Letteratura
È l'insieme della produzione in prosa e in poesia in una determinata lingua, in cui si riconoscono valori e intenti artistici. Legata, come tutti i prodotti della cultura, all'epoca e al contesto sociale e ideologico in cui è elaborata, si esprime in una varietà di generi, stilemi e strutture formali soggetti a normativa e codificazione, ma al tempo stesso aperti a innovazioni continue. La rappresentazione del corpo nei suoi movimenti esteriori e interiori risulta, nel discorso letterario, strettamente funzionale alla concezione di vita che lo scrittore intende affermare.
La presenza del corpo nella letteratura è sempre stata legata a due aspetti distinti e collaterali: la concezione ideologica dell'entità corporea come elemento di riflessione di tipo pratico e speculativo, e l'uso che lo scrittore ne fa in senso espressivo e rappresentativo quando parla delle varie attività corporali, per es. ludiche e di fatica, di piacere e di costrizione, fisiche e intellettuali. Ma è difficile, se non impossibile, attribuire al corpo una definizione letteraria univoca, data la sua unità inscindibile di luogo ove trovano spazio sia l'anima e la mente, elementi spirituali e interiori, sia il fisico come contenitore esteriore del più complesso meccanismo funzionante che esista in natura. Il corpo è pertanto un organismo portatore di spirito e di materia nel suo essere singolare, unico. Nella leggenda che ha dato origine al mito del Faust, egli può vendere l'anima al demonio perché la possiede, e il demonio ripagarlo con ogni sorta di voluttà di cui è il corpo a trarre godimento. Proprio da questa unicità, che per paradosso si fonda su una dualità oppositiva, in letteratura prendono consistenza le classificazioni terminologiche e distintive che ne derivano, a seconda delle condizioni in cui il corpo è inserito e dei relativi campi di applicazione: di maschile e femminile (uomo e donna) e dei loro rapporti; di individuo e persona o, all'opposto, di sinonimo di collettivo dal punto di vista giuridico e sociale; di essere, e persino di non essere, come il fantasma o lo spettro; di 'carne' e di 'sangue', in chiave simbolica; fino all'incorporeità degli esseri divini, la cui dimensione corporale è sublimata in senso religioso nel puro spirito. Più che la letteratura, tuttavia, storicamente è stata la filosofia a occuparsi di un'interpretazione del corpo come entità, data la sua fisionomia contraddittoria e dualistica, trasformandolo da manifestazione della vita naturale in problema culturale e simbolico. Questo vale soprattutto per il pensiero occidentale. Nel mondo e nella cultura dell'Oriente, invece, corpo e spirito si fondono in un'entità unica e il dualismo filosofico non si pone in maniera così problematica, ma anche un po' astratta, come avviene nell'Occidente. Le linee direttrici della dualità si richiamano tradizionalmente alla filosofia greca, e trovano conferma in una varietà di posizioni teoriche che privilegiano comunque lo spirito (v. anima).
Da centro di irradiazione simbolica nelle comunità primitive, il corpo, come dice U. Galimberti (1983), è diventato in Occidente il 'negativo di ogni valore' che il gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando. Dalla 'follia del corpo' di Platone alla 'maledizione della carne' nella religione biblica, dalla 'lacerazione' cartesiana della sua unità alla sua 'anatomia' a opera della scienza, all'homme machine degli illuministi, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a forza-lavoro, a numero per incrementare la produzione in senso economico. Oggi, tuttavia, il problema è rovesciato, perché nel tempo dell'automazione, dell'informatizzazione e della globalizzazione esso non ha più senso, è tagliato fuori dal ciclo produttivo, è economicamente un ingombro. Alla casistica problematica che ha accompagnato il corpo nella storia, naturale e culturale, bisogna aggiungere la componente economica per la quale il corpo diventa una questione sociale. Ma per superare l'opposizione culturale tra anima e corpo e cercare di dare a proposito dell'entità corporea una risposta più articolata e organica nel quadro della visione interdisciplinare che lo contraddistingue, il sapere contemporaneo ha ulteriormente accentuato il carattere culturale della nozione di corpo, lo ha trasferito dall'ambito naturale a quello dei concetti e assimilato ai fenomeni simbolici. Antropologia, semiologia, linguistica, medicina, psicoanalisi, ogni disciplina ha dato del corpo una propria proiezione come significato espressivo che supera la tradizionale separatezza di corpo e anima, di cuore e mente, di movimento e stasi, per situarsi nella sfera del rapporto comunicativo. Il corpo vivendo comunica perché produce un insieme di segni, ossia realizza con il proprio complesso movimento pratico e spirituale una serie di funzioni che assolvono lo scopo di comunicare ai diversi livelli e nei diversi contesti in cui agisce: come disse M. de Certeau, nella storia abbiamo un corpo per ogni epoca e per ogni gruppo. La letteratura è il campo dove questo movimento si esprime in senso rappresentativo grazie al linguaggio. A differenza della filosofia, la letteratura ha esaltato o denigrato il corpo in quanto invenzione o rispecchiamento, dal punto di vista verbale, dell'attività umana. In tal senso il corpo è diventato elemento essenziale nel contesto letterario, anzi è connaturato alla letteratura, poiché sul piano della rappresentazione espressiva esso si è via via identificato con l'uomo stesso.
Protagonista principale, se non assoluto, del discorso letterario, l'uomo è presente fisicamente e non come astrazione anche quando è portatore di idee: la sua manifestazione culturale e il suo movimento naturale si esprimono attraverso e in virtù del corpo. In letteratura, però, la parola non può rendere la rappresentazione del corpo con quell'evidenza plastica che è caratteristica della pittura e soprattutto della scultura, dove il tratto corporeo risalta in primo piano, e si distende o si ritrae o si fissa secondo il movimento. La parola esprime tecnicamente in forma diversa, perché la sua dimensione è descrittiva, e pertanto il corpo acquista sulla pagina una pregnanza significativa quando il moto esteriore si associa alle reazioni interiori: il corpo diventa allo stesso tempo atto e pensiero, descritto nel suo fare e scandagliato nel profondo. In altri termini, è lo spirito che costruisce il corpo, come sosteneva F. Schiller nel pieno dell'esaltazione romantica; ma F. Wedekind, che precorse l'espressionismo, ribatteva che era la carne ad avere il suo spirito; e S. Beckett ha sintetizzato la divergenza alla maniera esistenzialistica con un'immagine di stampo aforistico, in base alla quale il corpo ha il suo magazzino e lo spirito i suoi tesori. Da tali premesse ne consegue che la rappresentazione del corpo in letteratura non è mai neutra, ma sempre l'espressione di un'idea, anche quando si manifesta con l'antropomorfismo alla rovescia di F. Kafka, che nella Metamorfosi trasforma il corpo del protagonista in un grande insetto.
Nella descrizione manzoniana della monaca di Monza, figura di cui l'autore mette in evidenza, soffermandosi sapientemente su alcuni particolari, i tratti ambigui e il senso di inquietudine, il narrare trascorre dalla rappresentazione visiva a un implicito giudizio morale e storico; ma anche quando il discorso letterario in genere sembra risolversi in un elegante esercizio descrittivo, non privo di raffinatezze stilistiche (si potrebbe pensare a certe pagine estetizzanti di G. D'Annunzio), in realtà esso può richiamarsi a una visione edonistica che indugia, anziché su un paesaggio o su qualche oggetto, sul corpo quale luogo privilegiato del piacere umano in ogni tempo. L'insistenza descrittiva sul corpo non è casuale, ma si inquadra nelle esigenze di una poetica che è frutto di una concezione del mondo: dietro agisce una ragione storica e culturale. Se a questo punto si prova a ripercorrere diacronicamente le grandi tappe del cammino della letteratura, limitandosi a quella occidentale, è possibile rendersi conto di come la presenza del corpo nel discorso letterario risulti sempre strettamente funzionale all'idea di vita che si intende esprimere e quindi affermare. Nelle letterature antiche, soprattutto quella greca, il corpo era espressione di forza naturale associata alla bellezza e si sublimava nella figura dell'eroe, uomo e dio, o comunque a discendenza divina, come nel caso dei protagonisti omerici. Nell'esaltazione mitica del corpo vittorioso (Achille) o sconfitto (Ettore) o razionale (Ulisse), si celebrava anche la divinità cui si richiamava e nella quale l'immaginazione umana identificava l'entità superiore, che non poteva che essere bella e potente, oppure astuta e tragica. Nel tentativo di avvicinarsi al dio, l'uomo era teso alla scoperta del mistero delle verità supreme attraverso un processo iniziatico di purificazione, che poteva anche comportare il rischio di un estremo sacrificio del corpo. Quando la divinità ha cominciato a perdere la propria forza mitica ed è diventata soltanto un simbolo, tra l'altro un simbolo svuotato di spiritualità, la tensione dell'uomo verso gli dei si è impoverita perché è venuta a mancare la dimensione tragica del rapporto che, intellettualmente, coincide con la morte della tragedia, anche se essa continuerà a sopravvivere come forma letteraria.
La letteratura di ogni tempo, rappresentando tutti i movimenti esteriori e interiori del corpo, vi ha indugiato con dovizia, quale oggetto e luogo di piacere da esplorare in tutte le possibilità che l'erotismo alimenta e suggerisce. L'esemplificazione è ricca: si va dall'Antologia Palatina a Ovidio alla poesia amorosa dell'età umanistica, dall'Aretino ai libertini a Casanova, da D.H. Lawrence a H. Miller a G. Bataille. Ma la scoperta del corpo non è la conseguenza di una fisicità nascosta, fino ad allora inespressa e che improvvisamente esplode, quanto lo sbocco di un processo intellettuale che ha come base un mutamento nella natura dei rapporti umani. Tra Cinquecento e Seicento è avvenuto un cambiamento radicale nella percezione della realtà, con il passaggio dai sensi pratici (tatto, odorato, udito) alla vista, senso che invece introduce un dato intellettuale: le ricerche nel campo dell'ottica, l'uso di nuovi strumenti come il cannocchiale, implicano una modalità d'approccio più mediata, e l'occhio avvia un giudizio che non potrà che essere critico. A un rapporto di forza agonistico per natura, che aveva come obiettivo l'affermazione dell'Io anche in forma aggressiva, è subentrato un confronto dialettico e conoscitivo che nella sostanza non risulta meno crudele, anche se la supremazia è raggiunta non dopo uno scontro fisico, ma con la sottile arte dell'esercizio dell'intelligenza. Una maggiore conoscenza di sé e dell'altro porta a un piacere sconosciuto che l'esplorazione del corpo fa scoprire e che la parola, come nessun altro mezzo artistico, è in grado di rendere in tutte le sue sfumature. In questo caso l'immagine, pittorica o scultorea, è statica, mentre la parola è plastica; con la sua profondità è sempre movimento inventivo, anche quando pare descrivere di un atto solo i gesti.
La letteratura erotica, non a caso, ha due valenze: è una provocazione razionale con la sua oltranza (vedi D.-A.-F. Sade e i libertini) ed è un esercizio retorico dell'immaginazione spinto al massimo grado (vedi D'Annunzio, Bataille); entrambe le valenze non vanno confuse con la pornografia, neppure quella divertita di G. Apollinaire nella Bibliothèque des curieux, o con l'osceno, in cui invece Ch. Bukowski si immerge felicemente. Non solo, l'immaginario non è mai così vivo, irrefrenabile, ma anche critico, come quando, dopo aver scoperto e denunciato il tabu, si lancia a spaziare nel proibito e nel praticare la trasgressione. Il mito di Don Giovanni appare in questo senso esemplare: la sua ricerca del piacere, consistendo nel volere il corpo di tutte le donne, non è soltanto un'ossessione di possesso carnale, ma simbolicamente rappresenta una sorta di proiezione erotica dell'infinito come risposta alla finitezza umana. Non è casuale che queste condizioni trasgressive, ma critiche, trovino un fertile terreno di applicazione nella pratica intellettuale e nei momenti nei quali più intensamente si fa sentire il peso della transizione da un periodo all'altro. In ambito letterario il corpo non conosce solo la celebrazione eroica e il compiacimento erotico, ma anche la mortificazione della carne come mezzo all'elevazione dello spirito.
La letteratura mistica, di ogni epoca ed estrazione culturale, è la testimonianza della ricerca dell'ascesi quale esempio di una sofferta ma raggiunta intesa fra carne e spirito. Il misticismo deriva dal religioso ed è la risposta religiosa alla crisi e alla caduta di altri valori. Nel Medioevo, la povertà francescana e l'ascesi cateriniana partono dal rifiuto del corpo e del suo 'intorno' (abbigliamento, vitto, domicilio) per avvicinarsi a Dio, poiché il corpo è l'esempio vivente della pienezza e della decadenza, e in quanto tale luogo di peccato e pentimento. La letteratura mistica, la cui estensione spaziotemporale è molto ampia (si possono ricordare Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Teresa d'Avila, Francesco di Sales), sembra fondarsi su una semplicità espressiva che in realtà è solamente apparente: il suo linguaggio sottende infatti una forte tensione simbolica che si esercita proprio sul territorio corporale.
L'ingresso sulla scena della letteratura del personaggio boccaccesco, come ricorda F. De Sanctis, è una parodia del Medioevo e il suo autore un Voltaire del suo tempo: nel Decameron, uomini e donne soggiacciono tutti al richiamo del corpo e, per compiacere alle più elementari leggi della natura, si ingegnano nell'architettare le soluzioni più inaspettate; anche i rappresentanti dei valori spirituali (monache e frati) si piegano sotto la spinta dei desideri che segnano l'irruzione violenta della natura e sconvolgono le convenzioni etiche, deformandole. Nella sua carica innovativa, l'opera prelude alla fioritura del Rinascimento, quando l'uomo ha recuperato un gusto per la 'dolcezza del vivere', secondo l'espressione di L.B. Alberti, che le istanze ascetiche medievali sembravano avere definitivamente mortificato. Con la civiltà rinascimentale, la figura umana riacquista una dimensione di pienezza, laddove prima era segno di sofferenza: l'uomo è nuovamente protagonista di un'avventura terrena e di una 'civiltà', come l'ha definita J. Burckhardt. Dopo aver sgombrato il campo dalle stilizzate maniere figurative bizantine e gotiche, non dimenticando che proprio a Bisanzio una grande controversia ha riguardato la rappresentazione iconografica corporale del Cristo, l'uomo ha ritrovato nelle lettere e nelle arti una sua realizzazione degna dell'antichità classica, senza per questo rinunciare a interrogarsi sui misteri dell'infinito materiale e morale, attraverso il pensiero, l'opera, la raffigurazione di Leonardo, N. Machiavelli e Montaigne, Cartesio e Galileo, B. Pascal e G. Bruno.
L'immaginazione con il suo disordine, e non solo l'ordine della razionalità, ha chiuso un'epoca e ha aperto la strada a una nuova concezione di vita che si è sublimata in una dimensione tutta terrena in cui al centro è l'uomo. E con l'uomo si è affermato anche un gusto che gli è più congeniale e lo coinvolge fisicamente. Se il corpo è oggetto di cura estetica, diventa però anche luogo di attenzione fisiologica, perché l'edonismo è legato alla salute del corpo. Il rapporto dell'uomo con il suo corpo, di cui va acquisendo maggiore conoscenza, si modifica, si amplia, diventa più complesso, seguendo non solo lo svilupparsi del processo storico e sociale, di cui pure era artefice e protagonista, ma anche quello intellettuale che conduceva, insieme allo splendore artistico, all'evoluzione del metodo scientifico nella ricerca e a nuovi esiti nella medicina. Con la Riforma si instaura nella vita e nei costumi un'eticità nuova che impone, sia pure da prospettive differenti, una maggiore austerità e un più ferreo rigore, coinvolgendo anche le abitudini quotidiane. Le tensioni religiose seguite alla Controriforma hanno spinto verso una visione ossessiva e repressiva del corpo in quanto luogo visibile della manifestazione del peccato, e perciò da punire 'oscurandolo'. Anche quando era la mente a peccare, ovviamente di eresia religiosa e intellettuale, a pagare comunque era sempre il corpo, salendo al rogo. Più avanti, il progresso scientifico, lo sviluppo dei commerci, la rivoluzione industriale hanno portato a una trasformazione delle strutture ambientali: si andavano formando, attorno ai nuclei già esistenti, nuovi ed estesi agglomerati urbani che si sviluppavano senza un disegno razionale e favorivano ogni genere di promiscuità, con segni evidenti di degrado corporale. Nelle fasi più acute della rivoluzione industriale, l'essere umano ha contato solo per l'apporto corporale alle esigenze della produzione: prova ne sia l'indiscriminato impiego di manodopera minorile nei lavori più duri, di cui si ha eco nelle pagine di Ch. Dickens.
La trascuratezza per il corpo a livello sociale, la sua riduzione a mero oggetto, non esclude tuttavia il persistere di un interesse intellettuale che si è manifestato, da un lato, con il neoclassicismo, postulante il ritorno verso un improbabile e anacronistico ideale classico che, ben interpretato nelle raffigurazioni scultoree di A. Canova, nella realtà letteraria si trasforma in arcadia; dall'altro, con una speculazione simbolica che ha tradotto il corpo su un terreno ove sfogare il desiderio del puro piacere (quello perseguito nell'avventura libertina da un Casanova) o nutrire le perversioni più segrete e inconfessabili per il codice di moralità corrente. Sade ha proiettato le sue visioni di scrittore utopico nelle rigorose e quasi paradossalmente logiche descrizioni dell'uso immorale del corpo. L'utopia del corpo non si ferma alla trasgressione sessuale, ma ha spinto la propria visione verso il mistero invalicabile della sua stessa natura, non solo fisiologica: la trasformazione o la costruzione del corpo. L'illusione creatrice si è risolta in aberrazione plasmando non esseri umani, bensì mostri (il Dottor Jekyll e Mr. Hyde nel primo caso e Frankenstein nel secondo). Ma ciò che è il frutto di una visionarietà intellettuale tendente alla penetrazione illusoria nel mistero della vita attraverso il corpo, e che ha originato i robot e gli automi della letteratura fantastica e fantascientifica, è degenerato nel mito del superuomo. Il concetto ha senza dubbio un'origine culturale, come ha dimostrato P. Viereck in Metapolitica: dai romantici a Hitler, solo che dalla speculazione intellettuale esso è passato nell'ideologia razzista e nella pratica di regimi totalitari.
Il ruolo che F. Nietzsche ha avuto nell'elaborazione dell'idea di superuomo è stato capitale, ma solo una lettura distorta può equivocare sulla natura dei fini dell'essere da lui concepito in senso superiore. Nessuno al pari di Nietzsche ha esaltato il corpo come entità e le sue ragioni umane, superando la retorica della strumentalizzazione ginnica per la liberazione del fisico. Egli si associava ad A. Schopenhauer, per poi andare oltre nell'imporre artisticamente una volontà che aveva come fine la potenza della vitalità creatrice espressa dalla componente dionisiaca insita nel corpo, tuttavia sempre tenuta repressa dalle convenzioni. La visione dell'uomo di Nietzsche ha senza dubbio una matrice filosofica, ma l'esposizione del suo pensiero in un'opera quanto mai variegata è più quella di un poeta; forse è per questo motivo che l'uomo nietzschiano non è un modello astratto di idealità, nonostante il superuomo, ma un insieme delle più contraddittorie espressioni corporali.
Una svolta determinante al problema del corpo l'ha data in seguito la psicoanalisi. Le ricerche di S. Freud non si sono limitate al territorio della psiche, ma hanno inglobato l'intera struttura dell'organismo umano; sulle sue orme, la concezione del corpo nella cultura contemporanea ha scoperto altre condizioni e diramazioni espressive. Il corpo come linguaggio, che implica qualcosa di più rispetto al concetto di linguaggio del corpo, non è un'ipotesi fantasiosa, ma il frutto di una ricognizione meno superficiale del comportamento umano, la quale attribuisce ai nostri gesti un senso che va al di là della loro matrice naturale. Ed è una prerogativa dell'attuale: come ebbe a dire J. Ortega y Gasset, il corpo è rinato e rivendicarne la 'riscoperta' è toccato al nostro tempo. Naturalmente, con tutte le conseguenze del caso. Per J.-P. Sartre l'uomo consiste solo in ciò che fa, e ad agire nel complesso dell'esistenza è appunto il corpo, tragicamente condannato dalla libertà di fare. M. Foucault ha impostato tutta la sua opera sulle relazioni e costrizioni del corpo, dalla follia alla sessualità alle prigioni, ma, a differenza di Sartre, vede la libertà come illusoria se il fare non è 'opposizione' al sistema che imprigiona l'uomo annullandone il corpo. Il corpo è stato infine protagonista del processo di cambiamento nei rapporti umani e nel costume sociale esploso con il Sessantotto. Ed è stata soprattutto la donna che ha svincolato il proprio corpo dalle ipoteche che lo condizionavano a una funzione retoricamente materna o di puro oggetto di piacere: in ciò, scrollandosi di dosso l'attribuzione di secondo sesso, che polemicamente aveva usato S. de Beauvoir per dire che donna non si nasce ma si diventa.
Proprio i sorprendenti sviluppi letterari odierni della dimensione corporale inducono a pensare che il corpo nella sua complessità, e al di là delle distinzioni genetiche, rimanga tuttora un'entità in gran parte ignota. Nonostante ci si illuda di avere ormai avviato un rapporto irreversibile con il nostro essere corpo, in realtà questo è un territorio che, a esplorarlo, riserva ancora continue sorprese. In ogni sua parte esso cela uno straordinario laboratorio di ricerca in grado di offrire una gamma infinita di possibilità sperimentali sconosciute, i cui risultati hanno sempre una duplice valenza: materiale e spirituale, che è compito della letteratura tradurre in linguaggio e plasmare stilisticamente. Si possono a questo punto richiamare e descrivere, compiendo un percorso trasversale attraverso le opere e il tempo, figure, temi e motivi letterari che costituiscono, in qualche modo, 'invarianti' pur nella varietà delle rappresentazioni e delle concezioni.
È il corpo inteso nella dimensione mitico-eroica, in quella grottesca (il gigante) oppure nella ibrida commistione di uomo-animale (la figura antropomorfa).
a) L'eroe. Il mito dell'eroe in quanto archetipo si riferisce da sempre a un uomo potente, un semidio che annienta le forze del male e libera da morte e distruzione. Nella figura dell'eroe il materiale e lo spirituale, il corporeo e l'incorporeo, trovano la forma essenziale, l'equilibrio degli elementi e la loro potenzialità nell'azione. L'agire dell'uomo divinizzato, superando il limite della normalità e della contemplazione, determina la storia fantastica della civiltà antica, che ha bisogno di dare un corpo allo spirito senza dover spiritualizzare il corpo. Secondo W. Goethe, il primo tentativo di teomorfismo della storia è stato realizzato dai greci che, prima di umanizzare la divinità, hanno divinizzato l'uomo; poi hanno individuato il corpo umano come sublime manifestazione della natura ed espressione del divino. Se per Esiodo l'eroe è un essere mitico e benefico che vive nelle isole Fortunate sotto l'egida di Crono, per Omero la figura eroica è rappresentata dal guerriero coraggioso. I semidei (Perseo, Ercole, Cadmo, Orfeo) lasciano il posto a esseri mortali, dotati di qualità superiori e in grado di compiere grandi imprese: uomini che si distinguono dagli altri non per la corporatura o per eccezionali doti fisiche, bensì per intelletto e saggezza. Sono Ulisse ed Enea, personaggi sospesi tra storia e leggenda, prototipi di una civiltà in cerca di un'origine e di un mito fondante, a dare definitivamente volto umano alla mitologia: protagonisti di lunghi e misteriosi viaggi iniziatici, sfidano la morte nel cammino avventuroso voluto dal fato e contribuiscono a compiere il destino dell'uomo nella storia del mondo. Con la nascita della tragedia, l'eroe mette da parte la forza fisica del corpo divinizzato per indagare nell'oscuro destino dell'uomo. È il continuo affacciarsi della morte nella vita a ricordare all'eroe il suo inevitabile carattere di simbolo associato alla caducità del corpo, che soltanto quando muore diventa simile agli dei. In epoca medievale, quando Snorri Sturluson (1178-1241) componeva i carmi dell'Edda e un anonimo cantore quelli del Regius, in cui vengono descritte le imprese dello scandinavo Helgi e del nibelungico Sigfrido, la figura dell'eroe viene associata al mito della guerra, alla ricerca della verità e della giustizia. Allora le gesta dei cavalieri, da re Artù a Lancillotto a Parsifal, rimandano all'attrazione esercitata nell'uomo dall'elevazione spirituale. Le chansons de gestes, pur richiamando nelle avventure e nelle gesta l'interpretazione epica dell'esistenza, mostrano un eroe tormentato, cosciente del dolore che deve affrontare per giungere alla perfezione cui aspira.
Ma un altro tipo di eroe si va affacciando sulla scena di una società che si sta modificando radicalmente: è Don Giovanni, inappagato seduttore, che si esalta nella conquista di tutte le donne in una irrazionale sintesi di amore e morte, mentre con il Don Chisciotte di M. Cervantes vede la luce un eroe ironico e sarcastico, che non anela più all'assoluto, non lotta né cerca la morte, bensì sfida la propria ombra e dichiara guerra ai mulini a vento. Con l'avvento della mentalità scientifica e tecnica l'eroe si definisce rispetto a un mondo che egli stesso crea o rifiuta. L'avventura letteraria diventa evasione dalla quotidianità e fuga della mente verso la libertà dei mondi immaginari alla ricerca, come fa F. Bacone, della Nuova Atlantide. È il trionfo del fantastico e dell'utopia. H. Melville in Moby Dick fa di Achab l'eroe capace di affrontare la balena bianca per piegare le forze oscure della natura: egli è il protagonista simbolico della lotta della ragione contro il caos, la lotta cui si vota l'uomo moderno, e sceglie il mare come campo di battaglia. Con i personaggi di J. Verne, l'eroe è invece un eccentrico intellettuale che, come il capitano Nemo, naviga nelle profondità marine con il Nautilus, prodigio della tecnica, per affermare la sua potenza. Il corpo e l'azione si trasferiscono in luoghi reali che diventano fantastici e viceversa, in ogni caso luoghi raggiungibili solo con strani percorsi iniziatici. Il demone dell'avventura, l'esplorazione della natura nei suoi aspetti ancora ignoti affiancano lo spirito scientifico. Nell'affrontare l'impresa dello svelamento del mistero del cosmo, l'eroe oggi non si muove più soltanto nello spazio pur infinito della mente che gli garantiva la scrittura, ma ha trovato nell'immagine una nuova dimensione che ne avvalora le gesta, poiché la loro visione ha innescato un processo di identificazione e partecipazione a livello popolare. È su questo piano che va valutato l'apporto del cinema alla costruzione dell'eroe moderno, sia che esso affronti gli spazi siderali o quelli sconfinati delle nuove terre, creando l'epopea del western, sia che vinca il nemico dell'uomo sul piano delle più sofisticate tecnologie. Imprese che comportano un eccezionale dispendio fisico, ma con una differenza: l'uomo continua a essere protagonista, ma lo è in virtù della tecnica che domina la vita moderna. Ogni epoca e società esprime dunque i propri eroi. Nella società planetaria attuale, gli eroi che vivono nell'immaginario popolare hanno la dimensione del divismo, non sono più interpreti di valori epici e spirituali insieme, in quanto le loro imprese, ancorché frutto di una performance corporale, rispondono in realtà alle esigenze di una mitologia prefabbricata. Secondo quanto sosteneva R. Barthes, essa è il prodotto del linguaggio dei media, dello spettacolo, e le gesta dell'eroe sono snaturate nella loro essenza originaria di sfida all'assoluto.
b) Il gigante. Nel pantheon teratologico delle narrazioni mitologiche, i giganti, creature mostruose dai corpi dilatati e dalle fattezze semiumane, esseri feroci dediti all'antropofagia, incarnavano istinti corporei brutali. Il gigante, seguendo le tendenze regressive recondite nell'animo umano, rappresentava il lato oscuro delle forze ctonie della terra e le sue potenze inferiori erano chiamate a sfidare l'umanità nel cammino verso il progresso della civiltà; tuttavia, nei racconti mitici dei popoli indoeuropei venivano spesso associate agli esseri giganteschi la custodia dell'anima e l'origine della vita. Ovunque nel mondo antico sono attestate tradizioni popolari che rimandano al mito della civilizzazione dell'Homo sapiens da parte di divinità e di re dalla corporatura gigantesca; così come la storia è popolata di protagonisti di battaglie all'ultimo sangue condotte dall'uomo per vincere creature abnormi.
Nel Medioevo la credenza che i giganti, ciclopi o cinocefali, esistessero veramente era assai diffusa: erano concepiti come segni dell'ira divina e preannunciavano carestie e devastazioni. Tale credenza pose un problema teologico di cui si occupò anche sant'Agostino nella Città di Dio. La risposta la diedero i teologi: se il corpo umano, specchio dell'anima, era perfetto in quanto immagine di Dio, questi esseri, nella loro deformità, incarnavano un'indole diabolica e per questo andavano allontanati, emarginati dalla società civile. Le creature dalla corporatura gigantesca, come narrano le leggende medievali, nascevano da rapporti sessuali tra donne perverse e demoni chiamati Incubi, i quali assumevano forme umane pur di soddisfare i loro desideri proibiti. Il diverso, il deforme, l'ibrido, non erano soltanto figurazioni del lato mostruoso della realtà che terrorizzavano l'immaginario collettivo, quanto piuttosto espressione traslata di inconfessabili tentazioni sessuali che si rendevano visibili attraverso esseri abnormi, violentemente passionali. Il gigantismo, nei secoli a seguire, con l'avvento dell'età della ragione e poi dell'industrializzazione, diventò una malattia e il gigante un fenomeno da esporre alle fiere di paese per mostrare le anomalie della natura. Mentre mostri giganteschi come il Frankenstein di M. Shelley oppure il Golem di G. Meyrink erano frutto dell'immaginazione umana, l'uomo stesso si adoperava a realizzare concretamente i suoi giganti: erano le nascenti metropoli e le fabbriche con la loro mastodontica tecnologia a diventare i nuovi miti dell'era della macchina. I giganti sono quasi assenti dall'immaginario popolare moderno. Tranne talune visioni in Giganti di A. Doblin, nei racconti fantastici di J.G. Ballard o nelle fotografie di A. Sander, D. Arbus e H. Newton, restano semplici ammassi di carne cui è stato tolto ogni significato. La loro scomparsa nell'epoca dell'informazione digitale costituisce un ulteriore sintomo della crescente smaterializzazione della corporeità dopo la scoperta di nuove emozioni in bizzarre dimensioni virtuali.
c) La figura antropomorfa. L'antropomorfismo dal punto di vista letterario è un'allegoria, una figura retorica. L'idea di introdurre animali cui attribuire comportamenti umani in un'opera letteraria, oppure di raffigurare animali con sembianze umane ha un valore simbolico: è una tecnica espressiva per affrontare in maniera indiretta, ma anche con maggior libertà di contenuti, un discorso di fondo sull'uomo e l'esistenza. La scelta antropomorfa ha radici antiche, ma è passata attraverso varie fasi che vanno dall'ingenuo immaginario popolare delle leggende alla calcolata allegoria a sfondo politico di G. Orwell nella Fattoria degli animali o di stampo moralistico nella Collina dei conigli di R. Adams. L'identificazione dell'uomo con la figura animale, come la conoscenza della natura morale degli esseri attraverso l'aspetto fisico, ha dato origine nelle favole alle divinità di svariate civiltà: l'uomo ha fatto ricorso all'animale per mezzo di effigi, maschere, totem e leggendarie metamorfosi, per comunicare con gli altri e con sé stesso. ll Centauro, la Sfinge, Medusa, Proteo, il Minotauro sottolineano l'incontro magico e naturale tra la razionalità umana e l'istinto animale. Gli episodi più bizzarri delle Metamorfosi di Ovidio e dell'Asino d'oro di Apuleio rivelano che, nella fantasia degli scrittori, la forma animale è sempre stata una maschera dietro la quale nascondere gli errori, le paure o i desideri proibiti dell'animo umano. Dal mito greco di Pasifae e il toro sino alle favole dell'epoca medievale che riprendono il mito di Leda e il cigno, dietro al racconto fantastico e alla fiaba si celavano passioni inconfessabili, erotismo, amore e morte.
La rappresentazione simbolica, però, si arricchisce di valenze nuove quando entrano nel discorso le prime componenti scientifiche che danno all'antropomorfismo un carattere meno immaginoso e più definito. Nei trattati di fisiognomia dell'antichità, dallo Pseudo-Aristotele a Polemone, da Adamanzio allo Pseudo-Apuleio, sino al De humana physiognomonia di G. Della Porta, del 1586, ogni parte del corpo umano era paragonata a quella di un animale, quasi gli animali fossero simboli viventi delle passioni umane e in essi si potesse già identificare quell'aspetto oscuro della mente di ogni individuo, quell'inconscio portato definitivamente alla luce da Freud con la psicoanalisi e che spinge Nietzsche nella Gaia scienza a rovesciare addirittura il rapporto: sarebbero gli animali a vedere nell'uomo un essere a loro uguale che ha perduto in maniera pericolosa il sano intelletto animale, a vedere cioè in lui l'animale delirante, l'animale che ride o che piange, l'animale infelice. Mentre le creature ibride del Bestiaire di Ph. de Thaon, del 1126, lasciano intravedere una dura critica nei confronti della società del tempo, descritta sotto spoglie animalesche, il Roman de Renart, del 1288, anticipa le favole di J. La Fontaine e poi di F. Fénelon e di J.-P. Florian, dove gli animali incarnano vizi e virtù dell'uomo. La forma umana, nell'Ottocento, ritorna a essere una semplice maschera con le 73 tavole delle Metamorfosi del giorno e le Animalomanie di Grandville, con i disegni satirici di H. Daumier e le illustrazioni di S.-G. Gavarni: gli animali diventano personaggi veri e propri, e la bestialità umana corrompe la vita sociale, fino al punto di diventare il simbolo di un mondo che gira alla rovescia. Dopo avere pervaso il Medioevo e il Rinascimento, dopo essere rinato nelle speculazioni settecentesche e nelle favole del 19° secolo, il rapporto uomo-animale sembra rivivere, attraverso la metafora, nell'era moderna: Gregor Samsa, protagonista della Metamorfosi di Kafka, pur continuando a pensare e a sentire come un essere umano, accetta la propria trasformazione in insetto immondo sino alla morte, perché così vuole il suo destino. Sembra un precedente per Il racconto della piattola di T. Landolfi, ma non lo è perché qui lo scrittore ha dato voce all'insetto che, con tono oracolare, ammonisce gli uomini della loro caducità. La soggezione inconscia dell'uomo nei riguardi della ferinità ha ancora sollecitato il Landolfi della Pietra lunare, mentre una delle immedesimazioni più diffuse è quella con il lupo, come nel Mal di luna di L. Pirandello e nei Dialoghi con Leucò di C. Pavese.
E tra gli ultimi cercatori d'avventure intellettuali del nostro tempo non poteva mancare una raffigurazione dell'umano in un animalesco fantastico: Apollinaire, A. Savinio, J.L. Borges, A. Masson sono gli ideatori di un surreale e immaginario bestiario interiore che paragona l'animalità a un vero e proprio carattere riproducibile in pittura attraverso il ritratto. L'avvento dell'era tecnologica ha modificato l'archetipo del legame esistente tra i caratteri delle specie animali e la conformazione fisica umana. Di fronte ai primi ragni umani apparsi nella Macchina del tempo di H.G. Wells, e alla descrizione anatomica dell'uomo-crisalide realizzata da R. Bradbury in Crisalide, a metà Novecento, la trasformazione dell'essere umano in animale vivente è quasi scomparsa, occultata dalla presenza di nuove creature che popolano l'immaginario degli scrittori di fantascienza e suggeriscono una diversa dimensione dell'animale tradizionale. All'inizio del Terzo millennio, i robot metallici, i mutanti genetici, gli alieni e i replicanti capaci di assumere a loro piacimento forme batteriche, siano esse animali oppure umanoidi, rappresentano metaforicamente la rinnovata paura dell'uomo di smarrire la propria identità perdendo quegli istinti che lo accomunavano irrazionalmente all'animale.
È il corpo visto nei rapporti interpersonali, per quanto attiene alla fase adolescenziale, ai legami parentali o di amicizia, all'esperienza d'amore o di adulterio.
a) L'adolescente. Dal punto di vista letterario, l'adolescenza è anzitutto uno stato d'animo. Essa o rimanda a un passato rivissuto come momento fondamentale dell'esistenza, ed è la letteratura della memoria che ci riporta all'inizio della Vita nuova di Dante, ma anche alla più complessa costruzione romanzesca contemporanea, Alla ricerca del tempo perduto di M. Proust; oppure l'adolescenza si proietta in un futuro azzardoso, ed è il romanzo di formazione e di iniziazione, in cui la condizione giovanile trova il suo sviluppo letterario in chiave moderna, a partire dal Settecento sull'onda degli Anni di peregrinazione di Wilhelm Meister di Goethe per sfociare però nelle Avventure di Angie March di S. Bellow, la più caustica parodia del romanzo di formazione. Nella fase adolescenziale, il corpo subisce un cambiamento fisico che provoca nell'animo del giovane un forte impatto psicologico, specialmente sotto il profilo affettivo e sessuale: emotività, sentimenti, turbamenti assumono dimensioni assolute, ed egli ne prende coscienza per sé e in rapporto al contesto. Per questo complesso di ragioni l'adolescenza occupa nella letteratura uno spazio rilevante, e lo occupa per la ricchezza delle implicazioni ambigue e problematiche di cui è investita. La figura dell'adolescente come protagonista è di acquisizione moderna e di estrazione occidentale. Certamente non mancano nella letteratura del passato figure esemplari, a cominciare da Telemaco, che nell'Odissea parte alla ricerca del padre Ulisse, compiendo così il suo viaggio d'istruzione. Il tema è ripreso alla fine del Seicento da Fénelon per tracciare l'ideale educativo del giovane duca di Borgogna nelle Avventure di Telemaco, il cui intento edificante solleciterà due secoli più tardi la parodia dadaista di L. Aragon. Tuttavia l'adolescente, data la sfuggente caratterizzazione psicologica (non più fanciullo ma non ancora uomo) e la sua incerta collocazione sociale (se non nobile, era destinato a un'esistenza subordinata), solo con il delinearsi di una società meno rigidamente distribuita grazie all'avvento della borghesia, può irrompere con il suo corpo, la sua individualità, ampliando lo spettro dell'avventura umana.
L'adolescenza è, non a caso, una tipica condizione romantica, anticipata da J.-J. Rousseau nelle Confessioni. Stendhal fa conoscere al protagonista del suo romanzo Il rosso e il nero, Julien Sorel, dapprima l'affetto quasi materno e poi l'amore carnale di Madame de Renal, secondo una sequenza fisiologica che pare quasi obbligata per Julien, ma che sconvolge la donna. L'esplosione di libertà e di contraddizione del corpo adolescente è felicemente rappresentata da I. Nievo nelle Confessioni di un italiano con l'amore di Carlino per la Pisana, cui fa da suggestivo sfondo il microcosmo aristocratico e patriarcale del castello di Fratta. Alle soglie dell'adolescenza ci portano taluni personaggi di Ch. Dickens, da Oliver Twist a David Copperfield, nei romanzi omonimi, a Pip in Grandi speranze, i quali sembrano aprire la strada all'Adolescente di F.M. Dostoevskij, protagonista di un romanzo complesso, in cui i temi più ricorrenti dello scrittore russo (le relazioni controverse tra padre e figlio, il denaro, le contraddizioni interiori, la violenza, la grande Russia) si annodano con le esperienze che segnano le tappe di un progressivo apprendistato alla vita. Se l'adolescente di Dostoevskij vive drammaticamente la propria condizione giovanile, fino a diventarne quasi emblema, bisogna considerare però anche la componente avventurosa che caratterizza lo stato adolescenziale di non pochi personaggi romanzeschi. Avventura e mistero vivono nell'immaginario dell'adolescente con particolare autenticità, perché non ancora sottoposti al vaglio della ragione. Si può pensare allo spirito con cui Jim Hawkins si imbarca sull'Hispaniola per andare alla ricerca del tesoro nell'isola inventata da R.L. Stevenson; allo stupore che si associa alla scoperta della vita nelle avventure di Tom Sawyer e Huck Finn, gli eroi dell'epopea picaresca adolescenziale raccontata da M. Twain, i quali imparano a vivere vagabondando lungo le rive del fiume Mississippi: personaggi tipici dello spirito di avventura, ma anche protagonisti esemplari di una ricerca d'identità. È nel Novecento, però, che l'adolescenza diventa quasi un passaggio obbligato per la letteratura, un'età privilegiata in cui si realizzano le condizioni di una ricerca esistenziale, di cui Freud ha indicato le direttrici scandagliando nell'inconscio.
L'adolescente novecentesco è più tormentato dei suoi predecessori, e lo è soprattutto nel rapporto con gli altri. Il cambiamento fisico che subisce nel corpo è mero accessorio rispetto al disagio interiore che lo porta a esasperare la propria sensibilità. Ciò che R. Musil narrava nel suo primo romanzo, I turbamenti del giovane Törless, è indicativo della crisi che si andava insinuando nell'animo giovanile e che avrebbe portato all'Uomo senza qualità. Le prospettive in cui si muovono i protagonisti adolescenziali della letteratura contemporanea vanno da quella magica evocata simbolisticamente da Alain-Fournier nel Grande amico, alla precocità sensuale che finisce per condizionare pesantemente la coscienza adolescenziale del protagonista del Diavolo in corpo di R. Radiguet; dalla liberazione di sé che, nell'Ulisse di J. Joyce, attua Stephen Dedalus lasciando la famiglia e ripudiando l'educazione gesuitica, al clima di rivolta senza sbocco che A. Gide ha montato nell'articolata architettura romanzesca dei Falsari, che si risolve in una caustica critica di tutte le mistificazioni e false monete (psicologiche, morali, religiose, culturali) che sovradeterminano la società e di cui è vittima designata l'adolescente. Da protagonista attivo, l'adolescente diventa oggetto di desiderio, vagheggiato fino a scuotere il riserbo e il rigore morale, come racconta Th. Mann in Morte a Venezia: la bellezza adolescenziale di Tadzio turba i sensi di Gustav Aschenbach, scrittore al culmine del successo letterario e sociale, ma stimola anche la sua immaginazione fino ad accettare la morte in una Venezia stremata dal colera. Alla bellezza di Tadzio può far riscontro, all'opposto, l'innocenza perversa di Lolita, la conturbante giovane, emblema dell'attrazione morbosa per il corpo efebico, creata da V. Nabokov nel romanzo omonimo, che alla fine perde il compassato professor Humbert Humbert in una esasperante girandola tra squallidi motel e soste al supermarket. Adolescenti alla ricerca di sé popolano le pagine poetiche (Lavorare stanca) e narrative (Feria d'agosto e La bella estate) di Pavese, di E. Vittorini (Il garofano rosso), di V. Pratolini (Cronaca famigliare e Le ragazze di San Frediano), del primo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno) e del primo Parise (Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza), del Pasolini narratore romano (Ragazzi di vita e Una vita violenta). Tra le figure adolescenziali si situano in primo piano l'Agostino di A. Moravia e l'Arturo dell'Isola di Arturo di E. Morante. L'oggettività e il crudo rigore narrativo, con cui Moravia racconta la scoperta del sesso e la lacerazione che questa provoca in Agostino, sono l'altra faccia della medaglia della sofferenza adolescenziale provata nel romanzo della Morante da Arturo, quando il padre porta sull'isola una giovane che viene a turbare il suo felice equilibrio naturale e lo trasforma in uomo.
b) Il figlio. Un figlio, sia al maschile sia al femminile, è il segno fisico, tangibile, storicamente accertabile della continuità della vita e delle specie nelle loro varie manifestazioni; ma proprio questa del figliare, che sembrerebbe essere la più diretta e immediata delle funzioni vitali, ha in realtà anche una grande valenza simbolica. Nelle relazioni umane entrano in gioco rapporti diversi, come rivela la lettura della Lettera al padre di Kafka, che sono regolati da un avvicendarsi concreto visibile e valorizzati dal formarsi di condizioni interiori simboliche che vanno scoperte e interpretate. Se di un essere umano il segno, nell'accezione qui usata, corrisponde fisicamente all'aspetto corporale, e come tale ha una sua indubbia evidenza sulla quale è impostato il sistema dell'organizzazione e delle relazioni sociali, secondo la nozione di classificazione che C. Lévi-Strauss ha applicato nei suoi studi antropologici, il simbolo, invece, poiché si situa nella spiritualità, non ha una concezione definibile e quindi non è classificabile. Per conoscerne il valore, bisogna entrare nella corporalità di ciascuno, insinuarsi nell'interiorità come un luogo da esplorare, per individuare la matrice delle qualità e delle contraddizioni che danno un significato ai comportamenti individuali e condizionano l'esistenza rispetto agli altri: famiglia, amicizie, società. Nella creazione letteraria della figura del figlio, dalla configurazione fisica e sessuale che costituisce il tratto distintivo della propria condizione nella famiglia e nella società, e dal rapporto tra il corpo, o complesso della macchina fisiologica, e la mente, l'attenzione si sposta verso l'aspetto simbolico. E la parola, con le sue infinite possibilità simboliche, deve scavare nella natura interiore del figlio per interpretare la complessità della condizione di chi sta vivendo un delicato processo di trasformazione fisica e compiendo psicologicamente il proprio viaggio iniziatico di formazione per diventare uomo e a sua volta padre. Nella vita familiare rappresentata nei testi letterari, la figura del figlio è situata di solito in una posizione subordinata rispetto a quella dei genitori, e del padre in particolare. Di qui il manifestarsi di sentimenti contrapposti, come affetto e odio, di comportamenti contraddittori, come ubbidienza e rivolta, che passano dall'interiorità all'esteriorizzazione fisica.
Non è un caso che all'origine del mito degli dei, come racconta Esiodo nella Teogonia, ci sia stata, dopo la formazione dell'Universo, una lotta che si concluse con il parricidio di Urano commesso da Crono, e poi di questi da parte di Zeus nel corso della lotta con i Titani. Di parricidio in parricidio, Zeus diventa 'reggitore' delle cose del mondo: il suo potere non gli deriva da un naturale trapasso ereditario dinastico, ma è conquistato in seguito a una lotta che ha visto antagonisti padri e figli. Stando alla letteratura, il rapporto fra padre e figlio non sembra affatto essere regolato dall'amore, ma da un'insanabile rivalità in ogni campo; sin dalle origini, il passaggio del testimone fra padre e figlio non è stato mai indolore. I miti e le leggende di ogni civiltà tramandano storie di efferati delitti in cui il figlio arriva a esautorare il padre senza passare attraverso la via del compromesso, ma con la violenza, l'eliminazione fisica, vera o simbolica che sia. Nei fatti della mitologia, il gesto omicida del figlio aveva soprattutto un significato simbolico: in esso si rifletteva l'esito di un contrasto che, a volte violento, altre solo ideale, e soggetto comunque a modificarsi nelle sue manifestazioni per il variare dei contesti storici e delle condizioni ambientali, è tuttavia insanabile e senza fine, perché insito nella stessa natura umana.
Non a caso, l'uccisione del padre nell'età primitiva è considerata da Freud, in Totem e tabù, come il gesto capitale all'origine dell'umanità. Nelle leggende e nella mitologia, figlio è progenie, nel senso alto, e la specificazione 'figlio di', con spesso un dio o una dea fra i genitori o gli antenati, è il segno della distinzione; ma, nel contempo, è anche privo di autonomia e, secondo la linea di uno sviluppo iniziatico, questa se la deve conquistare sul campo dell'esistenza. Il conflitto fra le generazioni va ricondotto a un livello individuale e a un interno familiare d'eccezione, dove è teatro di manifestazioni tragiche; protagonisti sono figure d'alto lignaggio, discendenti da dinastie, perché solo un figlio che aveva già una storia, sia pure per eredità, poteva a sua volta passare alla storia, nel bene e nel male. Il rapporto del figlio con il padre assume configurazioni diverse, a seconda delle situazioni e delle motivazioni. Questa ambivalenza (ubbidienza e conflitto) è stata definita da Freud 'complesso paterno', nel quale si sviluppa uno degli aspetti più significativi del 'complesso di Edipo', nucleo di tutte le nevrosi. Parricida e figlio incestuoso senza saperlo, nell'Edipo re di Sofocle, Edipo è il protagonista involontario di una tragedia, ma anche, in realtà, di una storia simbolica e inquietante che sfugge alla logica della razionalità moderna e che, sebbene risalga al tempo del mito, conserva intatta la sua forza emblematica, come conferma il romanzo di H. Bauchau, Edipo sulla strada. L'esemplarità della vicenda edipica rilevata da Freud nell'Interpretazione dei sogni consiste proprio nel carattere ammonitorio a tenere conto che viviamo in uno stato di inconsapevolezza, le cui radici affondano nell'infanzia. Non è un caso che il fondatore della psicoanalisi verificasse le sue intuizioni su testi letterari (Edipo re, Amleto) e, richiamandosi all'ermeneutica, poggiasse la fondatezza delle sue analisi sull'interpretazione.
L'aspetto simbolico della figura del figlio e le sue ascendenze mitiche e religiose non devono però indurre a sottacere il problema sociale che le è connesso. Nei secoli, con il mutamento delle condizioni ambientali e socioculturali i figli hanno acquisito un ruolo diverso che la letteratura ha registrato. L'amore e il contrasto rimangono sempre i perni attorno ai quali ruota il rapporto fra padre e figlio, ma in questa nuova situazione il rinvio simbolico non è più di esclusivo carattere metafisico, bensì sociale e politico, e il conflitto è passato dall'individuale al collettivo perché ha messo di fronte le generazioni. È questo uno dei tratti della modernità di un'epoca e di una società fondate sulla competizione e che diventa tema letterario in alcuni romanzi particolarmente significativi in tal senso, come I fratelli Karamazov di Dostoevskij, Padri e figli di I. Turgheniev, I Malavoglia di G. Verga, I vecchi e i giovani di Pirandello, Il gelo di R. Bilenchi, ma anche in altri che nel loro complesso strutturale o linguistico paiono soltanto sfiorare questa problematica e invece ne rivelano il senso doloroso, come La cognizione del dolore di C.E. Gadda, la trilogia L'Ambleto, Macbetto, Edipus di G. Testori.
c) L'amicizia. L'amicizia, sentimento che lega fortemente fra loro i singoli ed è fondato su una disponibilità disinteressata, a differenza dell'amore, non impegna il corpo, perché non si sublima nella congiunzione carnale di due esseri. Il legame fra amici non è codificato da regole, non risponde a una logica di rapporti, ma si esprime nell'assoluta libertà sentimentale e comportamentale. L'amicizia si manifesta soprattutto nei momenti topici e nelle difficoltà, quando la solidarietà è coraggio, e assume spesso aspetti eroici che la letteratura ha tramandato e l'epoca moderna ha riproposto con tecniche rappresentative diverse, ma con identica sostanza. Appartengono al mito coppie di amici quali Achille e Patroclo nell'Iliade, Oreste e Pilade nelle tragedie greche, Eurialo e Niso nell'Eneide; di meno nobile lignaggio sono Cloridano e Medoro, i soldati mori dell'Orlando furioso, ma anch'essi simboleggiano la vera amicizia per la quale si arriva a morire. Il rapporto amicale si può manifestare anche in forme meno eroiche, ma non per questo meno intense: le figure shakespeariane di Amleto e Orazio nell'Amleto, di Romeo e Mercuzio in Giulietta e Romeo, offrono dell'amicizia un'immagine che si fonda su una dedizione assoluta. In questo senso, l'amicizia è paragonabile all'amore, pur differenziandosene profondamente. Stando alla storia e alla letteratura, essa risulta più vissuta fra soggetti dello stesso sesso che di sesso diverso; soprattutto sembra essere un sentimento preminentemente maschile, forse per via della superiorità sociale che derivava all'uomo dal ruolo attivo riconosciutogli nella società, nel lavoro e nella guerra.
E tuttavia, proprio sul piano amoroso, il sentimento dell'amicizia può diventare 'difficile', come suggerisce P.-A.-F. Choderlos de Laclos con il romanzo Le relazioni pericolose. Qui siamo ormai in pieno clima libertino: il rapporto amicale, se da un lato mantiene ancora formalmente il suo aspetto di rapporto alla pari, dall'altro degenera invece nella complicità perversa, in una sorta di esercizio mentale in cui si sommano la volontà dell'essere che si ritiene superiore e un gusto trasgressivo nelle sue forme più inconfessabili. L'amicizia sta acquisendo aspetti e contorni più complessi, poiché è la stessa psicologia umana che, in una società in piena evoluzione il cui approdo sarà la Rivoluzione francese, si esprime in forme meno canoniche ed elementari. Anche nell'amicizia entra una componente intellettuale. Con il romanticismo, che riconquista all'uomo una libertà meno condizionata, dove l'inconscio e il sogno non sono repressi dal credo della ragione assoluta, i rapporti umani, tra cui l'amicizia, assumono aspetti pubblici: si può ricordare il legame fra i poeti S.T. Coleridge e W. Wordsworth (da cui nacquero Ballate liriche), fra G. Byron e P.B. Shelley, A. Manzoni e C. Fauriel. Al di là dei rapporti individuali, si formano i gruppi in cui fioriscono le amicizie intellettuali romantiche: nel castello di Coppet, in Svizzera, e nel suo salotto alla biblioteca dell'Arsenal Nodier, Madame de Staël riuniva i suoi amici: L. di Breme, V. Hugo, C.A. de Sainte-Beuve, A. de Vigny, A. de Lamartine. La bohème parigina non è stata solo un pittoresco episodio mondano, ma anche il risvolto della provocazione antiborghese, épater les bourgeois, di scrittori fra loro amici, Ch. Baudelaire, Th. Gautier, G. de Nerval. Sono questi i passaggi che portano l'amicizia dal piano tematico della letteratura al vissuto, e che introducono a legami particolari, in cui il rapporto sentimentale rivela aspetti omosessuali. Lo scandalo è sempre circoscritto all'ambiente intellettuale, come testimonia l'intreccio di omosessualità maschile e femminile nelle amicizie del gruppo londinese di Bloomsbury, animato, tra gli altri, da V. Woolf, V. Sackville-West, L. Strachey; e più tardi, sempre in Inghilterra, dagli scrittori 'trentisti', W.H. Auden, S. Spender, Ch. Isherwood. L'omosessualità non ha ormai più bisogno della copertura amicale per esprimere uno stato amoroso, la cui idealità coinvolge anche il corpo.
L'amicizia resta, tuttavia, una condizione sentimentale che la letteratura contemporanea non ignora, anzi ne accentua gli aspetti più profondi e nello stesso tempo avventurosi, a partire dal romanzo di Alain-Fournier, Il grande amico, degli inizi del Novecento, per arrivare a quello che può essere considerato, oggi, il canto del cigno della rappresentazione letteraria dell'amicizia, L'amico ritrovato di F. Uhlman. L'esemplificazione che può essere portata all'interno di questi due poli non presenta aspetti di novità, ma ricalca motivi ormai acquisiti: l'amicizia si fonda su comuni interessi intellettuali. È così per i surrealisti, gli esistenzialisti, i poeti ermetici. Questi legami vissuti percorrono sotterraneamente i testi e si ritrovano poi nei diari e negli epistolari; ma si manifestano anche esplicitamente come nel racconto di M. Cancogni, Azorin e Mirò, in cui è adombrata l'amicizia con C. Cassola, autore a sua volta di un romanzo, L'antagonista, dove il sentimento amicale è vissuto per il suo contrario; o nel romanzo di F. Tomizza che ha per titolo proprio L'amicizia. Forse, l'amicizia è il collante che tiene unite le vicende romanzesche di U. Eco nel Nome della rosa e nel Pendolo di Foucault. I protagonisti dei due romanzi, rispettivamente Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, e i tre redattori della casa editrice milanese, sono amici e questo legame li porta a essere coinvolti in misteriosi incidenti e rituali che si consumano a spese del corpo.
d) L'amore e l'adulterio nella letteratura moderna. Nel secolo dei lumi amore, trasgressione e ricerca del piacere rivelano i limiti del razionalismo illuminista, nella sua pretesa di 'geometrizzare la vita', di fronte alla volontà d'indipendenza morale che anima gli intellettuali del tempo. Il libertinismo, formatosi sull'eredità del libero pensiero, da erudito diventa una moda di costume che si manifesta nell'amore: il sentimento si trasforma in licenziosità che dà scandalo; in provocatoria reazione ai dogmi della dottrina cristiana e della morale convenzionale. L'amore ritorna come affermazione del carattere positivo della libera soddisfazione della corporeità e dei sensi e si riscopre nella sua istintiva naturalità. Nella letteratura libertina la celebrazione dell'erotismo si spinge sino all'esaltazione della sessualità nelle sue forme aberranti ed estreme (incesto, pederastia, voyerismo). Il corpo, tramite del sentimento amoroso, perde l'alone di sacralità ed eroicità per approdare nella sregolatezza. L'amore si trasforma in gioco audace e seduzione trasgressiva nei poemetti erotici di C.J. Dorat Il mese di maggio, Le tortorelle, I baci, trovando massima espressione nelle Memorie di Casanova o nelle confessioni epistolari degli amanti di Laclos (Le relazioni pericolose). Negli scritti di Sade (Le 120 giornate di Sodoma, I crimini dell'amore) l'atto amoroso supera la soglia del dolore per trovare il lato oscuro del piacere: ossia diventa felicità dell'uno quando questa è subordinata all'altrui costrizione e sofferenza. Sade giunge alla visione del corpo come semplice oggetto della perversione sessuale, tramite morboso della dissolutezza.
Il romanticismo, come reazione alla sbrigativa liquidazione libertina del corpo, riscopre l'amore come purezza ideale, come tormento interiore e poesia. Goethe, con I dolori del giovane Werther, dà dell'amore una visione di superiore armonia dell'Io con il mondo e l'Universo. L'amore romantico, concepito da Novalis (Inni alla notte), F. von Schlegel, H. von Kleist, E.T.A. Hoffmann, diventa il tramite per un contatto con l'infinito, è una misteriosa forza creatrice che riecheggia nella tradizione cavalleresca nibelungica ripresa nella tetralogia wagneriana; mentre Byron, Shelley e J. Keats (Ode alla melanconia) scoprono nella poesia il fascino della bellezza del corpo e del sentimento esasperato, della fuga dalla ragione nella passione idealizzata. L'amore romantico perde i connotati della possessione carnale e della 'dominazione fisica', ma scade anche nel patetico, nel lacrimoso, e trova il suo riscatto nell'identificazione con la sofferenza dell'abbandono, della separazione e della lontananza.
Dimentico della materialità corporea, l'amore abbraccia l'angoscia interiore: al sadismo sostituisce un cerebrale masochismo, che emerge come estasi dolorosa nelle pagine delle Messaline di Vienna di L. von Sacher-Masoch, o fugge dalla realtà rifugiandosi nei paradisi artificiali. Per i 'poeti maledetti', Baudelaire, A. Rimbaud, P. Verlaine, l'amore diventa sinonimo di evasione e di perdizione erotica, di piacere associato all'hashish e all'alcol. Con il decadentismo, culmine dell'estenuazione della sensibilità romantica, il sentimento amoroso raggiunge l'apice dell'estetismo voluttuoso, raffinato ed eccentrico. D'Annunzio, con la trilogia dei 'Romanzi della rosa' (Il piacere, L'innocente e Il trionfo della morte), descrive una generazione perduta tra i vapori dell'erotica voluttà del corpo femminile. Oltre l'esteriorità dannunziana e attraverso l'analisi psicologica dei turbamenti amorosi, Proust, in Alla ricerca del tempo perduto, trasforma il sentimento d'amore in un viaggio alla riscoperta di sé stessi e del proprio corpo attraverso il trascorrere del tempo: la memoria involontaria provoca un abbandono ai propri ricordi rivissuti come presenti; ne deriva una tensione che la memoria alimenta, rivelando contemporaneamente fragilità e insicurezza che sfociano nell'inquietudine esistenziale di un intellettuale omosessuale. I surrealisti, invece, alla scoperta dell'essenza profonda dell'uomo moderno, in nome della trasgressione e della libertà d'espressione, tendono all'esplorazione dell'inconscio, alla liberazione dell'erotismo dai pregiudizi della cultura ufficiale e dalla soggezione di una civiltà utilitaristica. A. Breton, con Nadja e L'amore folle, propone Amore e Eros come forze sovversive unite nel desiderio violento di aggredire il mondo carnale. Il corpo, per Breton, L. Aragon, A. Artaud, P. Éluard e M. Ernst, diventa lo strumento dell'eversione, del piacere corrotto dalla femme fatale; la femminilità è veicolo di perversioni e l'amore ritrova il gusto della provocazione e dello scandalo.
Lo slancio vitale degli intellettuali modifica lo stesso rapporto con la sfera sentimentale e affettiva, distrugge il complesso legame che unisce il corpo alla vita emotiva; l'amore diventa contatto fisico, rapporto carnale, congiunzione dei corpi per superare la solitudine e l'incomunicabilità dei tempi moderni. Miller e A. Nin portano per primi alla ribalta il fascino dell'amore velato dall'erotismo quotidiano: nel suo diario, la giovane Nin registra la propria educazione erotica e sentimentale accanto allo scrittore divenuto, con i romanzi Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, uno dei profeti della 'generazione perduta'. Miller ha ribaltato il romanzo d'amore con l'antiromanzo erotico esistenziale, ha cancellato in letteratura il tabu del sesso come eccesso, ma soprattutto ha individuato nell'amore il veicolo della trasgressione di una generazione in lotta per l'affermazione della vita e dell'emozione dei sensi. Lawrence, in L'amante di Lady Chatterly, esprime in maniera realistica e spregiudicata un erotismo vizioso, diviso tra corpo e spirito; in Tenera è la notte F.S. Fitzgerald svela invece le nevrosi che avviluppano l'amore moderno, dalla psicosi dell'atto sessuale all'instabilità morale; e W. Faulkner, in Santuario, sottolinea il fallimento dei valori spirituali insistendo sull'aspetto brutale e violento dell'amore, che sfocia nell'abuso e nello stupro come oltraggio.
La rappresentazione dell'amore nella letteratura italiana contemporanea riflette in gran parte le contraddizioni di un moralismo irrisolto, per cui i sentimenti e i rapporti, sempre introversi e sofferti, non conoscono la libertà erotica delle pagine di un Miller, ma trovano espressione nelle complicazioni esistenziali e nella visione di un erotismo cerebrale. Negli Indifferenti di Moravia l'amore, confuso con eros e interessi, diventa motivo di implicazioni sociali e di interrogazione sull'esistenza, un confronto dialettico fra lasciarsi andare e impotenza ad agire; Pratolini, invece, in Cronache di poveri amanti, riscopre le ragioni dell'amore romantico sullo sfondo delle contraddizioni dell'Italia fascista; Vittorini, con Uomini e no, scrive il romanzo d'amore della Resistenza, raccontando l'amore impossibile tra Berta e il partigiano N2. In un contesto sociale ormai diverso e percorso dal benessere, per I. Calvino, negli Amori difficili, l'amore diventa assenza, impossibilità di varcare quell'ombrosa zona di silenzio che sembra divorare i rapporti umani: il sentimento diventa un gioco combinatorio di vuoti e presenze che hanno in Pirandello l'antesignano più diretto. L'amore, per gli scrittori italiani, oscilla sempre tra quotidiane nevrosi ed erotici slanci vitali immaginari, rimanendo prigioniero di uno strisciante moralismo cattolico.
Un aspetto della rifrazione dell'amore è l'adulterio: desiderio proibito, eros e fuga. In Matrimonio e morale B. Russell afferma che la psicologia dell'adulterio è stata falsata dalla morale convenzionale, la quale esclude, nei paesi monogami, che l'attrazione per una persona possa coesistere con il serio affetto per un'altra, mentre tutti sanno che ciò è falso. L'adulterio rivela i tratti di un gioco passionale, incarna la vitalità dei sensi e la trasgressione. L'infedeltà diventa, dunque, emancipazione e rifiuto della morale, sensualità che trasforma la donna in femme fatale e ne accentua la desiderabilità: la donna amante fugge la prigionia del matrimonio, l'uomo, invece, cerca l'affermazione di sé nella possessione adulterina e si tramuta in Don Giovanni iniziando una caccia maliziosa alla preda. K. Kraus sostiene in Detti e contraddetti che la donna vera inganna per il piacere, mentre l'altra cerca il piacere per ingannare; l'uomo è la vittima dei suoi desideri e impulsi, e per questo il suo tradire viene quasi giustificato, ma in realtà la trasgressione commessa è pari in entrambi i soggetti. Il tradimento femminile, in letteratura, è sempre apparso come un delitto e la legge stessa, nel passato, lo considerava un crimine da punire con la morte. Il 'marchio dell'infamia', inflitto all'adultera in quanto simbolo di caos, di disgregazione familiare e 'polverizzazione sociale', diventa sinonimo di misoginia e ipocrisia sociale come nella Lettera scarlatta di N. Hawthorne; l'uomo, invece, vive la trasgressione delle regole matrimoniali come una semplice violazione della legge. All'opposto, nelle utopie di Ch. Fourier (Trattato di associazione domestica e agricola) l'amore libero assume i toni della rivendicazione dell'autonomia femminile, e con N.G. Cernicevski (Che fare?) riporta alla luce il fattore drammatico dell'adulterio: la gelosia. Passione idealizzata e adulterio realizzato muovono le pulsioni archetipe dell'uomo; la gelosia dà vita al crimine passionale, al 'delitto d'onore' (G. Arpino) o rivela gli aspetti più crudeli dell'animo, come nella Sonata a Kreutzer di L. Tolstoj; il suicidio di Edda Gabler (di H. Ibsen) pone in primo piano lo scandalo del tradimento e la perversione masochista della vittima adulterina. L'adulterio viene spesso pagato con la morte, e la donna stessa appare come simbolo tragico dell'unione tra passione e sfortuna (Madame Bovary, Anna Karenina).
È l'organismo esposto alla decadenza fisica e mentale e all'insorgenza di situazioni patologiche, sino alla condizione di corpo inanimato.
a) Decadenza. Il corpo umano è soggetto a un processo di sviluppo e di modificazioni fisiologiche e mentali che si protrae sino alla decadenza e alla morte. È un percorso determinato cui è soggetto l'uomo, come del resto lo sono le sue stesse creazioni: per l'Hegel delle postume Lezioni sulla filosofia della storia, ma con il fondamentale precedente di G. Vico, al quale si deve il concetto di evoluzione, le civiltà nascono, conoscono un loro apogeo e poi tramontano, in una visione ciclica della storia successivamente ripresa da O. Spengler, nel Tramonto dell'Occidente, sottolineando in tal modo l'analogia esistente tra le leggi che regolano la vita di un organismo biologico e quelle che invece ne determinano il divenire sociale.
La decadenza fisica, nell'Ercole Eteo di Seneca, raggiunge il culmine della tragedia con la disgregazione del corpo di Ercole, vittima di una corruzione progressiva delle membra in una lenta e spettacolare agonia: il sopraggiungere improvviso della peste, la pelle piagata che diventa tutt'uno con le vesti che fasciano il corpo, e il dolore dell'eroe che dinanzi alla propria dissoluzione preferisce gettarsi tra le fiamme. L'immagine della corruzione del corpo, vittima della vecchiaia ma anche dei germi delle malattie infettive, lascia trasparire l'impressione che assieme al decadimento corporeo vi sia un imbarbarimento dei costumi, e che l'imbestiamento dell'animo non sia altro che il riflesso dell'attrazione del male.
La sofferenza della decadenza fisica sembra diventare, nei difficili passaggi da un'epoca a un'altra, il paradigma, la manifestazione esteriore di un crollo morale, mostrando quanto il decadere dell'uomo in letteratura vada di pari passo con la crisi della società. Se si condivide questa prospettiva, il decadentismo allora, in sede letteraria, può costituire l'esempio più emblematico. Per certi aspetti, questo è stato l'espressione di una fuga dalla razionalità per immergersi nelle modificazioni percettive date da hashish e alcol. Baudelaire, Verlaine e Rimbaud non si negano alle sensazioni e visioni alterate del loro Io drogato. Rimbaud, in Una stagione all'inferno, si dichiara ormai assuefatto alle allucinazioni e al 'deragliamento' dei sensi con cui supera la sua identità di uomo condannato all'esistenza. Baudelaire, affascinato dall'opera di E.A. Poe e dalla sua lenta distruzione dovuta all'alcol, o anche dalle Confessioni di un mangiatore di oppio di T. De Quincey, nei Paradisi artificiali associa la creazione poetica sia alla scoperta di una nuova dimensione del piacere sia all'orrore di un 'cielo cupo' che avvolge il cervello e proietta l'uomo in un mondo dove detta legge l'irreparabile. Sull'eco delle suggestioni che arrivano da Parigi, gli scapigliati italiani vivono la loro avventura decadente, in toni più dimessi, taluni pagandola con la malattia e la morte: G. Camerana sceglie la via del suicidio, E. Praga si lascia consumare dall'alcol nelle osterie dei Navigli milanesi, il pittore T. Cremona finisce intossicato dai colori che utilizza per le sue tele e spalma sul proprio corpo trasformandolo così in una tavolozza.
È però Des Esseintes, il protagonista di A ritroso di J.-K. Huysmans, a incarnare il profilo del perfetto decadente. Eccentrico e raffinato, dai bizzarri capricci, Des Esseintes, in nome di un individualismo aristocratico sprezzante dell'umanità, si chiude in sé stesso per tormentarsi nella voluttà i suoi sensi malati; proprio come accade, nel Piacere di D'Annunzio, all'antieroe ed esteta Andrea Sperelli: consumato dall'angoscia della modernità che avanza, questi accetta una sensualità corrotta che lo proietta nell'oblio della decadenza. Nel passaggio all'età contemporanea, l'umanità affronta due guerre mondiali e subisce i regimi totalitari e la violenza del loro sterminio scientifico. In Viaggio al termine della notte, del 1932, L.-F. Céline - autore poi approdato a posizioni antisemite, collaborazioniste, di appoggio al nazismo - riconosce la guerra come la malattia del secolo e bolla l'uomo come un essere meramente digestivo, le cui pulsioni riflettono brutali istinti animali, e perciò destinato ad annullarsi. Le degenerazioni céliniane preannunciano la decadenza pura dell'organismo umano che traspare, per es., dai romanzi di W. Burroughs, dove il corpo e la mente, vittime della violenza e della droga, metaforicamente si consumano fino a trasformarsi in carne destinata a una sorta di banchetto rituale dal retaggio primitivo. L'alcol stesso, nel Novecento, diventa un singolare catalizzatore letterario. In Poe esso aveva riportato alla luce paure ancestrali, ossessioni archetipe, risvegliando i fantasmi dell'inconscio, per cui, come disse Sainte-Beuve, lo scrittore aveva voluto 'strappare il segreto' ai 'demoni della notte'; in ciò diversamente da E. Zola, per il quale il vino era l''ebbrezza dell'oblio' e aveva il 'profumo della tristezza'. E proprio la notte avvolge, alcuni decenni dopo, l'America del proibizionismo, la caccia furiosa al gin e al whisky nei romanzi hard-boiled di D. Hammett. Fitzgerald, Faulkner, J. Dos Passos, E. Hemingway, J. Steinbeck danno voce ai barboni alcolizzati; M. Lowry, in Sotto il vulcano, narra l'epopea di un alcolizzato in Messico, realizzando la prima parte di una 'Divina Commedia ubriaca', un 'vorticoso caos cerebrale', una 'sarabanda grottesca', il capolavoro faustiano prima della scomparsa, e Bukowski è il narratore dell'America ripugnante, un incrocio tra il barbone e lo scrittore, che vive la propria solitudine inseguendo i vapori delle distillerie, e riportando agli occhi di tutti il dramma dell'alcolismo vissuto in presa diretta.
b) Epidemia. Il corpo è la prima vittima delle epidemie, è il luogo dove l'effetto dei contagi si misura sulla base del disfacimento delle strutture fisiche. Pur colpendo indiscriminatamente ogni manifestazione naturale e animata, l'entità di una epidemia è considerata e ricordata per la raffigurazione di corpi inanimati e 'sconciati' che l'arte e la letteratura hanno tramandato: le immagini di appestati in taluni quadri del Cerano, del Morazzone, di M. Preti o, nei Promessi sposi, la teoria di carri carichi di corpi ammassati in una Milano colpita dalla peste, costituiscono solamente alcuni esempi del disfacimento del corpo quale è provocato dalle epidemie. Ma il contagio è fenomeno antico e moderno, che il progresso della scienza non ha potuto eliminare. Nella mitologia greca, l'epidemia è il linguaggio naturale con cui gli dei parlano agli uomini. Apollo, divinità solare che fa germinare e maturare le messi e al tempo stesso inaridisce i campi e brucia le vegetazioni, nell'Iliade è anche ritratto come un dio sterminatore che aggredisce uomini e animali con i suoi dardi e diffonde la peste: piaghe ulcerose e ascessi divorano i corpi. Boccaccio inizia la narrazione del Decameron proprio quando l'umanità è sconvolta dall'esperienza della peste: sono vivi i ricordi della descrizione di Atene appestata, fatta da Tucidide, e tutto rimanda a un quadro apocalittico in cui la città, trasposizione della pòlis, luogo di incontro e di civiltà, diventa focolaio di promiscuità.
D. Defoe, nel Diario dell'anno della peste, descrive, con un'impassibilità spesso agghiacciante, Londra colpita dall'epidemia pestilenziale nel 1665; Poe, nei racconti Re Peste e La maschera della morte rossa, beffa il lettore confondendo l'orrore della malattia contagiosa con l'ironia della sorte. Nelle pagine allegoriche della Peste, A. Camus rimette in scena una calamità naturale per riflettere sul dramma della Seconda guerra mondiale: nella descrizione dell'epidemia che devasta la città di Orano, emerge soprattutto la solitudine del corpo dinanzi alla morte. L'indifferenza e l'angoscia che producono al tempo stesso le immaginarie epidemie di 'cancro-lampo' in Blade runner, l'opera dedicata da Burroughs all'ideologia medica anticancerosa, e la realtà del virus Ebola in Area di contagio di R. Preston, segnano il cammino delle epidemie fino a oggi. Dalla peste biblica ai contagi immaginari alla 'peste psichica' di J.G. Ballard, la società evolve in nome del progresso, catalizzando flagelli e nevrosi. L'uomo moderno si trova proiettato in aggregati urbani informatizzati, dove il corpo muta la sua dimensione fisiologica in una sorta di creatura tecnologica; dall'organismo umano visto come 'mostra di atrocità', di cui l'uomo stesso 'è involontario spettatore' come afferma Ballard, si arriva al 'personoide' di S. Lem, creatura sintetica e cibernetica, vittima predestinata di epidemie informatiche, e all'avanguardia cyberpunk americana, dove le malattie si rivelano strumenti sovversivi contro il controllo delle menti. Alle soglie del Terzo millennio, con l'AIDS lo scrittore si è trovato ancora una volta a dover fronteggiare un male oscuro e inesorabile, come a suo tempo la sifilide (considerata malattia 'vergognosa' per antonomasia, essendo legata alla sessualità, ai costumi e alla morale).
Il virus dell'immunodeficienza ha riproposto il tema della solitudine di fronte alla morte accettata in nome della trasgressione, dell'omosessualità, del rischio, e ha riaperto una ferita che la liberazione sessuale era riuscita a rimarginare: sull'amore incombe la paura. La 'peste del secolo' travolge la banalità del quotidiano, l'epidemia sconvolge la sensibilità della gente comune che teme i nuovi untori. La cultura ha scoperto nella malattia la simbiosi con il virus, in un'esperienza letteraria introspettiva; dopo i formalismi artistici del postmoderno, l'AIDS distrugge i canoni estetici e proietta nel limbo del dolore le sue drammatiche rappresentazioni. H. Guibert ha descritto per primo la sua lenta agonia: All'amico che non mi ha salvato la vita, Le regole della pietà e Citomegalovirus è il trittico testimoniale che offre le immagini private della sua lotta. Per lo scrittore e fotografo francese, amico di Foucault, l'ospedale diventa un inferno dantesco, le camere stanze di silenzio e agonia, la malattia una guerra e i malati sofferenti che confondono il cigolio delle barelle con il canto degli uccelli; la paura accompagna le notti di Guibert che nella ripetitività dei suoi gesti di condannato trova il legame con la vita, l'esorcismo contro la malattia. R. Arenas (Mondo allucinante), J.P. Aron (Il mio Aids), G. Barbedette (Memorie di un giovane diventato dio) hanno dato testimonianza della loro battaglia perduta. Ma la tragedia è anche e soprattutto silenzio: P.V. Tondelli ha scelto l'assenza del clamore. Romanticismo funesto, attesa per la morte certa, meccanismi di autoinganno e atti di coraggio, trapelano dal romanzo autobiografico Le notti selvagge di C. Collard, diventato poi il film simbolo dell'odissea dei contagiati.
c) Cibo e nevrosi. Tra piacere e sregolatezza, nella storia dell'uomo si è sempre insinuato il cibo: in suo nome sono state combattute guerre e scoperte nuove terre, per pochi ha rappresentato godimento, mentre per i più è sempre stato un problema quotidiano. Nei Miracoli di san Benedetto di A. de Fleury, la descrizione della carestia presenta fenomeni estremi di cannibalismo e rivela il dramma della malattia che distrusse un terzo della popolazione europea nei primi decenni dell'Anno Mille: all'origine, la contaminazione delle coltivazioni di segale da Claviceps purpurea (in francese ergot), fungo contenente sostanze velenose tra cui la dietilammide dell'acido lisergico. Persone affamate, colpite dal delirium tremens, dal 'fuoco sacro', mutilate da cancrene e ridotte alla follia dal miscuglio di acidi, affollano le pagine di Fleury sul 'dramma ergotico'. Nel tempo, la fame è divenuta un'angoscia, estremizzata in letteratura dal desiderio della totalità dell'appagamento, e dall'annullamento di sé, tipico di chi si autodivora. W. Shakespeare nella Dodicesima notte identificava la fame con una peculiarità del ritmo del ciclo vitale dell'umanità, mentre F. Rabelais, in Gargantua, sosteneva che il cibo fosse un fattore di socializzazione. Apollinaire, riferendosi a Rabelais, difendeva l'idea bizzarra che il corpo dell'uomo magro fosse vittima di una malattia viscerale che lo asciuga, impedendogli di lottare contro il suo stesso organismo. Nell'immaginazione popolare, la fame intesa come carestia, lontano dall'idea del castigo divino, ha preso la forma di una creatura dall'aspetto spaventoso che Virgilio, nell'Eneide, colloca all'ingresso dell'Averno, tra le figure demoniache dei malanni che affliggono l'uomo. Con il passare dei secoli la fame ha perso il valore escatologico millenaristico, per assumere un significato contestatario e politicamente destabilizzante. Alla fine del Secondo millennio la carestia pare dimenticata e relegata ad aree del Terzo e Quarto mondo; la fame è diventata un problema politico che la società moderna vuole gestire senza troppo clamore, ma, nei paesi avanzati, rappresenta anche un problema di ordine psichico nelle manifestazioni di rifiuto nevrotico del cibo (anoressia) e in quelle, opposte e complementari, di assunzione smodata di esso (bulimia).
Il rifiuto del cibo è sempre stato identificato in una patologia che estremizza il desiderio di una dimostrazione interiore: ripudiare il proprio corpo in funzione di una nuova corporeità immaginabile, ma anche illusoria. L'anoressico, presa coscienza delle proprie capacità, si trasforma in artista capace di dare una nuova forma al corpo presente; l'anoressia non è il digiuno mistico dei monaci catari, ma liceità di modificare l'aspetto esteriore a piacimento, ribellandosi ai canoni estetici prevalenti. Il corpo si muta in veicolo di dolore, dipendenza e prigionia: se l'amore per sé stessi conduce al narcisismo, l'eccesso d'amore per la propria immagine coniugato con la volontà di potenza porta all'anoressia. L'anoressico trova sé stesso nell'attaccamento masochistico alla propria individualità; l'ambigua capacità di gestire il corpo autarchicamente, con il vomito, esprime l'esigenza primaria di rimuovere i problemi della realtà. A. Arachi in Briciole. Storia di una anoressica rivela il valore di questo rigetto ossessionante. In realtà il dramma dell'anoressia viene vissuto dal malato non solo rifiutando il cibo e il corpo, ma accentuando la disintegrazione della propria personalità. L'anoressica descritta in Briciole è angosciata dal rifiuto altrui, e cerca di vincere la paura della vita normale ideando nuovi sistemi nutrizionali. Invece per F. de Clerc (Tutto il pane del mondo) la vita non è altro che la cronaca del passaggio drammatico dall'odio per il cibo al bisogno incoercibile di mangiare: un oscillare masochistico tra dolore del rifiuto e piacere del divorare che trova riscontro nelle teorie dello psicoanalista R. Spitz. Il bisogno smodato di mangiare, la bulimia, riflette le esigenze mentali e fisiche del malato di cercare la compensazione ai propri problemi inconsci e ai disagi affettivi nel cibo. A volte, come mostra K. Blixen nel Pranzo di Babette, il cibo diventa una fonte magica e il cucinare un cammino iniziatico verso i piaceri della vita.
Nella malattia, il soggetto cerca con un comportamento irrazionale di colmare un vuoto interiore divorando, ingerendo e poi vomitando: comportandosi così egli accetta solo la sua immagine perfetta, idealizzata e nascosta nei meandri segreti dell'Io. La cinematografia ha associato la bulimia alla follia e alla morte. In Sweet movie di D. Makavejev, la storia incrociata di una donna delusa dalla vita che muore soffocata in un bagno di cioccolata per scopo pubblicitario, e quella di un marinaio vittima di una donna folle che vive circondata da zucchero, riconducono all'ossessione del cibo portatore di morte. Mentre nella Grande abbuffata di M. Ferreri quattro amici decidono di togliersi la vita con un'orgia di sesso e cibo in una villa parigina: le colossali mangiate non daranno loro scampo, rinnovando l'estremo legame tra piacere e dolore, fame e autodistruzione.
d) Il corpo senza vita. La storia della letteratura è, sin dalle sue origini, gremita di cadaveri. Eroi, vittime, guerre, genocidi hanno alimentato il mito, l'epica, e prodotto una vasta iconografia dell'orrido. Sia che si tratti di un singolo cadavere o di un insieme cadaverico, nessuno di questi corpi inanimati ha mai avuto un ruolo, poiché l'assenza di vita è anche assenza di storia. Il corpo, secondo la legge universale della biologia, è la vera vittima della morte. Il cadavere è quanto rimane di un essere animato dopo che la vecchiaia, la malattia o l'omicidio ne hanno interrotto la vita; è il simbolo del passaggio dallo stato materiale dell'essere a un'altra dimensione. Come ha detto A. Kojève, sulla scorta di Hegel e Marx, il cadavere è il segno della finitezza umana, della caducità del corpo di fronte al continuo fluire dell'esistenza perché il tempo della morte comincia a scorrere sin dal momento della nascita di ogni creatura. Secondo questa visione, perché un cadavere assurga a protagonista della storia dovrebbe, dunque, risorgere.
Un cadavere può risorgere se appartiene al mondo della religione, o a quello delle fiabe, dove però domina il mito e non la storia. Il rimorso può far risorgere cadaveri, ma l'incubo dell'ombra di Banquo che perseguita Macbeth nella tragedia shakespeariana è la vendetta dell'uomo, compiuta da Macduff, e non del cadavere. L'uomo è in grado di recuperare materialmente cadaveri, ma lo fa con intenti disumani e aberranti, e allo scopo di soddisfare un'ambizione creativa negativa che alla fine genera mostri come Frankenstein. La casistica letteraria del cadavere si perde nell'antichità ed è una presenza contemporanea. Le religioni e le antiche tradizioni popolari hanno sempre dedicato attenzioni particolari al corpo dei defunti, officiando riti propiziatori e funebri, offrendo sacrifici umani e animali per agevolare il passaggio dalla morte a un'altra vita, e arrivando ad attribuire al cadavere un'esistenza differente, con determinate tappe riconoscibili nella degenerazione della carne, nella lenta trasformazione in scheletro e ossa, e nella definitiva riduzione in polvere. Gli egizi, credendo nella possibilità dello spirito del defunto di uscire durante il giorno dal sepolcro e di penetrare nella 'luce della vita immortale', tramandarono i segreti della conservazione integra dei cadaveri dei faraoni nel Libro dei morti degli antichi egizi, mentre gli iniziati del Tibet dedicarono il Libro tibetano dei morti agli umani destinati a morire, nel momento del passaggio dalla vita materiale, dalla 'parvenza inconsistente' alla 'coscienza cosmica'. In Occidente, per Omero ed Eschilo, come per la tradizione celtica, la terra rappresentava il principio e la fine di ogni esistenza, era la madre universale che dava ai mortali la vita e gliela toglieva, e l'uomo in sé era humus, perché il suo corpo morto era destinato a ritornare alla terra e da questa rinascere sotto un'altra forma vivente. Nella religione cristiana, invece, le spoglie mortali sono il tramite per la vita eterna. Cristo, fatto di carne 'irrorata di sangue', sostenuta dalle ossa, intessuta di nervi, e 'intrecciata di vene', come ha scritto Tertulliano nel De carne Christi ed è raffigurato nel polittico di M. Grünewald e in un quadro di A. Mantegna, dopo la crocifissione perde la propria corporeità fisica nel sepolcro, ma risorgendo acquista un nuovo corpo, luminoso, etereo, spirituale. Soltanto nell'epica e nella tragedia greca, però, il cadavere sembra acquistare una dimensione estetica orrida e 'meravigliosa'.
Lo scempio del corpo senza vita di Ettore nell'Iliade, le descrizioni dei guerrieri sfigurati sino a perdere le sembianze umane nella Farsalia di Lucano, danno del cadavere quasi macellato una visione drammaticamente spettacolare. Virgilio, nell'Eneide, riscatta questi quadri di violenza con un'immagine bucolica, quando paragona il corpo senza vita di Eurialo a un 'fiore purpureo' reciso dall'aratro e ai papaveri che lasciano 'cadere il capo', quando il peso della pioggia grava su di loro. Ma lo scempio corporale, con la dissoluzione del cadavere e la sua trasformazione in un horribile spectaculum, raggiunge poi un eccesso di realismo macabro nella Cronica dell'Anonimo Romano. Le immagini iperboliche e cruente dei corpi mutilati e delle membra sparse sui campi di battaglia, che avevano caratterizzato nell'antichità anche le descrizioni di Stazio, Silio Italico e Ovidio, vengono riproposte in toni di violenza esasperata nei racconti dei cantori medievali, e, soprattutto, nelle chansons de geste, come nell'episodio della morte di Rolando e del massacro dei paladini cristiani a Roncisvalle. Le ondate di epidemie mortali che hanno sempre sconvolto la vita dell'uomo sulla terra, nel segnare il trionfo della morte di massa, anticipano in modo drammatico le pagine più crudeli delle guerre moderne dove i cadaveri non sono più quelli di singoli, aristocratici eroi, o comunque di individui dai contorni definiti, ma appartengono alla gente comune, a soldati che hanno un numero di matricola ma non un nome. I corpi consumati dalla malattia, che appaiono nel Decameron di Boccaccio, nel Diario dell'anno della peste di Defoe e nelle pagine dei Promessi sposi, anticipano nei secoli ciò che l'uomo riuscirà poi a fare da solo, senza l'intervento di patologie contagiose e incurabili, con la guerra, i campi di sterminio, i gulag e le foibe. Un unico destino lega Andrej, ferito mortalmente sul campo di battaglia di Borodino, in Guerra e pace di Tolstoj, ai caduti nelle trincee della Prima guerra mondiale, viste da Céline nel Viaggio al termine della notte e da E.M. Remarque in All'ovest niente di nuovo: cadaveri dimenticati nella steppa o nel fango della prima linea, non più eroi o martiri cristiani, come quelli descritti da Prudenzio nelle Passioni, ma vittime e carnefici al tempo stesso. Scene simili, seppure con diverso sfondo, si trovano in Il nudo e il morto di N. Mailer, in Kaputt e La pelle di C. Malaparte. Nella mente umana la paura dell'ignoto ha sempre trovato nell'attrazione del macabro spettrale la propria ragion d'essere.
La corporeità cadaverica associata a forze misteriose o demoniache, in lotta contro le leggi della natura, è diventata un elemento comune nei viaggi inquietanti di Apuleio, negli Eventi meravigliosi del poeta greco Flegone rintracciato da H.P. Lovecraft, nei racconti di Proclo, nella discesa agli inferi dantesca e nei drammi shakespeariani. Varcando la soglia del reale, il cadavere ha conquistato una vera e propria vita soprannaturale che la fantasia degli scrittori gli garantisce: il sogno dell'immortalità di Faust si è trasformato in incubo con il revenant delle tradizioni popolari, ha raggiunto l'eccesso in Frankenstein di Shelley, ed è diventata una figura mitica con Dracula di B. Stoker. Con l'avvento dell'era tecnologica, il cadavere non fa più paura perché la sua presenza non è legata come nel passato a elementi magici o soprannaturali, ma è radicata nelle espressioni della vita quotidiana e della violenza metropolitana. Un precedente significativo è rappresentato da Poe, che fa muovere il suo personaggio, Auguste Dupin, in una tentacolare Parigi ottocentesca alla ricerca degli assassini delle L'Espanaye, madre e figlia, e di Marie Roget: un passaggio obbligato dell'indagine di Dupin è proprio l'osservazione dei cadaveri, da dilettante d'ingegno, ma anche con una puntualità analitica non priva di compiacimento. In un'ottica diversa, il medico legale F. Gonzalez-Crussi, nelle Note di un anatomopatologo, descrivendo in termini attuali le operazioni di imbalsamazione dei defunti, fornisce dei cadaveri una sorta di teratologia moderna. A sua volta, C. Barker in Sudario abusa della violenza e sfida tutte le ragioni dell'anatomia lasciando che i corpi senza vita siano deformati in istanti al rallentatore. Le suggestioni necrofore nello splatterpunk, l'ultimo genere narrativo della letteratura americana che, a differenza di Poe, estremizza in senso descrittivo una sorta di cruenta e non scientifica autopsia, percorrono le pagine di Barker, J. Skipp, J.R. Lansdale e P.M. Sammond, traendo origine dal mondo della cinematografia, vero e proprio trionfo del cadavere in ogni sua possibile interpretazione. Dal corpo esanime della madre colpita dai soldati controrivoluzionari nella Corazzata Potëmkin di S.M. Ejzenštein, ripreso in ogni sua parte come se fosse ancora vivente, ai cadaveri squisiti dei surrealisti, inquadrati da L. Buñuel e S. Dalí, sino alle vittime dei misteriosi omicidi nei film orrifici di D. Argento, il cadavere al cinema ha fortemente impressionato il pubblico, ma gli ha anche messo dinanzi l'immagine di come siamo fisicamente dopo essere morti.
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