Poeta (Verona 1753 - ivi 1828). P. fu scrittore fecondo e versatile, celebrato ai suoi tempi quasi quanto il Foscolo e il Monti. Oggi è ricordato soprattutto per la traduzione dell'Odissea, corretta, coscienziosa, in qualche parte anche aderente ed efficace, ma nel complesso scolorita in confronto all'originale, ché il Pindemonte traduttore è ben lontano dall'impeto e dal calore del Monti. Le sue poesie peccano di prolissità e spesso s'attardano oziosamente in artificiose esercitazioni letterarie. Piacquero tuttavia, e talune fra le migliori piacciono ancora per il loro accento di soave, pacata mestizia e di blando misticismo. La novità di alcuni motivi lirici, il facile sentimentalismo di alcune novelle in prosa e in versi, i nordici e ossianeschi colori di una tragedia, l'Arminio, incerta fra l'indirizzo shakespeariano e l'alfieriano, avvicinano P. ai romantici e ravvivano d'interesse storico la sua opera, documento dell'evoluzione morale e artistica operatasi fra Settecento e Ottocento.
Nacque da nobile famiglia ricca di tradizioni letterarie. Compiuta la sua educazione nel collegio San Carlo in Modena, ritornò alla città nativa e alternò gli studi coi piaceri e gli svaghi che la sua agiata condizione gli concedeva. Viaggiò molto, aprendo l'animo alle più diverse espressioni e tendenze. Dopo alcune cose giovanili, pubblicò nel 1788 il Saggio di poesie campestri (poi con l'aggiunta di prose campestri, 1795; ed. defin. Le prose e poesie campestri, 1817), in cui l'Arcadia è superata in una sognante malinconia che fa presentire prossimo il Romanticismo. Dal 1784 dimorò per qualche anno nella sua villa di Avesa, compiacendosi di quel soggiorno propizio alla meditazione e alla contemplazione delle bellezze naturali, che trovarono in lui un delicato se non appassionato cantore. Fra il 1788 e il 1791 fu a Parigi, Londra, Berlino, Vienna: frutto di questi viaggi fu un romanzo fra il satirico e l'autobiografico, Abaritte (1790). Aveva nel 1789 celebrato gli albori della Rivoluzione nel poemetto La Francia; ma non tardò a ricredersi e restò poi curioso ma appartato testimone, senza viltà ma anche senza profondo impegno spirituale, dei grandi eventi che trasformavano in quegli anni il mondo politico e sociale. Così anche non si impegnò mai nella polemica classico-romantica, pago del suo classicismo a cui inquietudini romantiche non toglievano l'impeccabile decoro formale. Nel 1805 si accinse alla traduzione dell'Odissea (pubbl. 1822), corretta ma un po' scialba. Dello stesso 1805 sono le Epistole in versi. A lui, che aveva iniziato un poemetto su I cimiteri, Foscolo dedicò i Sepolcri: sicché egli interruppe il suo poema e compose un'epistola dallo stesso titolo foscoliano (1807). Tra le altre opere, vanno ricordate le Novelle (1792), i Discorsi riguardanti la tragedia (1812), i Sermoni (1819), il poemetto Il colpo di martello del campanile di San Marco (1820), gli Elogi dei letterati italiani (1826), e soprattutto la tragedia Arminio (1804), ricca di echi alfieriani, shakespeariani e ossianici. Tra le altre tragedie da lui composte: Eteocle e Polinice; Geta e Caracalla; Annibale in Capua.