Vedi Iraq dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Iraq, che sembrava aver recuperato una certa stabilità interna dopo anni di conflitti, è nuovamente sprofondato in una crisi militare e politica che, inserita in un arco di crisi regionale, è arrivata a frantumare la stessa integrità territoriale dello stato.
Negli anni Ottanta, sotto la guida di Saddam Hussein, la ‘Terra dei due fiumi’ era una delle potenze regionali e poteva contare non solo su ingenti riserve di idrocarburi, ma anche su un apparato militare solido e all’avanguardia rispetto alle altre potenze regionali. Con l’ascesa di Khomeini in Iran, e il conseguente mutamento nella politica regionale americana, l’Iraq aveva visto aprirsi nuovi scenari. Saddam divenne in breve tempo l’alleato dell’Occidente in chiave anti-iraniana, nonché un fondamentale pilastro della strategia mediorientale di Washington, come testimoniato dal sostegno degli Usa e delle monarchie del Golfo nel conflitto contro Teheran (1980-88). Nel decennio seguente, l’eccessiva forza militare e le politiche aggressive di Saddam Hussein hanno determinato l’isolamento internazionale di Baghdad: in risposta all’invasione del Kuwait del 1990, nel gennaio del 1991 una coalizione internazionale guidata dagli Usa condusse una campagna militare di liberazione che distrusse la capacità di proiezione militare irachena. Dopo un decennio di no-fly zone, embargo e occasionali raid aerei, l’operazione Iraqi Freedom, del marzo 2003, ha sancito la fine del regime di Saddam Hussein. Il nuovo Iraq ‘liberato’ si è però rivelato ben diverso da come prospettava l’amministrazione neocon di George W. Bush. Il vuoto di potere post-regime, unito alla disastrosa gestione della Coalition Provisional Authority (Cpa) di Paul Bremer e dei successivi governi iracheni – dominati dall’uomo forte della politica nazionale Nouri al-Maliki – hanno infatti esacerbato le divisioni settarie esistenti nel paese, trascinando, tra il 2006 e il 2007, l’Iraq in un sanguinoso conflitto civile. Una nuova strategia americana (il cosiddetto surge), unita ad una maggiore partecipazione politica inter-settaria ha permesso la diminuzione della violenza nel paese. Tuttavia, le tensioni etniche sono rimaste consistenti e il ritiro definitivo delle truppe Usa (2011) ha incrementato il potere del premier sciita al-Maliki che, sostenuto dall’Iran, ha nuovamente fatto uso di politiche settarie come strumento di potere, ingaggiando una dura battaglia con esponenti politici sunniti di primo piano. Tutto ciò ha catalizzato il malcontento diffuso nella comunità sunnita: stimolate anche dal progressivo spillover della crisi siriana, le latenti fratture inter-etniche irachene sono esplose definitivamente nel giugno del 2014, quando il movimento radicale islamico dello Stato Islamico in Iraq e Siria (Isis), già attivo nella zona grigia del confine con la Siria, si è impossessato del secondo centro del paese, Mosul – anche grazie al sostegno della popolazione locale, quasi totalmente sunnita. L’Isis (in seguito auto-nominatosi soltanto Is, Stato islamico) è forte di un network che dall’est della Siria si espande nelle zone a maggioranza sunnita del nord e dell’ovest dell’Iraq, coprendo circa un terzo del paese. Grazie al sostegno finanziario dei donatori del Golfo e alle ingenti risorse petrolifere, finanziarie e militari accumulate nella presa di Mosul, l’Is ha progressivamente consolidato le proprie posizioni, arrivando alle porte di Baghdad e minacciando la regione autonoma del Kurdistan nell’estate del 2014. Le pressioni interne e internazionali hanno portato alle dimissioni di al-Maliki che, nonostante si fosse nuovamente imposto alle elezioni dell’aprile 2014, è stato sostituito da Haider al-Abadi nell’agosto seguente.
Per quanto riguarda l’ordinamento istituzionale, l’Iraq ha una struttura federale che – fatta salva la preminenza del governo centrale – prevede forme significative di autonomia, soprattutto nel caso del governo regionale del Kurdistan (Krg), dotato di un proprio esecutivo, di un parlamento e di proprie forze armate, note come Peshmerga. Seppur non impostato secondo un modello formalmente consociativo, il sistema politico iracheno è fortemente segnato dalle divisioni etnico-religiose. Proprio per questo motivo, sin dal 2005, le maggiori cariche dello stato sono state assegnate tenendo conto della composizione del tessuto sociale iracheno. La carica di presidente della repubblica è stata sempre assegnata a un esponente curdo (dal giugno 2014 Fouad Masum, succeduto all’anziano leader Jalal Talabani), quella di primo ministro a un arabo sciita (al-Abadi) e quella di presidente del parlamento a un arabo sunnita (Selim al-Jabouri). Le stesse dinamiche sono state riproposte anche per i maggiori dicasteri. Nonostante (o forse anche a causa) di tale impostazione, l’equilibrio istituzionale appare piuttosto fragile, come testimoniato dalla crisi attuale e dalle ricorrenti crisi istituzionali degli ultimi anni.
L’Iraq si presenta come un paese composito sotto il profilo dell’appartenenza etnico-religiosa. Secondo le ultime stime (la cui veridicità è difficilmente dimostrabile dato che l’ultimo censimento condotto sull’intero territorio nazionale è avvenuto nel 1987), il 97% degli abitanti è musulmano. Ma sotto questa apparente omogeneità si cela la bipartizione tra sciiti (quasi il 60% della popolazione) e sunniti (attorno al 38%). Le minoranze comprendono i cristiani, sempre meno significativi a causa delle decine di migliaia di vittime causate dalle ripetute escalation di violenza e dell’esodo continuo. Esistono poi confessioni meno conosciute, come gli shabak, gli yazidi (questi ultimi duramente perseguitati dall’Is) e i mandei. La particolare conformazione etnico-religiosa dell’Iraq ha fatto sí che esso fosse considerato il paese mediorientale cerniera tra sunnismo e sciismo, così come tra mondo arabo e persiano. Benché sia difficile collocare nello spazio le diverse comunità, che spesso convivono in territori ‘misti’ (soprattutto nelle grandi città), la componente sciita si concentra nel sud e nel sud-est, spingendosi a nord fino a Baghdad e Diyala, mentre nel resto del paese si distribuiscono le comunità a maggioranza sunnita. Egualmente complessa è la composizione etnica dell’Iraq. Circa tre quarti degli abitanti sono arabi, ma esiste anche una consistente minoranza di curdi (15-20% della popolazione), che si concentra nelle regioni del nord e lungo una parte dei confini con Siria, Turchia e Iran. Con l’intensificarsi del conflitto in Siria, l’Iraq (e in particolare il Kurdistan iracheno) ha fornito ospitalità a migliaia di profughi, oggi nuovamente minacciati dall’avanzata dell’Is.
Stato dalle vaste riserve di idrocarburi, l’Iraq ha risentito delle fallimentari guerre di espansione condotte a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e di un lungo periodo di ostracismo da parte della comunità internazionale. Le sanzioni internazionali seguite alla Guerra del Golfo hanno portato il sistema al collasso. Solo con il varo nel 1996 del controverso programma ‘Oil for food’ dell’Un, l’Iraq ha potuto contare sulla ripresa delle rendite petrolifere, destinate, nelle intenzioni, all’acquisto di derrate alimentari e beni di prima necessità per migliorare le terribili condizioni di vita della popolazione. L’operazione Iraqi Freedom del 2003 non è riuscita a trasformare il paese nel modello di democrazia e di libero mercato prospettato dai circoli neocon americani. Solo negli ultimi anni la produzione petrolifera ha registrato una rapida crescita che ha portato Baghdad, nel corso del 2012, a divenire il secondo maggior produttore di petrolio dopo l’Arabia Saudita. Secondo i piani governativi, il livello di produzione attuale (circa 3 milioni di barili al giorno) dovrebbe triplicare entro il 2020, fungendo da volano per lo sviluppo dell’intero paese. La crisi nel nord non ha finora intaccato significativamente la produzione di greggio (localizzata nel più stabile sud sciita), pur permettendo all’Is di impadronirsi di alcune risorse energetiche e di assicurarsi ingenti profitti. Nonostante non abbia riserve di gas significative, lo sviluppo del settore potrebbe, da un lato, consentire un riequilibrio del mix energetico ancora troppo sbilanciato in favore del greggio e dall’altro favorire lo sviluppo della regione curda, nella quale si concentra circa il 60% della produzione irachena. Ciononostante, la mancanza di una rete di gasdotti o di impianti di liquefazione del gas fa sì che la produzione sia ancora destinata a soddisfare unicamente i limitati consumi interni.
Il problema dell’economia resta la forte instabilità interna, dato che nel 2015 il tasso di crescita a seguito del conflitto con Is è stato pari allo 0%, dopo essere arrivato a sfiorate il 10% nel 2013. L’inflazione, che fino al 2006 superava il 50% annuo, è scesa a livelli accettabili (1,9%). Al problema della forte dipendenza dell’economia dalla produzione petrolifera, si affiancano l’alto livello di corruzione e un tasso di disoccupazione che si aggira attorno al 16% della popolazione attiva, anche se probabilmente i dati ufficiali non riescono a tenere conto degli enormi problemi legati alla sicurezza.
Uno degli elementi principali della politica nazionale dell’era post-Saddam è rappresentato dalle politiche di difesa. Dopo la caduta del vecchio regime, il paese ha dovuto affrontare una difficile transizione anche dal punto di vista militare, legata non solo alla sconfitta subita nel 2003, ma anche allo scioglimento delle forze armate sancito dal governatore Bremer. Nel periodo 2003-09 Washington si è fatta direttamente carico della sicurezza interna e ha avviato programmi di reclutamento e addestramento delle nuove forze militari. Tutto ciò, unito alla messa fuorilegge del Baath, partito di Saddam Hussein, nel quale militavano principalmente i sunniti, ha finito per creare un esercito nazionale in gran parte sciita che, anche per l’indipendenza di fatto del Kurdistan – forte delle proprie milizie dei Peshmerga –, ha finito per identificarsi innanzitutto con le istanze del proprio gruppo. Al contempo, dal 2003 si sono formati diversi gruppi paramilitari affiliati alle svariate fazioni politiche. La frammentazione delle nuove forze armate e il problema delle ‘lealtà multiple’ ha messo in crisi la già precaria stabilità interna, facendo emergere il jihadismo sunnita e portando nel 2006 all’esplosione di un conflitto civile inter-settario. Tra il 2008 e il 2010 si è assistito a un calo degli attentati, grazie alla cattura dei leader di al-Qaida in Iraq e alla collaborazione di molti gruppi tribali sunniti. Come previsto dall’Accordo sulla sicurezza stipulato tra Washington e Baghdad alla fine del 2008, le truppe Usa hanno completato il ritiro nel dicembre 2011. A quella data la gestione della sicurezza irachena è stata affidata completamente al governo federale, che ha ripreso a favorire la componente sciita nelle forze armate. Queste ultime, nella percezione delle comunità sunnite, sono diventate poco più che un’altra delle milizie paramilitari sciite, che a loro volta hanno accresciuto il proprio potere, rafforzando i legami con Teheran. Tutto ciò si è unito al riemergere del terrorismo radicale sunnita (mai del tutto sopito), favorito dallo spillover del conflitto siriano. Nel corso del 2013 la conflittualità interna è tornata a livelli simili a quelli del 2008, con oltre 1000 vittime civili al mese, ma è nella seconda metà del 2014 che la situazione è degenerata, con l’ascesa dell’Is e la conseguente nuova spaccatura del paese su linee etno-settarie.
La caduta del regime di Saddam Hussein ha creato in Iraq lo spazio per l’emergere di forze politiche legate alle comunità fino ad allora discriminate: arabo-sciiti e curdi in primis. Saddam Hussein, pur adottando formalmente un’agenda laica e nazionalista, fondava il proprio potere su una rete di alleanze patrono clientelari che aveva il proprio epicentro nell’area di Tikrit, vero feudo arabo sunnita. Questa scelta aveva imposto la supremazia di parte della comunità arabo-sunnita sul resto della popolazione, in linea con quanto già accaduto in passato. La caduta di Saddam nel 2003, ha sovvertito gli equilibri consolidatisi sin dalla nascita dell’Iraq moderno, favorendo il reintegro delle comunità che erano state fino ad allora discriminate. In particolare gli sciiti, forti della maggioranza relativa nel paese (concentrata nelle province del centro-sud), hanno progressivamente occupato il posto degli arabo-sunniti, la cui comunità è stata marginalizzata. Ciononostante, anche all’interno dello stesso blocco arabo-sciita, si sono progressivamente create fratture, che hanno portato alla scissione tra il partito dell’ex primo ministro Nuri al-Maliki (Dawa) e un’ampia serie di formazioni, tra le quali il gruppo del leader religioso Moqtada al-Sadr, i sostenitori del giovane Ammar al-Hakim (guida del Supremo consiglio islamico dell’Iraq) e altri movimenti minori. In ambito curdo, invece, la storica diarchia tra Partito democratico del Kurdistan (Pdk) guidato dal presidente del governo regionale del Kurdistan Massud Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan (Upk), guidata, sino alla malattia, dal presidente dell’Iraq Jalal Talabani, pare aver ceduto il passo a un sistema più flessibile, come confermato dall’ascesa del movimento Goran. Al-Maliki ha ininterrottamente governato il paese dal 2006, e dal ritiro americano del 2011 ha ulteriormente aumentato il proprio potere, ingaggiando una durissima battaglia con esponenti politici sunniti, che ha portato alla fuga e alla condanna a morte in contumacia dell’ ex vice-presidente della Repubblica Tariq al-Hashimi, alle dimissioni dell’ex ministro delle finanze Rafi al-Issawi e all’arresto nel dicembre 2013 del parlamentare Ahmed al-Alwani, condannato a morte nel novembre del 2014. Tutto ciò ha accresciuto le tensioni con la comunità sunnita, provocando scontri settari, ampie manifestazioni di piazza e la parziale ingovernabilità delle province di al-Anbar e Ninive, creando di fatto le condizioni per la crisi esplosa nel corso del 2014. Nonostante la vittoria della coalizione di governo State of Law (Sol), alle elezioni legislative dell’aprile 2014, al-Maliki non è riuscito a risolvere una situazione già compromessa, e a seguito del progressivo peggioramento della crisi – sotto forti pressioni internazionali - è stato costretto a dimettersi nell’agosto dello stesso anno, assumendo però la carica di vicepresidente. L’8 settembre 2014 è stato formato un nuovo governo di unità nazionale per fronteggiare la minaccia dell’Is, con a capo Haider al-Abadi, anch’egli del partito a base sciita Dawa.
Il Kurdistan iracheno, grazie alla relativa omogeneità etnica del nord del paese, è la regione dell’Iraq che ha subito meno ripercussioni nella difficile fase attraversata dal paese tra il 2003 e il 2009. Inoltre, in seguito alle dure persecuzioni perpetrate dal regime di Saddam Hussein negli anni Ottanta (per le quali il dittatore è stato poi condannato per genocidio), il Kurdistan godeva di un’autonomia di fatto dal 1991, quando a seguito della prima guerra del Golfo venne creata una no-fly zone sotto mandato Un, per impedire al regime di intervenire nell’area. Pur rimanendo integrata formalmente nello stato iracheno, la regione era sotto il controllo di un governo autonomo (eletto nel 1992), e il suo territorio era già nel 2003 saldamente nelle mani della milizia armata dei Peshmerga – un vero e proprio esercito semi-autonomo. La stabilità mostrata dal Kurdistan iracheno (nonostante episodi di violenza in città periferiche ed etnicamente miste come Kirkuk) ha attratto ingenti investimenti esteri, che hanno ulteriormente potenziato il sistema energetico, dal momento che circa il 20% delle risorse complessive del paese si trovano in quest’area. Tutto ciò, unito alle differenze etniche che dividono i curdi dal resto degli iracheni, ha complicato le relazioni col governo centrale di Baghdad. Una soluzione parziale è stata raggiunta con la Costituzione del 2005, che prevede la creazione di uno stato federale, e la concessione di un certo grado di autonomia al Kurdish Regional Government (Krg). Non sono tuttavia state risolte le questioni legate al petrolio: il governo centrale non ha mai riconosciuto gli accordi di estrazione ed esportazione che il Krg ha stipulato sia con compagnie straniere, sia col governo turco – progressivamente diventato suo alleato, da maggiore oppositore dell’autonomia curda fino agli anni Duemila. Con Ankara in particolare è stato avviato un progetto per la costruzione di un oleodotto da 250.0000 barili al giorno. Le elezioni del 2013 hanno mutato dopo vent’anni il panorama politico regionale: subito dietro al tradizionale Kurdish Democratic Party di Masud Barzani si è affermato il nuovo movimento liberal-riformatore del Partito per il cambiamento. La nuova crisi scoppiata nell’estate del 2014 ha invece visto il Kurdistan iracheno in prima linea: lo Stato islamico ha ingaggiato una drammatica lotta con i Peshmerga del Krg, avanzando pericolosamente all’interno della regione curda e arrivando a minacciare la stessa capitale Erbil. Solo grazie al pronto intervento di una coalizione internazionale con operazioni aeree mirate di supporto (più alcuni consiglieri strategici americani sul campo e addestratori di vari Paesi europei tra cui l’Italia), i curdi sono riusciti a fermare e progressivamente respingere i jihadisti sunniti, tra agosto e settembre del 2014. La situazione rimane tuttora estremamente instabile, sebbene i Peshmerga sembrino aver ristabilito un certo vantaggio strategico sull’Is.
Le riserve di idrocarburi irachene si concentrano per quasi il 20% nel nord del paese, a maggioranza curda, e per circa il 70-80% nelle regioni del sud-est, a maggioranza arabo-sciita. Nelle regioni centrali invece, dove si concentra buona parte della comunità arabo-sunnita, non sono stati finora scoperti giacimenti significativi, sebbene non siano ancora state completate esplorazioni approfondite. A causa della non uniforme distribuzione delle riserve, la perequazione regionale delle rendite della vendita del petrolio è divenuta il principale oggetto del contendere tra il governo federale, le regioni e le province. Assieme alle istanze della regione autonoma del Kurdistan, altre province hanno manifestato la propria intolleranza verso il controllo esercitato da Baghdad. In particolare il governatorato di Bassora ha richiesto maggior autonomia e avviato un processo di trasformazione in regione autonoma che, in caso di successo, potrebbe alterare completamente le dinamiche politico-economiche dell’intero paese. Considerato il livello delle tensioni inter-etniche e inter-religiose, non è un caso che la bozza della nuova legge sugli idrocarburi, approvata dal governo nel 2007, si sia arenata in parlamento, e che la regione autonoma del Kurdistan abbia approvato nello stesso anno una propria legge petrolifera, nella quale si attribuisce il diritto di stipulare direttamente contratti con le compagnie straniere. Sebbene la Costituzione irachena del 2005 sancisca che il possesso delle risorse di idrocarburi sia dell’intero popolo iracheno, manca una cornice legale unitaria a livello federale che definisca in maniera organica e puntuale quali risorse debbano essere amministrate da Baghdad e quali dalle province e dalle regioni. Le controverse disposizioni costituzionali lasciano spazio a molteplici interpretazioni, che portano a un continuo braccio di ferro tra regioni, province e governo federale. Per ridurre le frizioni esistenti tra la regione autonoma del Kurdistan e il governo centrale, e in attesa di un censimento che stabilisca la popolazione delle diverse unità amministrative irachene, si è raggiunto un compromesso che prevede il trasferimento di circa il 17% delle rendite petrolifere a bilancio a Erbil.
Approfondimento
Lo Stato islamico (Is) si è ormai imposto come attore cruciale della violenza sia in Iraq, dove è nato, sia nell’intera regione mediorientale e mediterranea. La fondazione del califfato ad opera di al-Baghdadi risale a fine giugno 2014 quando, dopo una spettacolare quanto rapida avanzata, le sue milizie sono riuscite a conquistare la città di Mosul e ampie zone del centro-nord iracheno, ma in realtà le origini del gruppo vanno ricercate più indietro nel tempo. Il suo primo leader è stato, infatti, Abu Musab al-Zarqawi che dopo l’addestramento in Afghanistan sotto l’ala protettrice di al-Qaeda fondò la sua prima organizzazione, Jamaat al-Tawhid wal-Jihad, a fine anni ’90. Tale gruppo riuscì poi a imporsi in Iraq a seguito dell’invasione americana del 2003 e nel 2004 assunse il nome di al-Qaeda in Iraq (Aqi). Il legame con il gruppo guidato da bin Laden è però sempre stato problematico a causa delle differenti visioni strategiche, in particolare per ciò che riguarda l’uso degli attacchi suicidi: utili per Zarqawi come strumento per colpire gli sciiti e scatenare una guerra civile, mentre per al-Qaeda era una tattica per colpire la Coalizione. Aqi fu quindi protagonista assoluta non solo dell’insorgenza che seguì il 2003, ma anche della guerra civile del 2006 e dei video delle decapitazioni degli ostaggi (pratica poi tornata a essere ampiamente impiegata da Is). A seguito del cambio di strategia americano del 2007 e grazie al movimento del “Risveglio” delle tribù sunnite della provincia di al-Anbar, che si ribellarono al giogo del gruppo terroristico e appoggiarono il governo centrale, Aqi venne progressivamente marginalizzato e limitato nelle sue capacità operative fino quasi a scomparire.
Due fattori però ne favorirono il ritorno e la trasformazione nelle milizie attuali. Il primo fu il ritiro americano dall’Iraq nel 2011, in questo modo non solo la strategia di contrasto portata avanti fin dal 2007 perse l’elemento più forte lasciando da sole le forze di sicurezza irachene che non erano ancora pronte per un tale compito, ma tornarono inoltre a pesare le fratture profonde tra sciiti e sunniti con questi ultimi che in alcune regioni ripiegarono nuovamente su posizioni particolarmente estremiste. Al contempo, ed è questo il secondo elemento, scoppiò la guerra in Siria che permise al gruppo sia di trovare uno spazio operativo più permissivo, dove poteva muoversi con più libertà, sia di aumentare la propria esperienza bellica. Non è infatti un caso che tra l’estate del 2012 e quella del 2013 il gruppo si sia rafforzato costantemente in Iraq riuscendo a lanciare una serie di attacchi sempre più efficaci e complessi. Si trattava della cosiddetta operazione Breaking the Walls con la quale l’allora Isi (Islamic State of Iraq) ottenne almeno tre obiettivi: liberò elementi di spicco dalle prigioni irachene; affinò le sue tattiche operative; dimostrò ai suoi supporter di essere un attore credibile nel quadro regionale. A questo punto ormai la sua presenza sia in Iraq sia in Siria era forte e radicata, un fatto attestato dalla conquista della cittadina siriana di Raqqa (gennaio 2014) con cui il gruppo ha potuto mostrarsi come un’organizzazione territoriale in grado di controllare e amministrare porzioni di territorio tra Siria e Iraq e da cui poi è seguita la denominazione di Isis. Nel corso del 2014 le sue operazioni sono sempre più aumentate seguendo due linee operative principali. In Siria con modalità più vicine alla guerriglia ha colpito sia le truppe lealiste di Assad sia altri gruppi ribelli compresa la stessa al-Nusra, l’emanazione locale di al-Qaeda con cui nelle prime fasi della guerra civile c’era stata una sostanziale collaborazione e alleanza. In Iraq ha, invece, combinato azioni più guerrigliere ad attacchi terroristici (autobombe e azioni suicide che sono il marchio di fabbrica dell’organizzazione) e omicidi mirati meno mediatici ma molto efficaci per colpire elementi di spicco locali legati al governo centrale al fine di indebolire quest’ultimo. Tutto ciò sommato alla debolezza del governo centrale iracheno ha permesso all’Is di iniziare campagne operative più ampie e complesse culminate a inizio giugno 2014 nella conquista della città di Mosul e nell’avanzata fermata solo alle porte di Baghdad.
Tali operazioni con il conseguente sgretolamento dello stato iracheno hanno spinto gli Stati Uniti e la comunità internazionale a intervenire con raid aerei. Questo supporto ha sì permesso alle forze irachene (esercito regolare e milizie sciite) di riconquistare parte del territorio perduto come la città di Tikrit, ma non ha potuto evitare la caduta della capitale della provincia di al-Anbar, Ramadi, poi riconquistata dalle forze irachene nel dicembre 2015. La lotta contro IS ha così messo ancora più in evidenza la spaccatura tra sunniti, che pure con notevoli differenze al loro interno appoggiano l’insurrezione, e sciiti che invece la combattono grazie anche agli aiuti provenienti dall’Iran.
Tutto ciò ha esacerbato le tensioni, locali e internazionali, e complicato una situazione politica già estremamente complessa e fragile. Is si è ormai radicato a cavallo di Iraq e Siria creando ciò che ormai viene definito ‘Siraq’ e controlla alcune aree in Libia ed Egitto. Può essere quindi considerato un pericoloso attore della regione del Mediterraneo che ha saputo sfruttare sia i vuoti di potere che si sono venuti a creare in alcuni Stati a seguito delle cosiddette Primavere arabe sia la situazione conflittuale irachena per prosperare e creare così una seria minaccia alla stabilità regionale e all’Europa.
di Andrea Beccaro