flacius (1520-1575) aveva incluso alcuni passi delle Istorie fiorentine nel suo Catalogus testium veritatis, qui ante nostram aetatem reclamarunt Papae (1556), facendo del Segretario una sorta di proto-protestante.
A svolgere il ruolo di centro di diffusione degli scritti di M. nelle regioni tedesche occidentali fu invece la città di Strasburgo. Se si prescinde dalla figura di Angelo Odoni (1510-1551; cfr. L. Perini, La vita e i tempi di Pietro Perna, 2002, pp. 175-77), qui la circolazione del pensiero machiavelliano non fu veicolata dall’emigrazione italiana, ma dalle traduzioni in francese dei suoi scritti, che furono oggetto dell’interesse sia di importanti umanisti come Justus Reifenberg (m. 1631), Johann Fischart (1546-1591), Melchior Junius (1545-1604) e Georg Obrecht (1547-1612), sia di politici di primo piano, tra cui Lazarus von Schwendi (1522-1583), il conte palatino Georg Johann von Pfalz-Veldenz (1543-1592) e i margravi d’Assia, Guglielmo IV il Saggio (1532-1592) e Moritz il Dotto (1572-1632; Zwierlein 2006).
Nel frattempo, a Ginevra, Innocent Gentillet (→) portò a termine il suo fortunatissimo Discours contre Machiavel (1576), che già nel 1580 sarebbe stato ristampato a Francoforte in lingua tedesca, con un’introduzione di Georg Nigrinus (1530-1602). L’influenza esercitata dal pamphlet di Gentillet, e di cui recano traccia i lavori di Dietrich Reinkingk (15901664), di Johann Balthasar Schupp (1610-1661) e del già citato Johann Fischart, non deve tuttavia indurre a ritenere che gli oppositori di M. in G. provenissero solamente dagli ambienti riformati (F. Chabod, Scritti su Machiavelli, 1964, pp. 108-35).
In proposito va altresì osservato che, nei decenni seguenti, l’offensiva antimachiavellica intrapresa da Gentillet fu portata avanti, con un grado di accanimento non certo inferiore, dai trattatisti della Controriforma, ma anche che da parte degli stessi ambienti riformati si ebbero reazioni di segno contrario: basti ricordare, per esempio, l’interesse per M. di un umanista luterano come Hieronymus Turler (15501602), che, a breve distanza dalla pubblicazione del Catalogus di Matthias Flacius, affidò a uno stampatore di Francoforte la traduzione latina del primo libro delle Istorie fiorentine (1564).
Nel clima di forte tensione che segnò profondamente la storia dell’Europa centrale almeno sino alla Pace di Vestfalia (1648), le letture degli uni e degli altri finirono in ogni caso per prestarsi a fini essenzialmente polemici e strumentali, al punto che, una volta fattosi sinonimo di ogni turpitudine, il nome di M., e con esso l’accusa di machiavellismo, divenne funzionale alla stigmatizzazione degli avversari sia religiosi sia politici.
L’esito di questa singolare convergenza nel segno della polemica contro M. fu tuttavia ben diverso da quello che ci si potrebbe attendere a prima vista. Certo, soprattutto nelle aree dove più diretta fu l’influenza cattolica, gli scritti del Fiorentino furono costretti alla clandestinità. Cionondimeno la veemenza degli attacchi, anziché frenarne la diffusione, finì paradossalmente per costituire uno stimolo allo studio della sua opera (Stuparich 1985, p. 36; Procacci 1995, pp. 136-38).
Sei e Settecento. A conferma della notorietà comunque raggiunta da M. nella G. sud-occidentale dei primi decenni del 17° sec., possono essere richiamati gli scritti del gesuita bavarese Heinrich Wangnereck (1595-1664) – autore nel 1636 di una tra le più significative testimonianze della libellistica di matrice controriformistica (Vindiciae politicae aduersus pseudopoliticos, qui Gaspare Scioppio in Paedia politices suppetias pseudologicas ferente, finem et media verae politices corrumpunt, auctore Henrico Vvangnereck Societatis Iesu theologo, 1636) – e soprattutto quelli del filologo e polemista Kaspar Schoppe (→), il quale, nella sua Paedia politices (1623), rideclinò il pensiero machiavelliano secondo i termini della tradizione aristotelica (Gasparis Scioppii caesarii et regii consiliarii Paedia politices sive suppetiae logicae scriptoribus politicis latae adversus apaideusian et acerbitatem plebeiorum quorundam judiciorum, 1623); inaugurò in questo modo un canone interpretativo destinato a esercitare ampia influenza, ma che, al tempo stesso, riducendo la complessità del pensiero di M. entro lo schema del machiavellismo, finì anche per impoverirne drasticamente il contenuto (M. D’Addio, Il pensiero politico di Gaspare Scioppo e il Machiavellismo del Seicento, 1962).
Tra coloro che nel 17° sec. nutrirono un interesse non occasionale per l’opera del Segretario spicca poi Hermann Conring (1606-1681), cui si deve la pubblicazione nel 1660 di una nuova, e filologicamente più rigorosa, traduzione latina del Principe (Nicolai Machiavelli Princeps aliaque nonnulla ex italico latine nunc demum patim versa, partim infinitis locis sensus melioris ergo castigata, curante Hermanno Conringio, 1660): per lui M. restava tuttavia un trattatista il cui obiettivo era consistito soprattutto nel descrivere le leggi sottese a ogni forma di governo, sicché anche la sua interpretazione non si discostò troppo da quella di Schoppe. La nuova traduzione di Conring contribuì comunque a far sì che, a partire dagli ultimi decenni del 17° sec., le controversie intorno al Principe si trasferissero dal campo strettamente libellistico dei primi tempi a quello più squisitamente filologico ed erudito. E sebbene le preoccupazioni di studiosi come Arnold Holtermann (1627-1681), Isaac Schoock (m. 1681), Johann Franz Buddeus (1667-1729) e Jacob Friedrich Reimmann (1688-1743) restassero di natura prevalentemente erudita, il moltiplicarsi dei richiami dotti a M. finì per far da premessa a un ripensamento complessivo della sua opera. In tal senso, alcuni segnali indicativi della maturazione di una nuova sensibilità sono ricavabili dall’esame delle prime traduzioni tedesche del Principe. A prescindere dalla traduzione del 1692, redatta esclusivamente a uso interno, è soprattutto quella anonima del 1714, già pervasa di spirito illuministico, a suscitare particolare interesse, soprattutto in quanto destinata a un pubblico ben più ampio rispetto a quello tradizionalmente in grado di leggere il latino (N. Machiavelli, Lebens und Regierungs-Maximen eines Fürsten (1714). Die erste gedruckte und mit den Anmerkungen des Amelot de la Houssaye versehene deutsche Übersetzung des Principe, hrsg. R. De Pol, 2006, p. 51).
La maturazione di questa sensibilità di tipo nuovo è osservabile anche passando all’ambito più propriamente interpretativo. Decisivi passi avanti furono infatti compiuti con il De Nicolao Machiavello (1731) di Johann Friedrich Christ (→), prima autentica indagine critica sulla vita e sull’opera di Machiavelli. Questo lavoro si segnala per l’impegno del confronto con i maggiori critici di M. – da Gentillet sino allo stesso Conring –, nonché per lo sforzo con cui l’autore cercò di andare oltre la tradizionale lettura in chiave aristotelica. Oltre a ciò, merito principale di Christ fu di essersi posto il problema della conciliazione tra il diverso orientamento politico sotteso ai Discorsi e al Principe e, dunque, di esser stato tra i primi interpreti tedeschi ad aver attribuito fondamento all’interpretazione in senso repubblicano del pensiero machiavelliano. Le novità introdotte da Christ sarebbero tuttavia rimaste confinate nell’ambito accademico se, nel 1740, la singolare collaborazione tra Voltaire e Federico II di Prussia (1712-1786) non fosse sfociata nel celebre Anti-Machiavel (→), un testo di per sé non particolarmente significativo se non per il fatto di aver svolto una straordinaria funzione nell’ampliare la notorietà di Machiavelli.
È tuttavia solo tra la fine del 18° e l’inizio del 19° sec. che gli scritti del Segretario, lungi dal continuare a rimanere prigionieri di letture erudite, divennero oggetto di appassionate interpretazioni. Al tempo stesso, in ragione dell’affermazione, sul piano culturale, del paradigma storicistico, all’indomani delle guerre antinapoleoniche si consolidò una sorta di canone che finì per informare di sé gran parte delle letture successive, sino a quelle novecentesche di Friedrich Meinecke (→) e Gerhard Ritter (→). Sul piano storiografico risulta perciò possibile parlare di un ‘lungo Ottocento’, durante il quale la rilettura di alcuni segmenti del pensiero machiavelliano finì per rappresentare un capitolo essenziale nella storia del Sonderweg tedesco (W. Schulze, Machiavelli am Anfang des deutschen Sonderwegs. Beobachtungen zur Deutung im späten Historismus bei Friedrich Meinecke und Gerhard Ritter, in Machiavellismus in Deutschland. Chiffre von Kontingenz, Herrschaft und Empirismus in der Neuzeit, hrsg. C. Zwierlein, A. Meyer, 2010, pp. 241-56).
Sebbene gli iniziali promotori del revival machiavelliano fossero stati uomini di lettere dell’età dei lumi come Christoph Martin Wieland (1733-1813) e Wilhelm Heinse (1749-1803), il primo a rivelare un’approfondita conoscenza dei suoi scritti fu Johann Gottfried Herder (1744-1803). A lui si devono, infatti, non solo un’appassionata difesa di M., ma anche il primo tentativo di rilettura in chiave storicistica del nesso tra politica e morale: è soprattutto nella LVIII (1795) delle Briefe zu Beförderung der Humanität (1793-1797) che l’elemento storicizzante, abbinato a quello patriottico, si prestò a una riabilitazione complessiva del suo pensiero.
Analoga lettura fu proposta di lì a poco da Georg Wilhelm Friedrich Hegel (→) in Über die Verfassung Deutschlands (1800-1802), per il quale il principale obiettivo politico di M. era il superamento della frammentazione dell’Italia rinascimentale e la formazione di uno Stato sul modello della monarchia francese (cfr. G.W.F. Hegel, La costituzione della Germania, in Id., Scritti politici, a cura di C. Cesa, 1972, 1974, pp. 3-132). In linea con quanto già messo in luce da Herder, toccò poi a Johann Gottlieb Fichte (→), in Über Machiavell, als Schriftssteller, und Stellen aus seinen Schriften (1807), inaugurare l’interpretazione in chiave realistica del pensiero machiavelliano e, al contempo, ribadire che il Principe, lungi dal potersi leggere come un vero e proprio trattato di diritto pubblico, andasse piuttosto compreso in rapporto al contesto dell’Italia rinascimentale.
Non si deve tuttavia ritenere che la rilettura in chiave patriottica inaugurata da Herder, Fichte e Hegel, e poi ripresa da Heinrich Luden (1778-1847) e Friedrich Wolff (1766-1845), esaurisca la gamma delle interpretazioni ottocentesche di Machiavelli. Negli stessi anni non mancò, infatti, chi introdusse alcune significative varianti. Oltre a coloro che, come Carl von Clausewitz (1780-1831), svilupparono una rilettura di M. in chiave strategico-militare, è soprattutto nel campo conservatore e cattolico che si ritrovano le interpretazioni più fortemente connotate in senso critico. Nel 1810, per esempio, curando una nuova traduzione del Principe (Das Buch vom Fürsten von Niccolò Machiavelli, 1810), August Wilhelm Rehberg (1757-1836) non esitò a denunciare in M. l’assenza di veri ideali. Allo stesso modo, anche Friedrich von Schlegel (1772-1829) e Friedrich von Raumer (1781-1873) riscontrarono nel presunto paganesimo, così come nella concezione antica dello Stato, incapace di riconoscere ogni valore morale all’individuo, i maggiori limiti del pensiero machiavelliano (Helbling 1972, p. 125; cfr. inoltre: F. von Schlegel, Geschichte der alten und neuen Literatur. Vorlesungen gehalten zu Wien im Jahre 1812, 1841; F. von Raumer, Über die geschichtliche Entwicklung der Begriffe von Recht, Staat und Politik, 1826).
Nello stesso filone rientra anche Heinrich Leo (1799-1878), il quale, pubblicando nel 1826 la prima edizione tedesca del carteggio familiare di M. (Die Briefe des florentinischen Kanzlers und Geschichts schreiber Niccolo di Bernardo Machiavelli an seine Freunde), non risparmiò severe critiche al canone storicistico e ai suoi principali esponenti, ritenuti responsabili di aver eccessivamente enfatizzato il suo presunto patriottismo e, così facendo, di esser caduti negli stessi errori di coloro che, nei secoli precedenti, gli avevano attribuito i vizi più infamanti. Anziché il patriota evocato da Fichte, M. fu dunque, per Leo, soprattutto un cinico. E, alla luce di tale interpretazione limitativa del suo profilo, anche il significato del cap. xxvi del Principe, di per sé poco rispondente, secondo lo storico, al concetto generale dell’opera, fu drasticamente ridimensionato, sicché lo stesso capolavoro machiavelliano finì per essere giudicato nei termini di un semplice scritto d’occasione.
A riprendere l’interpretazione di Herder e Fichte fu, invece, Leopold von Ranke (1795-1886), il quale, tra le pagine di Zur Kritik der neuerer Geschichtsschreiber (1824), affrontò la questione dell’unità dell’opera di M., cercando di risolverla tramite un’accurata analisi delle fonti. A suo avviso, già nei Discorsi e nell’Arte della guerra emergerebbe quella ispirazione di fondo che informa di sé il capitolo conclusivo del Principe. Da qui il patriottismo repubblicano del Segretario, il quale, alla luce di un’acuta analisi dello stato di decadenza dell’Italia, non esitò a riconoscere la necessità di un governo forte, retto da un principe che disponesse di armi proprie.
Sulla scia dell’interpretazione romantica rientra anche la lettura di Georg Gottfried Gervinus (1805-1871), il quale, prestando particolare attenzione a opere e testi sino ad allora trascurati, tra cui le Legazioni e le Istorie fiorentine, fu il primo a occuparsi del M. storico. Sul piano politico, anche per Gervinus, il Fiorentino fu simultaneamente un patriota, un realista e un repubblicano, costretto suo malgrado a riconoscere nel principato l’unica soluzione idonea a risollevare le sorti dell’Italia (G.G. Gervinus, Geschichte der florentinischen Historiographie bis zum sechzehnten Jahrhundert, mit Erläuterungen über den sittlichen, bürgerlichen und schriftstellerischen Charakter des Machiavell, 1833).
Alla ricorrente pretesa con cui si era sino ad allora cercato di collocare il pensiero politico di M. all’interno della sua epoca e, al tempo stesso, di trarne utili ammaestramenti per il presente, reagì Robert von Mohl (1799-1875), il quale denunciò come la spiegazione in termini storicistici non fosse sufficiente a venire a capo delle questioni poste dalla sua opera (von Mohl 1858, pp. 519-91). A suo giudizio, tanto nei Discorsi quanto nel Principe, il Segretario fiorentino aveva affrontato un problema specifico del suo tempo e, per tale ragione, non aveva senso giudicare le sue idee come se fossero state il frutto di una speculazione teorica sistematica. Pur riconoscendogli il merito di aver contribuito a gettare le basi della moderna scienza politica, Mohl non mancò quindi di attribuire al pensiero politico di M. alcuni gravi limiti, tra cui l’aver ignorato la differenza tra lo Stato moderno e quello antico, di essere rimasto prigioniero di una concezione antropologica negativa e, infine, di aver creduto di poter giungere alla libertà mediante la forza.
Il richiamo alla presunta incapacità da parte di M. di innalzarsi al di sopra dei vizi del suo secolo ricorre anche nelle riflessioni di alcuni autorevoli esponenti del liberalnazionalismo. Tra questi, in polemica con Ranke, Hermann Baumgarten (1825-1893) sostenne, per es., che l’intento del Principe non fosse stato affatto quello di esortare alla creazione di uno Stato unitario: del tutto sconnesso rispetto al resto del volume, l’ultimo capitolo del Principe fu pertanto giudicato al pari di una bizzarra fantasia, cui si era sino ad allora attribuito un eccessivo significato (H. Baumgarten, Geschichte Karls V., 3 voll., 1885-1892). Toccò poi a Heinrich von Treitschke (→) precisare i termini della critica di Baumgarten tra le pagine della sua Politik. Vorlesungen gehalten an der Universität zu Berlin (hrsg. M. Cornicelius, 2 voll., 1897-1898, trad. it. La politica, 1° vol., 1918, pp. 87-88), dove, pur attribuendogli il merito di aver individuato l’essenza dello Stato nel principio della Macht, non esitò ad accusare M. di non esser stato in grado di conferire allo Stato moderno, una volta emancipatolo dalla Chiesa, un nuovo contenuto morale.
Pur continuando a svilupparsi nel solco di quella ottocentesca, nel 20° sec. la riflessione su M. in Germania si spostò progressivamente dal tema del patriottismo a quello della natura e dei limiti del potere. E in risposta, ancora una volta, alle problematiche poste dall’attualità, M. assurse perciò a figura paradigmatica attraverso cui interpretare un’intera stagione della storia europea, fare i conti con le problematiche più telluriche della politica moderna e risalire, infine, alle origini della via peculiare percorsa dalla Germania dai tempi di Martin Lutero sino ad Adolf Hitler.
Il principale interprete di questo filone di studi è senza dubbio Friedrich Meinecke, il quale, dopo aver curato una nuova edizione del Principe (Der Fürst und kleinere Schriften, 1923; di particolare interesse l’introduzione, pp. 7-37, e l’appendice alla stessa, pp. 38-47), nel suo capolavoro del 1924 svolse un’ampia ricognizione sull’influenza del pensiero machiavelliano nei secoli (Meinecke 1924). Con la sua opera, una volta riconosciuto al Segretario fiorentino il merito di aver configurato la ragion di Stato come una nuova fonte di normatività, Meinecke ripercorse il secolare riproporsi dei dilemmi posti dal rapporto tra ethos e kratos, per giungere infine a far luce su quelle dinamiche oscure che, dalla Rivoluzione francese in poi, avevano reso sempre meno controllabili le forze demoniache della politica.
A prescindere da Max Horkheimer (1895-1973), il quale, a partire da presupposti ideologici di chiara ispirazione marxista, riconobbe in M. il primo teorico dello Stato borghese (Anfänge der bürgerlichen Geschichtsphilosophie, 1930, trad. it. Gli inizi della filosofia borghese della storia. Da Machiavelli a Hegel, 1978), il tema delle ‘forze demoniache’, alla cui emancipazione il Segretario fiorentino avrebbe fornito un contributo decisivo, ricorre con insistenza in quasi tutti gli studiosi che si ritrovarono ad assumere posizioni controverse nei confronti del nazionalsocialismo.
È questo il caso di Hans Freyer (1887-1969) con il suo Machiavelli (1938), ma soprattutto di Gerhard Ritter, il quale, in Machtstaat und Utopie. Vom Streit um die Dämonie der Macht seit Machiavelli und Morus (1940), contrappose il pensiero politico di M. a quello di Tommaso Moro, riconoscendovi rispettivamente due diverse declinazioni concettuali del rapporto tra politica e morale. Più precisamente, se Moro incarnò una specifica variante insulare di quella tradizione dottrinale nel cui ambito il «volto demoniaco del potere» era stato celato al di sotto della maschera della giustizia, M. rappresentò invece quella tradizione tipicamente continentale nel contesto della quale la lotta per il potere era stata spregiudicatamente posta al centro delle dinamiche politiche. A suo avviso, la centralità di M. nella storia politica europea risiedeva perciò nel fatto che egli, innalzando la potenza a principio ordinatore dello Stato, avesse di fatto contribuito ad aprire la via all’affermarsi delle grandi monarchie militari continentali (G. Ritter, Die Dämonie der Macht. Betrachtungen über Geschichte und Wesen des Machtproblems im politischen Denken der Neuzeit [5ª ed. di Machstaat und Utopie], München 1948, trad. it. Il volto demoniaco del potere, 1958).
Se per Ritter il principale limite di M. fu quello di aver sottovalutato le conseguenze determinate dall’irruzione delle ‘forze demoniache’ nell’ambito della vita politica, per Carl Schmitt (→) il suo merito maggiore fu, invece, proprio quello di esser stato in grado di cogliere «politicamente il Politico» (M. Cau, Tra potere demoniaco e virtù democratica. Letture machiavelliane nella cultura tedesca tra le due guerre, in Machiavelli nel XIX e XX secolo, a cura di P. Carta, X. Tabet, 2007, p. 156). In virtù di tale proiezione delle proprie categorie concettuali, l’ultimo dei grandi interpreti germanici di M. ne restituì un’immagine nettamente diversa da quella diffusa per secoli da parte della letteratura antimachiavelliana. Secondo Schmitt, infatti, non il cinismo amorale, ma le necessità imposte dall’autoconservazione politica e la denuncia della natura imperfetta dell’uomo furono le premesse decisive del suo pensiero. Premesse decisive in virtù delle quali il giurista di Plettenberg non avrebbe quindi esitato a richiamare M. tra gli esponenti di quella concezione realistica della politica fondata sulla distinzione amico-nemico, così come delineato nell’editoriale, apparso il 21 giugno 1927 sul «Kölnische Volkszeitung», Macchiavelli [sic]. Zum 22. Juni 1927 (poi in Id., Staat, Großraum, Nomos. Arbeiten aus den Jahren 1916-1969, hrsg. G. Maschke, 1995, pp. 102-07).
Bibliografia: R. von Mohl, Die Machiavelli Literatur, in Id., Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, 3° vol., Erlangen 1858, pp. 519-91; P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 3 voll., Firenze 1877-1882, Milano 1912-19143; A. Gerber, Niccolò Machiavelli. Die Handschriften, Ausgaben und Übersetzungen seiner Werke im 16. und 17. Jahrhundert, 3 voll., Gotha 1912-1913; A. Elkan, Die Entdeckung Machiavellis in Deutschland zu Beginn des 19. Jahrhunderts, «Historische Zeitschrift», 1919, 119, pp. 427-58; F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München 1924 (trad. it. L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Firenze 1977); H. Berr, Machiavel et l’Allemagne, Paris 1939; H. Helbling, Wege deutscher Machiavelli-interpretation, in Atti del Convegno internazionale su Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo, Sancasciano-Firenze 1969, Firenze 1972, pp. 123-31; M. Stolleis, Machiavelli in Deutschland. Zur Forschungslage der Machiavelli-Rezeption im 16. und 17. Jahrhundert, «Italienisch», 1982, 7, pp. 24-35; G. Stuparich, Machiavelli in Germania, Roma 1985; M. Stolleis, Staat und Staatsräson in der frühen Neuzeit. Studien zur Geschichte des öffentlichen Rechts, Frankfurt a. M. 1990 (trad. it. Stato e ragion di Stato nella prima età moderna, Bologna 1998); G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; A. Pocar, Machiavelli-Rezeption in Deutschland von 1792 bis 1858, Aachen 2002; C. Zwierlein, Discorso und Lex Dei. Die Entstehung neuer Denk rahmen im 16. Jahrhundert und die Wahrnehming der französischen Religionskrieg in Italien und Deutschland, Göttingen 2006; Machiavelli nel XIX e XX secolo, a cura di P. Carta, X. Tabet, Padova 2007; Machiavellismus in Deutschland. Chiffre von Kontingenz, Herrschaft und Empirismus in der Neuzeit, hrsg. C. Zwierlein, A. Meyer, München 2010.