Ideologia
di Georges Burdeau
Ideologia
sommario: 1. Introduzione. 2. L'ideologia come fatto sociale. 3. Funzione delle ideologie. 4. Politica e ideologia. 5. Imprevedibilità della fine delle ideologie. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Quando, alla fine del sec. XVIII, Destutt de Tracy creò il termine ideologia, in Mémoire sur la faculté de penser (Mémoires de la deuxième classe de l'Institut, vol. I, 1976), e poi nel Projet d'éléments d'idéologie (1801), intendeva designare una nuova scienza, il cui oggetto sarebbe stato lo studio delle idee, della loro formazione e dei loro caratteri. Partendo da un confessato materialismo, risolutamente ostile a ogni metafisica e specialmente al kantismo, tale scienza doveva essere ‛positiva' nella stessa misura della zoologia, di cui avrebbe del resto costituito una parte. La convinzione che una scienza dell'uomo fosse possibile, e che da essa dovesse rimanere esclusa ogni ricerca delle cause ultime, univa un gruppo di spiriti innovatori - P.J.G. Cabanis, J.D. Garat, C.F. Volney, P.C.F. Daunou - attaccatissimi all'opera politica della Rivoluzione e decisi ad assicurarne la continuazione attraverso un'analisi scientifica delle basi spirituali della società di cui essa segnava l'avvento.
In questa prospettiva, e indipendentemente da ogni valutazione circa il fondamento dell'impresa, l'ideologia rivestiva un significato neutro. Era un modo di conoscere, un'estensione della scienza naturale alle idee e, al pari di questa, perfettamente indifferente alla portata morale delle proprie scoperte. L'impegno politico degli ideologi fu certo, originariamente, una delle cause del discredito che, a partire dalla Restaurazione, colpì la loro pretesa. Bisogna però riconoscere che l'oggetto stesso dell'ideologia rendeva sospetta l'obiettività cui essa si richiamava. Poiché le idee sono esse stesse una maniera di cogliere il reale, è inevitabile che l'esame scientifico cui si sottomette la loro genesi e il loro contenuto investa i rapporti che hanno con la realtà. Il termine ideologia designerà, allora, non più una scienza delle idee, ma le idee stesse in quanto sistematizzano una conoscenza. Ed essendo il valore della conoscenza valutato in funzione della verità, le ideologie non possono più esser neutre: ce ne saranno alcune che traducono la verità con esattezza e altre che la deformano. Ma chi dirà dove sta la verità e dove l'errore? Da questa incertezza, che definisce la condizione dell'uomo nell'universo temporale in cui è impegnato, deriva l'ambiguità del termine ideologia, al quale verrà attribuito talora un senso peggiorativo, e talora un significato laudativo, nella misura in cui si riscontrerà nell'ideologia un'adeguazione esatta alla realtà esistente o un'interpretazione corretta di ciò che è auspicabile.
Per definire l'ideologia non sarebbe tuttavia sufficiente situarla in rapporto alla scienza giacché, come ha ben dimostrato G. Bachelard (La formation de l'esprit scientifique, Paris 1932, p. 13), conoscere significa distruggere conoscenze mal fondate, ritornare su un passato di errori ideologici; nulla assicura, di conseguenza, che la scienza di oggi non sia nutrita di ideologie che saranno smascherate dalla scienza di domani. Il procedimento più fecondo, per identificare l'ideologia in quanto modo di conoscenza, non consiste quindi nel definirla mediante ciò su cui verte, ma in funzione dell'obiettivo che assegna alla conoscenza. Ogni ideologia include una visione normativa; essa risponde all'interrogativo nel quale confluiscono tanto la curiosità dello spirito quanto l'angoscia dell'essere: sapere per credere.
A questa domanda, che verosimilmente gli uomini non cesseranno mai di porsi, rispondono le ideologie: esse sono perciò affini alla filosofia. Senza affrontare l'ardua analisi della loro interpenetrazione, esiste però una caratteristica in virtù della quale l'originalità dell'ideologia s'afferma: d'essere cioè un fenomeno sociale. Essa è sociale tanto nella sua origine (v. cap. 2) quanto nella sua funzione (v. cap. 3). Tale carattere spiega il posto che le ideologie occupano sul piano politico (v. cap. 4) e induce a respingere le ipotesi oggi formulate circa la loro scomparsa (v. cap. 5).
2. L'ideologia come fatto sociale
Si può discutere la questione se le idee siano creazioni individuali, se l'uomo le rechi in sé o se gli siano suggerite da un determinismo sociale. A proposito delle ideologie, la disputa è esclusa, giacché l'esperienza (confermata dal giudizio unanime degli autori) insegna che esse sono fatti sociali o, più precisamente, fatti di cultura. Attraverso di esse i gruppi sociali esprimono la conoscenza che hanno di se medesimi, e sull'interpretazione di tale conoscenza fondano a un tempo il sistema di valori cui aderiscono, l'immagine del loro avvenire e la formulazione dei principi che conviene seguire per raggiungerlo.
Una nozione così ampia abbraccia evidentemente fenomeni che, considerati isolatamente, presentano ognuno particolarità proprie. Le ideologie non si propongono tutte lo stesso obiettivo; non ricoprono ambiti identici: le une sono parziali, le altre totali; si distinguono anche e soprattutto per l'estensione dello spazio che assegnano rispettivamente alle conoscenze verificabili e alle credenze indimostrabili. Da questo punto di vista si constata quanto sia delicato qualificare come ‛ideologia' questa o quella dottrina o tendenza, almeno quando non si sia più guidati da intenti polemici. Ci sono ideologie non rivelate da alcun ‛ismo'; e ci sono dottrine in ismo che hanno uno scarso contenuto ideologico. Cionondimeno, in quanto fatti sociali, si segnalano tutte per una serie di tratti analoghi: sono obiettive, dotate di un potenziale emotivo, sistematiche e ordinate in vista dell'azione.
L'ideologia è obiettiva nel senso che ha un'esistenza autonoma. È indubbio che risponda a rappresentazioni individuali poiché, in caso contrario, non potrebbe acquisire alcuna risonanza sociale; ma tali rappresentazioni sono modellate, plasmate, sistematizzate in modo tale che ne risulta una dottrina perfettamente indipendente dalle coscienze individuali. L'ideologia è il tipo perfetto della rappresentazione collettiva secondo Durkheim, cioè di una realtà spirituale autonoma, vivente di una vita propria. In questo sta la sua forza unificatrice: ‟essa non è più conoscibile attraverso la semplice introspezione" (E. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique, Paris 1895). L'ideologia si presenta meno come un prodotto della riflessione o della coscienza che come un dato che a queste si propone perché vi aderiscano o lo respingano; si presenta dunque, al limite, come ‟un sistema di idee che non sono più pensate da alcuno" (v. Weidle, 1960).
Se l'ideologia, quindi, s'impone dall'esterno più di quanto non proceda dall'esperienza intima di coloro che vi aderiscono, ciò avviene perché è dotata di un potere di persuasione che le deriva più dall'emozione che provoca che dal ragionamento che suscita: ‟Essa mira meno a dimostrare che a convincere" (v. Aron, 1960). E, per convincere, bisogna ch'essa agganci l'individuo nella sua condizione presente; il che spiega, come vedremo, le alterazioni che fa subire alla storia.
Ed è sempre perché fa appello alla convinzione che l'ideologia è a un tempo sistematica e dogmatica. Sistematica in quanto, affinché nella visione che propone non vi siano né lacune né contraddizioni, mescola proposizioni veridiche con altre dubbie o persino errate. Essa punta più sulla logica dell'insieme che sull'esattezza degli elementi che la compongono. Di qui il dogmatismo col quale proibisce le riserve o le correzioni; di qui anche la coerenza che è condizione della sua potenza unificatrice.
Si potrà allora ben denunciare, da Marx in poi, il carattere mistificatore dell'ideologia; ma, senza la mistificazione, l'azione sarebbe più esitante. Fatto sociale, l'ideologia mira a generare una forza collettiva. Essendo fatta per l'azione, ciò che le interessa non è la natura, ma la potenza dell'energia che anima il suo dinamismo.
Se il motore è menzognero, il fine cui si mira purifica il mezzo adoperato. L'ideologia raduna immagini, credenze, rappresentazioni motrici: tutti fattori i quali, attraverso i comportamenti che suscitano, appoggiano l'ordine sociale costituito ovvero provocano l'avvento d'una società nuova. Si potrebbe dire dunque che, in quanto manifestazione dello psichismo collettivo, l'ideologia non è giudicabile con i criteri di una verità stabilita in funzione degli imperativi dell'intelligenza e della coscienza individuali. Ogni ideologia reca in sé la propria verità, nella misura in cui costituisce, per il gruppo in cui s'incarna, un'esigenza vitale. Senza dubbio i membri del gruppo l'interiorizzano individualmente, e in ciascuno di essi singolarmente risiede la credenza. Ma, a parte il fatto che tale credenza risulta in genere dall'appartenenza al gruppo, cioè dal condizionamento da questo esercitato, il suo contenuto è un'opera collettiva: una opera indispensabile, giacché in essa il gruppo trova l'indicazione della propria identità.
Se è esatta, quest'analisi ci fornisce la possibilità di trarre, dalle numerose definizioni che sono state proposte dell'ideologia, quegli elementi comuni che, riferendosi all'essenza, permettono di costruire ciò che Max Weber chiamava il tipo ideale.
Da tali caratteri comuni ricaveremo anzitutto il fatto che l'ideologia, più che esprimere una constatazione, formula un'interpretazione della realtà; in secondo luogo, che tale interpretazione trova il suo punto di partenza nella storia; in terzo luogo, che mira a una perfetta coerenza razionale; e infine, che approda ad una visione del futuro che tende a presentare come ineluttabile.
L'ideologia è anzitutto un'interpretazione del reale visto attraverso una storia. ‟Con ideologie intendiamo - dice K. Mannheim (v., 1943) - le ‛interpretazioni' della situazione che, non essendo un prodotto dell'esperienza concreta, ma una sorta di conoscenza snaturata di essa, servono a mascherare la situazione reale e agiscono sull'individuo come una coercizione". Lo stesso riferimento alla nozione di una realtà interpretata troviano in K. Jaspers (v., 1949; tr. it., p. 172): ‟Ideologia si chiama un complesso di idee o nozioni che si presenta al soggetto pensante come una verità assoluta per l'interpretazione del mondo e della sua situazione in esso [...]". Sempre la stessa idea in R. Aron (Trois essais sur l'âge industriel, Paris 1966): ‟L'ideologia è un sistema globale di ‛interpretazione' del mondo storico-politico", e in L. Althusser (v., 19662; tr. it., p. 207): ‟...l'ideologia come sistema di rappresentazioni si distingue dalla scienza per il fatto che in essa la funzione pratico-sociale prevale sulla funzione teorica (o funzione di conoscenza)". Una tale convergenza di definizioni (e parecchie altre se ne potrebbero citare, tutte nello stesso senso) sulla portata interpretativa dell'ideologia pone immediatamente il problema del suo valore, cioè, in definitiva, del suo rapporto con la verità.
Osserviamo che il problema non può essere eliminato d'un colpo, assimilando globalmente l'ideologia all'errore. Da un lato si verifica, infatti, che verità scientifiche accertate si integrino in un'ideologia dubbia; e dall'altro, la constatazione dell'origine sociale, e quindi ideologica, di una teoria scientifica (come ad esempio, secondo Durkheim, quella del concetto di energia) non ne inficia necessariamente l'esattezza. La maggior parte delle analisi del fenomeno ideologico, tuttavia, sottolinea la falsità delle interpretazioni da cui esso deriva. Un tale giudizio sarebbe evidentemente del tutto inadeguato se venisse soltanto dagli avversari dell'ideologia che volta a volta si considera. Ma non è questo il caso, poiché i sociologi più obiettivi ritengono che l'errore - cosciente o no - sia inerente all'interpretazione ideologica. L'ideologia è l'idea folle, è il prodotto di una falsa coscienza (Marx, all'epoca dell'Ideologia tedesca); è una distorsione del pensiero in funzione di una prospettiva particolare (K. Mannheim); toglierle il velo significa smascherare la menzogna (K. Jaspers); è una liberazione nell'immaginario (G. Althabe); essendo l'irruzione del desiderio nelle rappresentazioni, è una sorta di sogno a occhi aperti (J. W. Lapierre).
Ma allora, se ogni ideologia appare per un verso o per l'altro menzognera, siamo indotti a chiederci per quale ragione l'errore le sia essenziale a tal punto che, senza di esso, non potrebbe sorgere. A questa domanda sembra si possa rispondere chiamando in causa l'oggetto della rappresentazione, che è la storia, e la sua struttura, che si pretende coerente. Storicismo e razionalità artificiale, infatti, sono caratteri sufficientemente generali e permanenti perché li si possa ritenere elementi del tipo ideale che cerchiamo di costruire.
Tutte le immagini e le credenze, tutti i simboli e i sogni che entrano nell'ideologia derivano quindi dalla memoria collettiva. Questo è vero anche per quelle ideologie attraverso le quali si esprime un movimento innovatore. Si tratta sempre o di una rottura con il passato, e allora l'ideologia si edifica sulla storia che rifiuta; o di una resistenza all'acculturazione, e in questo caso è partendo da una storia immaginaria che l'ideologia fonda l'originalità che mira a salvaguardare. Dunque, essendo un fatto sociale, essa trae dal gruppo i materiali occorrenti alla propria elaborazione; e questi materiali sono estratti dai ricordi che il gruppo serba di se medesimo, derivano dalla storia ch'esso considera sua. In questo senso, l'ideologia sfrutta un retaggio culturale. È però ben noto come tale retaggio non conservi tutti i fatti che hanno segnato il passato della collettività, ma ne trascuri alcuni privilegiandone altri. Nell'ideologia dell'American way of life sono magnificate le gesta dei padri fondatori, mentre un velo pudico è gettato sulla crudeltà del trattamento cui furono sottoposte le ‛streghe di Salem'. Allo stesso modo, l'ideologia marxista rileva, della storia dei popoli, i momenti nei quali questa fu orientata dalla lotta delle classi oppresse, mentre passa sotto silenzio i periodi nei quali la prosperità collettiva fu la ricompensa dell'intesa su valori comuni. Ancora, quando Clemenceau dichiarava che la rivoluzione è un blocco, si riferiva alla sua portata ideologica, che escludeva una discriminazione tra i fatti che hanno segnato l'epoca rivoluzionaria: l'ideologia repubblicana nasconde la nefandezza degli uni con la grandezza degli altri.
Senza dubbio, si potrebbe essere tentati di giustificare le ideologie osservando che la storia non procede in modo diverso. Se il volto della storia muta continuamente, sappiamo bene che ciò è dovuto al rinnovarsi della curiosità dello storico più che all'arricchimento delle conoscenze. Lo storico pone al passato le domande che gli suggerisce il presente, e il carattere di tali domande non soltanto modifica la luce sotto la quale vediamo i fatti antichi, ma conferisce loro un significato. Questo è ben vero; tuttavia, se lo storico privilegia certi avvenimenti o certe situazioni, ciò accade perché vuol rendere la storia più esatta. Non si tratta per lui di puntellare una tesi ideologica (caso che rimane tuttavia frequente): lo storico pone i fatti in una prospettiva che non ha altro fine se non quello di stabilire la loro importanza storica. L'ideologia non ha invece di questi scrupoli. Essa è affabulatrice per natura, poiché l'ambiente sociale da cui deriva modella la memoria collettiva in funzione di ciò che è o crede di essere o vuol essere. Ma nessuna reminiscenza, nessun ricordo è gratuito; appunto per questo l'ideologia rimedia alle loro eventuali carenze con la leggenda. Lo storicismo ideologico si presenta così come un tessuto di cecità, di controverità e di fatti immaginari. Inoltre, l'ideologia pratica ciò che Aron ha chiamato l'‟identificazione a catena", cioè una tecnica di interpretazione dei fatti mediante una logica che, essendo loro esterna, permette di cancellarne le differenze e di presentarli come l'effetto di una causa unica.
L'ideologia marxista imputerà alla dominazione di una classe tutta una serie di fatti storici, separati temporalmente e spazialmente. Nell'ideologia razzista, un amalgama dello stesso genere si gioverà del ruolo attribuito alla superiorità o inferiorità di una razza. L'ideologia nazionale scavalcherà i secoli per ravvicinare avvenimenti che nulla hanno in comune salvo il senso ch'essa stessa loro attribuisce. Il liberalismo ideologico procede a una selezione identica, collegando in una stessa visione le gesta di Atene o di Venezia con il successo dei coloni americani: l'iniziativa individuale, l'intraprendenza, la fiducia nella libertà formano la trama alla quale l'ideologia aggancia gli avvenimenti, senza rispetto per la loro specificità. La verità è che, nell'interpretazione ideologica della storia, i fatti non coesistono, ma si intrecciano confondendosi, e questo sempre per la stessa ragione, perché si tratta di adoperarli come l'illustrazione o la prova di una tesi il cui oggetto è ispirato dalla situazione presente. Ne deriva che la restituzione autentica del passato sarebbe in contraddizione con i due caratteri, egocentrico e manicheo, dell'ideologia.
È vero che, oggi, una scuola neomarxista si sforza di prosciogliere l'ideologia dall'accusa di falsificare la storia. Ci vien detto (L. Althusser e E. Balibar, Lire le Capital, 2 voll., Paris 1968) che ‟esiste un legittimo primato epistemologico del presente sul passato" e che di conseguenza ‟la retrospezione del presente sul passato" liquida l'ideologia sostituendola con la vera conoscenza. Ma allora, se l'oggi è il rivelatore del significato dello ieri, questo non significa attribuire alla Storia un senso nascosto, il che, senza alcun dubbio, è un postulato ideologico?
Sembra, dunque, che il trattamento arbitrario, al quale l'ideologia sottomette il passato, si spieghi con la sua stessa natura. Principio di azione, l'ideologia deve essere coerente e deve perciò scegliere, tra i fatti, quelli che confermano le sue asserzioni, tacere quelli che le infirmano e situare gli avvenimenti sotto una luce deformante. Discorso perfettamente razionale che muove da un sapere fallace o mutilo, l'ideologia propone una visione del mondo dalla quale è escluso ogni motivo d'esitazione. Questo è il prezzo che l'ideologia paga per il suo ascendente: per chi vi ripone la sua fiducia, infatti, tutto è chiaro. E sempre a questo prezzo acquista il privilegio di essere la più feconda creatrice di valori sociali.
In realtà, se le ideologie si radicano in un'interpretazione razionalistica della Storia, è per trovarvi l'enunciazione dei valori sui quali il gruppo fonda la propria personalità presente e l'immagine del proprio destino.
Ora, tali valori non sono mitici; sono operanti. Sono essi che, movendo da una storia tendenziosamente interpretata, fanno la Storia autentica. Se, ad esempio, prendiamo in considerazione l'ideologia liberale, vediamo bene l'equivoco fondamento che assegna alla libertà. In essa l'autonomia della persona umana viene estesa al piano economico tramite la legittimazione del diritto del più forte, del più intraprendente, del meglio armato. Così pure vediamo bene da quale discorde concerto provenga l'esaltazione della proprietà. Vi ha la sua parte l'‛ordine naturale delle società', ma anche Calvino, che dell'arricchimento fa una benedizione del Signore, e il Vaticano che, nell'enciclica Rerum novarum, condanna l'eretico pensiero di una socializzazione dei beni. L'ambiguità delle fonti, tuttavia, non modifica la forza del fiume. L'ideologia penetra nell'insieme della società; vi innalza gli altari per i giorni di culto, così come orienta i comportamenti nella vita quotidiana. Essa crea a un tempo un mondo e i suoi abitanti. Creazione spontanea? Opera anonima di una collettività che tende a suggellare la propria unità con l'adesione a valori comuni? Sarebbe troppo bello. Le cattedrali, per essere state erette dalla fede, non per questo hanno avuto meno bisogno di un architetto che ne disegnasse il progetto. E se Omero ci è sconosciuto, non è questa una ragione sufficiente per ammettere che l'Odissea sia stata scritta da una moltitudine. Dovremo domandarci in seguito che cosa nasconda questa apparente spontaneità dell'ideologia in quanto possente creatrice di valori; per il momento ci basta constatare il suo ruolo storico. Rendendo conto, per magnificarli, dei valori su cui poggiava la società liberale, l'ideologia l'ha dotata delle strutture mentali indispensabili perché trovasse, nella sua buona coscienza, la giustificazione delle proprie ambizioni.
E se, anziché un'ideologia conservatrice, prendiamo in considerazione un'ideologia innovatrice, constatiamo lo stesso processo che, sulla base della fede in determinati valori, stabilisce l'ineluttabilità dell'avvenire del gruppo nel quale quei valori s'incarnano. Che cos'è il proletariato, se non una creazione ideologica? È certo vero che, nel disordine creato dall'avvento della grande industria, il proletariato aveva un'esistenza reale; ma, nel sistema economico instauratosi verso la metà del sec. XIX, la sua miseria non aveva sbocco: la sua povertà intellettuale, il regime dell'occupazione come le condizioni di lavoro e la stessa legislazione non facevano sperare altro avvenire che il perpetuarsi di una situazione che lo rendeva strumento di un compito i cui benefici gli sfuggivano. I proletari sono una folla, ma una folla senza coscienza e, di conseguenza, senza scopo. Ora, l'ideologia proletaria farà di questa massa una forza, rivelandola a se stessa e assegnandole un avvenire. L'ideologia costruisce un'Immagine della classe lavoratrice, facendo ricorso, per fissarne i lineamenti, a tutti i tempi e a tutti i paesi. Essa non si cura di anacronismi, né tiene maggior conto delle differenze imposte dalla disparità degli ambienti e delle possibilità. Ciò che conta è la coerenza dell'immagine, la sua capacità di cristallizzare in una figura unica la varietà delle esperienze individuali. Per raggiungere lo scopo, la via migliore è quella di unirle in una speranza comune, di sostituire alla dispersione della folla un'aspettativa che abbia un effetto coagulante. È questa convergenza di sguardi che viene realizzata dall'ideologia. Essa rivela ai proletari il senso delle loro antiche battaglie, fondando in tal modo i valori che legittimano le loro lotte presenti e stimolandoli nello stesso tempo con la visione d'un avvenire che sarà costruito dal loro successo. Il singolo proletario cessa allora di esistere; è ora soltanto una cellula dell'insieme, il proletariato, che ha il suo proprio destino. Creando il proletariato come forza sociale, l'ideologia diventa motore della storia.
Fenomeno sociale, l'ideologia suscita inevitabilmente le reazioni ostili dell'individualismo. È un luogo comune imputare il suo ascendente al fatto che gli uomini hanno perduto il gusto di pensare da soli. I pessimisti vi scorgono un'occasione per fuggire la responsabilità personale, un indizio di mediocrità intellettuale e, infine, un'abdicazione dell'individuo di fronte al compito che nobilita la persona umana, cioè il prendere su di sé il proprio destino.
L'osservazione non è falsa; soltanto che, prima di arrivare a condanne così perentorie, bisognerebbe chiedersi se questa rinuncia al giudizio personale non sia provocata da un trauma subito dall'individuo attraverso l'ambiente cui appartiene. L'ideologia è il pensiero dell'‛uomo in situazione'. L'adesione che riceve è sempre il segno o di una difesa contro le minacce rivolte all'ordine sociale costituito o di una rivolta contro le condizioni di vita da questo imposte. L'ideologia è rassicurante quando legittima lo stato di cose esistente; ed è il più delle volte consolatrice nel senso che, al termine della rivolta che promuove, fa intravedere la felicità. È questo un tratto comune a tutte le ideologie: l'ideologia razzista cerca di compensare una situazione concreta di subordinazione con l'affermazione di una superiorità ideale; nell'ideologia fascista l'individuo si rivolta contro una libertà che l'umilia, perché non sa che farsene, e attende dalla partecipazione a una potenza collettiva una rivincita sulla propria mediocrità personale; l'ideologia democratica si nutre del sogno dell'eguaglianza; l'ideologia marxista consola le vittime dell'incertezza economica con l'immagine di un futuro radioso; e dove trovare le radici dell'ideologia nazionalista se non nel sentimento di un'onta che un sussulto d'orgoglio collettivo deve lavare? La verità è che non esiste un'ideologia delle persone soddisfatte; quand'anche essa seduca uomini la cui situazione concreta non sembra giustificare la rivolta - è il caso più frequente degli intellettuali - l'impegno traduce l'inquietudine che le stesse comodità ispirano loro: esso allevia la loro cattiva coscienza. L'ideologia unisce in una stessa fede l'analfabeta, che ne viene consolato, e l'intellettuale, che ne viene mortificato.
3. Funzione delle ideologie
Benché siano fenomeni sociali, non sarebbe dunque possibile escludere dall'analisi delle ideologie il supporto ch'esse trovano nelle psicologie individuali. Il loro irradiamento sarebbe però inesplicabile se non si tenesse conto delle funzioni sociali che adempiono. Certo, sono funzioni abusive per il giudizio individuale e, tuttavia, funzioni indispensabili, in quanto mirano da una parte a dare al gruppo la coscienza di sé e dall'altra a sostenerlo nell'azione.
Circa la prima di queste funzioni, sulla quale torneremo in seguito, è qui sufficiente, per valutare il ruolo primordiale svolto dall'ideologia, rammentare la solidarietà che unisce l'esistenza reale del gruppo alla coscienza ch'esso prende di se medesimo. Trascendendo la singolarità delle personalità individuali, l'ideologia raccoglie i membri del gruppo in una unità spirituale, senza la quale non ci sarebbe altro che una giustapposizione di individui. Ciò significa che l'ideologia è necessaria tanto alla collettività, che essa cementa, quanto all'uomo, al quale dà una dimensione sociale che lo spiega ai suoi stessi occhi.
Ma, se l'ideologia esercitasse soltanto questa funzione statica, il suo posto potrebbe essere preso da una fede religiosa o da una convinzione filosofica. L'ideologia mantiene nel tempo l'integrazione sociale, da essa stessa generata, per mezzo dell'azione collettiva, alla quale assegna gli obiettivi. L'ideologia non soltanto crea il gruppo, ma lo fa anche vivere. È la matrice di un progetto collettivo ed è perciò il supporto necessario dell'attività politica: non si vede, infatti, in quale altro modo una razionalizzazione totale dei comportamenti individuali potrebbe assicurare la coerenza di un insieme, in cui si scontrano credenze, aspirazioni e interessi che, singolarmente considerati, non sono convergenti. È la politica del gruppo che garantisce la coesione, sfruttando la potenza unificatrice dell'ideologia. Certo, è possibile che le masse, per un certo periodo, si lascino manipolare da tecnici benintenzionati e sicuri dei loro calcoli; ma, alla lunga, questo modo di governare, fondato esclusivamente sulla razionalità delle decisioni prese, finisce col dissolvere i legami sociali, che sono fatti di aspettative e di avversioni condivise. Se ‟soltanto una società razionalista e meccanicista può cercare di comprendersi in una scienza" (E. Weil, Philosophie politique, Paris 1956, p. 73), a maggior ragione soltanto una società di questo tipo può essere gestita scientificamente. Ora, l'umanizzazione dei rapporti tra gli individui non si stabilisce solo sul piano delle certezze obiettive, poiché la società non è un edificio razionale. Appunto per questo la sua gestione, che non può fare a meno della collaborazione dei suoi membri, deve necessariamente mettere in opera valori non giudicabili dalla ragione. Si potrà discutere sulla qualifica da attribuire loro: vi si potrà scorgere una filosofia, una visione del mondo, una mitologia o una superstizione. Trattandosi però, in ogni caso, di un'interpretazione della realtà in funzione di un avvenire desiderato o atteso, tali valori posseggono incontestabilmente un carattere ideologico. Dovremo attribuire a questo carattere un significato peggiorativo? Sì, senza dubbio, se giudichiamo i valori alla luce della ragione individuale, presupposta infallibile; ma, in quanto credenza collettiva, l'ideologia si presenta come uno di quei pensieri totalizzanti, la cui assenza farebbe del gruppo un assembramento senza identità e senza dinamismo. Da questo punto di vista, la messa sotto accusa delle ideologie è dunque priva di senso.
Costrette dalle sfide della natura e dai conflitti sempre rinascenti tra i loro membri a difendere la propria coesione, le società vi sono riuscite, bene o male, attribuendo la responsabilità dell'impresa alla politica. Questa si è disimpegnata inserendo una realtà razionalmente ingovernabile in una trama ideologica di rappresentazioni, di timori, di credenze e di speranze che, riunendo gli uomini, permette di armonizzare i loro comportamenti. Le ideologie procurano nello stesso tempo l'energia necessaria alla dialettica dell'ordine e del movimento, la quale dà il proprio timbro alla dinamica politica. La rivalità tra le ideologie conservatrici e quelle innovatrici si risolve in un superamento, nel quale la società globale trova un equilibrio precario. L'evoluzione sociale non è nient'altro che la successione di questi equilibri provvisori; e sarebbe inconcepibile senza l'azione delle ideologie.
Se è vero che questa ‛neutralità' socialmente funzionale delle ideologie non autorizza a dar su di loro altro giudizio se non quello di una constatazione di fatto, le cose vanno però altrimenti quando si voglia dare una valutazione del loro contenuto. Sarà allora possibile qualificare il ruolo da esse svolto facendo riferimento a una realtà ch'esse deformano, rifiutano o abbelliscono. Cessando di essere neutre, le ideologie si presentano come una mistificazione eticamente condannabile. Appunto in questa prospettiva, la cui brutale rivelazione è dovuta a Marx, esse sono prese oggi in esame. Non sono contestate le loro funzioni sociali; ma, nel momento in cui si scopre a vantaggio di chi vengono esercitate, il loro fondamento diventa malfido.
Se risale a Marx la volgarizzazione del concetto di ideologia, che ha condotto alla generalizzazione del suo uso nelle scienze sociali, è opportuno tuttavia notare come ciò sia avvenuto a detrimento della sua precisione. Avendo rintracciato, in Marx stesso e nella scuola marxista, almeno tredici accezioni diverse del termine ideologia, non senza ragione G. Gurvitch (La vocation actuelle de la sociologie, vol. II, Paris 1963, p. 287) temeva che il termine, così mortificato, perdesse il suo valore scientifico. Si può però opporre che la molteplicità e l'estensione dei campi nei quali Marx vede il risultato di una produzione ideologica (le forme giuridiche, artistiche, come anche la morale e la religione) non sono altro che la conseguenza dell'identificazione implicita dell'ideologia con le ‟opere della civiltà" (Gurvitch), vale a dire con ciò che chiamiamo oggi la cultura.
Appunto questa assimilazione dell'ideologia alla cultura spiega come Marx abbia accentuato la connotazione peggiorativa, che già accompagnava la nozione di ideologia, ma che per lui diventa incancellabile perché l'ideologia reca le stimmate della cultura borghese. ‟Essa è una parte di quella generale distorsione attraverso la quale i prodotti dell'attività umana sfuggono al controllo umano e regnano sugli uomini, senza essere tuttavia riconosciuti come incarnazione della loro vita e delle loro fatiche" (N. Birnbaum). Si crea in tal modo il feticismo consistente nell'attribuire alle cose un'esistenza indipendente dalla loro creazione; feticismo che la classe che controlla i mezzi di produzione inculca nelle masse per assicurarsi la loro docilità.
È quindi chiaro che, agli inizi del pensiero marxista, la critica dell'ideologia è legata al modo in cui Marx ne interpretava le funzioni nella società che osservava: la società borghese e liberale del sec. XIX. In essa l'ideologia svolge anzitutto un ruolo mistificatorio, nel senso che, prodotta da una ‟falsa coscienza", trae da un aldilà irreale l'immagine di una perfezione con cui è in contrasto la realtà dei rapporti sociali. La Sacra Famiglia è quindi una magnificazione della famiglia borghese; vi si raccolgono tutte le virtù che permettono di idealizzare la famiglia reale. In quest'ottica, l'ideologia si presenta come una compensazione del vissuto, del quale cancella tutte le brutture rivestendolo di un ideale immaginario. L'ideologia può svolgere allora la sua seconda funzione, consistente nella legittimazione dell'ordine sociale esistente. Essa assicura la trasposizione dei rapporti imposti dal regime della produzione economica sul piano delle giustificazioni intellettuali e delle credenze; eleva a sovrastruttura ideale un modo d'essere dei rapporti umani, il quale in realtà è soltanto il risultato della potenza della dasse economicamente dominante. In queste condizioni, lo specchio ideologico non può essere che menzognero; non riflette che un mondo costruito a rovescio, giacché l'idea non vi opera come strumento di liberazione, ma come fattore di alienazione. Movendo da queste premesse, Marx denuncia la terza funzione dell'ideologia, quella che ne costituisce la ragion d'essere essenziale e attraverso la quale l'ideologia s'afferma come un'arma repressiva nelle mani della classe dominante di un'epoca. È questo il tema famoso dell'Ideologia tedesca, nella quale Marx mostra come la classe che costituisce la potenza dominante materiale nella società ne costituisce anche la potenza dominante spirituale, in quanto, disponendo delle forze produttive materiali, dispone a un tempo dei mezzi di produzione intellettuali che le permettono di coprire i suoi interessi col prestigio delle idee e di soffocare quelle della classe economicamente subordinata. Tutti i valori, le regole o le pratiche derivanti dall'ideologia vigente sono così altrettanti strumenti di oppressione nei confronti di coloro che potrebbero ribellarsi contro l'ordine economico-sociale costituito.
Si comprende come, segnata dalla triplice qualifica di mistificatrice, menzognera e oppressiva, l'ideologia sia stata considerata senza indulgenza. Prodotto delle rappresentazioni della coscienza sociale di un gruppo determinato, per Marx l'ideologia non fa altro che tradurre, rivestendoli con il prestigio delle idee, i rapporti materiali che dominano la società. L'ideologia gli appare così ‟come un insieme di illusioni, di mistificazioni, di rappresentazioni false che gli uomini si fanno di se medesimi; come un travestimento più o meno cosciente e più o meno illusorio della natura reale, che sino a quel momento è stata semplicemente vissuta" (H. Chambre, Le marxisme en Union Soviétique, Paris 1955, p. 24).
Tuttavia la scuola neomarxista (della quale Althusser è uno degli esponenti più accesi), considerando come veramente rappresentativi del pensiero scientifico di Marx soltanto i lavori posteriori all'Ideologia tedesca, trae dalla sua opera una nozione generale di ideologia, che l'affranca dal carattere menzognero che riveste nella sua incarnazione liberale e borghese. Bisogna allora intendere, con ideologia, ogni ‛plasmazione' dell'esperienza della realtà sociale così come la vivono un gruppo di uomini storicamente situati, ‟...un'ideologia - scrive Althusser (v., 19662; tr. it., p. 207) - è un sistema, che possiede la propria logica e il proprio rigore di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti secondo i casi), dotato di un'esistenza e di una funzione storica nell'ambito di una società data". Una tale definizione, non riferendosi al contenuto di alcuna ideologia particolare, conferisce alla nozione di ideologia un significato neutro, che permette di identificarne la presenza in ogni esteriorizzazione razionale di un'esperienza sociale vissuta. L'ideologia non è più peculiare di questa o quella categoria sociale; ‟essa - constata ancora Althusser (v., 19662; tr. it., p. 210) - è indispensabile a ogni società per formare gli uomini, trasformarli e metterli in condizione di rispondere alle esigenze delle loro condizioni di esistenza".
Esaminate sotto questo profilo, le ideologie sarebbero equivalenti in quanto, esprimendo non l'essenza del mondo, ma il suo modo d'essere secondo un certo assetto dei rapporti sociali, non avrebbero alcun valore oggettivo. Per privilegiare l'ideologia comunista, i marxisti adducono ciò ch'essa deve all'ambiente in cui nasce: la classe proletaria. In effetti, avendo il proletariato, in quanto classe rivoluzionaria, un'esistenza storica universale, l'ideologia di cui è portatore ha anch'essa un valore universale. Fedele alla sua concezione, che vede nelle idee una sovrastruttura tributaria dell'organizzazione economica e della divisione del lavoro, Marx non può tuttavia ammettere che l'ideologia, foss'anche l'ideologia proletaria, sia importata dall'esterno. Essa non può svilupparsi che da una presa di coscienza degli uomini circa la loro situazione concreta. Ora, il proletariato non è abbastanza sviluppato (all'epoca nella quale scrive Marx), perché questa presa di coscienza sia capace di far nascere un'ideologia universalmente valida. Nella sua lotta rivoluzionaria, la classe operaia si servirà ancora, quindi, dell'arma ‛borghese' delle idee. L'ideologia autentica, cioè la conoscenza scientifica dell'uomo reale, sarà possibile soltanto quando saranno cessate le alienazioni che impediscono agli individui di avere un'esatta cognizione dell'essenza dell'uomo. Ne deriva che, per Marx, l'ideologia proletaria non è un'arma di combattimento; è una filosofia concreta il cui avvento è subordinato alla vittoria della classe operaia. È stato Lenin, come vedremo in seguito, a dare all'ideologia proletaria quel carattere di strumento di lotta che possiede oggi nel marxismo militante.
La critica marxista dell'ideologia, in realtà, prende di mira una sola ideologia, l'ideologia borghese. Essa trascura però una funzione fondamentale dell'ideologia, quella di incarnare valori, cioè, in definitiva, ragioni di vivere. Uno dei meriti della sociologia contemporanea è l'aver mostrato che, se e vero che le ideologie alterano i valori inserendoli in un tessuto di realtà vere, di sogni e di menzogne, non per questo costituiscono meno, allo stato attuale delle mentalità, il punto di passaggio obbligato attraverso il quale i valori investono l'individuo onde fargli prendere coscienza della sua situazione, e nello stesso tempo fargliela accettare perché poi vi si adagi o se ne affranchi. In questo senso esse sono il vettore contaminato di un'esigenza vitale, la quale non è altro che la fede dell'uomo nella propria libertà.
Nell'ideologia, infatti, l'uomo trova una giustificazione delle proprie speranze e una legittimazione della propria azione. Gli procura ciò senza di cui egli non sarebbe che un essere angosciato o prostrato; dà un senso alla sua vita. L'uomo dell'ideologia è liberato dal dubbio; è come illuminato dall'appello che ha ascoltato una volta per tutte e nel quale trova, in ogni occasione, l'indicazione di ciò che deve pensare o fare. Proprio per questa ragione le ideologie trovano un clima favorevole nello sconvolgimento dei valori sui quali si fonda la società globale e nel quale la nostra miopia scorge una crisi di civiltà. Nell'epoca contemporanea, le ideologie sono la contropartita delle filosofie dell'assurdo, un edificio innalzato sul terreno lasciato sgombro dal discredito delle morali tradizionali e dal crollo delle religioni.
Le ideologie si presentano dunque come vere religioni nuove o, almeno, come religioni deteriorate. Sebbene sia comune, questa assimilazione e ingannatrice, e bisogna guardarsene. Certo, l'ideologia risponde bene al bisogno di credere che è peculiare dell'uomo; ed è affine al fenomeno religioso anche nel senso che unisce i credenti tra loro. Ma in essa l'oggetto della fede non è un dio, è l'uomo stesso. L'ideologia trova il proprio fondamento non in una parola sacra o nel mistero dell'inconoscibile, ma, al contrario, nella ragione umana. Il sistema ideologico s'appoggia sulla razionalità dell'insegnamento che pretende di trarre dall'analisi dei fatti, dall'evoluzione storica, dalla conoscenza delle forze motrici della vita collettiva. Ed è sempre da questa razionalità che emerge l'immagine del futuro annunciato. Nulla deriva da altra fonte che non siano le risorse dello spirito umano. Senza dubbio, si tratta di una razionalità temeraria, che si contenta di ipotesi delle quali nessuna esperienza ha verificato la fondatezza; e senza dubbio anche l'analisi razionale sceglie arbitrariamente quali situazioni prendere in considerazione. È però esclusivamente alla ragione che fa appello il processo dell'elaborazione ideologica. Il logos vi prevale sul mythos; il che permette alle ideologie di asserire la propria ‛scientificità'. Ora, ciò ch'esse trovano in questa qualità, usurpata, non è soltanto il prestigio proprio degli insegnamenti della scienza, ma, cosa più importante, la dimostrazione della possibilità della loro realizzazione. Essendo scientifica, l'ideologia è non soltanto credibile, ma anche realizzabile.
Certo, sarebbe un bel soggetto di meditazione per un filosofo la constatazione che proprio prendendo la via dell'errore l'uomo dimostra di essere sensibile al richiamo della verità. Ma questo errore, che gli è peculiare, non è forse l'espressione stessa dell'ambiguità della sua condizione? Nato per la luce, egli è condannato a cercarla sulle vie della notte. Certo, l'ideologia non gli procura se non una chiarezza ingannatrice e, se i valori che gli insegna sono discutibili, almeno l'attaccamento che egli dimostra loro prova che non può vivere senza credere. Di questo bisogno, l'attuale irruzione delle ideologie gauchistes, neocristiane (Gesù-hippy), bucoliche e regressive fornisce una prova irrefutabile. Questi movimenti testimoniano il panico suscitato, specialmente nei giovani, dall'avvento di una società tecnologica nella quale la razionalità elimini i valori. Una tale angoscia non è certo nuova. Lungo tutto il corso della storia gli uomini hanno provato, nei confronti di un modo di vivere che presentivano avrebbe distrutto l'immagine che avevano di se medesimi, un timore analogo a quello che scorgiamo negli animali all'avvicinarsi di un sisma. Un atteggiamento del genere, però, finché rimane individuale, non rivela l'esistenza di un'ideologia. Esso è ideologico solo nella misura in cui è la manifestazione di una reazione collettiva, vale a dire quando il soggetto è raggiunto attraverso il gruppo al quale appartiene.
La verità è che, come abbiamo visto, l'ideologia è un fatto sociale già prima di penetrare la mentalità degli individui. Appunto a questo titolo adempie a una funzione che, essendo indipendente dal suo valore intrinseco, cioè dalla parte di errore o di verità che incarna, potremmo qualificare come neutra. Tale funzione consiste nell'assicurare l'integrazione del gruppo che aderisce all'ideologia. Grazie ad essa, l'individuo diventa cosciente di appartenere a una comunità originale, diversa e spesso opposta alle altre. Sia spiritualmente - partecipando alle rappresentazioni collettive - che materialmente - partecipando alle cerimonie e ai riti, che sono sempre un modo di celebrazione dell'ideologia - egli si colloca nella rete di comunicazioni, nel sistema di messaggi da cui deriva il ‛consenso'.
La funzione integratrice dell'ideologia è ben attestata dal ruolo che ha svolto, e ancora svolge, nella formazione di due tipi fondamentali di comunità: la nazione e la classe. Con lo sfruttamento, anche a rischio della deformazione, dei fatti o delle leggende sepolti nella memoria collettiva, l'idea nazionale si è sovrapposta alla realtà storica, traendone un immagine del popolo nella quale esso stesso si è riconosciuto. E quando, movendo da questa rappresentazione stilizzata del proprio passato, il popolo comincia a sognare il proprio avvenire, è allora che l'ideologia nazionale sviluppa il dinamismo che ne fa quella forza operante che la storia ci rivela. La credenza negli antichi valori suggella nel presente l'unità del gruppo e detta ai suoi membri il comportamento di fronte al futuro. L'idealizzazione inclusa nell'ideologia nazionale postula ‟la svalutazione di tutte le lotte che non siano quelle in cui il gruppo è impegnato" (M. Rodinson). La designazione dell'avversario è contemporanea alla designazione della finalità della battaglia. Come ogni ideologia, l'idea nazionale possiede, a un tempo, un significato esplicativo e una portata normativa. Ecco che cosa siamo stati, ed ecco che cosa saremo! La nazione è il sogno di un avvenire condiviso, perché è una fedeltà che oltrepassa se stessa. Nella misura in cui modellerà i suoi atteggiamenti sui valori che l'hanno reso ciò che è, il gruppo vede nella nazione una garanzia della sua perennità. Sulla interiorizzazione di questa credenza, nella quale si cancellano le particolarità individuali, si fonda il consenso nazionale.
Si deve parimenti all'ideologia se la classe sociale può riunire in un insieme unificato la pluralità dei propri membri. Certamente, non è possibile eliminare dalla definizione di classe ogni riferimento a dati materiali. Lo stile di vita, il genere di lavoro, il modo di remunerazione, l'habitat sono segni visibili, che permettono di inserire la classe a un determinato livello tra gli strati componenti l'intera società. Questi fatti concreti, tuttavia, non sarebbero in grado di dare alla classe la capacità di svolgere nella vita collettiva il ruolo primordiale che ci è ben noto, se non vi si aggiungesse quel fenomeno spirituale che è la coscienza di classe. La classe, infatti, esiste solo nella misura in cui è pensata; se ciò non si verifica, le viene a mancare proprio ciò che ne fa una classe, cioè una coscienza che la isoli all'interno della società tutta. Ora, tale coscienza è suscitata appunto dall'ideologia. Essa sovrappone alla realtà concreta una rappresentazione collettiva, nella quale si ordinano il ricordo, vero o abbellito, delle antiche lotte, l'esperienza di una condizione vissuta nel presente, un ruolo storico e una speranza. Aderendo a quest'immagine della classe, gli individui scoprono la propria appartenenza e, nello stesso tempo, la solidarietà con coloro ai quali l'ideologia li unisce. I loro progetti più individuali si fondono in un'attesa collettiva. Al fenomeno puramente soggettivo, costituito dalla coscienza di appartenere a una classe, l'ideologia aggiunge una nuova dimensione oggettivando la nozione di classe. Ne disegna i confini, ne identifica i nemici, definisce i valori sui quali la classe si fonda, fornendo così al consenso un oggetto tanto più convincente in quanto si risolve in un universo che si oppone alla collettività globale. Anche qui, come nel caso dell'ideologia nazionale, possiamo vedere in opera la funzione unificatrice dell'ideologia di classe. Essa raduna, trascendendo le condizioni particolari, unisce nella credenza in un avvenire comune, mobilita con i suoi annunci o le sue promesse. Suscitata da un'angoscia, da un timore o da un trauma collettivo, ogni ideologia sbocca in un'escatologia. Rimane da chiedersi donde provenga, in ciascuna società, questa attività dello psichismo collettivo che innalza uno schermo dinanzi alla realtà e costruisce, con immagini o con simboli, un universo sovrapposto ai fatti osservabili.
La risposta mi sembra sia legata alle condizioni in cui si realizza la funzione politica che, per il gruppo, è una funzione vitale. Ora, senza la connivenza degli individui, consistente nell'accettare le cose così come sono spiegate dall'interpretazione del passato e così come sono trasfigurate dall'analisi ideologica del presente, ogni apparato politico crollerebbe. Privata del suo supporto di leggende, spogliata del prestigio che le deriva dall'artificio delle ricorrenze considerate ‛storiche', non più sostenuta dai valori consacrati dalle credenze, la funzione politica verrebbe presto paralizzata. Proprio per questo, come certi pesci che si nascondono dietro il nero liquido che secernono, l'universo politico si rifiuta di rivelare il suo vero volto, e cela la sua trivialità troppo umana dietro l'apparato ideologico, che rende la funzione da cui viene adoperato un'attività degna di rispetto. Ed essendo tale funzione una prerogativa del Potere, sarà infine a vantaggio di quest'ultimo che giocherà tutta la finalizzazione mistificatrice della quale la mentalità collettiva è capace.
4. Politica e ideologia
Bisogna infatti comprendere che l'ideologia raggiunge l'intensità di forza sociale che le riconosciamo soltanto in ragione dei desideri, dei bisogni, dei rifiuti, degli interessi o delle convinzioni che riesce a spiegare e a giustificare, affermando, nello stesso tempo, la propria capacità di costruire un mondo in cui tutte queste esigenze saranno soddisfatte. Ma se è vero che gli uomini investono nell'ideologia la propria affettività, ciò è lungi dal significare che essa appaia ai suoi seguaci come un mezzo collettivo per raggiungere i loro obiettivi particolari. L'ideologia trascende gli appetiti, le ripugnanze o le ambizioni ch'essa stessa attizza, e prende corpo in una visione globale della società. Essa costituisce la base spirituale di un mondo ideale perfettamente coerente e disinteressato, nel quale le passioni e gli interessi del presente non esisteranno più perché non avranno più oggetto. Di qui il conforto intellettuale che l'ideologia procura proponendo agli individui un avvenire nel quale le loro aspirazioni si confonderanno con i comportamenti conformi alle norme della nuova società. L'uomo non deve più mascherare i propri desideri né arrossire delle proprie ambizioni: essi si integrano nella struttura di un sistema sociale che gli assicura la pienezza della realizzazione di sé. L'ideologia disegna la figura non soltanto di una società perfetta, ma anche di una perfezione individuale promessa a ogni uomo, poiché, nel futuro costruito secondo i principi dell'ideologia, ciascuno troverà la possibilità di essere apertamente e pienamente se stesso. ‟Grazie ad essa, diventiamo uomini giusti ai nostri occhi come agli occhi di quelli che pensano come noi e agiscono insieme con noi" (J. W. Lapierre, in Les idéologies dans le monde actuel, Paris 1971, p. 20).
Tale perfezione, sia sociale che individuale, è però inscritta in un divenire, e di conseguenza l'ideologia impegna all'azione. È appunto questo che può distinguerla dall'utopia.
La distinzione tra ideologia e utopia è stata tuttavia cercata da Karl Mannheim in un'altra direzione. Per lui, l'ideologia e l'utopia, sebbene siano entrambe corollari della falsa coscienza, divergono circa l'atteggiamento adottato nei confronti dell'ordine costituito. L'ideologia, nutrita del passato, eserciterebbe una funzione di conservazione sociale; si sforzerebbe di nascondere ai gruppi dominati le possibilità di cui dispongono per porre rimedio alla loro situazione; sarebbe poi dispensatrice di buona coscienza nei confronti del gruppo dominante, dissimulando le tare sociali sulle quali è edificata la sua superiorità. L'utopia, al contrario, sarebbe una visione dell'avvenire nella quale gli oppressi troverebbero una ragione di speranza: sarebbe dunque fondamentalmente rivoluzionaria.
Il meno che si possa dire di quest'opposizione è che non corrisponde a quel che sappiamo del ruolo storico che hanno svolto, e tuttora svolgono, i due tipi di rappresentazioni collettive. Circa l'utopia, la nozione proposta da Mannheim trascura la dualità dei fenomeni che essa abbraccia. L'utopia designa sia un comportamento individuale schizoide - la fuga nel sogno - che un atteggiamento collettivo attraverso il quale un gruppo trova, in ciò che immagina, un criterio per giudicare il presente. È in questa seconda accezione che l'utopia assume un significato sociale, rivelando così, però, la propria affinità col mito: il suo ruolo sembra cioè consistere nel motivare il sogno piuttosto che nel suscitare l'azione. Il linguaggio corrente, quindi, non s'inganna quando assimila l'utopia all'immaginario e, ciò che è più significativo, all'immaginario irragionevole. Tutti gli utopisti riconoscono di descrivere un paese che non esiste in nessun luogo. Esso seduce, certo, poiché tutti i problemi della società reale vi sono risolti; ma chi salperebbe per le rive dell'impossibile?
L'ideologia, invece, si presenta come un sistema assolutamente serio, anzi scientifico; parte dal reale, pur interpretandolo con fantasia; non si limita a disegnare un universo ideale, indica la strategia che permetterà di raggiungerlo. Formula una meta, lontana forse, ma accessibile. Appunto per questo, di fronte alle ideologie conservatrici, possiamo indicare innumerevoli ideologie riformiste o rivoluzionarie. La verità è che l'ideologia è un motore fatto peri azione; azione volta a difendere l'ordine esistente, ma più spesso volta a distruggerlo e sostituirlo con un altro.
È l'energia che essa mette in moto a fare dell'ideologia una forza politica; ed è grazie al fatto di chiamare in causa l'avvenire della società che ogni ideologia, per un verso o per l'altro, possiede sempre un significato politico.
A differenza di una teoria o di un sistema filosofico, l'ideologia non costituisce un fine in sé; è fatta per l'azione: le rappresentazioni, le credenze ch'essa compone sono immagini motrici. L'azione che vuol provocare è però un'azione collettiva, è una battaglia. Proprio per questo diventa così facilmente partigiana. Al di fuori dei credenti, non ci sono che nemici. E tale intolleranza va al di là delle necessità della lotta, poiché la società che l'ideologia tende a promuovere è fatta soltanto per coloro il cui comportamento si conforma al tipo d'umanità cui si riferisce. È vero che la maggior parte delle ideologie si richiamano alla propria virtù unificatrice. Se crediamo ai loro incensatori, le ideologie avrebbero come effetto l'eliminazione delle divisioni sociali: realizzata l'ideologia, l'uomo si riconcilia con se stesso e con gli altri. Conosciamo però il costo di questa conversione unificatrice: tanto il fascismo che il comunismo hanno realizzato l'unità spirituale della collettività passando per l'eliminazione fisica degli oppositori. È quindi superfluo insistere sull'aria di crociata che distingue le ideologie, come anche sul numero di martiri caduti per imporre l'ortodossia o per combatterla.
È invece importante prendere in considerazione - dal momento che il problema è aspramente dibattuto - la relazione che si stabilisce tra le ideologie e il potere. Se abbiamo potuto dire che le ideologie hanno tutte un'implicazione politica, è stato a causa del loro oggetto. Mirando alla costruzione d'un mondo, non possono fare a meno del potere politico, che è il solo strumento all'altezza dell'impresa.
Ogni ideologia è di fatto il supporto di un potere che è per essa garanzia della propria realizzazione. L'ideologia, in realtà, non è soltanto una conoscenza, più o meno fondata, dei meccanismi sociali; e neppure è un'idea pura, oggetto di contemplazione; è tutt'insieme un'immagine e un movimento verso l'avvenire. C'è in essa un'energia latente, che la spinge ad anticipare l'avvenire operando sul presente, galvanizzando le forze che trascineranno il gruppo verso il futuro sperato. Suscita un'attenzione vigile, che porta ad accettare o a rifiutare ciò che viene dall'ambiente valutandolo in relazione al vantaggio che può derivarne alla finalità ideologica. Ora, questa energia è incarnata dal potere; è il potere che mantiene vigili, ed è sempre il potere che esercita la propria intelligenza per distinguere, nella società di oggi, ciò che può essere propizio all'edificazione della Città di domani.
Se, come non par dubbio, ammettiamo che per il tramite dell'ideologia il potere politico si radica nelle rappresentazioni collettive, delle quali prefigura la realizzazione, ne concluderemo che ogni potere è necessariamente ideologico? La gravità della questione è evidente giacché, in caso di risposta affermativa, saremmo indotti a riconoscere che quanto più il potere è vicino al popolo, è sensibile alle sue aspettative e docile alle sue esigenze, tanto più si afferma il suo carattere ideologico; il che equivarrebbe a dire, in breve, che il regime democratico è inseparabile dal regno dell'ideologia. L'esattezza di una simile conclusione può essere infirmata soltanto da un'analisi delle relazioni tra il potere e il gruppo da esso governato.
Ogni definizione del potere urta contro una difficoltà sia teorica che espositiva, derivante dal fatto che non si possono separare i due piani sui quali esso si presenta: il piano storico e il piano concettuale. Sul piano storico, il potere è necessariamente un uomo o un gruppo di uomini; sul piano concettuale, è una potenza organizzatrice della vita sociale. Ora, nella realtà, questi due punti di vista sono profondamente interconnessi: l'uomo deve la propria autorità all'idea di cui è servitore; l'idea è operante soltanto grazie all'uomo che la fa propria. Ma se cerchiamo quel che c'è di permanente nel fenomeno del potere, nell'avvicendarsi delle figure che ne esercitano gli attributi, vediamo che il potere non è tanto una forza esterna, che verrebbe a mettersi al servizio di un'idea, quanto la potenza stessa dell'idea. Quanto al problema di cui qui ci occupiamo, la questione è allora di sapere se questa idea costituisca necessariamente un'ideologia.
Ho proposto (G. Burdeau, Traité de science politique, vol. I, Paris 19662, n. 216 s., 261 s.) di chiamare idea di diritto l'insieme delle rappresentazioni collettive costituenti le basi sociali del potere. Privilegiando in tal modo il termine ‛diritto', ho voluto da una parte sottolineare il fatto che l'oggetto delle rappresentazioni è formato da regole giuridiche, la cui osservanza procurerà, alla società in cui saranno obbligatorie, lo stile di comportamento rispondente all'immagine dell'avvenire desiderabile, e, dall'altra, rammentare ciò che i politologi tendono talvolta a dimenticare, e cioè che ogni potere è una macchina per produrre diritto. Esso è agognato perché si cerca, con la sua conquista, di impadronirsi dello strumento che autorizza a imporre regole giuridiche sanzionate; viene esercitato emanando regole siffatte; viene combattuto perché si contesta il valore o l'opportunità dell'ordine giuridico che pretende di imporre. Una formula riassume queste osservazioni: il potere è l'energia dell'idea di diritto. Lasciando da parte i problemi posti dalla pluralità delle idee di diritto eventualmente coesistenti nella società e dalla rivalità di poteri che da tale pluralismo derivano (ibid., vol. IV, n. 255 s.), ci limiteremo qui al confronto tra il concetto di idea di diritto e il concetto di ideologia.
Osserviamo anzitutto come, sia nell'idea di diritto che nell'ideologia, ci sia qualcosa di più che l'indicazione di un principio di comportamento: c'è un dinamismo il quale, sostenuto dalle rappresentazioni che gli uomini si fanno dell'adeguatezza del principio alla meta ritenuta desiderabile, tende ad anticipare tale meta e ad operare sulla realtà. Fra tutte le credenze, è specialmente nell'idea di diritto che, per riprendere l'espressione di Marcel Mauss (Division de la sociologie, in ‟Année sociologique", 1927, I, p. 98), la fede, la quale non è nulla senza le opere, è essa stessa un'opera. Come nell'ideologia, non c'è gratuità nell'idea di diritto. Riconosciamo anche che l'una e l'altra sono forze sociali combattive le quali, mettendosi sulla via della politica, non rimangono immuni dai compromessi o dalle brutalità che quest'ultima comporta.
Tra idea di diritto e ideologia esiste tuttavia una differenza capitale, derivante dallo spazio che ciascuna delle due lascia all'uomo nella concezione dell'ordinamento dei valori che esse sistematizzano. Mentre l'uomo resta padrone dell'idea di diritto, della quale può modificare il contenuto, correggere le implicazioni, ampliare o restringere il dominio, l'ideologia lo spodesta. L'ideologia raggiunge un grado tale di obiettività da distaccarsi dalle coscienze individuali per vivere una vita autonoma; si impone loro dall'esterno; è un credo i cui articoli sfuggono all'esame. L'uomo l'adotta o la rifiuta, ma non la crea; essa è l'opera del potere. Quando, anziché rimanere docile all'immagine dell'ordine desiderabile così come emana dal gruppo, anziché accettarne le variazioni e trovare un'ispirazione sempre rinnovata e mobile secondo le modificazioni trasmesse al gruppo dall'inesauribile apporto delle rappresentazioni individuali, il potere se ne impadronisce e ne fissa i tratti in una formula immodificabile, allora l'immagine del futuro atteso cessa di essere un'idea di diritto per diventare un'ideologia.
Questo fenomeno di cristallizzazione intellettuale o, se si preferisce, di rattrappimento morale non è un'ipotesi astratta con cui si possa distinguere due concetti vicini: è un fatto sociale direttamente percettibile. Per ogni osservatore della mentalità politica dei gruppi, dopo la fine dell'ultimo secolo il fenomeno più decisivo è senza dubbio il ruolo svolto dai poteri nella determinazione del tipo di società che mobilita gli uomini e ne suscita l'impegno politico. Operando come catalizzatori delle rappresentazioni individuali, i comitati direttivi dei partiti, i dirigenti sindacali, i fondatori di movimenti si sono eretti a padroni della visione del mondo che polarizza la dinamica politica. Essi privano gli uomini dei loro sogni giacché, anche se sfruttano il bisogno umano di credere, impongono l'oggetto della credenza, ne determinano il contenuto, ne tracciano i contorni, sopprimendo, ai suoi margini, quelle frange imprecise attraverso le quali l'idea potrebbe rimanere in contatto con altre concezioni. In nome della tattica più vantaggiosa per il suo successo, essi pietrificano l'idea in un'ortodossia; la recidono dalla sua fonte primaria, compensando l'impoverimento che le deriva dalla rottura con la produttività delle coscienze singole mediante un apporto di elementi esogeni introdotti per via autoritaria. E così che l'idea, nata dalle aspirazioni relativamente vaghe dei governati, sensibile a tutte le variazioni che l'individuo apporta alla propria concezione di un mondo fatto a sua misura, ricca della varietà delle tendenze personali che, per il fatto di unirsi in vista di uno scopo comune, non per questo rinunciano alle divergenze secondarie, duttile nella misura in cui rimane aperta agli insegnamenti della ragione come agli appelli del cuore, è così, dicevo, che l'idea di diritto, della quale l'uomo è il primo depositario e il dispensatore, viene sostituita dall'ideologia rigida, dogmatica, impermeabile alla discussione, che i poteri elaborano per il gruppo, ma il cui contenuto sfugge all'individuo.
Questo processo, che di una conoscenza fa un principio d'azione, è particolarmente evidente nell'utilizzazione fatta da Lenin del pensiero di Marx. Lenin ha dissociato l'ideologia dallo stato presente della società, del quale l'ideologia sarebbe il riflesso, per farne una visione dell'avvenire desiderabile. Dall'ideologia statica, sovrastruttura che presuppone l'infrastruttura (così l'aveva definita Marx), Lenin è passato all'ideologia come concezione del mondo, creatrice di Weltanschauung. Di ciò che era una conoscenza positiva, egli ha fatto un'immagine del futuro, restituendo nello stesso tempo al potere le basi spirituali di cui Marx lo lasciava sprovvisto. Lenin ha fornito alla classe proletaria lo strumento di lotta di cui era priva. Certo, egli non ha modificato granché l'insegnamento di Marx; ma, utilizzandone il pensiero come espressione di un dover essere, l'ha trasformato, facendo di quella che era una teoria uno strumento di battaglia e creando con ciò stesso il marxismo politico.
Il ruolo assegnato da Lenin all'ideologia conduce a un rovesciamento del rapporto tra il sociale e il politico, così come lo concepiva Marx. Per Marx, il fenomeno politico appartiene alla categoria delle sovrastrutture e, come tale, dipende dalle modalità della vita sociale sino a quando la vita sociale, finalmente purificata delle tensioni che la lacerano, ne provocherà la scomparsa. Con Lenin, al contrario, il politico, espressione operante dell'ideologia, prevale sul sociale, dà al sociale la sua forma. Esposta nel 1902 nel Che fare?, questa tesi sarà ripresa nel 1918 nell'opuscolo I compiti immediati del potere dei soviet, secondo il quale è al potere che spetta la diffusione dell'ideologia. Essendo le masse ancora incapaci di comprenderne tutte le esigenze, l'autorità del Partito e l'apparato dello Stato debbono assicurarne la penetrazione nella collettività. Il potere non è più il prodotto dell'ideologia: ne è il padrone. In essa trova la giustificazione di una forza, che è la sua perché è il solo qualificato a definirne e a imporne gli imperativi (v. comunismo).
L'ideologia nasce così dall'uso che i poteri, nati dalle rappresentazioni di un ordine desiderabile, fanno dell'immagine stessa da cui sono derivati. Quest'immagine, non solo l'oggettivano, ma la reificano, dissociandola dal movimento del pensiero individuale, la snaturano, facendo di un'aspirazione, che originariamente è una libera espressione delle coscienze, uno strumento per il loro asservimento. Quando l'idea postula, per la sua realizzazione, il sacrificio della nostra autonomia personale; quando tende a ridurci alla nostra dimensione sociale; quando assolutizza regole di comportamento tali che sfuggono all'esame della nostra riflessione; quando, infine, non accorda alla nostra libertà altra opzione che l'accettazione o il rifiuto in blocco dei valori cui si ispira, allora possiamo attribuirle la qualifica di ideologia.
Sarebbe sconfortante dover constatare che un simile destino attende tutte le idee socialmente e politicamente operanti. E significherebbe distruggere il valore della democrazia ritenere che il popolo non abbia altro mezzo, per vedere adempiuti i propri voti, che consentire la loro ‛plasmazione' alienante da parte dei poteri ideologici. La democrazia non sarebbe altro allora che la caricatura di un ideale giacché, fingendo di fondare il potere sulla libera volontà degli uomini, condurrebbe all'instaurazione di poteri che detterebbero agli uomini ciò che debbono volere. Un tale pessimismo è certamente eccessivo, anche se bisogna convenire che caratterizza una certa maniera, oggi abbastanza diffusa, di intendere il significato delle ideologie.
Il pensiero neomachiavellico non vede altro, nell'ideologia, che un'arma utile alla lotta politica. Di notevole efficacia per galvanizzare le masse, l'ideologia, per coloro che agognano il potere, non sarebbe che uno strumento per impadronirsene e, per quelli che lo detengono, un mezzo per far prevalere le loro mire particolari. I dirigenti comunisti sfruttano la fiducia in un avvenire radioso per ottenere i suffragi degli elettori; i governanti attizzano l'ideologia nazionalista o la fede liberale per giustificare gli scacchi della loro politica estera o far accettare ai governati la penuria alla quale conduce la loro politica economica. L'uso della propaganda ideologica non permette purtroppo di dubitare che un tale cinismo nel modo di servirsi delle idee sia frequente. Sarebbe però semplicistico vedere nell'ideologia soltanto una tecnica di manipolazione dell'opinione. Non si può valutare il senso delle ideologie tenendo conto solo di quelle che hanno successo; bisogna considerare anche quelle che falliscono. Da questo confronto risulta che, per abile che ne sia l'impiego da parte di quanti sono politicamente interessati al suo successo, un'ideologia ha probabilità di imporsi solo se risponde - poco importa se attraverso un'analisi esatta o mistificatrice della situazione - a un'aspettativa delle masse. L'interpretazione neomachiavellica pecca di un eccesso di machiavellismo, giacché l'esperienza prova che non si costruisce un'ideologia con un qualsiasi sistema di pensieri. L'ideologia operante si radica soltanto in una società conflittuale, nella quale si presenta come una risposta a tensioni giudicate intollerabili. Il rimedio esaltato dall'ideologia può essere illusorio o menzognero, ma il male che pretende di guarire è certo reale.
5. Imprevedibilità della fine delle ideologie
Basandosi implicitamente su quest'ultima constatazione, parecchi autori annunciano oggi la fine delle ideologie. Questo tema dà il titolo a un'opera del politologo americano D. Bell, pubblicata nel 1960: The end of ideology. On the exhaustion of political ideas in the fifties. Il successo di questo libro testimoniava come esso rispondesse a una diffusa corrente di pensiero, la cui origine può esser fatta risalire a A. Comte quando, nella ‛legge dei tre stadi', prediceva che lo stadio positivo sarebbe succeduto allo stadio metafisico. Modernizzata, e con la pretesa di trovare la propria verifica nell'osservazione sociologica, è ancora questa la tesi difesa, dal 1955, da H. Tingsten e ripresa da S. M. Lipset (v., 1960). Fu anche accettata dalla maggior parte degli intellettuali che parteciparono al Congrès pour la liberté de la culture, tenuto a Milano nel 1955, e al Colloque de Rheinfelden (gli atti furono pubblicati nel 1960). È la tesi anche di R. Aron, che la formulò nello Opium des intellectuels (1955), riconfermandola poi nei Trois essais sur l'âge industriel (1966). In maniera più o meno dichiarata, le argomentazioni di questi autori costituiscono il succo di ciò che viene abitualmente considerato il pensiero tecnocratico. Nelle sue linee essenziali, questo pensiero si articola movendo dai supposti effetti del progresso scientifico e tecnico. Nel mondo contemporaneo gli uomini diventerebbero sempre più coscienti dell'irrealismo mitico delle strutture ideologiche. Non per questo però sentirebbero vanificate le proprie aspirazioni; anzi, lungi dall'attenderne il soddisfacimento dall'avvento di un'ideologia, che è solo la proiezione impotente dei loro sogni, essi lo cercherebbero in una padronanza sempre più razionale dei meccanismi sociali. Il futuro non cesserebbe di determinare il loro comportamento; ma, anziché immaginarlo secondo una mentalità prelogica, lo costruirebbero mediante l'accrescimento della produttività, lo sviluppo delle tecniche economiche e psicologiche e la razionalità di una prospettiva elaborata con tutte le risorse del pensiero scientifico: ricerca operativa, informatica, calcolo delle probabilità, ecc. Donde la conclusione, implicita ma evidente, che una tale impresa non può essere affidata agli uomini politici nell'accezione tradizionale del termine. Essa presuppone l'installazione ai posti di comando di tecnici, capaci di condurla a buon fine nella misura in cui spogliano i fatti, le relazioni e gli obiettivi delle scorie ideologiche, generatrici di tensioni sociali irridubicili. Le ideologie consolatrici perdono il loro potere di seduzione quando la felicità che promettono può essere costruita scientificamente con l'aiuto dei calcolatori.
D'altro canto, si aggiunge, se la mentalità contemporanea è disposta a una tale conversione, ciò avviene perché le ideologie sono scalzate dall'ampliamento dell'orizzonte che si offre all'osservazione degli uomini d'oggi. L'uomo dell'ideologia è l'uomo di un'idea fissa: un'idea che gli è in qualche modo imposta dall'universo ristretto che determina la sua condizione. Ora, uno dei caratteri delle società altamente sviluppate è quello di moltiplicare le interrelazioni sociali; e se crediamo agli studi di psicologia sociale, più l'individuo moltiplica i suoi contatti con ambienti differenti, più sono numerose le comunità alla cui vita partecipa, e meno il suo comportamento politico è determinato da un fattore unico. In realtà, l'innalzamento del livello di vita, il progresso delle tecniche d'informazione, che facilita l'influenza dei mass media, il ravvicinamento degli individui nelle attività del tempo libero, la standardizzazione dei prodotti offerti da una produzione di massa hanno certo come effetto l'eliminazione dei compartimenti stagni della società, nella quale introducono modi globali di pensare e di agire. Se, dunque, le ideologie attraggono in quanto procurano ai gruppi settoriali la coscienza della loro originalità, non possono che perdere il loro credito quando le vecchie strutture sociali si sgretolano. Il loro declino sarebbe dunque inseparabile dal movimento che porta le società altamente sviluppate verso un'integrazione sempre più stretta dei loro membri.
In appoggio alla tesi tecnocratica, si adduce infine la crisi in cui verserebbero attualmente le ideologie. Un primo sintomo della crisi si rivela negli scismi che le lacerano. Anziché adempiere alla funzione integratrice che le caratterizzò ai tempi del loro apogeo, le vediamo al contrario suscitare nuovi gruppi, che si raccolgono in fazioni rivali. Questa atomizzazione delle credenze, che ha sempre accompagnato il crepuscolo delle religioni, traduce l'incapacità delle ideologie a rispondere ai problemi del nostro tempo. E in realtà - seconda manifestazione della crisi che le travolge - le ideologie sembrano colpite da paralisi allorché, installatesi per via democratica al governo, si rivelano incapaci di introdurre una politica rispondente alla propria finalità. Anziché premere sulle strutture sociali ed economiche per ringiovanirne i tessuti, si piegano alla congiuntura; dimenticano il proprio progetto e cedono alle coercizioni imposte dagli interessi. Questa rinuncia testimonia la loro debolezza dinanzi a quel diverso tipo di raggruppamento degli individui, costituito dai gruppi di pressione. La proliferazione di questi ultimi e la loro potenza nella società contemporanea possono effettivamente essere interpretate come un terzo segno del declino delle ideologie. Aggregandosi ai gruppi di pressione, gli individui dimostrano la propria preoccupazione di integrarsi nell'ordine esistente al fine di ottenerne i vantaggi desiderati, senza più attendere la realizzazione nel mondo futuro annunciato dalle credenze ideologiche.
Le enunciazioni, su cui si fonda la sorte fatale riservata alle ideologie, sarebbero più credibili se non unissero, inopportunamente, una constatazione e un processo. Inoltre, la constatazione è discutibile, e il processo tendenzioso.
Rilevare la disaffezione che colpirebbe oggi le vecchie ideologie non implica che tutte le ideologie siano condannate. Se è vero che gli individui si allontanano da certe credenze irrazionali, cui aderivano sino a poco tempo fa, ciò accade perché sono attirati da un'ideologia nuova, quella appunto che pone l'accento sulle supposte virtù della tecnica e della crescita economica. Senza dubbio le rappresentazioni suscitate da questi fattori tendono a riunire tutti i membri del gruppo in una visione comune dell'avvenire, mentre le vecchie ideologie accentuavano le divisioni sociali; ma non per questo tali rappresentazioni presentano in misura minore tutti i caratteri per mezzo dei quali abbiamo definito l'ideologia. Prova ne sia che tendono a legittimare un potere, quello appunto che s'imporrebbe in una tecnocrazia. Non si verifica dunque una scomparsa delle ideologie, ma una sostituzione di un'ideologia nuova ad altre, la cui forza persuasiva si è affievolita. D'altra parte, sarebbe imprudente dedurre la prossima scomparsa delle ideologie dalla convergenza dei fatti che ne testimoniano il fallimento. In questo modo si può stabilire, tutt'al più, la loro inefficacia; ma non è questa una prova che il loro ruolo sia terminato. Avendo noi vissuto, durante la prima metà del secolo, nell'età del trionfo delle ideologie, ci siamo abituati ad associarne l'esistenza al successo. Ma, essendo puramente congiunturale, una tale connessione è abusiva. Il ruolo di un'ideologia non consiste nel riuscire, consiste nel far vivere gli uomini dando loro una ragione di speranza.
Ora, è proprio per il fatto di non riconoscere questa funzione che il processo intentato alle ideologie è tendenzioso. Esse costituirebbero, ci vien detto, un fenomeno anacronistico. Prodotto di una cultura che rivela una mentalità prescientifica, edificano sistemi di valori da cui deriva una visione eleatica del mondo. Anziché accettarne l'evoluzione secondo leggi obiettive, le ideologie la deviano verso strade senza uscita, essendo il loro tracciato tributario dei fantasmi nati dalla paura, dal desiderio e da tutte le costrizioni della passione. Alla scienza, che si basa su una coscienza fenomenologica, esse oppongono le resistenze di una coscienza creatrice di valori, i cui imperativi sono tanto energici quanto inverificabili. Lungi dall'essere creatrici, le ideologie rappresentano perciò, dinanzi ai mutamenti del mondo contemporaneo, le forze di un combattimento di retroguardia impegnato dalla mentalità mitica, legata a strutture culturali sorpassate. In breve, le ideologie sarebbero il rifugio dei disadattati.
Senza entrare in una critica particolareggiata di questo modo di argomentare, è sufficiente, per valutarne la fragilità, prendere in considerazione il postulato sul quale esso si fonda, che tende a stabilire che la politica, se vuol mettersi al passo con la scienza, può e deve affrancarsi dalla mentalità magica che le ideologie conservano. Ora, questo postulato misconosce la specificità stessa dell'universo politico, consistente appunto nel suo carattere magico. Ho tentato altrove di mostrare come l'universo politico non appartenga allo stesso ordine dell'universo fisico (v. G. Burdeau, op. cit. vol. I, n. 97 s.). I fenomeni che lo costituiscono debbono il proprio carattere politico alla loro appartenenza a un sistema di rappresentazioni, il quale non si iscrive nella fenomenologia concreta. La realtà è neutra; è la coscienza che è politica. L'universo politico, quindi, non è una semplice concettualizzazione del dato sperimentale; è un mondo popolato di convenzioni e di simboli, dai quali le situazioni e i comportamenti traggono il proprio significato. Ne deriva che l'uomo è indotto ad attribuire un senso a fenomeni che, isolati dall'idea che egli stesso se ne fa, non ne comportano alcuno. È questo senso a collegare i fenomeni gli uni agli altri, a connetterli in un sistema, in un insieme significante. Solo che questi segni non sono elaborati partendo da una riflessione razionale, poiché hanno appunto lo scopo di aggiungere un senso a ciò che l'osservazione registra. Essi nascono da un ordinamento di credenze, di leggende e di miti, che hanno a un tempo un valore esplicativo e il ruolo di un linguaggio. In queste condizioni, dare per scontata la fine delle ideologie puntando sul trionfo della razionalità significa puramente e semplicemente prevedere la scomparsa del politico. Un'ipotesi del genere non può fare a meno di mettere in questione l'esistenza stessa della società; non può cioè suscitare una reazione molto diversa dallo scetticismo.
Sul fatto che la mentalità sociale sia fondamentalmente irrazionale, l'esperienza quotidiana e l'insegnamento dei sociologi non permettono di avere molti dubbi. Si verifica senza dubbio che le reazioni della coscienza collettiva possano essere tradotte in una formulazione logica; ma si tratterà allora soltanto della ricostruzione, da parte dell'osservatore, di un processo che, nel suo svolgimento reale, era perfettamente indifferente agli imperativi dell'esperienza e della ragione. Il fatto è che soltanto l'individuo ragiona. I gruppi sentono, credono, sognano, immaginano e rammentano, ma il meccanismo intellettuale che chiamiamo ragionamento rimane loro estraneo. In questa inettitudine al ragionamento, che sembra essere una delle condizioni della loro vitalità, le ideologie trovano in compenso una strada che non sembra prossima alla fine.
Il fatto è che, per le ideologie, soltanto una fine è concepibile: l'avvento della verità. Si sa che cosa significhi una tale Pentecoste per un credente. Per coloro che non l'attendono né da una rivelazione interiore nè da una parusia, non è escluso che una più esatta conoscenza dei fenomeni umani e una sensibilità più tormentata per la decadenza che i valori subiscono a causa del loro sfruttamento ad opera dei sistemi economici, sociali o politici, possano condurli all'affrancamento dalle scorie in cui li rinserra la loro mutilazione ideologica. Sarebbe allora possibile salutare la nascita dell'era scientifica dell'umanità, in cui l'uomo parteciperebbe della verità non per il tramite di rappresentazioni dubbie, ma nell'autenticità della sua essenza obiettiva. Da questo mondo di valori veri, l'ideologia sarebbe evidentemente bandita; ma potrebbero gli uomini vivere nella purezza della sua atmosfera rarefatta?
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