La letteratura dell’Italia unita
Il primo e più significativo dei libri di memorie che l’Italia del Risorgimento consegnò all’Italia unita, I miei ricordi di Massimo d’Azeglio, si deve a un fortunato autore di romanzi storici, di quelli che accompagnarono passioni, ardimenti e speranze delle generazioni risorgimentali, ma, quel che più conta, protagonista di primo piano della politica sabauda negli anni bui seguiti alla sconfitta di Novara. La postuma edizione del libro (1867), rimasto incompiuto, è inaugurata, come è noto, da una prefazione che riporta un inquietante oroscopo sulla difficoltà (impossibilità?) di adeguare gli italiani, alla nuova realtà dell’Italia unita:
I più pericolosi nemici d’Italia non sono i tedeschi, sono gl’italiani. [...] Per la ragione che gl’italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima che si riformino loro (d’Azeglio 1971, p. 5).
Considerazioni da allora semplificate in proverbio da sempre attribuito a d’Azeglio, in realtà formulato da Ferdinando Martini nel 1896: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani».
Contestato da altri protagonisti della vicenda risorgimentale come espressione dell’isolamento politico in cui da tempo si trovava e di malumore imputabile all’età, il monito-appello dello scrittore e statista piemontese circa la scarsa caratura etico-politica della nazione e il carattere degli italiani imposta quel problema di una pedagogia nazionale che, negli anni, avrà significativi seppur contrastanti riscontri da parte della generazione intellettuale formatasi nel primo decennio della costruzione dello Stato unitario.
Prima preoccupazione di d’Azeglio – convinto che «agire sugli uomini per condurli al bene è uno scopo molto più nobile che quello di essere il primo poeta del mondo» – era offrire un contributo a quel progetto pedagogico. Politico navigato (anche in acque tempestose), ancorché sbalzato in quel ruolo dal mondo della pittura e della letteratura, viaggiatore instancabile, opinionista e uomo di mondo conoscitore di uomini e cose che, «cominciando dai sovrani, sino agli assassini di strada», aveva «avuto da vivere con tutti», d’Azeglio lascia così in eredità ai nuovi italiani un diorama di ritratti e di situazioni rievocati con gusto scanzonato e pittoresco, in contrasto in fondo con il rigido moralismo senza prospettive che lo isola dalla realtà del nuovo Stato e della società, quali si andavano profilando con l’Unità.
Dalle memorie di una vita vissuta a quelle di una vita immaginata, quale paradigma della formazione di un «italiano»: è il caso delle Confessioni d’un italiano, il romanzo composto da Ippolito Nievo tra il dicembre 1857 e l’agosto dell’anno successivo, ma pubblicato postumo, in Firenze capitale, dai Successori Le Monnier nello stesso anno dei Ricordi di d’Azeglio. Non è soltanto per un meschino calcolo editoriale se l’opera di maggiore caratura artistica della romanzeria risorgimentale subisce una «sterilizzazione» del titolo da parte dell’editore, il quale, per evitare che il pubblico si trovasse di fronte un’ennesima «pappolata politica», volle attribuire le Confessioni non a un «italiano», ma a un «ottuagenario». Ed è certo significativo che i Cenni biografici sull’autore premessi al romanzo reintestato si concludano con l’auspicio che si possa presto pubblicare anche l’epistolario di Nievo, «che certo troverebbe in Italia un’accoglienza ed una simpatia, non dissimile forse da quella che vi trovarono i Ricordi dell’illustre e compianto d’Azeglio» (Nievo 1867, 1° vol., p. v). L’accostamento non è del tutto arbitrario nella misura in cui le Confessioni intendono svolgere una funzione analoga ai Ricordi:
Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà la Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente, che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati (ivi, p. 1).
Evidentemente il sismografo letterario comincia a registrare, anche attraverso manipolazioni come quella testé ricordata, i primi segnali di una mutazione nel gusto e nel costume del pubblico, destinata a sfociare nel decennio successivo in una revisione critica del Risorgimento nazionale, anche muovendo da punti di vista opposti.
L’Italia da farsi era stata immaginata in diversi modi: il Manzoni epico di Marzo 1821 la prefigurò come «Una gente che libera tutta, / o fia serva tra l’Alpe ed il mare; / una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor» (Manzoni 1987, p. 106); Giovanni Berchet, all’altezza del 1831 ancora fervidamente unitario, lanciando il suo All’armi! All’armi! riecheggiava il coro del III atto dell’Adelchi: «Un popol diviso per sette destini, / in sette spezzato da sette confini, / si fonde in un solo, più servo non è» (Berchet 1992, p. 381). E la rassegna potrebbe durare a lungo: specchio ideologico di queste luminose prospettive, di questi generosi appelli le tante teorie e proposte politiche succedutesi negli anni, di cui il Quarantotto fece giustizia sommaria.
A ragione la Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero insisteva sul fatto che il «movimento intellettuale del Risorgimento», se ha una straordinaria importanza per la storia d’Italia, di cui preparò l’unificazione politica, non ha tuttavia quella «significazione europea» che protagonisti, epigoni ed esegeti gli hanno in seguito voluto assegnare: «Il motivo di questa sproporzione va ricercato nella tradizione letteraria, l’unico o il maggiore elemento di continuità della vita nazionale attraverso i secoli». Dopo i fasti intellettuali di Umanesimo e Rinascimento l’Italia ha convertito «il suo originario primato di civiltà e di scienza in un primato di ricordi» e l’autoreferenzialità della classe dei colti «ha reso le menti poco disposte e capaci ad ambientarsi nel clima della generale cultura europea; ed anche quando l’influsso straniero s’è fatto predominante, come nei secoli XVIII e XIX, l’incancellabile boria nazionale ha cercato di diminuirne l’importanza o di peggiorarne il significato». Donde «una certa grettezza provinciale da signori decaduti» e «quel falso pudore patriottico che smorza il coraggio di guardare ben addentro in sé stessi e di riconoscere le proprie deficienze e i propri limiti» (De Ruggiero 1962, pp. 288-289), il rifiuto degli scambi culturali, la malintesa autosufficienza degli spiriti e delle forme della tradizione, il rifugio nella retorica. Limiti, insufficienze, stravolgimenti, una zavorra culturale e ideologica che la letteratura postunitaria si porterà dietro ancora per almeno un decennio, fino al salutare incontro con la cultura positivista e la letteratura naturalista che in quella affonda le sue radici.
Fino dal 1861 d’Azeglio si era dichiarato convinto che Firenze, più di qualunque altra città italiana, sarebbe stata adatta ad accogliere il governo della nazione; opinione condivisa anche dal capo di stato maggiore, generale Manfredo Fanti, per motivi strategici. E furono appunto motivi di questo ordine che fecero di Firenze, dopo la Convenzione di settembre e dopo l’unione «ricasoliana» della Toscana al regno di Sardegna, la capitale del nuovo Stato.
Già nell’età dell’Illuminismo era apparso chiaro come la Toscana avesse da tempo perduto il proprio primato culturale: prova ne sia che la politica delle riforme, durante il glorioso periodo leopoldino, è fiancheggiata da una trattatistica di studiosi-amministratori funzionale alla politica del principe illuminato, affatto aliena da speculazioni teorico-politiche altrove in Italia spinte fin oltre le soglie dell’utopia. Ma è proprio tra la fine del Settecento e i primi decenni del secolo nuovo che si consolida il mito di Firenze, non più centro vivo e vitale di letteratura, ma città simbolo, ideale meta dei maggiori scrittori dell’epoca: da Vittorio Alfieri a Ugo Foscolo, da Alessandro Manzoni a Giacomo Leopardi.
Al mito tuttavia non corrisponde la realtà di una letteratura che a Firenze si muove in un’atmosfera provincialmente autoreferenziale tra classicismo, purismo e pedanteria cruscante, baluardo contro la diffusione del romanticismo «importato», al tempo dell’«Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux, da letterati non toscani come Niccolò Tommaseo e Pietro Montani. Così che il Romanticismo troverà espressione in Toscana fuori della Firenze politicamente moderata del «gran guelfo» Gino Capponi, nella zona costiera, tra il fervido centro universitario e studentesco di Pisa e la Livorno popolare fieramente avversa al governo granducale, in un ambiente di mazzinianesimo letterario aperto alle suggestioni più estreme del byronismo europeo. Caso esemplare quello del livornese Francesco Domenico Guerrazzi – agitatore repubblicano in politica e protagonista del Quarantotto in Toscana, nonché narratore a forti tinte, tra oratoria parenetica e tenebroso gusto neogotico – i cui romanzi più celebri (La battaglia di Benevento del 1827 e L’assedio di Firenze del 1836) furono, prima del Quarantotto, autentici livres de chevet dei patrioti italiani.
Firenze capitale e la Toscana letteraria in generale, in attesa di Giosue Carducci, di Carlo Collodi e delle prove più mature degli esponenti della generazione del Quaranta (Ferdinando Martini, Renato Fucini, Mario Pratesi) non offrono significativi esempi di scritture in versi e in prosa pur se, nel corso del quinquennio 1865-1870, si arricchiscono di una fervida vita teatrale, giornalistica (grazie anche al trasferimento di giornali nati altrove, nella capitale, nella quale domina «La Nazione», il più antico quotidiano dell’Italia unita, apparso il 19 luglio 1859, auspice Bettino Ricasoli), universitaria (l’Istituto superiore di perfezionamento, fondato, per merito di Cosimo Ridolfi, nel 1860) e artistica (il «Caffè Michelangelo» dei macchiaioli e, di contro, l’Accademia di Belle Arti). L’Istituto – ricorda un «ex cronista» – «era come il centro, il focolare della cultura intellettuale di Firenze, la quale aveva, anche prima del trasferimento della capitale, indole ed impronta non locale ma nazionale» e come tale attirò «uomini ragguardevoli in ogni ramo dello scibile» (Pesci 1904, p. 385), come lo storico Pasquale Villari e il filosofo Giuseppe Ferrari.
Ma l’aspetto fondamentale della vita culturale fiorentina negli anni della capitale è costituito dall’attività editoriale. Sparite le piccole librerie e tipografie editrici degli anni precedenti l’Unità, crebbero rapidamente al loro posto imprese di importanza nazionale: così, nel 1865, la casa editrice fondata dal tipografo francese Felice Le Monnier – dal 1843, con la pubblicazione dell’Arnaldo da Brescia di Giovanni Battista Niccolini, decisamente schierato a favore della causa italiana come dimostrò la «Biblioteca Nazionale» (nella quale sarebbero comparse opere di Giordani, Giusti, Guerrazzi, Leopardi) – essendo il fondatore convinto di aver ormai compiuto la propria missione, fu rilevata dalla società Successori Le Monnier presieduta da Ricasoli, mentre prosperava la casa editrice fondata nel 1854 da Gaspero Barbèra che al giovane Carducci affidò il compito di indirizzare il programma editoriale e raccolse intorno a sé altri illustri personaggi quali Capponi, Tommaseo, Giovanni Prati. Ancora: nel 1862 nasce, sulle ceneri della vecchia Paggi, per iniziativa di Roberto Bemporad l’omonima casa editrice, destinata a meritata fortuna con le edizioni dedicate alla gioventù e, verso la fine del secolo, con l’edizione delle opere di Giovanni Verga e di Luigi Pirandello, nonché con l’edizione nazionale delle opere di Dante curata dalla Società Dantesca Italiana. Senza contare che nella capitale arrivarono i torinesi Fratelli Bocca, Ermanno Loescher, Giovanni Battista Paravia, «fondando a Firenze negozi succursali a quelli di Torino, sì che nella capitale d’Italia era facile acquistare o consultare qualunque novità libraria, rivolgendosi per i libri stranieri anche al Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux» (Pesci 1904, pp. 406-407).
L’élite culturale, quale cresce nelle rinnovate istituzioni, nella nascente industria culturale e nei salotti di Firenze capitale, appare inevitabilmente eterogenea e sostanzialmente estranea, come storia e formazione, alla classe dirigente cattolico-liberale o più genericamente moderata protagonista, con il sostegno di tribuni popolari di fede mazziniana, degli eventi culminati nel fatidico 27 aprile 1859 e dell’unificazione della Toscana con il Piemonte che aveva significato la trasformazione della prospettiva «padana» di Cavour in prospettiva nazionale (Spadolini 1972, pp. 162-163). Quanto dire che nella Firenze postunitaria, mentre la vita politica subisce un’accelerazione, la vita culturale e la produzione letteraria ristagnano (con l’eccezione dell’avanguardia dei macchiaioli) nell’impasse di un passato che non tramonta e di un’alba che tarda a spuntare.
Sintomatica di questo ritardo l’attività, tra il 1856 e il 1859, della brigata degli «Amici pedanti», raccolti intorno al giovane Carducci in nome di una restaurazione classicista e di un truce antiromanticismo. La prova nella Giunta alla derrata. Ai poeti nostri odiernissimi e loro difensori, manifesto di poetica letteraria e di vita morale, che comprende i due discorsi dell’animatore del gruppo sotto il titolo Della moralità e della italianità de’ poeti nostri odiernissimi. In quelle pagine Carducci sostiene: 1) che la «mala moralità di moltissime […] scritture odierne» deriva dai «principi del romanticismo» che ha escluso la «perfezione ideale alle arti belle» per «ammettere come oggetto di queste il vero o le cose vere»; 2) «che il romanticismo è teorica forastiera non consentanea al genio de’ popoli italiani, onde perniziosa alle nostre lettere» e, come tale, nefasto indizio della «servitù intellettuale di un popolo» (Carducci 1939, pp. 109, 110, 140).
Così nella Firenze dell’autunno 1856. Poco meno di un anno dopo, a Parigi, si sarebbero celebrati i processi penali contro Madame Bovary di Gustave Flaubert e Les fleurs du mal di Charles Baudelaire, accusati di oscenità dal pubblico ministero Ernest Pinard. Nel gran quadro della civiltà letteraria europea il ritardo della letteratura italiana sembra addirittura incolmabile, ma è proprio negli anni 1865-70, nella Firenze capitale prima e nella Milano degli scapigliati subito dopo, che si delinea, pur fra incomprensioni, resistenze e smanie passatiste, una fase di recupero destinata a dare i suoi frutti negli anni Ottanta: non è un caso che, per diventare scrittore grande, il catanese Verga cominci il proprio percorso a Firenze e lo concluda a Milano. Per ora, nella capitale, il cambiamento è propiziato dai meteci italiani e stranieri ivi convenuti; tra questi, celebri e celebrati protagonisti di quella letteratura risorgimentale che in Toscana aveva dato scarsi frutti. Con Francesco Dall’Ongaro, Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Niccolò Tommaseo, si può dire arrivi nell’ex Granducato, con oltre mezzo secolo di ritardo, il Romanticismo, fino allora solo casualmente filtrato (con le eccezioni dei livornesi Guerrazzi e Carlo Bini) tra le maglie di un esausto tradizionalismo. Ma un Romanticismo ormai declinato, grazie anche alla rivoluzione in atto nelle arti figurative, in senso realistico e sociale. In questo clima la diffusione delle novità d’Oltralpe (di tutte, più importante la narrativa di Honoré de Balzac) sarà decisiva nella stratificazione del terreno di cultura della narrativa che si disse verista.
Nel processo di riappropriazione da parte del giovane Stato di un’identità culturale che, conferendo alla tradizione letteraria la funzione di vettore della coscienza nazionale, aprisse un nuovo orizzonte culturale e civile, rivestono un solenne significato simbolico le celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante che si tennero in Firenze, pochi mesi dopo il trasferimento della capitale, nella seconda metà del maggio del 1865, alla presenza del re.
Occorre premettere che l’itinerario del dantismo italiano nell’Ottocento, coincidendo con la gestazione e la nascita della nazione, rivela di primo acchito una peculiarità che nettamente lo distingue da quelli di altre nazioni europee. Se infatti il recupero di Dante costituisce un atto fondativo comune a tutti i romanticismi europei, la via italiana a Dante si bipartisce: da una parte nel culto nazionalpopolare di un Dante profeta, mallevadore ideale dell’Unità della patria, dall’altra nella rifondazione degli studi danteschi sulla base dello storicismo romantico e della scientifizzazione della filologia. La prima opzione comporta la proclamazione dell’opera dantesca pietra angolare dell’identità nazionale ed è un’opzione ideologica, volta a riaffermare il «primato morale e civile» degli italiani; la seconda si esprime in un fervore di ricerca scientifica in vista della restituzione storico-filologica dei testi. Il parallelismo tuttavia non è perfetto, perché le due strade spesso si incrociano, così da rendere necessario il compito di sceverare quello che pertiene alla storia del costume, all’immaginario collettivo e alla rivendicazione nazionalistica da quel filone di studi che criticamente e storiograficamente hanno contato nel «riacquisto» di Dante da parte dell’Italia ottocentesca dopo due secoli di trascuratezza se non di oblio.
Tra i programmi e le iniziative legate alle solenni celebrazioni dantesche del 1865 assume un significato simbolico non trascurabile la vicenda del monumento al poeta innalzato nella primavera in quella piazza Santa Croce che evoca gli spiriti magni dei Sepolcri foscoliani («ove speme di gloria agli animosi / intelletti rifulga ed all’Italia, / quindi trarrem gli auspici»), con le spalle sdegnosamente rivolte alla chiesa, come esigeva la delega dell’Italia anticlericale al «ghibellin fuggiasco». Dopo l’orazione ufficiale, affidata peraltro al padre somasco Giambattista Giuliani, docente di filologia dantesca presso l’Istituto di studi superiori, il 14 maggio 1865 la statua fu scoperta alla presenza di re Vittorio Emanuele II, al rombo delle artiglierie che spararono undici colpi a salve di fronte ai labari dei comuni italiani (velati a lutto quelli di Roma e Venezia irredente). Al re «fu offerta una magnifica spada, sulla lama della quale erano geminate in oro, da una parte le parole: Dante al primo re d’Italia, dall’altra una terzina del Purgatorio» (Pesci 1904, p. 75).
A pochi anni dalla raggiunta Unità, Dante è il rappresentante principe e il garante nei secoli del genio italico, insieme oggetto di culto popolare e argomento di ricerca e di studio, come intendeva dimostrare la ponderosa miscellanea di mille pagine dedicata a Dante e il suo secolo pubblicata in quell’occasione, estrema fatica collettiva soprattutto della vecchia élite culturale toscana, senza distinzione di schieramenti. Così il cattolico liberale Capponi si trova accanto al cattolico savonaroliano Tommaseo e al «luterino» Raffaello Lambruschini, Enrico Mayer accanto a Guerrazzi e al giovane Carducci.
Se di tale qualità erano ormai i frutti tardivi della cultura risorgimentale, l’esaurimento della tensione parenetica e della declinazione pedagogica del dantismo della prima metà del secolo è ormai un fatto irreversibile, che cronologicamente coincide, tuttavia, con l’avvio di una revisione complessiva della letteratura italiana nella sua evoluzione storica dalle origini all’età moderna. Revisione che, per quanto è degli studi danteschi, significò lo «sforzo pacifico di due o tre generazioni perché l’Italia potesse mettersi in pari con la cultura e con la scienza dell’Europa, e imparare a riconoscere storicamente, a distanza, Dante e il suo secolo» (Dionisotti 1967, p. 225).
Il capitolo più importante della vasta e multanime memorialistica politica tra l’Unità e la fine del secolo è certamente quello relativo alla personalità e alle imprese di Giuseppe Garibaldi che, secondo Pietro Pancrazi, portò bene agli scrittori che si unirono a lui. Magnifico esemplare di eroe da romanzo (secondo Alexandre Dumas, che di romanzi si intendeva e dell’eroe dei due mondi era fervido ammiratore), Garibaldi, già celebrato in versi prima del Sessanta da quasi tutti i poeti che accompagnarono il moto risorgimentale, con l’impresa dei Mille diventa un mito popolare, come attestano poesie e canti anonimi in dialetto siciliano (nei quali si favoleggia della discendenza del generale da santa Rosalia). Merita, a questo proposito, ricordare come della leggenda popolare subito si faccia oggetto di scrittura letteraria: così il ventiduenne Luigi Capuana con la «leggenda drammatica» Garibaldi (1861) e Giuseppe Cesare Abba con il poemetto Arrigo, da Quarto al Volturno (1866). Del resto, come si sa, l’iniziativa di Garibaldi, «cavaliere errante della giustizia e della libertà» (Croce 1957, p. 6), e dei suoi non si interrompe con l’Unità, come testimoniano Aspromonte e Mentana e poi il vittorioso intervento in Trentino durante la terza guerra di indipendenza (che, in qualche misura, sembrò riscattare i disastri di Custoza e Lissa) e quello contro i prussiani nel 1870 in terra di Francia. Garibaldi stesso lavorò a più riprese alle sue ponderose Memorie, arrivate a compimento nel 1872: opera di scarsa grammatica, che si legge come un romanzo d’avventure, genere nel quale peraltro si era cimentato nel 1870, adattandolo alla ventura garibaldina (Cantoni, il volontario e Clelia ovvero il governo del Monaco) e tornerà a cimentarsi nel 1874 (I Mille), sul modello del roman frénétique alla Guerrazzi e del romanzo d’appendice a tinte forti venuto di gran moda dopo la metà degli anni Quaranta con Les mystères de Paris di Eugène Sue.
In realtà i testi canonici della memorialistica garibaldina, con poche eccezioni, arrivano a maturazione vent’anni dopo. Così fu per il diretto interessamento di Carducci che nel 1880 apparvero le Noterelle d’uno dei Mille edite dopo vent’anni del ligure Giuseppe Cesare Abba (dalla terza edizione, 1891, con il titolo definitivo Da Quarto al Volturno), presentate come trascrizione del diario di guerra del giovane volontario al seguito di Garibaldi, in realtà risultato della scaltra rielaborazione letteraria di materiale documentario.
Altra immediatezza invece nelle pagine de I Mille del grossetano Giuseppe Bandi (1834-1894), esponente tra i più noti e amati del giornalismo italiano dopo l’Unità, che nel 1886 pubblicò in tre puntate, in appendice al «Messaggero» di Roma e al «Telegrafo» di Livorno i suoi ricordi garibaldini: limpido reportage su fatti e persone senza troppe pretese letterarie, caratterizzato da un’intensità di evocazione visiva che anima i ricordi, dando vita a figure, gesti, paesaggi vivi e vitali, al di là del tempo irripetibile e lontano della giovinezza, a cominciare dall’eroe eponimo di quella straordinaria avventura individuale e collettiva. Perché Bandi, in fondo, è convinto che i grandi uomini nel loro destino aspettano l’appuntamento con la storia piuttosto che con la letteratura.
Tra i bardi che avevano accompagnato con i loro versi la ventura del Risorgimento, arrivati dopo l’Unità forti di una celebrità e popolarità consolidate già prima del 1859, i due più titolati esponenti della generazione romantica sono Giovanni Prati e Aleardo Aleardi. Essi si illusero di essere tuttora in carica, come poeti della borghesia patriottica in un tempo al quale l’Unità aveva impresso un’accelerazione impensabile negli anni dell’eroica resistenza allo straniero; un tempo nuovo che per più segni faticarono a riconoscere come il loro per mutazioni di cultura, gusto, costume rapidamente succedutesi, tali da mettere fuori moda le vesti e i colori, le speranze e le delusioni (e con queste i canti della patria) dell’epoca precedente.
Quasi coetanei, originari entrambi da province dell’Impero – trentino Prati (1814-1884), veronese Aleardi (1812-1878) – accomunati dalla formazione padovana, fra università e Caffè Pedrocchi (in poesia: Foscolo, soprattutto quello delle Grazie, dal 1848 in poi, Luigi Carrer, ma anche le performances degli improvvisatori e sullo sfondo Byron, e altre declinazioni europee del Romanticismo), ma anche dall’impegno politico pagato con il carcere e le persecuzioni poliziesche, videro entrambi riconosciuto il loro ruolo di poeti della patria con incarichi di relativo prestigio nella rinnovata amministrazione scolastica del Regno. Non vite parallele, ovviamente, ma similarità di destini che compendia il tramonto in Italia del Romanticismo di seconda generazione.
«Forse il primo poeta di second’ordine che sia oggi in Italia» (De Sanctis 1972, p. 377), autore di una sterminata produzione poetica, senza pari nella storia della poesia moderna italiana, Prati, prima del 1860, aveva fatto il Nord e il Centro dell’Italia teatro del suo inquieto vagabondare di «zingaro afflitto che ricorda e canta» e della sua facondia di interprete di se stesso nelle accademie di declamazione care agli improvvisatori, fidando nel successo di soggetti di facile presa emotiva – la sicura fascinazione del tema «amore e morte» sfruttato fino a esiti di vero e proprio delirio funerario in lacrimevoli vicende sentimentali – e nella suggestione della «musica belliniana dei suoi versi» (Carducci 1889, p. 414).
La celebrità era arrivata per tempo, nel 1841, con la pubblicazione della novella in versi Edmenegarda, ispirata a un recentissimo scandalo che in Venezia aveva coinvolto la bellissima sorella di Daniele Manin, Ildegarde, fuggita di casa e poi rientrata – afflitta e perdonata – al focolare domestico. Con questa vicenda borghese contemporanea di adulterio, perdizione e ravvedimento, sviluppata piuttosto psicologicamente che liricamente (e non si trattava di una novità da poco), Prati parve aver messo in liquidazione il genere delle novelle in versi di argomento storico-fantastico. Ma quella strada, che prometteva una scelta di realismo borghese, poi non seguì: poeta fecondissimo, autore di poemi filosofici, ballate, liriche, inni, libretti d’opera, pensò che qualunque pensiero o immagine gli passasse per la testa potesse trasfigurarsi in argomento di poesia (Croce 1956, p. 10), sperperando così la sua più autentica vocazione di poeta lirico in una profluvie di versi, che assai per tempo aveva suscitato la diffidenza dei lettori di professione. Comunque, in rapida successione (e in elenco parziale): Canti lirici, Canti per il popolo, Canti politici, Ballate, Memorie e lagrime, Nuovi canti, Passeggiate solitarie, Storie e fantasie, consolidarono la popolarità del «cantore» di Edmenegarda. Il quale, per onorare il ruolo di vate risorgimentale, pensò nel 1860 di celebrare la raggiunta unità nazionale con il terrificante poema Ariberto (per un totale di seimila versi sciolti) sviluppato sullo sfondo degli eventi del 1859.
Un bilancio difficile quello relativo a un’inesausta produzione poetica continuata praticamente senza soste per quasi mezzo secolo, che registra tuttavia le entrate più modernamente suggestive proprio verso la fine del primo ventennio dell’Unità, nel corso del quale il poeta, se non dimenticato però ormai giubilato, offre alla posterità il meglio di sé e, al solito, non con le opere alle quali affidava le sue speranze di gloria, come è il caso del ponderoso e ambizioso poema Armando (1864-1868) – diagnosi e descrizione di un caso esemplare di patologia morale, «morbo dell’intelletto e dell’anima» del protagonista eponimo, vittima fino all’autodistruzione – scritto in competizione con il Faust di Goethe e il Childe Harold’s Pilgrimage di Byron.
Deluso dall’insuccesso e dall’Italia contemporanea che lo stava dimenticando, l’anziano poeta, ormai ripiegato su se stesso, pubblica nel 1876 e nel 1878 le raccolte Psiche e Iside. La prima è una silloge di 550 sonetti «nati – si legge nell’introduzione – secondo il giro dei tempi e delle cose» che contengono «la storia della sua anima e del suo pensiero», donde il titolo. Dunque un diario, meglio: un libro d’ore scandito in sonetti ognuno dei quali costituisce una misura non solo formale, ma anche immaginativa. Vi si intrecciano temi già affrontati nel corso degli anni – speranze, affetti, occasioni intraviste e perdute del tempo giovanile riflesse nello specchio della delusione del presente, nella certezza che la poesia non lo abbandonerà fino all’ultimo – che in questo contesto così programmaticamente autobiografico acquistano una nuova traslucidità, elemento forse decisivo per mantener viva la memoria di lui e dell’opera sua.
Due anni più tardi, in Iside, il poeta torna a una varietà metrica che prevede, oltre agli endecasillabi sciolti, odi, ballate, canzonette, polimetri, forme adibite di volta in volta a temi diversi, ma, nelle composizioni di più sicura caratura poetica, tutti illuminati dalla luce radente di un malinconico tramonto sul quale, via via che la vita se ne va, incombe sempre più cupa l’ombra della morte, con un’intensificazione di toni meditabondi sul mistero e il dolore dell’esistenza universale. Libro composito del quale si possono trascurare le ballate, ripetizioni di copioni romantici ormai fuori stagione, ma non il gruppo dei Canti di Azzarellina. Giunta tardi al culmine della poesia di Prati, l’ultima nata, Azzarellina, la «piccioletta fata» indiana, amata-amante è un archetipo della femminilità più segreta e gentile, e figura allegorica della poesia. La maga quindi è in grado di guidare il poeta a svelare l’ultimo mistero – quello del rapporto tra macro e microcosmo che egli invano aveva fino allora tentato – e a lei il vecchio si affida per il suo ultimo viaggio nella vita.
Deuteragonista del secondo Romanticismo italiano, facondo e fortunato interprete della mentalità borghese, non solo come poeta patriottico e sentimentale, ma anche, come spirito inquieto tra scienza e fede, tra impegno civile e religione dell’arte, maestro nel virtuosistico uso dell’endecasillabo sciolto e della canzone libera, dopo l’Unità Aleardo Aleardi non si presenta con l’ingombrante bagaglio di versi di Prati. Anzi, nel 1864 curerà, presso il Barbèra di Firenze, una accurata edizione della sua rimeria ne varietur (sarà implementata solo post mortem nel 1882) non casualmente intitolata Canti, nella quale i testi non sono ordinati cronologicamente, ma disposti secondo un disegno che intende ripercorrere un itinerario artistico e insieme psicologico-morale, a partire da Un’ora della mia giovinezza (1856) per arrivare al fino allora inedito Fuochi dell’Appennino del 1863.
Nel caso di Aleardi, a differenza del fluviale Prati, esiste dunque un testo canonico, ma questo non ha scongiurato una lettura rapsodica, che è stata la sua condanna e ha comportato la cancellazione della struttura di autobiografia lirica dei Canti, per accontentarsi di singole tessere di mosaico. Una lettura che, in tempi più recenti, ha potuto dar vita all’equivoco di un Aleardi «parnassiano» avant la lettre: per parte sua, Aleardi non coltivava certo l’ideale di poesia emotivamente impassibile e formalmente impeccabile del Parnasse, quanto piuttosto temi e situazioni riconducibili tutti alla triade patria-amore-religione, mettendo a frutto le risorse della sua fondamentale vocazione alla poesia di paesaggio e al pittoresco drammatico, come egli stesso spiegava nella premessa ai Canti.
Quando, dopo il Sessanta, tornerà a toccare la corda epica, il risultato sarà ormai fuori di tono, come dimostrano il poemetto I sette soldati dedicato nel 1861 a Garibaldi, rivendicazione delle nazionalità oppresse dal dispotismo asburgico, e il Canto politico (1862), prolungata invettiva contro il temporalismo papale, che letterariamente poco aggiungono al repertorio ideologico di Aleardi interprete in versi di stati d’animo sempre più largamente diffusi.
Fino dal 1859 l’Italia del Risorgimento aveva reso onore a Manzoni: il 9 agosto il re Vittorio Emanuele II, nominalmente ancora re di Sardegna, assegnandogli la corona dei Santi Maurizio e Lazzaro e un vitalizio, aveva salutato in lui uno dei padri della patria. Rispettivamente nel 1860 e nel 1862, Cavour e Garibaldi vengono a rendere omaggio al venerando scrittore, che il 29 febbraio 1860 è nominato senatore del Regno e presta giuramento a Torino. In tale veste, nel febbraio del 1861, vota a favore della legge che attribuisce a Vittorio Emanuele il titolo di re d’Italia e, nel dicembre del 1864, del trasferimento della capitale a Firenze, con l’auspicio di una prossima, definitiva tappa a Roma, confermando la sua avversione al potere temporale, fondata sulla convinzione che «la spada nuoce al pastorale». Coerentemente con questa posizione, nel 1872, un anno prima della morte, accetta la cittadinanza onoraria di Roma nonostante l’interdetto pontificio, sollevando scandalo tra le file dei clericali intransigenti (contro di lui si distinsero i gesuiti) e attirandosi le ire della gerarchia vaticana. Eppure la presenza del poeta e del romanziere nella letteratura italiana dopo l’Unità appare relativamente marginale: la sua creatività appare esaurita con la revisione linguistica del testo dei Promessi sposi per l’edizione nota come «quarantana», ma già fino dal tempo della «ventisettana» il suo interesse si era prevalentemente rivolto a questioni di teoria della letteratura, linguistica e storiografia.
Del resto con il saggio Del romanzo storico, portato a termine nel 1848 dopo un’elaborazione quasi ventennale, e pubblicato nel 1850, paradossalmente Manzoni aveva sconfessato il romanzo storico: «condannando se stesso […] – scrive Francesco De Sanctis – si chiuse nel suo discorso, come Cesare nel suo manto, e tacque. Il critico impose silenzio all’artista» (De Sanctis 1965a, p. 37).
Nell’Italia unita Manzoni dedica il suo impegno maggiore alla questione della lingua: le convinzioni maturate in lui dopo l’esperienza del romanzo ed espresse nella lettera a Giacinto Carena – una lingua esiste solo se unitaria, omogenea e fondata sull’uso e non sulla tradizione letteraria; la lingua parlata del ceto medio-alto dei ben parlanti di Firenze modello della lingua nazionale per l’Italia dell’avvenire – furono sostanzialmente ribadite nella relazione al ministro della Pubblica istruzione, Emilio Broglio, il quale, con decreto del 14 gennaio 1868, aveva nominato una commissione incaricata «di ricercare e proporre tutti i provvedimenti e tutti i modi, coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia», bipartita in due sezioni, milanese e fiorentina, presiedute rispettivamente da Manzoni (presidente generale) e Lambruschini (vicepresidente).
Nonostante l’età avanzata, l’ultraottantenne Manzoni, secondo la testimonianza dello stesso Broglio, si dedicò a stendere la relazione «con un’alacrità, quasi direi una furia davvero prodigiosa»: nasce così il saggio Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, inviato dallo scrittore al ministro il 19 febbraio 1868. Il testo, nonostante fosse accolto non senza contrasti, costituì la base del progetto del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze ordinato dal Ministero della Pubblica Istruzione, edito in 4 volumi tra il 1870 e il 1897, a cura dello stesso Broglio e del genero di Manzoni, Giambattista Giorgini.
La soluzione ufficiale della secolare questione della lingua in Italia, demandata al maggior narratore dell’Ottocento, era così solennemente (e provvisoriamente) sancita da un’opera destinata invero a scarsa udienza. Così, per l’eterogenesi dei fini, il linguista Manzoni risulterà sconfitto dallo scrittore, dal momento che non tanto al vocabolario, quanto alla prosa dei Promessi sposi continueranno a guardare come modello con poche eccezioni gli scrittori dell’Italia unita.
Di molto minore interesse l’opera dello storico che, verosimilmente intorno al 1860, aveva iniziato il saggio comparativo (rimasto incompiuto) su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, al quale pare lavorasse ancora nel 1869. In queste pagine Manzoni sostiene che la legittimità della rivoluzione francese ai suoi inizi, andasse perduta con la degenerazione del moto rivoluzionario nel dispotismo. Al contrario, la rivoluzione italiana, che ebbe il suo compimento nella guerra di liberazione del 1859, aveva mantenuto intatta la propria legittimità, in quanto fondata sull’aspirazione unitaria di un popolo intero. Ancora sul tema del riscatto nazionale Manzoni tornerà nel suo ultimo scritto, Dell’indipendenza dell’Italia, avviato nel 1872 e portato a compimento poco prima del febbraio 1873.
Nonostante il silenzio del narratore, nel decennio successivo all’Unità, la prosa narrativa italiana cresce nel clima di «democrazia linguistica» instaurato dall’apparizione dei Promessi sposi, il romanzo che, a oltre cinque secoli di distanza dalla Commedia dantesca, era stato, come questa, pensato «per tutti» e in questa prospettiva elaborato attraverso una ventennale diacronia redazionale.
Il termine «manzonismo» (verosimilmente di conio carducciano) deve intendersi dunque in duplice accezione: da una parte indica la teoria linguistica di Manzoni e la sua applicazione, dall’altra la degenerazione manieristica e la pedissequa imitazione della scrittura e della tematica manzoniane, sia per quanto riguarda la prosa che la poesia (appunto il famigerato «manzonismo de gli stenterelli» di un celebre verso di Carducci). Ma «manzonismo» – senza Manzoni, ma di lui cercando di mettere a frutto il modello storico-culturale, sia prima che dopo l’Unità – significa anche una decisa attenuazione delle istanze rivoluzionarie (che pur non erano mancate al protoromanticismo lombardo inteso a fondare una letteratura non soltanto civile, ma programmaticamente nazionale, postulando l’identificazione tra romanticismo, liberalismo e passione patriottica) e un’altrettanto decisa prevalenza della componente cattolica entro l’area romantica: il che comporta il tentativo di rettificare il canone letterario attraverso la revisione di tutta la tradizione, da Dante ad Alfieri (il De Monarchia di Dante rimase nell’Index librorum prohibitorum fino al 1881). Esempi di diversa importanza di questo revisionismo su basi etico-religiose la Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù (1865) e la Storia civile nella letteraria di Niccolò Tommaseo (1872). Dalla scuola narrativa manzoniana niente venne di ricordevole, con una evidente regressione provinciale rispetto alla prima stagione romantica, ma non si deve dimenticare come il «manzonismo» diventò il vessillo culturale dei moderati all’insegna del cattolicesimo liberale che, tutto sommato, resta una formula piuttosto che un programma.
A dimostrazione che piano politico-culturale e letterario finiscono con il confondersi, merita citare De Sanctis, impegnato a integrare il disegno storico della cultura italiana nell’età del Risorgimento (rimasto soffocato nelle ultime pagine della Storia da poco pubblicata) con l’attenzione rivolta all’intreccio tra letteratura, ideologie e organizzazione degli intellettuali, nelle quali affronta l’opera di Manzoni e la questione della «scuola cattolico-liberale». Sotto questa etichetta lo storico comprendeva non solo i sodali di Manzoni, Tommaso Grossi e Giulio Carcano, ma anche «tutti quelli che si trovarono nello stesso cerchio d’idee e di sentimenti». Così la nozione stessa di «scuola» risultava anche ai suoi occhi insufficiente, dal momento che si allargava a «un pandemonio, in cui si gittano persone di tutte le credenze e di tutte le opinioni» (De Sanctis 1961, p. 6). Sfilano quindi in quelle pagine personaggi distanti tra loro per generazione, statura, vocazione e orientamento, quali d’Azeglio, Tommaseo, Cantù, Balbo, Gioberti, Rosmini, aggregati piuttosto da una professione di fede che da un condiviso orientamento culturale.
Degli autori presi in considerazione, tre soltanto avevano superato la soglia dell’Unità: oltre d’Azeglio, il dalmata Tommaseo (1802-1874) e il lombardo Cantù (1804-1895), entrambi instancabili poligrafi per quanto molto distanti per caratura intellettuale.
Tommaseo sembra un caso psicologico-morale prima che letterario per l’acredine fino alla trivialità che, in veste di critico nient’affatto sprovveduto, dimostrò costantemente nei confronti dei protagonisti della linea laica della letteratura italiana del suo tempo – Alfieri, Foscolo, Leopardi, Giusti – senza motivazioni che non fossero, più o meno esplicitamente, di carattere religioso. Secondo Tommaseo, l’uomo, come insegnano le Sacre Scritture, è sempre peccatore, una creatura per sua colpa decaduta e come tale deve essere inquisito e giudicato (a cominciare da se stessi, come dimostrano le tante pagine di introspezione autobiografica). La religione è vissuta perciò come intimo dramma personale, ma anche come ideologia nei confronti altrui. Ardente patriota, repubblicano, fu in carcere e in esilio e tra gli animatori, con Manin, della resistenza di Venezia, fermamente contrario all’annessione al Piemonte. Dal 1859, stabilitosi a Firenze, dove aveva già vissuto dal 1827 al 1834, in qualità di redattore dell’«Antologia» di Vieusseux, per curare il grande Dizionario della lingua italiana, alternò i suoi molteplici interessi di romantico dichiarato – dalla narrativa alla poesia, dalla filologia alla linguistica, dalla critica allo studio delle tradizioni popolari – alle fatiche del vocabolario (4 volumi in 8 tomi) che, con la collaborazione di altri, vide la luce a Torino tra il 1865 e il 1879.
Tommaseo – al quale si deve quello che forse è il primo esperimento di romanzo psicologico (o meglio di pedagogia romantica degli «affetti») in Italia, quel notevole Fede e bellezza naufragato nel 1840 nell’affettazione di uno stile arcaizzante complicato dalla ricerca di scelte lessicali inconsuete e alla fine stravaganti – si era già fatto conoscere come vocabolarista nel 1830 con il Dizionario dei sinonimi (ristampato più volte in seguito, con correzioni e aggiunte) che costituisce ancor oggi un documento di primario interesse per la storia della lingua italiana moderna, in forza della sua ricchezza (la sinonimia relativa a circa 3.500 parole), ma anche per l’originalità e l’acutezza delle minute osservazioni psicologiche e morali che corredano le singole voci. Ma è soprattutto al grande Dizionario, impostato fin dal 1857 a Torino, che si lega il suo nome dopo l’Unità. Questo imponente lavoro collettivo, ispirato a un criterio rigorosamente filologico, fondato sull’uso fiorentino – ma comprensivo di voci desuete o in disuso accolte per il loro significato storico e arricchito di circa 100.000 «giunte» al Vocabolario della Crusca, oltre che dalle chiose dell’ideatore – costituisce non solo un monumento insigne della scienza linguistica ottocentesca, ma anche una guida fondamentale di carattere antropologico, storico, culturale, morale per comprendere gli uomini, le vicende, le idee che portarono all’Unità e la difficoltà di definire un’identità nazionale affidata per secoli soltanto al mito del primato artistico e letterario.
Anche di Cantù – accreditato narratore e critico di spiriti romantici e intenzioni pedagogiche fin dal romanzo Margherita Pusterla scritto nel carcere austriaco nel 1834 e pubblicato quattro anni dopo (memorabile l’avvertimento al lettore: «Lettor mio, hai tu spasimato? – No. – Questo libro non è per te») si deve ricordare innanzi tutto l’imponente produzione erudita. Accanto agli studi monografici su Giuseppe Parini, Vincenzo Monti, Cesare Beccaria, allinea l’impressionante mole di una Storia universale compilata (in troppi casi raffazzonata) tra il 1838 e il 1846 in 35 volumi destinati a crescere fino a 52 nell’edizione definitiva 1883-1890: oltre a offrire «materiale storico grezzo, senz’ordine e senza proporzioni, una calca di uomini e di fatti in cui non penetra la forza dello spirito regolatore» (ivi, p. 217), persegue un preciso intento ideologico che, a conti fatti, lo esclude dalla «scuola» cattolico-liberale (ivi, pp. 224-225), pur essendo stato frequentatore di Manzoni e della sua cerchia. «Una pugna accanita fatta allo spirito moderno, in nome dello spirito moderno» (ivi, p. 358) la sua Storia, travisata per l’ossequio alla dottrina e alla politica della Chiesa. Da quell’«arsenale» di notizie, biografie, documenti derivano una serie di opere «lavori fatti per necessità, per tirare innanzi la vita» (ivi, p. 226), tra le quali merita una menzione la Storia della letteratura italiana apparsa nel 1865. Politicamente: un passato remoto da liberale scontato in carcere, l’adesione al neoguelfismo, l’avvicinamento ai governanti austriaci, una svolta tale da renderlo inviso per sempre all’opinione pubblica liberale. Quindi, dopo il Quarantotto, un irrigidimento reazionario e una sempre più intransigente polemica contro il liberalismo laico che trovano espressione in un impegno costante di educazione popolare.
Alla lezione di Manzoni si ricollegherà più direttamente in modi diversi la maggior parte della prosa narrativa che, dopo la rivolta degli «antecristi» scapigliati, contribuisce, con autori che esplicitamente si professano «manzoniani», al tono medio di realismo borghese della narrativa di secondo Ottocento. E sono autori al servizio, per dir così, di quel pubblico più ampio e più vario che dopo l’Unità si sta formando anche a seguito dello sviluppo dell’industria editoriale.
È lecito quindi parlare di un manzonismo minore, fondato sul modello comunicativo dei Promessi sposi anche per coonestare l’inevitabile suggestione della narrativa verista, che configura una poetica del realismo in cerca di soggetti e tipi nella vita e nell’esperienza quotidiana, e perciò più concreti e più «veri» di quelli lasciati in eredità dal romanzo storico-avventuroso dell’età romantica, per sviluppare il proprio intento di educazione morale.
In questo senso, nel suo complesso, questa letteratura vuole essere una risposta alla denuncia che risaliva al pamphlet pubblicato nel 1855 dal «manzoniano» Ruggiero Bonghi, poi politico di primo piano e ministro della Pubblica istruzione dal 1874 al 1876. Le Lettere critiche, pubblicate sul settimanale fiorentino «Lo Spettatore» e intitolate, all’insaputa dell’autore, Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia (ma nella prima edizione in volume del 1856, dedicata a un altro «manzoniano», Carcano, l’è lascia il posto al sia) suscitarono gran clamore tra gli addetti ai lavori. Anche se, per essere più precisi, si tratta di una requisitoria non relativa alla letteratura, ma semmai alla prosa del «presente e del passato».
«Sono tre secoli e più, che lettori e autori, considerati tutti insieme come pubblico, non hanno dato segno di vita, di maniera che l’Italia sarebbe potuta passare per un camposanto se di quando in quando non ci si fossero levate su delle grandi ombre». Perché la società italiana, «priva di vita propria, smarrì ogni stima di se medesima, e s’abituò a cercare quel po’ di pascolo intellettuale di cui sentiva il bisogno, nelle varie patrie degli eserciti che la conquistavano e nelle mode che la infiacchivano» (Bonghi 1971, pp. 48, 69).
Quindi la polemica contro l’accademismo e l’organizzazione di casta degli scrittori italiani, contro le troppe donne che pretendono di scrivere, contro lo stile dei classici, perché la letteratura non deve essere soltanto un’occasionale esperienza d’arte e di cultura, ma un continuato impegno sociale ed educativo. La polemica, non nuova, che era stata innescata circa dieci anni prima da Cesare Correnti con il saggio Della letteratura rusticale e riattizzata da Bonghi, non riesce ad andare oltre la pars destruens, e non fa i nomi dei «moderni ammanierati». L’innesco della polemica è che, nella rotta della narrativa italiana, I promessi sposi sono stati il giro di boa per quel momento ancora senza seguito apprezzabile tra gli scrittori, mentre la soluzione dell’insufficienza di «popolarità» attraverso i secoli sarebbe stata demandata, dopo l’Unità, all’opera degli autori impegnati, da opposti punti di vista, nella collaborazione alla crescita della società nazionale, come De Amicis e Collodi.
Dopo l’Unità, nel volgere di pochi anni, la crisi in cui versava l’economia lombarda per il succedersi di insufficienti raccolti agricoli e per l’arretratezza (e quindi non competitività sui mercati esteri) dell’industria tessile fu superata, a seguito dell’adozione del corso forzoso, grazie all’impegno della classe dirigente milanese nella trasformazione industriale dei mezzi di produzione. Lo sviluppo industriale e commerciale, mentre innesca inevitabilmente i primi conflitti capitale-lavoro, attira a Milano una massiccia immigrazione dal Veneto, dall’Emilia e, più tardi, dal Meridione che modifica profondamente ambiente e ritmo della vita cittadina.
Per quanto riguarda la produzione letteraria, l’immigrazione intellettuale è correlata al rapido processo di sviluppo dell’editoria giornalistica e libraria che costituisce il polo di attrazione di quanti, lombardi e non, avrebbero dato vita alla scapigliatura. Pochi dati, ma di per sé eloquenti, testimoniano di un generale vigoroso risveglio intellettuale: negli anni dell’Unità, nel capoluogo si inaugurano due facoltà universitarie indipendenti da Pavia (l’Accademia scientifico-letteraria nel 1859, e il Politecnico nel 1863); all’unico quotidiano ufficiale del periodo austriaco, la «Gazzetta di Milano», si affiancano, nel giro di un ventennio, parecchie altre testate, quali «La Perseveranza», «Il Pungolo», «Il Gazzettino rosa», «La Lombardia», «Il Corriere della Sera», «Il Secolo», «Il Sole», «L’Osservatore cattolico», «La Ragione», «Lo Spettatore lombardo», per non dire della selva dei periodici, alcuni dei quali destinati a rilevanza nazionale.
Anche l’editoria libraria trova a Milano fertile terreno di crescita: così, mentre Firenze mantiene il primato della pubblicazione di classici, di testi scolastici e di saggistica, il panorama milanese tra il Sessanta e il Settanta si presenta molto più animato, grazie a imprenditori quali Edoardo Sonzogno, che, a partire dal 1861, in pochi anni fa dell’omonima casa editrice la più importante impresa italiana di editoria popolare, o l’ex garibaldino Emilio Treves, che inizia la propria attività editoriale nel 1861 e diventa in pochi anni il maggior editore di narrativa italiana e straniera, tanto da poter esibire nel suo catalogo tutti o quasi i nomi che contano tra Otto e Novecento.
Nell’arco di due decenni Milano, assurta ormai al rango di capitale industriale e commerciale della nuova Italia, potrà quindi presentarsi come l’unica città europea del Regno, la vetrina dello sviluppo della giovane società nazionale, quale la civica amministrazione volle ostentare con la grande Esposizione nazionale allestita nel 1881 nei Giardini della Villa Reale. Ed è fin dagli anni immediatamente successivi all’Unità che Milano comincia a insidiare il primato culturale di Firenze capitale, con il costituirsi spontaneamente se non di un’organica élite intellettuale, per lo meno di una koinè culturale artistica che, ormai al tramonto del Romanticismo, con l’etichetta di scapigliatura, inaugura in Italia una pratica avanguardistica dell’arte non solo letteraria, ma anche figurativa e musicale, ineccepibilmente in regola, quanto a patrimonio genetico, con i requisiti essenziali di tutte le avanguardie moderne: agonismo, antagonismo, antipassatismo. Avanguardia, quindi, che può annoverare fra i suoi meriti soprattutto quello di aver ristabilito i contatti con la contemporanea cultura europea (francese in particolare) ormai in piena mutazione naturalistica e decadentistica. A ben vedere, comunque, un risarcimento del Romanticismo ultra (sotto una costellazione che si estende da Baudelaire e i poètes maudits a Sterne, Heine e ai più attuali Dickens e Thackeray, dal fantastico demoniaco di Hoffmann e Jean Paul al neogotico di Poe), coniugato con uno stile di vita antiborghese; una sorta di viatico per più ardui itinerari che solo dalla Milano europea potevano partire per approdare al decadentismo e al naturalismo. Come dimostra l’esperienza dei due maggiori, Verga e Fogazzaro, per i quali il soggiorno a Milano in clima di scapigliatura significò la conferma della propria vocazione di scrittori. In breve: la scapigliatura si configura come la soglia di accesso alla contemporaneità, oltre la quale si dischiudono nuove prospettive culturali e artistiche.
Il merito di aver riportato in luce nel 1857 dalle penombre del linguaggio dell’accademia manierista fiorentina fra Cinque e Seicento la voce «scapigliatura» spetta, secondo una consolidata tradizione, a Cletto Arrighi, pseudonimo-anagramma del milanese Carlo Righetti (1828-1906), il quale dopo l’Unità si era dedicato al giornalismo, alla letteratura e al teatro dialettale. Il termine «scapigliatura» compare infatti nel romanzo d’esordio, Gli ultimi coriandoli (1857), dedicato nientemeno che a Manzoni e apparso mutilo in seguito agli interventi della censura imperialregia, per ricomparire, dopo l’Unità, nel titolo di un secondo romanzo, La Scapigliatura e il 6 febbraio, «un dramma in famiglia» (come recita il sottotitolo) a tinte forti che si svolge durante la fallita insurrezione mazziniana del 6 febbraio 1853.
Mediocre intreccio da feuilleton, fin dalle prime pagine già delinea il doppio profilo di una scapigliatura modellata sulla bohème parigina: politico-sociale (la scapigliatura è un’accolita di deracinés di tutte le classi sociali, ma anche un’élite intellettuale di propagatori di «brillanti utopie» e di «elementi geniali, artistici, poetici, rivoluzionari», pronti, come da copione, a combattere e a morire per il riscatto della patria) e psicologico-morale. Ed è proprio questo secondo aspetto che darà vita al mito presto vulgato della scapigliatura come stile di vita dissoluta, come patologica attrazione per la dissipazione, lo scandalo, l’eversione, innescate da una cieca pulsione autodistruttiva. Come conferma, in certo modo, l’appello dei caduti tra i protagonisti di primo piano, tutti, salvo il vecchio Giuseppe Rovani cooptato piuttosto per la disordinata pratica di vita che per consonanza di scelte letterarie, appartenenti alla generazione del Quaranta (quella di Verga e di Fogazzaro): Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869), scomparso a trent’anni dopo una vita di stenti e di sregolatezze; Emilio Praga (1839-1875), distrutto dall’alcool a trentasei anni; Giovanni Camerana (1845-1905) suicida a conclusione di una onorata carriera di magistrato.
Primi a fare le spese della contestazione degli scapigliati sul fronte delle arti contro l’establishment dei venerabili furono Manzoni e Verdi. Il primo aggredito da Praga nel Preludio alla raccolta Penombre del 1864 – codice della poesia scapigliata: «Casto poeta che l’Italia adora, / vegliardo in sante visioni assorto, / tu puoi morir!... degli antecristi è l’ora! / Cristo è rimorto!» (Praga 1890, p. 7); il secondo, meno direttamente, da Arrigo Boito, l’anno precedente, nell’«ode saffica col bicchiere alla mano» intitolata All’arte Italiana («perché la scappi fuora un momentino / dalla cerchia del vecchio e del cretino…») ove si denuncia la decadenza dell’arte musicale italiana dopo Giovanni Paisiello e Benedetto Marcello. Poi, col passare del tempo, i bollenti spiriti si raffreddarono e Praga nel 1873, anno della morte del gran lombardo, intitolerà Manzoni la sua ritrattazione («Blanda infanzia! Mia seria adolescenza!... / io vi chiamo Manzoni! ... / Dalla sua cetra ebbero forse essenza / le mie poche canzoni!») (ivi, p. 249), mentre Boito collaborerà come librettista con Verdi per Simon Boccanegra, Otello e Falstaff.
Ma la scapigliatura non vive tanto o soltanto nella leggenda metropolitana dei maudits meneghini e neppure nelle loro clamorose outrances, quanto nell’abbandono del mito romantico-risorgimentale, nell’apertura a un orizzonte europeo, nell’elaborazione di una poetica antitradizionalista di cui offrono concreta testimonianza spiriti e forme di opere come Penombre di Praga (1864), Re orso di Boito (1865), Versi di Camerana (postumi, 1907) in poesia, e romanzi e racconti come Una nobile follia (1867), Fosca (1869), Amore nell’arte (1869) di Tarchetti, che, pur fra inevitabili contraddizioni, inaugurano in Italia il capitolo dell’«arte dell’avvenire», tracciando un itinerario «sperimentale» verso il Novecento letterario. Il rinnovamento di un repertorio tematico bloccato da decenni si coniuga con il rifiuto dell’ufficio di cantori delle glorie passate, presenti e future di una patria da inventare (la «prosa» postunitaria dopo la «poesia» del Risorgimento), la critica della società borghese così come si andava costituendo, mentre si fa strada la consapevolezza di una rivoluzione mancata.
Esemplare, da questo punto di vista, il caso di Tarchetti, già ufficiale del regio esercito, impegnato nella repressione del brigantaggio meridionale, che, datosi alla letteratura, dopo il romanzo d’esordio di ambientazione proletaria, dedicato «alla santa memoria» di un’operaia prostituitasi per fame e morta di stenti (Paolina. Mistero del coperto dei Figini, 1865), raggiunge clamorosamente la notorietà con il romanzo Una nobile follia, apparso in appendice al «Sole» dal novembre 1866 e quindi in volume, denuncia della piaga del militarismo in un momento di grave crisi dell’istituzione militare, dopo le recenti disfatte di Lissa e Custoza. La reazione fu aspra: il libro bruciato nelle caserme davanti ai militari di leva schierati sull’attenti, il ventenne sottotenente De Amicis mobilitato per rispondere a Tarchetti con i «bozzetti» raccolti nel 1868 sotto il titolo La vita militare, celebrazione dell’esercito come scuola di educazione morale e civile.
Incunabolo di una letteratura protestataria, il romanzo di Tarchetti apre la via a una fase nuova. Come accadrà nel Novecento per tutti i movimenti di avanguardia, senza distinzione di epoche e di luoghi, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento la scapigliatura trova così il suo inevitabile sbocco nell’impegno politico. Nasce quindi, sviluppo coerente della prima scapigliatura, la «scapigliatura democratica», preannunciata nelle pagine iniziali del romanzo eponimo di Cletto Arrighi che in quel «serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti», accanto a bohémiens, artisti e poeti, aveva fato posto ai «rivoluzionari» (Arrighi 1862, pp. 5-9). Così, cronologicamente in parallelo all’attività più specificamente letteraria di sopravvissuti ed epigoni della scapigliatura artistica, si sviluppa tra anarchismo e socialismo la ventura della scapigliatura democratica che annovera, intorno a riviste e rivistine di opposizione, protagonisti dell’agitata politica fin de siècle quali Felice Cavallotti, Arcangelo Ghisleri, Paolo Valera, Filippo Turati.
A parte, il caso psicologico-letterario dell’eccentrico enfant prodige Carlo Dossi, collaboratore di Francesco Crispi e diplomatico di carriera, autore di una serie di opere renitenti a ogni tentativo di classificazione secondo il canone dei generi letterari, che gli hanno assicurato una ormai consolidata fama di profeta dell’espressivismo novecentesco, grazie a una scrittura che combina dialetto milanese, lingua letteraria anche nella variante aulica, toscanismi e latinismi, arcaismi e neologismi.
De Sanctis e Carducci: due personalità cariche di destino che, negli anni successivi all’Unità, hanno profondamente segnato (il secondo, nell’immediato, molto più del primo) non solo le cronache letterarie, ma, più in generale, la storia e il costume intellettuale italiano.
L’Italia non seppe essere desanctisiana e fu carducciana, nonostante De Sanctis, intellettuale di statura europea, fosse stato rappresentante insigne della cultura romantico-risorgimentale e protagonista di primo piano della vita politica italiana: un’attività che, prima dell’Unità, gli era costata il carcere e l’esilio e, dopo, un concreto e non mai intermesso impegno nel Parlamento e nel governo. A distanza di una generazione, Carducci era stato invece uno spettatore partecipe della «rivoluzione nazionale», costretto a dare libero sfogo alla sua passione patriottica soltanto nella pratica letteraria. Che cosa fece la fortuna di Carducci e che cosa determinò il rapido oblio della lezione di De Sanctis, così da spostare il suo appuntamento con la cultura italiana agli inizi del Novecento? Dalla parte di Carducci il merito di aver gettato, nella sua lunga attività di insegnante, le fondamenta di un alto magistero di civiltà letteraria, la riscoperta e il restauro della tradizione umanistica nazionale, costituendo più solide basi al primato culturale d’Italia. Anche se a fare presa sull’opinione pubblica furono soprattutto la continuità della produzione poetica, una vera e propria cronaca in versi della difficile crescita dello Stato nazionale, la vigorosa oratoria patriottica coniugata con un sentimento di rancorosa delusione nei confronti dell’Italia uscita dal Risorgimento, impari al suo sogno di grandeur, donde le sue oltranze polemiche e la sua posa di popolaresco Giove tonante: tutti atteggiamenti che, sorretti da una presenza mobile e costante, gli valsero negli anni il ruolo «ufficiale» di vestale dell’indignazione e interprete dei destini della stirpe, in un imperquisibile intreccio di riconoscimento pubblico e di mito personale.
Negli anni in cui De Sanctis legge (e consiglia agli italiani di leggere) Émile Zola, discute di darwinismo e della rivoluzione epistemologica in atto nella cultura positivista e, nella memorabile chiusa della Storia della letteratura italiana, fa appello ai nuovi italiani perché non perdano il treno della modernità – «Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro. E da’ nostri vanti s’intravede la coscienza della nostra inferiorità. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d’idee, nunzia di una nuova formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti» (De Sanctis 1966, 2° vol., p. 975) – Carducci si dedica alla riesumazione e all’adattamento dei metri classici alla versificazione italiana, nell’illusione che il genio italico, riscoprendo le sue arcaiche radici greco-romane, possa riattivare la missione dell’Italia nel mondo. Consapevolezza delle gravi responsabilità imposte dalla modernità, da una parte; archeologia poetica e sguardo rivolto a un passato di fascino e di gloria, dall’altra. La contesa tra mito e coscienza si dimostrò impari e l’Italia fu carducciana.
De Sanctis «fu essenzialmente un grande maestro di scuola» e nelle sue pagine «si riflette immediatamente il suo magistero d’insegnante» (Contini 1978, pp. 67, 69). Rappresentazione ineccepibile, ma dimidiata, che non tiene conto di un’affermazione dello stesso De Sanctis (nella lettera a Carlo Lozzi del 25 giugno 1869), determinante per capire la funzione attribuita alla letteratura e soprattutto la poetica dell’esistenza di un intellettuale che attraversò intera la ventura risorgimentale da protagonista e non da figurante: «La vita politica non m’ha disgustato affatto; la mia vita ha due pagine, una letteraria e l’altra politica, né penso a lacerarne nessuna delle due; sono due doveri della mia storia, che continuerò sino all’ultimo» (De Sanctis 1993, p. 941).
Negli anni del faticoso decollo dello Stato unitario la vita politica aveva impegnato tutte le energie dello studioso che non si era mai considerato soltanto un «professore», ma un intellettuale militante. Deputato al Parlamento italiano dalla prima legislatura, a Torino, Firenze e Roma, fino alla morte avvenuta nel 1883; primo ministro dell’Istruzione dell’Italia unita nei governi Cavour e Ricasoli (1861-1862), particolarmente impegnato nella riorganizzazione dell’insegnamento universitario, e ancora due volte con Benedetto Cairoli (1878-1880), direttore dal 1863 al 1865 del quotidiano «L’Italia», organo ufficiale dell’Associazione unitaria costituzionale, fondata da Luigi Settembrini, solo nel 1867, a cinquant’anni suonati, De Sanctis aveva trovato tempo e modo di raccogliere i saggi pubblicati negli anni dell’esilio piemontese (1855-1859), preludio alla stesura della Storia della letteratura italiana, iniziata nell’estate del 1868 e pubblicata nel 1870-71. Di seguito i Saggi critici, il Saggio sul Petrarca (1869), la Storia (1870-71), i Nuovi saggi critici (1872), apparsi in rapida successione hanno fatto di lui «il fondatore della critica letteraria in Italia nella sua forma attuale di saggio» (Contini 1978, pp. 68-69).
La Storia, nata per le scuole, fu per motivi commerciali costretta dall’editore entro una misura che rendeva impossibile un’esauriente trattazione della letteratura contemporanea, solo schematicamente disegnata nel capitolo conclusivo intitolato La nuova letteratura, che condensa la materia dal Settecento all’Unità. Fu così che De Sanctis progettò un’integrazione dell’opera, e nel quadriennio 1872-1876, in qualità di docente di letteratura comparata presso l’università di Napoli, impartì i corsi sulle scuole cattolico-liberale e democratica e su Leopardi, destinati a vedere la luce, parzialmente trascritti dagli appunti dei discepoli più fedeli, solo dopo la sua morte, insieme all’incompiuto libro di memorie. Ma questo intenso periodo di elaborazione e revisione dei propri scritti principali non impedì all’onorevole De Sanctis di continuare nel suo impegno politico. Dopo la «rivoluzione parlamentare» del 18 marzo 1876, dimessosi dall’insegnamento, iniziò a collaborare al giornale «Il Diritto» con una serie di calibratissimi interventi a favore della «Sinistra giovane» al potere, senza rinunciare peraltro a tenere conferenze su argomenti di grande attualità come il darwinismo e il vient de paraître Zola. In meno di un decennio appare dunque tutto il De Sanctis che conta e l’istitutore della moderna storiografia letteraria italiana. Non più affidata alle oratorie ricapitolazioni del mazzinianesimo e del giobertismo di prima dell’Unità e neppure alle più recenti sintesi a forte impronta ideologica di opposta sponda cattolico-integralista e laicista, la Storia di De Sanctis riesce a fare dell’esame storico della tradizione culturale un esame di coscienza dell’identità italiana, quale necessaria premessa all’edificazione dello Stato e della nazione.
Tuttavia, successo e diffusione dell’opera fecero difetto, fino all’intervento di Benedetto Croce, il quale nel 1911, in epoca di bassa fortuna per lo storicismo desanctisiano (che ancora subiva le conseguenze della ostilità dichiarata da parte dei corifei della tradizione retorica nazionale, da Carducci a D’Annunzio) espresse la perentoria rivendicazione della Storia della letteratura italiana, come «la sola storia intima d’Italia che finora si abbia; perché tutta la vita italiana, religiosa politica morale, vi è rappresentata, dal Dugento all’Ottocento, ora in quanto si riflette e trasfigura nella poesia, ora in quanto preme sulla poesia e la guasta e sfigura». Scritta a conclusione del Risorgimento, «sembra un monumento eretto al confine di due epoche e di due Italie» (Croce 1956, p. 360). Per concludere, dopo aver insistito sull’efficacia antiletteraria della prosa desanctisiana, con la memorabile definizione della Storia come «romanzo della vita d’Italia» (ivi, p. 376), implicitamente riferita alla vocazione narrativa e all’asciuttezza obiettivamente realistica della scrittura. Questo romanzo presupponeva una trama filosofico-teorica di stampo hegeliano, affatto estranea (o quasi) alla cultura letteraria nazionale, dal momento che, sulla base del nesso dialettico contenuto-forma, la storia scandisce l’alternanza in letteratura, attraverso i secoli, di periodi di progresso e decadenza, indissolubilmente collegati con le fasi della vita civile. Quindi «una storia morale d’Italia […] dal periodo della fede religiosa e dell’ardore politico che culmina in Dante, a quello della mollezza e sensualità che comincia dal Petrarca e dal Boccaccio, culmina nel Poliziano, nell’Ariosto e nel Tasso, si decompone nel Seicento e nell’Arcadia e apre il varco alla ricostituzione dell’uomo e del cittadino con Parini ed Alfieri, Foscolo, Manzoni e Leopardi» (ivi, p. 364).
All’inizio del suo primo saggio desanctisiano Croce aveva premesso che «le opere di De Sanctis comparvero, non sappiamo se si debba dire troppo tardi o troppo presto», tanto che «non entrarono allora nella cultura italiana come elemento efficace» (ivi, pp. 356-357), perché spiacquero agli uomini della sua generazione ai quali l’autore sembrava piuttosto un letterato che un filosofo e a quelli della generazione più giovane, che non volevano «più filosofia ma scienza», ai quali sembrava più filosofo che letterato. L’insegnamento e il metodo desanctisiani – quel libro di scuola che ricapitolava criticamente una tradizione civile e culturale come un destino che la nuova Italia avrebbe dovuto scongiurare – risultarono inattuali sia alla frondosa letteratura carducciana e dannunziana che alla critica del metodo storico, così che l’appuntamento di De Sanctis con la nuova Italia sarebbe stato posticipato di quasi mezzo secolo.
La personalità e l’opera proteiforme e imponente di Carducci poeta, erudito, filologo sui generis, editore di testi, critico letterario e polemista, e il suo fecondo magistero, durato quasi mezzo secolo, dalla cattedra bolognese (alla quale, venticinquenne, nel 1860 era stato chiamato da Terenzio Mamiani, ministro dell’Istruzione del governo Cavour) costituiscono il capitolo più significativo del recupero della classicità della secolare tradizione italiana, perseguito nella seconda metà dell’Ottocento, dopo il prolungato periodo di quaresima letteraria succeduto all’età di Foscolo, Manzoni, Leopardi. Non che tra la data di morte di Leopardi e l’Unità fossero mancati a vario titolo verseggiatori e narratori, ché anzi ce ne furono fin troppi, ma dopo il Sessanta era iniziato, rapido e inarrestabile, il dissolvimento della rimeria e romanzeria di stampo risorgimentale. Donde la necessità di progettare un nuovo itinerario per l’educazione letteraria degli italiani, ormai al crocevia della modernità, per le ragioni che, con tempestività e chiarezza mirabili, De Sanctis enunciava nel bilancio che conclude la Storia della letteratura italiana:
L’Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l’indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d’idee e di sentimenti troppo uniforme e generale, subordinato a’ suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato quello che le potea dare. [...] Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante lotte e tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondente più allo stato reale dello spirito. C’è passato sopra Giacomo Leopardi. Diresti che proprio appunto quando s’è formata l’Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata (De Sanctis 1981, 2° vol., pp. 973-974).
Rispetto a questa prospettiva, l’opera di Carducci, pur con oscillazioni e contraddizioni, percorre la direzione opposta verso la restaurazione e non il rinnovamento, come dimostrano l’antimanzonismo (definiva «manzonicida» la propria scuola), l’avversione nei confronti dell’avanguardia scapigliata, l’incomprensione cieca verso il «genere» romanzo e la narrativa naturalista, la polemica nei confronti dell’«estetico» De Sanctis.
Si è detto: poeta-professore, non tecnicamente filologo («praticamente capacissimo di sentire nei testi ciò che vi fosse d’errato e di restituirne quasi per intuito la lezione vera, non si cimentò mai alle metodiche ricerche e comparazioni», Mazzoni 1960, 2° vol., p. 1387), affatto digiuno di filosofia (esorcizzata con una sorta di scongiuro: «meglio oprando obbliar senza indagarlo / questo enorme mister dell’universo»), ma in grado di mettere al servizio della sua poesia e della sua oratoria le cospicue risorse di una vastissima erudizione, irresistibile oratore dalla cattedra, ma soprattutto infrenabile polemista capace, durante quasi mezzo secolo di vita italiana, di tradurre in versi e in prosa l’indignazione, il sarcasmo, il compianto, l’invettiva, la satira, il consenso che gli eventi, le idee e gli spropositi politici, il costume e il malcostume civile, il gusto e il malgusto artistico producevano in lui. E fu proprio l’assidua presenza del poeta, dell’animoso polemista e del professore sulla stampa ad assicurare durata e fortuna a un letterato che, primo e unico, dopo l’Unità, seguendo giorno dopo giorno le vicende politico-culturali della nuova Italia, divenne in certo modo la voce critica della nazione. Mai più, come in quegli anni, verosimilmente la letteratura sembrò assolvere una riconosciuta funzione civile. Premessa all’apparizione sull’orizzonte dell’Italia unita della carismatica figura del poeta-vate, del quale Croce ha tracciato, più di un secolo fa, l’identikit, ritagliandolo appunto sul personaggio Carducci:
Il poeta vate è una speciale qualità di poeta: colui che non si sta pago a manifestare le sue impressioni, per così dire, individuali di dolore e piacere, pianto e riso, simpatia e antipatia; ma che, animato da forte spirito etico, propone ai concittadini, ai connazionali, o agli uomini tutti, un ideale da perseguire. La sua poesia, dunque, è l’oggettivazione di una brama politica e morale [...] e si afferma nel celebrare e nel rampognare [...]; anzi, ogni sua celebrazione è insieme rampogna e ogni rampogna implicita celebrazione (Croce 1961, pp. 53-54).
E a Croce si deve anche l’identificazione del tratto distintivo della personalità carducciana: la passione etico-politica che non trovò sfogo nell’azione: «questa l’intima tragedia, che Giosue Carducci portò nel suo cuore». Quest’«uomo assai agitato dalla passione politica», che «fu una tempesta, un interessamento furioso, una compartecipazione violenta», ebbe una vita politica «grama» che non gli impedì tuttavia di assumere il ruolo di educatore dei nuovi italiani.
La storia di Carducci attraversa mezzo secolo di vita nazionale che vede il poeta, nato di piccola borghesia nel 1835 e cresciuto nella provincia toscana, arrivare nel 1906 all’ecumene europea, primo tra gli italiani a ricevere il premio Nobel, ma anche l’ex contestatore approdare nel 1890 al seggio senatoriale, dopo il riavvicinamento alla monarchia propiziato fino dal 1878 dall’ammirazione e poi dall’amicizia della regina Margherita, dedicataria, appunto in quell’anno, della «barbara» Alla Regina d’Italia, e, tre anni dopo, della prosa Eterno femminino regale. Una «conversione» che gli costerà accuse di tradimento della causa democratica, culminate nel 1891 con la «fischiata» a Bologna degli universitari repubblicani e socialisti. Quindi, sostenitore convinto della politica di Crispi, Carducci, non più voce dell’opposizione democratica, manterrà tuttavia il mandato di vate nazionale, e la sua scomparsa nel 1907 segnerà la fine anche di quella funzione sacrale che ne aveva fatto la personificazione dell’identità italica.
Dei 20 volumi dell’edizione delle Opere, impostata dallo stesso Carducci presso l’editore Zanichelli e realizzata tra il 1889 e il 1909, soltanto 3 sono destinati alla poesia; gli altri 17 alle prose di erudizione e di critica (12), di polemica e di attualità (5). Della sua attività di editore e di critico – che occorre comunque distinguere dai seguaci del metodo storico in virtù della sua vocazione di lettore di poesia e di apostolo di quella «religione delle lettere» cui seppe convertire una schiera di allievi – oltre al memorabile commento al Canzoniere di Petrarca, ideato nel 1860 e portato a compimento, insieme a Severino Ferrari, nel 1899, le prove più vive e ancor oggi vitali sono gli scritti su Parini e la poesia settecentesca. Mentre la pubblicazione dell’epistolario (una scelta in 2 volumi del 1911-13 e l’edizione nazionale delle Lettere in 22 volumi del 1938-1968) ha notevolmente contribuito a spostare l’attenzione sul prosatore che si confessa in privato in una «prosa d’arte» nella quale ecletticamente su un fondo puristico degli antichi (Carducci menava vanto di essere plebeo in fatto di lingua, perché – diceva – nella lingua del popolo si trova la genesi della poesia) si stratifica il modello linguistico del venerato Guerrazzi, combinazione di aulicità, arcaismi e modi popolareschi, e il parlato moderno, con tonalità, nei momenti migliori, ironica o autoironica, quando non francamente umoristica. «Nulla di più remoto – osserva Gianfranco Contini – dalla democraticità manzoniana, o per altro verso dalla razionalità, impiantata sul purismo ma secco e meridionale del De Sanctis» (Contini 1978, pp. 33-34).
Ma l’Italia fu «carducciana» soprattutto per le opere in versi di Carducci che, a intervalli ravvicinati, scandirono per mezzo secolo la vita civile e culturale italiana. L’ordine tematico-formale assegnato dal poeta alle sua raccolte di versi è inteso a delineare un percorso piuttosto ideale che cronologico: a Juvenilia e Levia gravia seguono, separati dall’inno A Satana, i Giambi ed epodi che l’Intermezzo separa dalle successive Rime nuove; quindi Odi barbare e Rime e ritmi. Così che la passione dominante per l’italianità politica, il culto della romanità quale fondamento della civiltà italiana, la rivendicazione della tradizione letteraria nazionale di contro alla perdita di centro e alla disseminazione europea della cultura romantica, la mai intermessa polemica anticlericale e antipolitica e gli astratti furori ideologici convivono con la poesia di paesaggio, i tableaux vivants delle rievocazioni storiche, le confessioni autobiografiche e le esperienze sentimentali.
Carducci non intende rinunciare a nessun momento della sua esperienza di uomo, poeta e intellettuale: così il giacobino e il poeta engagé che nei decenni ha officiato il mito popolare e democratico di Garibaldi coabita con il cantore ufficiale della regalità sabauda, il classicista irremovibile con il tardoromantico e il parnassiano, il repubblicano sostenitore del suffragio universale con il sostenitore di Crispi. Confusione di idee, confusione di tempi: resta il fatto che Carducci niente rinnega, solo rimescola le carte delle partite giocate. Tanto che, pur avendo ammesso le proprie contraddizioni per chiudere la bocca ai suoi detrattori, non esiterà a rivendicare la segreta coerenza del proprio operato in nome di tre assiomi: in politica l’Italia su tutto, in estetica la poesia classica su tutto, nella pratica la schiettezza e la forza su tutto.
Juvenilia e Levia Gravia appartengono alla preistoria della poesia, come Carducci stesso ammette nella prefazione all’edizione definitiva della prima raccolta (versi «puerili [...] per gran parte contrari al concetto che ora ha dell’arte del poetare»). Gli Juvenilia, scanditi in 6 libri, che raccolgono i versi composti nel decennio 1850-1860, offrono la testimonianza della «vigilia d’armi» dello «scudiero dei classici» impegnato nella sua focosa polemica antiromantica che sfoggia il suo tradizionalismo classico-umanistico ricalcando il linguaggio e la sintassi poetica sui classici latini e italiani, riecheggia e imita Parini, Alfieri, Foscolo, Leopardi, insistendo sulla valenza politico-sociale dei loro versi. Mentre i Levia Gravia, che in 2 libri raccolgono, nell’edizione definitiva, la produzione in versi del decennio successivo, a partire dalla constatata decadenza della cultura letteraria nazionale, insistono sulla crisi di vocazione del poeta, mentre fa la sua apparizione il bardo del Partito d’azione.
Ai Levia Gravia da ultimo Carducci allegò l’inno A Satana – originariamente un brindisi, frutto del «lavoro di una notte», letto a un banchetto di amici, – che è di gran lunga il testo più importante del primo tempo della sua produzione poetica e apre una prospettiva nuova nella storia della poesia carducciana. Composto nel settembre del 1863, l’inno suscitò una clamorosa polemica quando fu ripubblicato (per la quarta volta) sul «Popolo di Bologna» nel giorno medesimo dell’apertura in Vaticano del Concilio Ecumenico convocato da Pio IX (8 dicembre 1869) che avrebbe sancito l’infallibilità del pontefice e confermato l’arroccamento teocratico della Curia romana nei confronti della modernità. A chi lo accusava di aver messo su carta non poesia, ma «un’orgia intellettuale» e per di più antidemocratica, Carducci rispose rivendicando preliminarmente la genesi ‘lirica’ dell’Inno a metà strada tra il canto corale e la marcia trionfale: una celebrazione della Natura e della Ragione «due divinità che il solitario e macerante e incivile ascetismo abomina sotto il nome di carne e di mondo, che la teocrazia scomunica sotto il nome di Satana» (Carducci 1890, pp. 89-90).
Vent’anni dopo nella Prefazione a Levia Gravia, rincarerà la dose autocritica, ma confermerà le convinzioni esposte in quei versi: «l’inno a Satana fu una birbonata utile: birbonata, non nel concetto, che per me è ancor vero tutto o quasi, ma per l’esecuzione. Non mai chitarronata (salvo cinque o sei strofe) mi uscì dalle mani tanto volgare. L’Italia co’l tempo dovrebbe inalzarmi una statua, pe’l merito civile dell’aver sacrificato la mia coscienza d’artista al desiderio di risvegliare qualcuno e rinnovare qualche cosa» (ivi, p. 143). Negava di aver voluto comporre «un manifesto politico», ma offriva alla giovane Italia un manifesto ideologico che avrebbe contato, eccome, quale trait d’union fra la cultura laica risorgimentale di impronta illuministica e massonica e la cultura positivistica in ascesa proprio a partire dai primi anni Sessanta. L’inno trionfale alla ragione, alla «materia / che mai non dorme», alla libertà di pensiero, alla tolleranza, al progresso civile, alla natura, alla pagana gioia di vivere e godere della bellezza e dell’amore, alla conquista della scienza e della tecnologia, insomma a quello slancio vitale della modernità contro l’oscurantismo, il dogmatismo e il fanatismo religioso, il conservatorismo politico e sociale, lo spiritualismo romantico e il moralismo ipocrita, che si conclude con l’immagine del treno in corsa, offre un rinnovato ritratto di poeta che nella lettura degli storici francesi della Rivoluzione (Michelet, Quinet, Blanc), dei Jambes di Henri-Auguste Barbier, nel romanticismo sociale di Victor Hugo e nei grandi tedeschi (Goethe, Schiller, Heine), ha trovato energici correttivi a una formazione angustamente umanistica. A Satana segna dunque il passaggio dalla preistoria alla storia della poesia carducciana e apre il capitolo dei Giambi ed Epodi, versi di invettiva e di satira politico-sociale del periodo 1867-72 (ma nell’edizione definitiva l’arco si estenderà fino al 1879).
L’endiadi del titolo assegnato alla nuova raccolta solo nel 1882, con implicito tributo ai numi tutelari dello «scudiero dei classici» Archiloco e Orazio (ma si ricordi che la formazione classicista di Carducci è dimidiata dalla mancata conoscenza del greco) non deve trarre in inganno, dal momento che molta parte hanno in queste poesie ancora Barbier, Hugo, Heine. Giambi ed Epodi costituiscono perciò il capitolo fondamentale della littérature de combat carducciana, a un tempo compensazione per la mancata partecipazione all’epopea risorgimentale e reazione al grigiore del presente. Fede democratico-libertaria; visione eroica della storia (sulla scia di Thomas Carlyle); concezione attivistica della politica, ma anche, per quanto riguarda la tecnica poetica, emancipazione dall’accademia umanistica evidente nell’elaborazione di un linguaggio spregiudicato e realistico; alternanza di toni (celebrazione, satira, invettiva, ironia, compianto): queste le componenti di una cronaca in versi delle vicende politiche e sociali del primo decennio di vita della nuova Italia.
Così si affaccia alla ribalta letteraria il Tirteo del Partito d’azione a discutere causticamente della liberazione di Roma e Venezia; della drammatica situazione del Mezzogiorno; dei disastri di Custoza e di Lissa; delle eroiche sconfitte di Villa Glori e Mentana; del temporalismo della Chiesa di Roma; del partito d’ordine dei moderati e dei conservatori e dell’ignavia dei governanti italiani; della disparità tra i pochi ricchi o arricchiti e i molti poveri; della necessità del suffragio universale. Quanto dire l’altra faccia del Risorgimento e dell’Unità. Ma, con l’allontanarsi nel tempo degli eventi che avevano portato all’Unità, la vena polemica e contestataria si attenua fino alla stanca ripetizione e all’esaurimento e, dopo gli anni Settanta, la coscienza e la pratica letteraria fanno aggio sulla passione politica. Nascono da questa nuova condizione psicologico-morale e da un affinamento della tecnica espressiva le raccolte più celebrate di Carducci: Odi barbare e Rime nuove.
Il confine tra le due raccolte risulta assai vago: dal punto di vista cronologico in gran parte si sovrappongono (1861-1887 le Rime; 1873-1889 le Odi barbare) e sviluppano gli stessi temi e motivi, anche se il trattamento formale può essere radicalmente diverso per la rinuncia nelle «barbare» alla rima e al criterio accentuativo fondato sulla coincidenza di accento tonico e ritmico, propria di tutta la lirica moderna. Le Odi barbare («le intitolai barbare, perché tali sonerebbero agli orecchi e al giudizio dei greci e dei romani, se bene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo a moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani», Carducci 1902, p. 236), alle quali Carducci aveva cominciato a pensare dai primissimi anni Settanta, quando più insistente si faceva sentire la suggestione parnassiana di Théophile Gautier, erano apparse in tre riprese, rispettivamente del 1877, 1882, 1889, ma la serie era stata interrotta nel 1887 dalla pubblicazione della sua più cospicua raccolta, appunto le Rime nuove.
Scopo delle «barbare»: «il rinnovamento classico della lirica», «recare qualche po’ di varietà formale nella nostra lirica moderna» che, altrimenti, avrebbe rischiato l’estinzione «dinanzi al vero storico». Con questa raccolta, insomma, culmina il progetto di restaurazione classicista perseguito fin dalla giovinezza (anche se la rinuncia alla rima paradossalmente favorirà l’inclinazione prosastica al verso libero, forma d’elezione della poesia moderna). Ma la grande poesia europea contemporanea seguiva tutt’altra via (il 1873 era stato l’anno di Les amours jaunes di Corbière e Une saison en enfer di Rimbaud). «Carducci non è più un poeta. Molta dottrina, ma poesia non più»: così epigraficamente Theodor Mommsen.
Dopo uno sconcertante Preludio, nel quale il realismo carducciano imbrigliato nello schema metrico sfiora il ridicolo – l’energia vitale sprigionata dalla rinnovata forma espressiva è commisurata a quella di un amplesso consumato da una baccante e un fauno: «Tal fra le strette d’amator silvano / torcesi un’evia...») – i motivi fondamentali dei due libri della raccolta, in versi tra i più celebrati del poeta e tramandati a lungo dalla memoria scolastica, sono l’amore (In una chiesa gotica, Ruit hora, Alla stazione in una mattina d’autunno), la morte (Fuori alla Certosa di Bologna, Mors, Nevicata), l’ombra che la storia proietta sul presente e la nostalgia di un irrevocabile passato di bellezza e vitalità (Dinanzi alle terme di Caracalla, Alle fonti del Clitumno). Temi meditativamente declinati, con una concentrazione «alessandrina» sul cesello delle immagini e sulla resa fonosimbolica che lascia intravedere la rielaborazione in chiave di estetismo decadente di temi già sviluppati nelle opere precedenti. Praticamente assente, si è detto, la polemica politica: la solennità della resurrezione classica reca con sé un novello spirito di conciliazione e, a poche pagine di distanza, Garibaldi convive con la regina Margherita.
Gli stessi temi nelle Rime nuove, tra le raccolte di Carducci la più vasta e variata sia per numero (105 composizioni ripartite in 9 libri) sia per l’ampiezza dell’escursione cronologica (oltre un venticinquennio) e quindi inevitabilmente disorganica. Silloge aperta e ininterrotta, caratterizzata dall’adozione di schemi metrici quanto mai vari, parallela e a tratti coincidente sia con i Giambi che con le «barbare», Rime nuove, proprio per questo duplice significato di laboratorio e di bilancio, è l’opera più rilevante di Carducci, caratterizzata dal sempre più frequente affiorare del leitmotiv autobiografico, prima e altrove oscurato dall’enfasi polemica, da un agonismo di parata o da un virtuosismo letterario che sa di lucerna. Il nucleo più segreto e vitale della poesia carducciana intreccia la rievocazione del passato, la nostalgia, il rimpianto con la meditazione sulla vita che via via se ne va, sulla caducità, sulla morte. Ecco allora il Carducci introspettivo e più segreto di Davanti S. Guido, Traversando la Maremma toscana, Nostalgia, Pianto antico, Funere mersit acerbo, Notte d’inverno.
Infine Rime e ritmi, raccolta di versi composti tra il 1887 e il 1898, fin dal titolo avverte che 16 composizioni in rima convivono con 13 barbare («ritmi») con una conseguente alternanza di temi. Ma se il «grande artiere» è stanco, come dimostra la rinuncia a organizzare la raccolta (l’insufficienza strutturale è peraltro un difetto genetico delle raccolte carducciane), il vate e l’innografo si riaffacciano in Piemonte, il poeta professore si riaffacia in A Scandiano, quello tirtaico in Per il monumento di Dante in Trento, quello di paesaggio nella contemplazione dei paesaggi alpestri, affidandosi talora alle risorse di un virtuosismo scaduto in maniera. Così che le note più suggestive e convincenti sono ancora quelle autobiografiche, che affiorano a tratti, del malinconico raccoglimento della senilità e della religione delle lettere, che induce il vecchio poeta a invocare l’ultimo conforto dalla poesia: «A me prima che l’inverno / stringa pur l’anima mia / il tuo riso o sacra luce, o divina poesia, / il tuo canto, o padre Omero / pria che l’ombra avvolgami!».
Con le Odi barbare si conclude idealmente il primo quindicennio di vita letteraria della nuova Italia caratterizzato sia nel senso di un risarcimento europeo dalla scapigliatura, sia, con Carducci, nel senso opposto di un atto di fede nei confronti della tradizione e di una restaurazione umanistico-classicista.
Se la vicenda del Risorgimento nazionale aveva generosamente offerto alla letteratura argomento e passione, la formulazione di proposte politico-istituzionali più latamente culturali aveva solo sfiorato la contemporanea storia delle idee dell’occidente europeo, come impietosamente confermano le scarne cronache del pensiero filosofico della prima metà del secolo. Ma dopo l’unificazione l’appuntamento con la modernità non era più rinviabile; l’occasione, si è detto, fu interpretata in modi opposti ancorché volti a un medesimo scopo: la riappropriazione e la ridefinizione borghese, dopo secolari, drammatiche epifanie della storia, di un’identità nazionale ormai al di là del mito del «primato» italiano sopravvissuto al suo contenuto.
Come si è già avuto modo di ricordare, De Sanctis aveva stilato, a conclusione della Storia della letteratura italiana, il certificato di morte dell’eterogenea cultura spiritualistico-idealistica che aveva costituito la piattaforma del Risorgimento nazionale. Un atto di coraggio a conclusione di quel romanzo «biografico» della nazione italiana costruito sviscerando attraverso i secoli i caratteri genetici e distintivi della composita realtà nazionale che si concludeva con l’apertura su di un futuro ancora a uno stadio magmatico di «fermentazione d’idee, nunzia di una nuova formazione». Come scriveva De Sanctis, socialismo in politica, positivismo tra cultura e ideologia, realismo in letteratura avrebbero dovuto essere i punti di partenza di quella nuova «formazione» intellettuale in grado di assicurare per l’avvenire alla giovane società nazionale un posto auspicabilmente non «alla coda» nel contesto europeo. E questo fu in effetti lo sfondo del memorabile riscatto che, a opera della generazione degli anni Quaranta, riannodando le fila di realismo manzoniano, «arte dell’avvenire» scapigliata e naturalismo, aprì le porte del Novecento, prima che l’Italia carducciana avesse chiuso quelle dell’Ottocento.
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