Vedi Germania dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Sorta nella seconda metà dell’Ottocento da un cumulo di piccoli stati, la Germania è stata protagonista di un’incredibile evoluzione storica che l’ha portata a conquistare nel continente europeo una straordinaria posizione di vantaggio geostrategico. Se per lungo tempo ha costituito per i suoi vicini una minaccia dalla quale tutelarsi, nell’Europa sempre più interdipendente del secondo decennio del 2000 si erge a garante della stabilità economica e modello di buone prassi politiche. Uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, per tutto il corso della Guerra fredda la Germania è rimasta divisa in due entità statali separate, create nel primo periodo post-bellico in corrispondenza delle diverse zone di occupazione nelle quali fu suddiviso il suo territorio: a ovest la Repubblica federale tedesca (Bundesrepublik Deutschland, Brd), nata dall’unificazione delle zone britannica, francese e statunitense, e a est la Repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratische Republik, Ddr), sulla zona di occupazione sovietica. Mentre la Ddr ricadeva completamente nel raggio d’influenza sovietica, la Germania dell’Ovest aveva definito la propria politica estera su un doppio binario. Da un lato un forte europeismo, perseguito attraverso il rafforzamento di quell’asse franco-tedesco che è stato il principale motore del processo di integrazione europea; dall’altro, una chiara vocazione atlantista fondata su una solida relazione con gli Stati Uniti. Proprio l’alleanza con Washington aveva costituito un imprescindibile caposaldo sia per la ricostruzione e il rilancio dell’economia della Germania occidentale nel periodo postbellico, sia in chiave di deterrenza contro la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica.
Il 3 ottobre del 1990, data cruciale nella storia nazionale, le due Germanie si sono riunite, in virtù dell’annessione alla Repubblica federale tedesca dei cinque distretti orientali della Ddr più Berlino. Dalla riunificazione in poi, è possibile riscontrare alcuni cambiamenti nella politica estera tedesca. Fermo restando l’interesse a mantenere buoni rapporti all’interno dell’Alleanza atlantica e il tradizionale orientamento filo-europeista, il collasso dell’Unione Sovietica ha aperto per la Germania la possibilità di costruire un solido rapporto anche con la nuova Federazione Russa. La relazione è stata favorita dai comuni interessi, soprattutto dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici, ma è stata anche temperata dalla naturale vicinanza politica, economica e geografica della Germania a quei paesi dell’Europa orientale che intrattengono rapporti più tesi con i russi. Per quanto riguarda invece gli Stati Uniti, la fase post-1989 ha fatto registrare un rapporto più controverso, soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush. I contrasti si sono manifestati apertamente nel biennio 2002-03 quando la Germania del socialdemocratico Gerhard Schröder ha guidato le fila degli oppositori alla guerra in Iraq. Gli anni Novanta sono stati cruciali anche per quanto concerne il ruolo della Germania nel processo di integrazione comunitaria. Il paese ha sostenuto in modo decisivo la nascita della moneta unica. Per far ciò la Germania ha dovuto rinunciare al marco, la valuta più forte d’Europa: Berlino ha però giudicato necessario questo passo per portare a compimento il progetto d’integrazione economica e per stemperare le apprensioni con le quali le principali cancellerie europee avevano guardato al processo di riunificazione tedesca.
La Germania ha anche sostenuto l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centrale e orientale, geograficamente vicini e con i quali intrattiene importanti rapporti economici. Nel maggio 2013, Berlino si è espressa favorevolmente circa l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (Eu), cambiando la tradizionale posizione di diffidenza sul progetto di adesione turca e prospettando uno sblocco dall’impasse che per decenni ha frenato l’avvicinamento di Ankara a Bruxelles.
Oggetto di controversi e in alcuni casi di forte tensione con i partner europei è l’atteggiamento tedesco seguito allo scoppio della crisi economica. La Germania ha puntato sull’adozione di stringenti misure di austerity che prevedono l’elargizione di aiuti finanziari ai paesi in difficoltà soltanto in cambio di chiari progressi sulla disciplina di bilancio e di radicali riforme strutturali. La conseguente adozione di misure impopolari da parte dei paesi più in crisi dell’eurozona ha anche determinato la crescita di virulenti movimenti antieuropeisti. La Germania è uno dei maggiori fornitori mondiali di aiuti allo sviluppo, il terzo contributore al budget delle Nazioni Unite (intorno all’8%) e il quarto per quanto riguarda i finanziamenti alle operazioni di peacekeeping (8% per il 2010): posizioni e percentuali rilevanti, che legittimano le pretese di Berlino di partecipare attivamente alle arene diplomatiche internazionali e di ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La Germania è una repubblica federale composta da 16 stati, i Länder. La sua Costituzione affida il potere esecutivo nelle mani del governo federale che è retto da un cancelliere, mentre il potere legislativo spetta a un parlamento composto da due camere con differenti prerogative: il Bundesrat, che è l’organo federale attraverso cui i Länder partecipano alla funzione legislativa e all’amministrazione dello stato centrale tramite un numero di delegati proporzionale al totale di abitanti (da tre a sei seggi su un totale di 69), e il Bundestag, la dieta federale composta da più di 600 deputati eletti ogni quattro anni a suffragio diretto, nelle cui mani è riposto il cuore del processo di formazione delle leggi oltre che la possibilità di sfiduciare il cancelliere.
I 16 stati federati, ciascuno dei quali possiede propri organi di governo, detengono sia un importante ruolo nel processo legislativo centrale, sia prerogative esclusive in diverse sfere d’attività, specie nel campo dell’istruzione, in quello di polizia e nell’amministrazione. Data la non sincronia tra le elezioni dei parlamenti statali e quelle del parlamento federale, può capitare che la composizione politica del Bundesrat non corrisponda a quella del governo. La necessità di porre rimedio al deficit di governabilità da scontare in questi casi per quelle materie legislative di competenza del Bundesrat (quelle che tecnicamente necessitano della sua approvazione) e, allo stesso tempo, la volontà di non tradire l’impronta federale dell’assetto istituzionale tedesco, hanno portato nel 2006 a una riforma costituzionale che ha ridimensionato alcune prerogative di questo ramo del parlamento federale, ampliando il potere degli organi elettivi a livello statale.
Le ultime elezioni federali, per la formazione del 18° Bundestag, si sono tenute il 22 settembre 2013. Ottenendo quasi il 42% dei voti e il 40% dei seggi, l’incumbent Angela Merkel ha nuovamente ricevuto dagli elettori tedeschi un chiaro segnale di approvazione della linea politica seguita finora, sia sul fronte interno sia in merito alla previdente strategia di gestione della crisi nell’eurozona. La coalizione formata dai cristiano-democratici (Christlich Demokratische Union Deutschlands, Cdu) della Merkel e dalla Christlich-Soziale Union in Bayern (Csu), il partito bavarese omologo della Cdu, ha conseguito così il suo miglior risultato elettorale dal 1990. Tuttavia per questo mandato dovrà fare a meno dell’altro partner usuale, il partito liberale tedesco, Freie Demokratische Partei (Fdp), il quale non è riuscito a superare il 5% dei voti e, per la prima volta nella sua storia, non detiene alcun seggio nel Bundestag.
Per confidare su una maggioranza sicura, il partito della Merkel si è alleato, dopo due mesi di trattative, con il principale partito di opposizione dei socialdemocratici (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Spd).
Composta da quasi 82 milioni di persone, la popolazione tedesca è la maggiore nell’Unione Europea. Negli ultimi anni si è registrata, tuttavia, una leggera diminuzione: il tasso di incremento demografico è stato dello 0,2%, il tasso di fecondità di 1,4 figli per donna, mentre il tasso di migrazione – molto diminuito rispetto agli anni Novanta – è di 6,8 su mille abitanti. I due principali flussi migratori verso la Germania hanno avuto luogo prima negli anni Sessanta, quando il paese aveva bisogno di manodopera e molti lavoratori sono arrivati dall’Europa meridionale, e poi negli anni Novanta, poiché, con il crollo dell’Unione Sovietica, numerosi tedeschi sono rimpatriati dalla Polonia, dalla Romania e dall’Unione Sovietica stessa.
La popolazione straniera residente in Germania consiste principalmente di immigrati arrivati negli anni Cinquanta e Sessanta e dai loro discendenti: circa 3 milioni sono cittadini turchi, di cui circa 500.000 di origine curda. Il sistema educativo tedesco è caratterizzato dal principio del federalismo (formazione, scienza e cultura sono disciplinate e amministrate primariamente dai Länder) e dal principio del pluralismo ideologico e sociale.
La spesa per l’istruzione ammontava al 5,1% del pil, poco al di sopra della media Eu28 del 4,9%. Secondo i dati del 2009 del programma per la valutazione internazionale degli studenti avviato dall’Oecd, la Germania ha la migliore performance delle prime cinque economie europee, sebbene la Finlandia abbia la miglior performance dell’Eu. La Germania ha uno dei sistemi sanitari universali più antichi in Europa: prevede che tutti i cittadini debbano registrarsi in un fondo malattia. La spesa sanitaria è dell’8,6% del pil; nel novembre 2010, nell’ambito delle riforme del welfare volte ad affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione, il governo ha varato una riforma del sistema sanitario che dovrebbe ridurre il deficit di bilancio nel lungo periodo e far aumentare i costi dei trattamenti per i cittadini.
In Germania la maggioranza della popolazione è cristiana – protestante (34%) e cattolica (34%) –, mentre il 3,7% è musulmano. Le tutele normative alla libertà di religione di cui la Germania è dotata discordano con i recenti crimini legati alle discriminazioni etniche e religiose. Alcuni studi hanno rilevato, in particolare, una crescita dei sentimenti di ostilità verso la religione islamica: il disagio nutrito per la consistente minoranza turca sarebbe in questi anni mutato fino a comprendere tutti i musulmani, tanto che in Germania s’inizia a parlare di ‘islamofobia’. Otto Länder hanno adottato leggi che vietano alle insegnanti musulmane di indossare l’hijab durante il lavoro.
Le istituzioni politiche cercano comunque di inviare all’opinione pubblica forti segnali di sostegno all’integrazione. Ne è un esempio – insieme all’istituzione della Conferenza sull’islam – la presenza nel neoeletto Bundestag di due parlamentari neri e una parlamentare di religione musulmana appartenente al partito cristiano-democratico. Il governo ha adottato, invece, una posizione di forte contrasto rispetto alla Chiesa di Scientology, considerata un’organizzazione economica più che religiosa.
La Germania è all’avanguardia in Europa sulla tutela dei diritti delle donne. Il governo ha attuato generose politiche sulla maternità e ha adottato leggi sulla non discriminazione. Attualmente si discute, inoltre, una legge che imponga alle aziende di detenere nei propri board una componente femminile pari almeno al 30%. La Merkel è il primo cancelliere donna e il nuovo Bundestag detiene un numero record di donne, pari al 36% dell’intera camera. Allo stesso tempo, le donne sono tuttavia sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali della pubblica amministrazione, delle università e dei tribunali, oltre che essere soggette talvolta a discriminazione salariale.
La Costituzione tedesca tutela la libertà di espressione e i media sono liberi e indipendenti; una sentenza della Corte costituzionale del 2003 ha stabilito che il controllo delle telefonate dei giornalisti può essere considerato legittimo solo in casi ‘gravi’. A giugno 2012, l’83% della popolazione aveva accesso a Internet. Il web non è soggetto a limiti, a eccezione dei siti di pedofilia e propaganda nazista. Dal gennaio 2009 una legge anti-terrorismo garantisce alle autorità maggiori poteri nel condurre sorveglianza occulta, con la possibilità di svolgere ricerche remote e segrete su Internet.
Nei primi mesi del 2014, l’emergere di un sistema di spionaggio elettronico dell’Nsa americana nei confronti di numerose personalità della classe dirigente tedesca ha suscitato una forte indignazione nel paese provocando un generale raffreddamento delle relazioni con gli Stati Uniti, complice il ricordo degli anni di spionaggio sistematico praticato dalla Ddr ai danni dei propri cittadini.
La Germania è la quarta economia mondiale e la prima in Europa. L’industria manifatturiera e i servizi a essa collegati sono alla base dell’economia, pur non rappresentando la quota maggioritaria nella composizione del pil. Tra i principali prodotti vi sono macchinari industriali, autoveicoli, lavorazioni chimiche e acciaio, mentre la proporzione di beni ad alta tecnologia è meno rilevante rispetto ad altri paesi industrializzati (le esportazioni di tali beni ammontano al 15,8% del totale).
L’agricoltura conta solo per lo 0,8% del pil, ma il settore ha un ruolo importante per il tessuto sociale tedesco e rende la Germania autosufficiente per il 70% relativamente ai prodotti alimentari. Infine, i servizi rappresentano la quota maggioritaria del pil (69%) e il settore bancario è tra quelli più rilevanti, insieme al commercio al dettaglio e al turismo. Dal 2003 al 2008 la Germania è stata il primo esportatore mondiale, poi superata dalla Cina nel 2009; il ridimensionamento della domanda estera, il rafforzamento delle economie dei paesi dell’Europa orientale e la crescita di domanda in Asia hanno contribuito a tale risultato. Al contempo, i mercati orientali sono rapidamente diventati terra di conquista per l’export tedesco, che nel 2010 è cresciuto del 3,4% in Asia. A oggi la forza delle esportazioni tedesche è testimoniata dall’ingente surplus nella bilancia commerciale, circa 264 miliardi di dollari nel 2013, pari al 6,8% del pil. I principali prodotti esportati sono macchinari e attrezzature di trasporto, prodotti chimici, alimentari e tabacco e combustibili di origine minerale. La quota maggioritaria dei flussi è diretta verso i paesi dell’Eu (circa il 67%), in particolare verso Francia, Paesi Bassi, Regno Unito e Italia.
Il livello delle attività economiche complessive è comunque tuttora modesto e nel 2014 l’economia tedesca – che si dimostra comunque tra le più forti dell’eurozona – è cresciuta dell’1,4%.
L’elevato grado di apertura e integrazione con il sistema mondiale, associato alla dimensione dell’economia tedesca, fa sì che le influenze reciproche siano forti: se la crisi statunitense ed europea hanno avuto un impatto negativo sulla crescita tedesca, d’altro canto la crisi tedesca ha avuto un impatto negativo sull’economia dei paesi dell’Europa orientale, che esportano molto verso la Germania. Di qui l’importanza di prendere misure coordinate per contenere il rischio di rallentamenti globali. Per rispondere alla crisi, regolamentare il settore finanziario e assicurare una più equa distribuzione dei costi e dei rischi, nel novembre 2010 la Germania ha varato una legge per riorganizzare e ristrutturare le istituzioni creditizie. Inoltre, il piano finanziario triennale fino al 2014 prevede un notevole sforzo di riassorbimento dell’indebitamento pubblico (oltre 82 miliardi di euro in quattro anni), finalizzato al pieno rispetto dei criteri di Maastricht.
La Germania è uno dei maggiori mercati di energia in Europa e ha quindi un forte impatto sulla politica europea e globale in questo settore. Attualmente produce energia con carbone, gas, energie rinnovabili e nucleare. Importa però circa i due terzi dell’energia consumata, in particolare petrolio, che conta per il 32,7% del consumo totale, e gas, che grava per il 22,3% del consumo totale e arriva in larga misura da Russia (42% del totale) e Norvegia (35% del totale). Nel 2011 è entrato in funzione il gasdotto Nord Stream che, attraverso il Mar Baltico, collega la Russia alla Germania e al sistema di distribuzione europeo, con una capacità di trasporto iniziale pari a 27,5 miliardi di metri cubi di gas. La dipendenza della Russia è diventata il tema centrale del dibattito energetico in Germania: lo scoppio della crisi ucraina e la rottura dei rapporti con la Russia di Putin – con le conseguenti sanzioni economiche imposte dall’Eu – fanno infatti temere ritorsioni di Mosca proprio in questo settore, dove Berlino è più esposta.
L’altro grande tema di discussione nell’ambito della politica energetica riguarda l’uso del nucleare. Attualmente la Germania produce con il nucleare il 9% dell’energia consumata, una percentuale più o meno dimezzata rispetto a un decennio fa poiché, nei primi anni Duemila, i governi di coalizione formati da Spd e Verdi, di concerto con l’industria dell’energia, promossero un programma per la graduale eliminazione del nucleare entro il 2020. In seguito al disastro di Fukushima in Giappone e del maggior peso ottenuto sulla scena politica dai Verdi grazie al risultato delle elezioni amministrative del 2011, la cancelliera Merkel ha dato una spinta decisiva a tale programma, annunciando il totale abbandono del nucleare entro il 2022. La sfida del governo tedesco diventerebbe dunque incrementare sensibilmente la produzione di energia rinnovabile e l’efficienza energetica. L’abbandono del nucleare si sta però traducendo, almeno nel breve-medio periodo, nella necessità di aumentare l’uso del carbone (il più inquinante tra i combustibili fossili).
Da quando si è dato avvio al piano di progressiva chiusura dei reattori atomici del paese, il consumo di carbone è aumentato del 4,9% e la sua componente nel mix energetico totale si sta rapidamente avvicinando al 30%. Un valore altissimo per un paese europeo (il Regno Unito, per esempio, usa il carbone per produrre poco più dell’11% del suo fabbisogno energetico), che comporta rilevanti conseguenze in termini di impatto ambientale, soprattutto considerando che la Germania costituisce il maggiore consumatore di energia in Europa (Russia esclusa). La scelta di ridurre il nucleare ha anche implicazioni sul futuro della politica e della dipendenza energetica tedesca, dal momento che potrebbe far aumentare la dipendenza della Germania dalle importazioni provenienti dalla Russia, ma anche dalla Francia, per quanto riguarda il nucleare. Detto ciò, l’ambizioso proposito che la Germania si propone di raggiungere nel lungo periodo risponde a una precisa scelta di politica ambientale e consiste nel fare delle rinnovabili un caposaldo della produzione energetica entro il 2050. Queste ultime hanno contato per il 10% della produzione di energia nel 2011 rispetto al 3,4% del 2000. Negli ultimi anni sono stati offerti sostanziosi finanziamenti al settore – sviluppando in particolare biomassa ed eolico – al fine di raggiungere l’obiettivo del 35% entro il 2020.
L’anno della riunificazione e quelli immediatamente successivi sono stati determinanti anche per quanto riguarda il comparto difensivo della Germania: se da una parte l’annessione della Ddr ha portato alla dissoluzione del suo esercito popolare e all’incorporazione di circa 50.000 dei suoi membri nel Bundeswehr, l’esercito della Repubblica federale tedesca, dall’altra la fine della Guerra fredda ha determinato un notevole ridimensionamento del numero totale di truppe tedesche: i circa 550.000 soldati dell’ottobre 1990 sono stati negli anni più che dimezzati, fino ad arrivare ai meno di 200.000 attuali. Parallelamente alla riduzione del personale militare anche il budget destinato alla difesa ha subito progressivamente dei tagli rilevanti: una scelta, quella del ridimensionamento anche economico del settore militare tedesco, che non ha mancato di generare malumori tra i maggiori alleati della Germania, specie all’interno della Nato, i cui governi membri apparivano preoccupati del rischio di un disimpegno di Berlino nel campo della sicurezza multilaterale. Rimangono, per altro, ancora di stanza in Germania guarnigioni di soldati statunitensi (nel 2010 erano 53.642; gli Stati Uniti possiedono in Germania, a Ramstein, la loro base aerea estera più grande), britannici (22.000), francesi (2800) e olandesi (300).
Nel 2002 la Germania, contribuendo alla missione Isaf della Nato in Afghanistan, ha partecipato alla sua prima operazione di peacekeeping al di fuori del teatro europeo (il terzo contingente più numeroso, dopo Usa e Regno Unito, tra quelli impegnati nella missione Isaf). Dal 2003 la Germania è a capo del comando regionale Isaf nel nord dell’Afghanistan e, nonostante il numero di soldati si sia notevolmente ridotto nell’ultimo anno, Berlino ha annunciato di voler estendere la propria presenza sull’area oltre il termine del 2014. Il tema della partecipazione dei soldati tedeschi a operazioni militari internazionali rimane particolarmente controverso nel dibattito pubblico tedesco, tanto dal punto di vista dell’opportunità politica quanto da quello della legittimità costituzionale. Basti pensare alla decisa opposizione alla guerra in Iraq espressa nel 2003 dall’elettorato tedesco e sostenuta nelle sedi multilaterali dall’allora cancelliere Schröder. Oltre che in Afghanistan, soldati tedeschi sono attualmente impegnati nella Kfor in Kosovo. Poco più che simbolica è invece la partecipazione in teatri di rilevante importanza strategica per altre potenze europee quali il Libano, la Libia e il Mali. La Germania si è mantenuta rigorosamente non interventista anche nel ‘caso Siria’.
A Bonn ha sede l’Occar, l’Organizzazione congiunta per la cooperazione militare in materia di armamenti, fondata nel 1996 da Germania, Francia, Inghilterra e Italia come centro d’eccellenza europeo per la produzione e lo sviluppo delle più moderne e tecnologiche attrezzature militari.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, l’assetto politico e territoriale da dare alla Germania costituiva il principale tema di confronto tra Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica, ma tutti i tentativi di definire un accordo per la redazione di un trattato di pace tedesco fallirono. La contrapposizione tra le due superpotenze favorì la divisione della Germania, consacrata con la nascita, nel 1949, della Repubblica federale tedesca (Brd) e della Repubblica democratica tedesca (Ddr). A differenza della Germania orientale, imbrigliata nelle logiche e nella rigidità del blocco sovietico, la Germania occidentale acquisì, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo centrale in Europa e nel mondo occidentale. Il forte dinamismo economico e la solidità politica legata alla leadership di Konrad Adenauer fece assurgere la Brd a potenza di riferimento dell’Europa occidentale. Animata da un sincero europeismo, la classe dirigente tedesco-occidentale seppe anche sfruttare la politica comunitaria per superare le riserve che i principali governi europei nutrivano verso la rinascita politica e militare della Germania. In questa prospettiva va letto il ruolo propositivo svolto dalla Brd nella promozione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951), come anche dello sfortunato progetto di Comunità europea di difesa (1952-54).
Quest’ultimo rappresentava un tentativo di conciliare il riarmo della Germania occidentale, necessario per fronteggiare un eventuale confronto militare con il blocco sovietico, con la salvaguardia dei paesi che durante la guerra erano stati vittima dell’aggressione nazista. Il fallimento del tentativo favorì uno spostamento della questione sul piano atlantico: in base agli accordi siglati a Parigi nell’ottobre 1954 la Brd entrava nell’Alleanza atlantica e aderiva, al contempo, all’Unione dell’Europa occidentale. In questo modo prendeva avvio il riarmo della Germania occidentale, che trovava comunque un limite nell’impossibilità di dotarsi di un armamento atomico.
Negli anni del governo cristiano-democratico la Brd mantenne un atteggiamento di chiusura nei confronti della Germania orientale: alla mancata accettazione dei confini orientali della Ddr, il governo federale abbinava il suo mancato riconoscimento giuridico. In base alla cosiddetta ‘dottrina Hallstein’ (1955), qualunque governo straniero (con l’eccezione di quello sovietico) che avesse riconosciuto la Ddr avrebbe automaticamente rotto le relazioni con la Brd. Questa politica entrò in crisi nel corso degli anni Sessanta, a seguito della costruzione del Muro di Berlino (1961) e poi con l’avvio del processo di distensione. L’avvento al potere dei socialdemocratici nel 1969 marcò un’inversione di tendenza, con il tentativo, promosso durante il cancellierato di Willy Brandt, di normalizzare le relazioni tra la Germania occidentale e quella orientale. La politica orientale (‘Ostpolitik’), che giunse a compimento nel 1973, portò al riconoscimento reciproco tra Ddr e Brd, nonché a una serie di accordi tra quest’ultima e i principali paesi del blocco orientale.
In questi anni la Germania riprese la guida del processo di integrazione europea, concentrando lo sforzo comune verso le tematiche economiche e monetarie. Di fronte agli squilibri dell’economia globale sviluppatisi a partire dai primi anni Settanta, la Germania promosse la creazione del Sistema monetario europeo (1979) che portò, nei decenni successivi, alla promozione dell’unione economica e monetaria avviata con il Trattato di Maastricht (1992) e perfezionata fino all’entrata in vigore dell’euro.
Le vicende del 1989 e il crollo del Muro di Berlino si sovrapposero all’azione in ambito comunitario. La politica inter-tedesca per la riunificazione e quella per l’integrazione europea, pur procedendo formalmente su binari separati, di fatto si fusero. Durante il cancellierato di Helmut Kohl la politica europea risultò funzionale anche per affrontare in modo efficace il vuoto generato a Oriente dal dissolvimento dell’impero sovietico.
Tre processi fondamentali hanno riacceso il dibattito in Germania sul carattere della proiezione internazionale del paese, proprio nel corso del 2014. L’esplodere della crisi ucraina, che ha portato Berlino ad assumere una posizione progressivamente sempre più intransigente nei confronti della Russia e a spingere per l’adozione di decise sanzioni economiche contro Mosca, si è inserita in un contesto, già ben definito, di crescente importanza politica ed economica della Germania in sede Eu. A completare il quadro, nei primi mesi del 2014, proprio mentre gli ucraini rovesciavano il regime di Yanukovich, emergevano i dettagli di un’imponente sistema di spionaggio elettronico della Nsa americana ai danni dell’establishment tedesco, scatenando una crisi diplomatica con l’amministrazione Obama, che non sembra destinata a ricucirsi in breve tempo (addirittura il cellulare personale di Angela Merkel, il primo ministro nato e cresciuto nella Ddr, era sotto controllo dei servizi americani).
Questo complessivo deterioramento del quadro internazionale che circonda la Germania ha portato la classe dirigente tedesca a interrogarsi se il paese non dovesse assumere un atteggiamento più proattivo nella definizione della propria politica estera, diminuendo al contempo la dipendenza sugli alleati occidentali dal punto di vista della sicurezza nazionale. Berlino, a differenza di altre potenze, aveva finora fatto del concetto di ‘anti-egemone’ un pilastro fondante della sua proiezione esterna, che si concentrava piuttosto sull’uso del commercio e del soft power, unito ad altri tre pilastri: Unione Europea; atlantismo e multilateralismo; cooperazione internazionale e missioni di pace. Da diversi anni, su tutti e tre i fronti la Germania riesce a ricoprire un ruolo di primaria importanza, che ora Berlino vorrebbe fosse ufficialmente riconosciuto anche attraverso la partecipazione permanente al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. Tale pretesa si è concretizzata nel cosiddetto ‘Gruppo dei quattro’ (G4), composto da Germania, Brasile, Giappone e India, che spinge per un allargamento del Consiglio con l’aggiunta di dieci membri: quattro non permanenti, con mandato non rinnovabile, e sei permanenti (oltre ai quattro seggi destinati ai membri del G4, sono previsti altri due seggi per due stati dell’Africa).
In ambito europeo la Germania ha assunto progressivamente la guida del fronte dell’intransigenza nei confronti della questione Ucraina, imponendo sanzioni economiche incrementali contro la Russia, e delineando la linea politico-economica dell’Unione sul modello tedesco. A ciò si aggiunge l’azione di supporto logistico ai Curdi iracheni, nell’ottica delle operazioni multilaterali contro lo Stato islamico.
Berlino ha poi partecipato attivamente al P5+1, lo spazio diplomatico in cui in questi anni si sono uniti gli sforzi per discutere con l’Iran del programma nucleare. Il gruppo, composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania, è stato fondato nel 2006 su iniziativa dei tre componenti europei, e ha raggiunto un accordo nel novembre 2013. La presenza della Germania al tavolo di questa lunga trattativa è stata strategica, giacché rappresenta il partner commerciale chiave dell’Iran, nonché il suo principale interlocutore tra i paesi europei.
La rilevanza della voce tedesca nei tavoli di concertazione europei è determinata soprattutto dalla posizione di vantaggio geostrategico che Berlino si è abilmente ritagliata nelle relazioni economiche internazionali. Agendo sui fronti continentale e mondiale, la Germania ha sfruttato al massimo la sua forza commerciale, accentuando così il divario tra la sua situazione economica e quella dei paesi (generalmente dell’Europa del Sud) in disavanzo. Nell’ultimo decennio, il suo avanzo commerciale è cresciuto (nonostante il calo della domanda negli anni di crisi) e si è rafforzata la sua posizione come esportatore. La Germania è il terzo esportatore e importatore mondiale, con una quota sulle esportazioni mondiali pari al 7,7% nel 2012, contro l’11,2% della Cina e l’8,4% degli Usa. La forza di tali numeri (è uno dei pochissimi paesi ad avere invertito lo squilibrio delle partite correnti con la Cina) ha consentito a Berlino di resistere alle pressioni di Washington e Pechino, che vedevano nelle politiche di austerity un freno decisivo alla ripresa economica. In Europa, per la Germania non c’è partita. Da prima della crisi finanziaria a oggi, la quota tedesca sull’export complessivo è rimasta sostanzialmente invariata al 24% (quasi un quarto del totale delle esportazioni Eu28) e la bilancia commerciale risulta in avanzo rispetto a ben 18 paesi. Nel vecchio continente Berlino ha raggiunto quindi tutti i suoi obiettivi economici, sostenuti dalla moneta unica e da una politica bancaria che si sposano perfettamente con le esigenze di un paese dalle massicce esportazioni industriali.
La Germania del Ventunesimo secolo ha dato dunque forma a un nuovo mercantilismo che le assicura un’indiscussa supremazia sul continente. L’unico elemento che potrebbe destabilizzare la preminenza tedesca è il clima di ostilità che si sta diffondendo in Europa, manifestato sia da vari governi, che temono le ripercussioni di una tale subalternità, sia da buona parte delle opinioni pubbliche, sempre più convinte che la Germania sfavorisca l’interesse comune per privilegiare il proprio.
Fin dai tempi della Guerra fredda la Germania ha stretto legami sempre più importanti con la Russia, di cui è diventata, negli anni successivi alla caduta del Muro, uno dei principali partner dal punto di vista commerciale ed energetico. Il volume complessivo degli scambi tra i due paesi nel 2013 era pari a 76,5 miliardi di dollari, con la Germania primo esportatore europeo in Russia e al contempo largamente dipendente da Mosca per le forniture di gas e greggio (rispettivamente 42% e 37% del fabbisogno totale). L’importanza economica della Russia e gli estesi e diversificati interessi della rete industriale tedesca nel paese hanno quindi spinto i governi di Bonn e Berlino a tessere e coltivare nel tempo ottime relazioni politiche con Mosca. Emblematico è il caso dell’ex cancelliere Gerhard Schröder, assunto dal colosso energetico Gazprom pochi mesi dopo il suo ritiro dalla vita politica, che non ha fatto mai mistero dell’amicizia con Vladimir Putin (coltivata proprio negli anni del suo cancellierato). Allo scoppio della crisi politica in Ucraina nei primi mesi del 2014, e nella conseguente escalation che ha portato Mosca a invadere e annettere la Crimea nel mese di marzo, Berlino ha cercato di mantenere la linea politica di appeasement che aveva contraddistinto le relazioni bilaterali con la Russia fino ad allora. Il protrarsi della crisi, e l’emergere della guerriglia separatista sempre più apertamente sostenuta da Mosca nell’est dell’Ucraina, unita a proclami bellicosi da parte di Putin, hanno determinato uno storico riassestamento nella posizione di Berlino. Angela Merkel, dopo aver più volte cercato la via del dialogo, si è sempre più apertamente schierata a favore delle sanzioni economiche, arrivando a promuovere lei stessa il terzo e il quarto (e ultimo) round delle stesse, approvate dall’Eu rispettivamente a luglio e a inizio settembre (i primi due round erano stati approvati a marzo e aprile, seguendo l’escalation della crisi). Non solo: il cambiamento delle posizioni filo-russe sembra essersi esteso a più settori dell’establishment industriale, anch’esso progressivamente a favore della posizione governativa, nonostante il potenziale danno economico. Il cancelliere tedesco ha assunto in questa fase il ruolo di vero e proprio alfiere dell’Unione europea, riunendo i suoi 28 membri (con visioni e posizioni in certi casi decisamente divergenti nei confronti della Russia) verso un approccio congiunto, fermamente contrario agli interessi di Mosca e di concerto con gli Stati Uniti. Il precipitare della crisi e il mutamento della posizione tedesca – per quanto molto significativi – non sembrano tuttavia aver minato alla base l’interesse tedesco nel mantenere aperto un canale di dialogo con Vladimir Putin. Più di ogni altro membro dell’Eu, anche mentre votava i successivi round di sanzioni, Berlino ha infatti incessantemente cercato la soluzione diplomatica della crisi, mantenendo la Russia nel campo degli interlocutori, piuttosto che in quello dei ‘nemici’.
La posizione tedesca per uscire dalla crisi è sempre stata piuttosto chiara: rimettere i conti pubblici in ordine e approfittare della situazione per fare quelle riforme da troppo tempo rimandate da diversi paesi dell’Eurozona, soprattutto quelli del sud.
In linea di principio è difficile non essere d’accordo con Berlino, stante, ad esempio, l’esorbitante debito pubblico italiano che ha toccato il 135% circa del pil e la necessità di avviare delle riforme, come quella del lavoro, che la Germania ha già realizzato dieci anni fa. Corollario di questa ricetta è un cauto utilizzo delle misure monetarie straordinarie da parte della Banca centrale europea, i cui effetti sull’economia reale potrebbero risultare di breve durata e comunque incapaci di riportare i paesi dell’eurozona verso un sentiero di crescita stabile e sostenibile nel tempo.
Coerentemente con questa impostazione, l’Unione Europea è di certo chiamata a fare la propria parte, ma solamente nella misura in cui essa agevoli la riduzione del deficit degli stati, grazie ad un più stretto coordinamento delle politiche di bilancio (da qui il ‘Fiscal Compact’ e i pacchetti legislativi denominati ‘six pack’ e ‘two pack’) ed attraverso uno sprone all’avvio delle riforme e alla riduzione della divergenza economica nell’area euro (tramite strumenti come il semestre europeo – soprattutto nell’ambito del Programma nazionale di riforma - e la procedura per gli squilibri macroeconomici). All’Eu viene inoltre chiesto di garantire la stabilità bancaria e finanziaria attraverso l’unione bancaria, ovvero avviando una vigilanza comune affidata alla Ecb(ma che, per volere tedesco, non coinvolge direttamente le piccole e indebitate Landesbank) oltre che un meccanismo comune di risoluzione delle crisi bancarie e, seppure in forma piuttosto embrionale, una garanzia comune dei depositi. La vigilanza comune dovrebbe peraltro rendere più difficile lo scoppio di bolle immobiliari come quelle che si sono formate in Spagna e Irlanda.
Tra le poche concessioni a questa ricetta fondata sul rigore c’è la creazione di nuovi strumenti come il Meccanismo europeo di stabilità che, per quanto modesto in termini di ‘potenza di fuoco’, potrebbe aiutare temporaneamente eventuali paesi in difficoltà, a patto che questi accettino forti vincoli europei all’azione del loro governo.
Ma dopo anni di austerità, i frutti iniziano davvero a maturare? Alcuni segnali positivi sembrano in effetti provenire da Irlanda, Spagna e Portogallo, ma il ritorno ad una crescita sostenibile non sembra ancora a portata di mano. Anzi, il perdurare di una bassa crescita, che per paesi come l’Italia si è tradotta in aperta recessione, sembra deprimere ulteriormente le aspettative degli operatori economici, includendo sia le imprese che i consumatori, e spingere verso una spirale deflattiva e di stagnazione. La stessa Germania, la cui crescita dipende fortemente dalle esportazioni dentro e fuori l’Eu, ne risulta colpita e deve rivedere al ribasso le proprie prospettive di crescita.
Ma, probabilmente, l’aspetto su cui questa situazione di prolungata difficoltà economica e di altissima disoccupazione (soprattutto giovanile) impatta maggiormente è la sua sostenibilità politica. In altri termini, anni di crisi rischiano di spingere sempre più i cittadini a ritenere inaccettabile la ricetta dell’austerity e a guardare con sospetto all’Unione Europea. Da qui alla crescita di sentimenti populisti e apertamente euroscettici (fino al punto di sostenere l’uscita dall’euro) il passo è breve. Il rischio è quello di svuotare di voti proprio quei partiti che intendono seguire la ricetta tedesca tenendo i conti pubblici sotto controllo e mettendo in cantiere le riforme richieste. Un pericoloso boomerang, quindi, che va evitato non tanto negando del tutto l’austerity - soprattutto quando questa si traduce nel taglio di sprechi decennali - ma aggiungendovi un elemento di speranza, ovvero il ritorno alla crescita e il calo della disoccupazione.
Da questo punto di vista, gli investimenti giocano un ruolo cruciale, al punto che il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ne ha fatto un suo cavallo di battaglia fin da quando era candidato a questa carica. In effetti, diversi studi hanno rivelato che in Europa mancano all’appello ben 500 miliardi di investimenti all’anno, che invece ci sarebbero stati se fosse stato mantenuto il trend di crescita pre-crisi. Si potrebbe anche obiettare che è giusto non raggiungere questi livelli in quanto gli investimenti pre-crisi includevano anche quelli nel settore immobiliare, che tanto hanno contribuito allo scoppio della crisi stessa. Ma pur scorporando questa parte, gli investimenti in Europa languono, e da troppo tempo. Non è un caso che l’Imf - che non aveva mancato di sottolineare l’opportunità delle misure di austerity – abbia recentemente evidenziato che, per un paese in crisi, un aumento degli investimenti dell’1% del pil si tradurrebbe in una crescita tra l’1,5% e il 3% entro successivi quattro anni. E tutto questo non peggiorando i conti pubblici, ma anzi migliorando il rapporto debito/pil del paese.
In realtà è diffuso in Germania e in altri paesi del nord Europa il timore che con l’uscita dalla crisi venga meno la pressione sui governi per attuare le riforme. Si tratta, in pratica, di un problema di fiducia che è tuttavia possibile attenuare. La stessa Commissione europea ha, ad esempio, avanzato l’ipotesi di realizzare dei ‘contratti’ tra le istituzioni europee e i singoli stati membri tramite i quali ‘scambiare’ nuovi investimenti con un impegno irrevocabile dei governi beneficiari a proseguire sul sentiero delle riforme
Non bisognerebbe quindi rifiutare tout court la ricetta tedesca, ma adoperarsi per aggiungervi altri ingredienti che le impediscano di risultare troppo insipida.