Liberalismo
Del liberalismo sono state date definizioni sensibilmente differenti, e, naturalmente, tali differenze corrispondono a modi diversi di concepire il liberalismo stesso. La cosa non deve stupire. Il liberalismo, infatti, è un concetto assai controverso, non solo perché esso ha avuto molti e aspri critici, ma anche perché i suoi seguaci (coloro, cioè, che si sono proclamati 'liberali') hanno mostrato di avere divergenze su aspetti dottrinali fondamentali (la ben nota discussione sul rapporto fra liberalismo e liberismo è solo un aspetto di queste divergenze). Anche da un punto di vista storico, il concetto di liberalismo è problematico e sfuggente. Il termine, d'altro canto, nasce abbastanza tardi: infatti l'aggettivo 'liberale' entra nel linguaggio politico solo con le Cortes di Cadice del 1812, per connotare il partito, appunto, liberal, che difendeva le libertà pubbliche contro il partito servil; esso fu poi ripreso da Madame de Staël e da Sismondi per indicare un nuovo orientamento etico-politico (v. Matteucci, Liberalismo, 1976, p. 530). Di qui il paradosso che alcuni di quelli che noi consideriamo fra i maggiori pensatori liberali (Locke, Montesquieu, Kant) non hanno mai usato né il sostantivo ('liberalismo') né l'aggettivo ('liberale') nell'accezione in cui noi li usiamo oggi. A ciò si deve aggiungere che nel pensiero liberale si ritrovano ispirazioni e strumenti teorici non solo diversi, ma addirittura opposti fra loro: i pensatori liberali del Seicento e del Settecento hanno fondato le loro concezioni su presupposti giusnaturalistici, mentre quelli di parte dell'Ottocento e del Novecento si sono fondati su concezioni o utilitaristiche o storicistiche, e comunque non giusnaturalistiche o addirittura antigiusnaturalistiche. D'altro canto sarebbe assurdo ritenere che il pensiero liberale (ovvero quel pensiero che noi definiamo tale), che si è sviluppato dal Seicento a oggi, cioè lungo quattro secoli di storia della civiltà occidentale, sia rimasto sempre identico a se stesso, come una specie di idea platonica, e non abbia conosciuto sviluppi e trasformazioni profonde, ripensamenti e arricchimenti, a seconda dei diversi contesti sociali, politici e culturali nei quali ha operato, e quindi a seconda dei diversi problemi che ha affrontato e che ha inteso avviare a soluzione.
Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno negato la legittimità stessa del concetto di liberalismo in quanto categoria storico-politica, e hanno preferito parlare di molti e diversi 'liberalismi'. Questa ci sembra però una posizione estrema e inaccettabile, per vari motivi. In primo luogo perché, anche qualora si decidesse che è legittimo parlare solo di molti 'liberalismi', l'uso stesso del sostantivo, sia pure al plurale, denoterebbe pur sempre qualcosa di comune che ne giustifica l'uso, e che dovrebbe essere in ogni caso esplicitato. Del resto, se non fosse così, tanto varrebbe rinunciare alla stessa parola 'liberalismo', espungerla dal lessico politico. Ma nessuno storico o filosofo serio ha mai pensato di proporre questo. In secondo luogo perché il concetto di liberalismo indica un complesso di valori e di garanzie per noi irrinunciabili. Infatti, quando diciamo che viviamo in una società liberal-democratica, l'aggettivo 'liberale' specifica in modo sostanziale di quale democrazia si tratti: di una democrazia liberale, appunto, ovvero di una democrazia nella quale la maggioranza è tenuta a rispettare rigorosamente i diritti delle minoranze (politiche, religiose, culturali), e non può mai mettere a repentaglio tali diritti, come avviene invece nelle democrazie plebiscitarie o populistiche.
Senonché, se è vero che l'uso del concetto di liberalismo è non solo legittimo ma necessario, è parimenti vero che esso è il risultato di una estrapolazione dai molti e diversi liberalismi che si sono manifestati storicamente. In quanto il liberalismo non è stato un unico soggetto storico (ideologico-politico-giuridico), esso è in larga misura un'astrazione, ovvero una ricostruzione formalizzata, un isolamento delle caratteristiche tipiche (o di quelle che noi riteniamo che siano le caratteristiche tipiche) dei vari pensatori, dei vari istituti e dei vari movimenti 'liberali'. Non perdere mai di vista questo fatto è importante, perché esso ci ricorda che, dopo aver individuato alcuni temi e alcune esigenze fondamentali comuni ai vari pensatori e alle varie correnti liberali, non dobbiamo mai trascurare la loro concretezza storica, e quindi la specificità delle loro articolazioni e delle loro sfumature, connesse ai loro diversi contesti sociali, ideali e politici. Perciò, nel corso del presente articolo, cercheremo di individuare, insieme ai grandi tratti comuni, le peculiarità, o almeno alcune delle peculiarità, proprie di tali pensatori.
Per quanto riguarda i principali motivi ispiratori del liberalismo, essi sono stati ben individuati nella definizione che del liberalismo stesso ha dato un eminente studioso, Norberto Bobbio. Tenendo presenti soprattutto le sue origini secentesche e i suoi sviluppi settecenteschi, Bobbio ha sottolineato fortemente (e giustamente) la dimensione politico-giuridica del liberalismo, e quindi lo ha definito come una dottrina che afferma la limitazione dei poteri dello Stato in nome dei diritti naturali individuali, inerenti a ogni uomo in quanto tale (i cosiddetti diritti innati). In questa definizione liberalismo e giusnaturalismo sono strettamente connessi. "La dottrina liberale - ha scritto infatti Bobbio - è l'espressione, in sede politica, del più maturo giusnaturalismo: essa, infatti, si appoggia sull'affermazione che esiste una legge naturale precedente e superiore allo Stato e che questa legge attribuisce diritti soggettivi, inalienabili e imprescrittibili, agli individui singoli prima del sorgere di ogni società, e quindi anche dello Stato. Di conseguenza lo Stato, che sorge per volontà degli stessi individui, non può violare questi diritti fondamentali (e se li viola diventa dispotico), e in ciò trova i suoi limiti; anzi, deve garantirne la libera esplicazione, e in ciò trova la sua funzione, che è stata detta 'negativa' o di semplice 'custode"'. Bobbio ha opportunamente aggiunto che, per quanto riguarda i principî filosofici, il liberalismo è espressione dell'individualismo razionalistico, proprio della filosofia illuministica, per il quale l'uomo in quanto essere razionale è persona, e ha un valore assoluto, prima e indipendentemente dai rapporti di interazione coi suoi simili. Come persona, il singolo è superiore a qualsiasi società di cui entra a far parte, e lo Stato, a sua volta, è soltanto un prodotto dell'uomo (in quanto sorge da un accordo o da un contratto fra gli uomini stessi), e non è mai una persona reale, bensì solo una somma di individui aventi ciascuno la propria sfera di libertà. I diritti fondamentali, che lo Stato deve garantire, pur variando da autore ad autore, e da costituzione a costituzione, si possono raggruppare in due grandi categorie: diritti che riguardano la libertà dallo Stato nella sfera spirituale (libertà di pensiero, di religione, ecc.); diritti relativi alla libertà dallo Stato nella sfera economica (diritto di proprietà, libertà di intrapresa economica, di commercio, ecc.; v. Bobbio, 1957, pp. 617-618).
Questa definizione di Bobbio riconduce giustamente il liberalismo alle sue origini, che sono giusnaturalistiche e contrattualistiche (e infatti la prima grande e organica concezione liberale è quella di Locke), e ne sottolinea opportunamente sia gli aspetti filosofici sia gli aspetti politici: la persona come valore, antecedente al costituirsi della società; il sorgere della società da un accordo fra gli individui (contrattualismo); la società come somma delle sfere di autonomia e di libertà dei singoli (tanto nel campo intellettuale e spirituale quanto in quello economico) che non possono essere lese in alcun caso, bensì devono essere garantite dallo Stato; una concezione negativa del ruolo dello Stato (libertà dallo Stato), che deve limitarsi ad assicurare l'applicazione delle regole della convivenza fra gli individui, ma non può imporre loro alcunché né sul piano intellettuale e morale né sul piano economico.
Naturalmente, le idee e le dottrine liberali hanno avuto origine e hanno preso corpo, sino a formare a poco a poco una concezione articolata e organica, in un particolare contesto sociale e spirituale. Ed è opportuno vedere, preliminarmente, quale sia stato questo contesto. Per discutere questo delicato problema possiamo prendere le mosse dal libro di H.J. Laski, The rise of European liberalism (1936), che non solo costituisce il lavoro più ampio e sistematico scritto a tutt'oggi sulle origini del liberalismo europeo, ma esprime anche un punto di vista assai diffuso tra gli studiosi: tanto diffuso da essere ormai diventato un luogo comune. Nel corso della sua indagine l'autore ricostruisce minutamente le origini del liberalismo in un ampio arco di tempo, che va dalla Riforma alla Rivoluzione francese. La tesi di Laski è che in tale periodo una nuova classe sociale si creò i titoli per una piena partecipazione al controllo dello Stato, e nella sua ascesa al potere essa spezzò tutte le barriere che in ogni sfera della vita (fuorché in quella ecclesiastica) avevano fatto del privilegio una funzione della condizione sociale, e avevano associato l'idea di diritto con il possesso di terre (v. Laski, 1936; tr. it., p. 1). Questa nuova classe fu, secondo Laski, la "borghesia". E fu grazie all'emergere, al consolidarsi e all'imporsi di questa classe che all'inizio dell'età moderna il quadro spirituale, ideologico, giuridico e politico dell'Europa occidentale venne completamente sconvolto. La condizione sociale fu sostituita dal contratto come fondamento giuridico della società; l'uniformità di fede religiosa lasciò il posto a una varietà di fedi religiose; la concezione medievale dell'impero universale fu soppiantata dal potere irresistibile della sovranità nazionale; lentamente, ma ineluttabilmente, la scienza sostituì la religione in quanto fattore dominante per la formazione del pensiero degli uomini; l'idea dell'uomo caratterizzata essenzialmente dal peccato originale lasciò il posto all'idea della perfettibilità dell'uomo per mezzo della ragione, e quindi alla dottrina del progresso (ibid., pp. 1-2).
Come si vede, Laski non trascura né sottovaluta, e anzi sottolinea fortemente nella propria ricostruzione, gli elementi spirituali, religiosi e culturali che sono all'origine del liberalismo; e tuttavia egli li considera un po' come elementi 'sovrastrutturali' (conformemente alla sua ispirazione marxista), i quali 'sorgono', o comunque acquistano importanza ed esercitano un influsso reale, in virtù di un elemento 'strutturale': l'emergere, il consolidarsi e poi l'imporsi di una nuova classe, la "borghesia". La quale, secondo Laski, realizzò il proprio dominio in due fasi: in una prima fase essa, che derivava la propria influenza esclusivamente dal possesso di un capitale mobile, costrinse l'aristocrazia, la cui autorità era fondata sulla proprietà terriera, a condividere con lei il potere politico; in una seconda fase il banchiere, il commerciante, l'industriale, cominciarono a sostituire del tutto il proprietario terriero, l'ecclesiastico e l'uomo d'armi come detentori di quel potere (ibid.).
Il limite principale di questa interpretazione, che vede nel liberalismo l'espressione dell'emergere e dell'affermarsi della borghesia, consiste nel fatto che il concetto di borghesia è un concetto ambiguo, tanto più "vago ed equivoco" quanto più "è usato per un arco storico tanto lungo da coincidere con la formazione dell'Europa moderna" (v. Matteucci, Liberalismo, 1976, p. 540). Ed è proprio nella patria del liberalismo, l'Inghilterra, che lo schema interpretativo proposto da Laski mostra la propria debolezza e inadeguatezza. In Inghilterra, infatti, si può parlare di egemonia della borghesia nel XVII secolo (cioè nel secolo che vede il sorgere e il trionfare delle dottrine parlamentari e liberali), solo a patto di chiamare 'borghesia' la gentry, cioè quello strato sociale agrario che, già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, venne largamente a sostituirsi all'antica nobiltà nel possesso della terra. Ma è giustificata questa definizione? Certo la gentry, i gentiluomini di campagna, insieme agli yeomen e ai freeholders (che però, dal punto di vista del prestigio sociale, si differenziavano dalla gentry, per la loro condizione di proprietari coltivatori diretti), impressero alla società inglese un profondo dinamismo, che doveva a poco a poco minare e poi travolgere l'assetto signorile e feudale. L'organizzazione del lavoro agricolo su basi razionali, la nuova mentalità che vedeva nella terra un bene nel quale investire capitali per ricavarne profitti: questi elementi fecero della gentry e degli yeomen uno strato sociale medioalto assai vitale, che non aveva confronto in alcun altro grande paese europeo (cfr. M.L. Salvadori, Storia dell'età moderna. Dal Cinquecento all'età napoleonica, Torino 1990, p. 151).
Ciò produsse risultati assai importanti. Infatti l'ingente trasferimento di terre dalla Chiesa, dalla Corona e dalla più alta nobiltà, insieme al diminuito potere e prestigio dei grandi signori, determinarono un maggior controllo da parte della gentry sugli affari locali: l'accrescimento del potere economico di questo strato sociale si accompagnò insomma, nel corso del Cinquecento e del primo Seicento, con la graduale presa del potere politico. Uno storico ha tracciato il seguente quadro: "Il controllo del governo locale, a livello di parrocchia e di contea, rendeva la gentry l'arbitro in una serie di importanti settori, sostanzialmente riconducibili alle funzioni di giudici di pace che non solo amministravano la giustizia criminale, ma regolavano prezzi e salari, si occupavano di carceri, ospizi, dei poveri, del mantenimento in genere dell'ordine pubblico. [...] Inoltre, con il relativo declino dell'aristocrazia, la gentry cominciò ad assumere notevole influenza anche nelle elezioni al Parlamento, riuscendo a far eleggere i propri candidati contro quelli della Corona o dei nobili; nel Seicento i Comuni erano composti in maggioranza di gentiluomini di campagna. La maggior indipendenza della gentry, il suo accresciuto potere economico e politico, il conseguente controllo della Camera dei Comuni, ne fecero nel primo Seicento il naturale oppositore di una Corona e di una Chiesa sempre più impopolari per l'imposizione illegale di tasse, per gli abusi nell'amministrazione della giustizia, per la corruzione e il favoritismo della Corte e per i provvedimenti ecclesiastici adottati dalla Chiesa anglicana" (cfr. G. Garavaglia, Società e rivoluzione in Inghilterra, 1640-1689, Torino 1978, pp. 82-83).Le idee parlamentari e liberali sorsero e trionfarono dunque, nell'Inghilterra del Seicento, grazie agli strati nuovi e più dinamici della società: gentry, yeomen, ceti mercantili (nel 1600 fu fondata la Compagnia delle Indie Orientali) e ceti medi cittadini (uomini di legge, impiegati nelle amministrazioni cittadine, negozianti e artigiani autonomi, ecc.).
Ora, definire tutto questo sviluppo come 'borghese' significa usare un'etichetta che, come tale, non solo è assai generica, e quindi scarsamente utile, ma che può essere persino controproducente. Infatti - anche a prescindere dalla critica severa che storici eminenti hanno rivolto all'equazione fra gentry e borghesia, sia sul piano concettuale che su quello empirico (cfr. L. Stone, The causes of the English revolution 1529-1642, London 1972; tr. it., Torino 1982, pp. 49-51 e passim), poiché la gentry era assai composita (c'era una gentry formata da grandi proprietari terrieri, e c'era una gentry minore, di piccoli proprietari), ma era tutta molto fiera e gelosa dei propri titoli nobiliari acquistati via via con la ricchezza - l'uso dell'aggettivo 'borghese' fatto da storici di ispirazione marxista (Laski, R.H. Tawney, C. Hill), a proposito dello sviluppo economico-sociale inglese del Seicento, può indurre in forzature, fraintendimenti, errori. Per esempio, può portare a sopravvalutare gli elementi industriali certamente presenti in modo significativo in quella società (industria estrattiva del carbone, industria tessile, metallurgica, cantieristica), ma non in misura tale da mettere in discussione il suo carattere complessivo di società agricola, preindustriale (e questo errore è stato commesso da C. Hill, quando nei suoi lavori ha parlato, a proposito di questo periodo, di "sviluppo del modo di produzione capitalistico entro le strutture feudali"); così come può portare a interpretare i conflitti sociali di una società agricola nei termini dei conflitti sociali propri di una società capitalistico-industriale. Molto più opportuno appare invece un approccio in termini di 'modernizzazione' economico-sociale e politica, che studi concretamente il passaggio da una società signorile e feudale, relativamente statica, a una società agricolo-mercantile notevolmente dinamica, e il ruolo svolto in essa da ceti e strati sociali emergenti (gentry, yeomen, mercanti, ecc.), avendo cura di evitare schematizzazioni eccessive, e dando il giusto peso anche agli aspetti spirituali e religiosi (che non devono essere considerati mere proiezioni di attori e interessi economici).
E soprattutto, in questo modo, si può evitare di perdere di vista il fatto più importante (che l'idea di 'rivoluzione borghese' tende a oscurare o ad attenuare): e cioè che le dottrine liberali sorgono, si sviluppano e si affermano con i loro caratteri inconfondibili non in società industriali, bensì in società agricole. È fuor di dubbio che, già nell'Inghilterra elisabettiana, si sviluppò una 'classe media borghese' di artigiani, piccoli negozianti e mercanti istruiti; ma è altrettanto fuor di dubbio che il sistema di valori dominante restò quello dei gentiluomini di campagna (cfr. L. Stone, The crisis of the aristocracy, Oxford 1965; tr. it., Torino 1972, p. 41). In Inghilterra sono appunto essenzialmente i ceti terrieri più dinamici a costituire la spina dorsale del regime liberale fino a tutta la prima metà dell'Ottocento: e ciò naturalmente non è senza conseguenze sul piano della mentalità e dei valori di quel liberalismo (v. Cuomo, 1981, p. 107). Lawrence Stone ha osservato a questo proposito: "L'idea che, a partire dal Seicento, l'Inghilterra sia stata una nazione di bottegai ispirata all'etica del mercato e guidata da una borghesia capitalistica è una di quelle idee dure a morire. In realtà, fino al 1870, l'Inghilterra ebbe un tono essenzialmente aristocratico e mutuò i suoi canoni morali, la gerarchia dei suoi valori sociali e il suo sistema politico dalle classi dei proprietari terrieri" (The crisis... cit., p. 23). (E del resto, anche per quanto concerne la Rivoluzione francese - che con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 produce il più grande 'manifesto' del liberalismo continentale - storici come Alfred Cobban e François Furet hanno messo in guardia verso gli errori che nascono dal fatto di interpretarla alla luce del concetto di 'rivoluzione borghese').
Dicevamo che quando si studiano le origini del liberalismo inglese bisogna evitare, per un verso, schematizzazioni sociopolitiche troppo rigide, e per un altro verso bisogna considerare anche il ruolo assolutamente fondamentale che ebbero i fattori spirituali e religiosi. Per quanto riguarda il primo aspetto, basti pensare che i 'partiti' tory e whig, formatisi in Inghilterra nel periodo che intercorse fra le due rivoluzioni del Seicento (il primo favorevole alla sovranità del re per diritto divino, il secondo sostenitore della sovranità del Parlamento), non avevano basi sociali nettamente distinte. Certo (ma ciò è fin troppo ovvio e scontato) quei 'partiti' non avevano i propri seguaci nelle classi e nei ceti più umili e subalterni della società. Ma, detto ciò, è impossibile distinguere fra le classi sociali superiori che quei 'partiti' rappresentavano. Gli storici affermano, a questo proposito, che "entrambi erano emanazione della grande aristocrazia e della piccola nobiltà di campagna", e che "ciò che distingueva whig e tory non era la loro origine sociale quanto il modo di concepire il governo del paese e la vita politica" (cfr. Garavaglia, op. cit., p. 202). Affermazione, questa, di grande importanza, perché, mentre ci impedisce qualunque schematismo sociologico-politico troppo rigido, ci induce a dare tutto il peso che meritano a importanti fattori spirituali e culturali: primo fra tutti quel vasto movimento religioso che va sotto il nome di puritanesimo. E ciò ci sollecita a considerare il secondo aspetto del problema.
Stone ha giustamente osservato che la rivoluzione inglese possiede caratteristiche di unicità tra le ribellioni europee verificatesi all'inizio dell'età moderna, unicità che le viene dal suo radicalismo politico e religioso (The causes... cit., p. 59), sicché l'approccio a essa deve essere multicausale, nel senso che si deve attribuire agli elementi religiosi e ideologici la stessa importanza che si dà ai movimenti sociali e ai cambiamenti economici (ibid., p. 69). E in effetti la componente religiosa è indispensabile per intendere la tormentata e drammatica storia inglese del Seicento, e il germinare in essa delle idee liberali, destinate a trionfare con la 'gloriosa rivoluzione'.Naturalmente non è possibile ricostruire qui nei dettagli la complessa vicenda religiosa del Seicento inglese, con il suo mosaico di anglicani, puritani (suddivisi in presbiteriani e in congregazionalisti), quaccheri. Qui basti ricordare che il dibattito sulla libertà di coscienza, particolarmente acceso fra il 1644 e il 1648, rappresentò uno dei momenti più significativi della prima rivoluzione inglese, e gettò le basi per l'accettazione sempre più generalizzata dell'idea di tolleranza (cfr. Garavaglia, op. cit., p. 230); e che, più in generale, non si può intendere un secolo di lotte politiche ove si prescinda dalla profonda resistenza che vasti strati di cittadini opposero a una chiesa imposta dall'alto con il Supremacy act del 1534, che dichiarava il re d'Inghilterra capo supremo della Chiesa inglese: una resistenza che fu sostenuta con profonda passione e spirito di sacrificio dalle sette riformate ispirate alla dottrina calvinista. Di qui lo stretto intreccio fra lotta politica e lotta religiosa nella società inglese del Seicento. E infatti l'opposizione parlamentare si saldò intimamente alla causa puritana, portando avanti di pari passo richieste di riforme in campo politico e amministrativo e in campo religioso: "nel primo caso in nome della sovranità del Parlamento, quale rappresentante del popolo, contro l'assolutismo monarchico di origine divina, nel secondo a favore di un'attuazione più rigorosa dei principî della Riforma protestante contro i tentativi di fare della Chiesa anglicana uno strumento di repressione e di controllo anche della vita civile" (ibid., p. 226).
È proprio questo stretto intreccio fra lotta sociopolitica (che ha le proprie radici in un vasto processo di modernizzazione della società inglese) e lotta religiosa a costituire la caratteristica inconfondibile delle origini del liberalismo in Inghilterra. E non è certo un caso che il primo grande teorico del liberalismo, John Locke (1632-1704), elabori sia una concezione organica della difesa del cittadino contro gli abusi del potere sovrano, sia una delle prime grandi formulazioni dell'idea di tolleranza (Lettera sulla tolleranza, 1689).Ma affrontiamo ora, senza ulteriori indugi, il problema fondamentale del pensiero liberale, che è il problema dei rapporti fra cittadino e potere politico, e delle garanzie che il primo deve avere nei confronti del secondo.
I Due trattati sul governo civile di Locke furono pubblicati nel 1690 ma la loro redazione risale almeno a un decennio prima, sicché si può dire che la teoria politica in essi svolta costituisca tanto l'autocoscienza teorica quanto il coronamento del processo di demolizione dell'assolutismo degli Stuart, processo che con alterne e drammatiche vicende caratterizza la storia inglese del XVII secolo e culmina nella 'gloriosa rivoluzione' del 1688. Il secondo di questi Trattati ha infatti come obiettivo essenziale quello di dare una piena e coerente giustificazione del principio secondo cui i diritti dei cittadini non possono essere mai violati dal potere politico, il quale deve essere quindi un potere limitato, fondato sul consenso e sulla fiducia dei cittadini medesimi.
Locke combatte perciò in primo luogo la concezione dispotica del potere sovrano (concezione che aveva avuto il suo massimo campione in Hobbes), e lo fa dando una particolare caratterizzazione dello stato naturale e del passaggio da quest'ultimo alla società civile o politica (political or civil society). Secondo Locke, infatti, nello stato naturale gli individui vivono, almeno in un primo tempo, in una condizione pacifica, godendo dei diritti inerenti a ogni uomo sin dalla nascita (il diritto alla vita, il diritto alla libertà e il diritto alla proprietà). Lo stato naturale, lungi dall'essere asociale ovvero una condizione di guerra di ognuno contro tutti, in cui l'individuo è continuamente minacciato persino nella vita (secondo la raffigurazione che ne aveva dato Hobbes), costituisce per Locke una società notevolmente sviluppata, in cui sono presenti diversi istituti (la famiglia, il rapporto padrone-servo) e rapporti economico-sociali molto articolati, fondati sulla moneta e sull'accumulazione illimitata di ricchezza (e quindi corrispondenti a un'economia mercantile assai matura). L'abbandono dello stato naturale e il passaggio alla società civile o politica diventano necessari perché a un certo punto lo stato naturale degenera in stato di guerra (in esso, infatti, in mancanza di leggi positive e di giudici che le facciano rispettare, ognuno deve farsi giustizia da solo). Senonché, a differenza di quanto avveniva in Hobbes, il patto stipulato fra gli individui per dar vita alla società civile o politica (la sola che può tutelare adeguatamente gli istituti sociali ed economici sviluppatisi già nello stato di natura) non implica per Locke una completa alienazione di tutti i diritti individuali al sovrano; al contrario, attraverso il patto gli individui entrano in società conservando tutti i loro diritti naturali (che dunque devono essere garantiti dalle leggi positive), tranne uno: il diritto di farsi giustizia da soli. Ne segue che il potere sovrano non può acquisire più di quanto gli sia stato trasmesso, e quindi non è un potere illimitato, non è legibus solutus, non può violare i diritti naturali individuali, non può imporre alcunché ai cittadini, né sotto il profilo economico e sociale, né sotto il profilo spirituale e intellettuale. Il potere politico è, insomma, un potere fiduciario. Ma proprio perché è tale, esso trova la sua concretizzazione più importante nel potere legislativo (espressione della volontà della maggioranza dei cittadini). Il potere legislativo è quindi il potere supremo, rispetto al quale il potere esecutivo (che compete al re) è senz'altro subordinato. Legislativo ed esecutivo sono poteri nettamente separati, in quanto esercitano funzioni nettamente distinte (il primo ha il compito di fare le leggi, il secondo di farle eseguire). E come il potere esecutivo non può limitare in alcun modo il potere legislativo, così quest'ultimo non può venir meno alla fiducia che il popolo ha riposto in esso (non può far leggi in contrasto con le leggi naturali, non può trasferire in altre mani il potere di far leggi, ecc.). Il popolo ha il pieno diritto o di deporre l'esecutivo che conculca il legislativo, o di rovesciare il legislativo venuto meno alla sua fiducia, e di eleggere un nuovo legislativo: un diritto che il popolo può esercitare anche con la forza, poiché, dice Locke, alla forza si può reagire soltanto con la forza (il pensatore inglese riconosce dunque al popolo il diritto di resistenza).
Si è molto discusso su questa teoria antidispotica di Locke, e diversi critici hanno cercato di attenuarne la portata, in considerazione del fatto che nella costruzione lockiana i diritti politici sono riservati soltanto ai proprietari, sicché la società civile o politica delineata dal filosofo inglese mostra caratteri nettamente oligarchici. Del resto, se, come si è detto, la teoria politica lockiana è il riflesso e al tempo stesso il coronamento teorico del processo che culmina nella 'gloriosa rivoluzione' del 1688, non c'è dubbio che la monarchia inglese uscita da quella rivoluzione, "sotto la veste decorosa di un governo misto, dove tutte le forze della nazione fossero proporzionalmente rappresentate, dissimulava la sostanza di un potere oligarchico" (v. De Ruggiero, 1962, p. 13). Infatti il potere politico era monopolio della grande aristocrazia fondiaria, della piccola nobiltà di campagna (gentry) e dei sempre più ricchi e potenti ceti mercantili. E tuttavia, riconosciuto ciò, non si può non riconoscere, parimenti, che il sistema politico inglese (e l'immagine teorica che ne dava Locke) mostrava una fisionomia spiccatamente liberale. "La rivoluzione del 1688 - ha scritto significativamente Laski, uno dei critici ai quali abbiamo fatto riferimento sopra - non fece che completare gli obiettivi cui mirava la rivolta della classe media che Cromwell capeggiò contro il dispotismo tentato dagli Stuart. L'habeas corpus, i parlamenti triennali dominati da partiti politici, uno dei quali sarà l'alleato costante degli interessi commerciali, la libertà religiosa entro vasti limiti, la soppressione del controllo governativo sulla stampa, un potere giudiziario indipendente dal potere esecutivo nell'espletamento della sua funzione giuridica, la finanza e l'esercito controllati da un parlamento elettivo" (v. Laski, 1936; tr. it., p. 71): tutte queste erano conquiste di enorme importanza, che non avevano alcun corrispettivo nel resto d'Europa. La concezione politica di Locke e la 'gloriosa rivoluzione' tracciavano quindi la strada dell'avvenire.
La stessa preoccupazione che ha mosso Locke (porre dei limiti al potere dello Stato) ha mosso anche Montesquieu (1689-1755), il quale poté intravvedere gli ultimi splendori del regno di Luigi XIV, assistere alla crisi della reggenza e alla progressiva involuzione dello Stato assoluto. Nello Spirito delle leggi (1748) Montesquieu ha presente tanto la monarchia francese quanto la monarchia inglese, e naturalmente le considerazioni che egli svolge in riferimento all'una e all'altra sono assai diverse, essendo diversi i rispettivi contesti sociopolitici. E tuttavia si tratta di considerazioni che muovono da un'unica preoccupazione: è assolutamente necessario limitare il potere politico, è assolutamente necessario dividerlo e frazionarlo il più possibile; solo così si potrà porre un freno a quella che è la tendenza insita nel potere medesimo (in ogni potere), di abusare delle proprie prerogative, di prevaricare sulla società civile e di limitare gravemente o addirittura distruggere le libertà dei sudditi.
Quale sia l'ideale politico di Montesquieu - ideale che fa della sua riflessione un momento essenziale nella storia del pensiero liberale - emerge nettamente dalla bipartizione che egli traccia tra governi moderati e governi immoderati: una bipartizione che costituisce la chiave di volta dell'opera politica montesquiviana. Governo moderato è quello fondato su un opportuno bilanciamento o equilibrio dei vari poteri e dei vari corpi che lo compongono, nel senso che l'uno limita l'altro senza prevaricare su di esso; il che significa che ciascun potere e ciascun corpo non agisce arbitrariamente, ma osserva regole ben precise e si muove all'interno di confini ben delineati. Se questo delicato meccanismo può essere osservato in un determinato stadio della monarchia francese - basata appunto su un complesso bilanciamento o equilibrio fra potere regio (limitato dalle leggi fondamentali), corpi intermedi (nobiltà, città, clero, coi loro diritti e i loro privilegi) e Parlamenti (costituiti da giudici indipendenti) - esso può essere osservato anche e soprattutto nella monarchia inglese, di tanto più evoluta e matura. Qui vige un sistema di distinzione e al tempo stesso di bilanciamento dei poteri, che sarebbe troppo schematico e riduttivo definire di pura e semplice separazione dei poteri medesimi (una definizione, d'altro canto, che non si ritrova in Montesquieu). Distinzione perché, come dice il pensatore francese, "tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati" (XI, 6). Legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere dunque poteri distinti, cioè non possono essere uniti nella stessa persona o nello stesso corpo politico, poiché, ove questo avvenisse, verrebbe meno quel frazionamento del potere, e quel reciproco controllo fra le singole parti che lo costituiscono, che è la conditio sine qua non per evitare il dispotismo. Ma al tempo stesso ci troviamo di fronte a un bilanciamento dei poteri (e non a una loro meccanica separazione). Infatti, lo stesso corpo legislativo è diviso in due parti (Camera alta e Camera bassa), che si tengono a freno fra loro grazie alla reciproca facoltà di impedirsi. Le leggi, d'altro canto, non entrano in vigore se non vengono approvate dal re. Il che significa che l'intero sistema politico non può funzionare senza l'assenso e il concorso dei vari elementi che lo compongono (monarca, Camera alta, Camera bassa), e che basta il dissenso di uno di questi per incepparlo. Ma proprio qui è la miglior garanzia di un governo moderato, in cui nessun interesse particolare e nessuna frazione della società è in grado di imporre la propria volontà contro quella degli altri. Governo moderato è dunque per Montesquieu quel governo che tiene conto della molteplicità e della diversità degli interessi, che riesce a trovare un punto di equilibrio o di compromesso fra loro. Su questa base sorge un sistema di civile convivenza, in cui vengono rispettati i diritti e gli interessi di tutti, ed è bandito ogni atto di forza e ogni abuso politico.
Il governo fondato sulla distinzione e sul bilanciamento dei poteri è dunque per Montesquieu il governo moderato per eccellenza. L'alternativa a esso è il governo immoderato o dispotico, in cui il principe riunisce nella propria persona tutte le magistrature. Ma questo governo, che annulla tutti i diritti dei sudditi, ha come proprio principio la paura. In esso i sudditi devono al despota un'obbedienza incondizionata, quale che sia la sua volontà o quali che siano i suoi capricci. Sono impossibili accomodamenti, controproposte, discussioni, accordi. I sudditi sono creature che obbediscono a una creatura che vuole, e a essi, come gli animali, non restano che l'obbedienza o il castigo. E con queste parole Montesquieu non poteva dare del dispotismo una caratterizzazione più negativa, e pronunciarne una condanna più aspra e più ferma.
L'influsso dell'opera di Montesquieu (soprattutto della sua riflessione relativa all'Inghilterra) sul pensiero politico e sulla storia politica è stato enorme. Egli è stato uno degli scrittori più letti dalla classe dirigente americana del XVIII secolo (nel Federalist le citazioni da Montesquieu sono numerose). Le prime costituzioni scritte - la Costituzione americana del 1776 e quella francese del 1791 - si considerano applicazioni della sua teoria della distinzione dei poteri. Le istanze antipaternalistiche (così vive in Locke) e quelle antidispotiche (così forti sia in Locke che in Montesquieu) vengono a costituire anche il contrassegno essenziale della concezione politica di Kant (1724-1804). Per il filosofo di Königsberg (che vive nel regime dispotico-paternalistico prussiano) uno dei principî a priori sui quali deve essere fondato lo Stato civile in quanto Stato giuridico, è la libertà. Tale principio significa, dice Kant, che "nessuno mi può costringere a essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)" (Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino 1965, p. 255). Si tratta, come si vede, di un principio schiettamente liberale, che mira a salvaguardare una larga sfera d'azione dell'individuo nella sua vita privata e sociale, al riparo dalle pretese e dalle intrusioni del principe. Senza tale sfera d'azione, senza la possibilità di seguire le proprie inclinazioni, di soddisfare i propri gusti, di manifestare il proprio carattere e di adottare lo stile di vita a esso conforme, l'individuo non solo non è libero, ma è completamente asservito. E infatti Kant, per chiarire meglio il proprio pensiero, aggiunge che un governo fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, al modo del governo di un padre verso i figli, cioè un governo paternalistico, in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti a comportarsi solo passivamente, ad aspettare che il capo dello Stato giudichi in qual modo essi devono essere felici, e ad attendere solo dalla sua bontà che egli lo voglia, è il peggior dispotismo che si possa immaginare.
Per intendere appieno l'importanza di queste proposizioni kantiane, è necessario tenere ben presente il quadro sociopolitico della Germania del tempo in cui Kant scriveva, nella quale i principi esercitavano una minuziosa e pedantesca regolamentazione burocratica di tutti gli aspetti, anche minimi, della vita privata dei sudditi. Così, per esempio, un'ordinanza camerale del Principato del Baden del 1766 stabiliva come al Consiglio di Corte competesse di trattenere i sudditi "dall'errore e di ricondurli sulla retta via, nonché di insegnar loro, anche contro la loro volontà, il modo in cui devono organizzare l'economia domestica, coltivare i campi e alleviare a se stessi, mediante una conduzione economicamente più produttiva dell'azienda, gli oneri dei tributi da loro dovuti".
Il problema di una forma di governo che sia fondata sul consenso dei cittadini, e che rispetti scrupolosamente i loro diritti, costituisce quindi la preoccupazione fondamentale di Kant. Per lui la costituzione dello Stato deve essere repubblicana; essa, in quanto tale, si oppone radicalmente a quella dispotica. Il regime repubblicano (che può essere anche una monarchia costituzionale) si fonda essenzialmente sul principio politico della separazione del potere legislativo dal potere esecutivo e dal potere giudiziario: tali poteri sono coordinati, e al tempo stesso i loro compiti e le loro sfere sono rigorosamente distinti. Il dispotismo, invece, è caratterizzato dall'esecuzione arbitraria delle leggi dello Stato, e in esso la volontà pubblica è maneggiata dal sovrano come sua volontà privata. Nel regime repubblicano, al contrario, il vero potere sovrano è il legislativo (eletto dai cittadini che abbiano diritto di voto), al quale l'esecutivo è sottomesso. Perciò il legislativo può anche togliere all'esecutivo il suo potere, deporlo o riformare la sua amministrazione. Infine, nel regime repubblicano né il sovrano o legislativo, né il reggitore o esecutivo possono giudicare. Il popolo si giudica da sé per mezzo di quei suoi concittadini che esso nomina a questo effetto, con una libera scelta, come suoi rappresentanti, per ogni atto particolare.
Con ciò il filosofo di Königsberg ha tracciato il disegno del suo Stato ideale in quanto Stato di diritto e liberale a un tempo, fondato sulla divisione e sul coordinamento dei poteri, a tutela della libertà di ognuno, scrupolosamente garantita e delimitata dai diritti e dai doveri di tutti. E per Kant ogni forma di governo che non sia rappresentativa è propriamente informe, poiché in essa il legislatore può essere in una sola e medesima persona anche esecutore del proprio volere, con tutte le inevitabili conseguenze di abuso e di arbitrio (ma nemmeno in questo caso il filosofo tedesco riconosce al popolo il diritto di ribellione o di resistenza, mostrando in ciò una posizione assai più arretrata di quella di Locke).
Questa preoccupazione di tutelare i diritti e le libertà dell'individuo contro gli abusi e le prevaricazioni del potere politico trova probabilmente la sua espressione più sottile ed efficace nella dottrina di Benjamin Constant (1767-1830), maturata nel fuoco delle tremende esperienze della dittatura giacobina e del dispotismo napoleonico. Constant è un convinto difensore della sovranità popolare, la quale non può non significare supremazia della volontà generale su ogni volontà particolare. Ma sarebbe un errore imperdonabile, egli dice, scambiare tale supremazia per una sovranità illimitata. Il potere sovrano deve sempre avere due limiti invalicabili: il rigoroso rispetto dei diritti delle minoranze e la non intromissione nella vita privata dei singoli, qualora questi non violino le leggi. C'è sempre una parte dell'esistenza umana che deve restare individuale e autonoma, e che è di diritto fuori di ogni competenza sociale. Se la società viola i diritti delle minoranze, o se si intromette nella sfera della vita individuale che non le compete, essa si rende colpevole non meno del despota che ha come titolo soltanto la spada sterminatrice. Il che significa che la sovranità può esistere solo in maniera limitata e relativa, che la società non può eccedere dalla sua sfera di competenza senza essere usurpatrice, la maggioranza senza essere faziosa.In questo quadro di rigorosa ispirazione giusnaturalistico-individualistica, Constant vibra un attacco formidabile alla concezione politica di Rousseau, tanto spesso invocata a favore della libertà ma divenuta il più terribile sussidio di ogni specie di dispotismo. Rousseau, dice Constant, definisce il contratto intervenuto tra la società e i suoi membri come la completa alienazione di ogni individuo con tutti i suoi diritti e senza riserve alla comunità. E per rassicurarci circa le conseguenze di questa completa alienazione di tutti i nostri diritti a favore di un ente astratto, Rousseau ci dice che il sovrano, cioè il corpo sociale, non può nuocere né all'insieme dei suoi membri né a ciascuno di essi in particolare; che ognuno, in quanto si dà a tutti, non si dà a nessuno; e che ognuno, infine, acquista su tutti gli associati gli stessi diritti che cede loro e guadagna con maggior forza l'equivalente di tutto ciò che perde. Senonché, nonostante queste rassicurazioni, la soluzione roussoiana è astratta e irrealistica. Rousseau dimentica infatti, dice Constant, che non appena il sovrano deve fare uso della forza che possiede, non appena deve procedere a una organizzazione effettiva del proprio potere - in quanto non può esercitarlo in prima persona - egli deve delegarlo; sicché non è affatto vero che il cittadino, dandosi a tutti, non si dà a nessuno: egli si dà invece a coloro che agiscono a nome di tutti. Accade così che coloro ai quali è stato delegato l'esercizio della sovranità traggano esclusivo profitto dal sacrificio degli altri. Non è affatto vero, dunque, che nessuno abbia interesse a rendere onerosa la condizione altrui, poiché in realtà vi sono dei consociati che stanno fuori della condizione comune; non è affatto vero che tutti i consociati acquistino gli stessi diritti che essi cedono, perché non tutti guadagnano l'equivalente di ciò che perdono.
In realtà, quando la sovranità non è limitata, non c'è alcun mezzo per tenere gli individui al riparo dai governi; ed è vano pretendere di sottomettere i governi alla volontà generale, perché sono sempre i governi a dettare tale volontà. E neppure è sufficiente stabilire che il potere esecutivo non ha il diritto di agire senza il concorso di una legge, se a esso non si pongono dei confini precisi, se non si dichiara che vi sono materie sulle quali il legislatore non ha diritto di fare leggi, e che vi sono delle volontà che né il popolo né i suoi delegati hanno il diritto di violare. Ecco dunque quel che bisogna proclamare, il principio eterno che bisogna stabilire: "I cittadini posseggono diritti individuali indipendenti da ogni autorità sociale o politica, e ogni autorità che viola questi diritti diviene illegittima. I diritti dei cittadini sono la libertà individuale, la libertà di religione, la libertà di opinione, che comprende la libertà di manifestarla, il godimento della proprietà, la garanzia contro ogni arbitrio. Nessuna autorità può attentare a questi diritti senza lacerare il suo titolo" (Principî di politica, Roma 1965, p. 72).
Una critica mossa molte volte al pensiero liberale - formulata, in varie fasi e in vari contesti, essenzialmente dalla cultura socialista e marxista - è stata quella di aver dato una giustificazione teorica degli interessi delle nuove classi e dei nuovi ceti protagonisti della rivoluzione antiaristocratica e antifeudale, e di aver concepito il diritto alla proprietà privata come il diritto per eccellenza, al quale avrebbe subordinato tutti gli altri diritti, e per la tutela del quale avrebbe congegnato l'intero sistema politico. Il liberalismo sarebbe quindi rimasto vittima di una illusione ideologica: esso ha creduto di creare le condizioni per la libertà di tutti gli uomini, e invece ha creato le condizioni per la libertà di una minoranza soltanto; ha creduto di esprimere esigenze universali, e di creare regole e istituzioni atte a soddisfarle, e invece ha espresso solo esigenze particolari, e ha creato regole e istituzioni per soddisfare quelle esigenze particolari, a spese della grande maggioranza (v. Laski, 1936).
Si tratta di una critica che, proprio perché riduce il giudizio sul liberalismo al problema della difesa della proprietà privata, sottovaluta gravemente l'importanza delle tecniche politico-giuridiche elaborate dai pensatori liberali a difesa della libertà individuale contro le intromissioni e le prevaricazioni del potere politico. Quando Marx afferma che "in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come 'legge eterna"' (cfr. K. Marx e F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma 1958, p. 43) - quando afferma ciò, Marx sottovaluta il fatto che la dottrina della divisione dei poteri ha una validità e un'efficacia che trascendono di gran lunga il contesto sociopolitico nel quale quella dottrina è sorta, e che essa è uno strumento fondamentale di difesa del cittadino contro gli abusi del potere anche in altri tipi di società.Ma, per quanto riguarda il concetto di proprietà, è opportuno chiarire che esso non ha nel pensiero liberale quel significato e quella funzione univoci che gli sono stati spesso attribuiti (sino a pretendere di unificare il liberalismo del XVII e del XVIII secolo sotto la categoria di "individualismo possessivo"; cfr. C.B. Macpherson, The political theory of possessive individualism. Hobbes to Locke, Oxford 1962).
Assai significativo è il caso di Locke. Del filosofo inglese è stata citata infinite volte l'affermazione, che ricorre spesso nel Secondo trattato sul governo civile, secondo la quale per potere politico si deve intendere "il diritto di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità minore, per il regolamento e la conservazione della proprietà" (II, 3). Si tratta di un testo certo esemplare, per la sua fortissima sottolineatura della proprietà privata, che viene posta all'origine della società civile o politica (la quale ha un carattere fortemente oligarchico, per l'estrema ristrettezza del corpo elettorale). Senonché si è voluto ignorare troppo spesso che Locke ha una concezione assai ampia della proprietà, nella quale rientrano non solo i beni mobili e immobili, ma anche la vita, la sicurezza, la libertà. Del resto, nella Epistola sulla tolleranza egli afferma significativamente: "Mi sembra che lo Stato sia una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l'integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili, ecc.". Qui viene enunciata, come si vede, una definizione ampia e polisensa di proprietà, che è ben lungi dal ridurre quest'ultima ai soli beni materiali. Con ciò non si vuol sostenere, naturalmente, che la proprietà privata in senso stretto non abbia un'importanza fondamentale nella concezione politica di Locke (oltretutto, il filosofo inglese ha elaborato, proprio nel Secondo trattato sul governo civile, una teoria assai acuta e originale per spiegare il sorgere della proprietà privata dei beni, la cui origine viene individuata nel lavoro). Si vuole solo sottolineare il fatto, non certo privo di significato, che la concezione lockiana della proprietà non può essere appiattita sui suoi contenuti 'borghesi', anche se essi sono certo importantissimi.
Tali contenuti 'borghesi' sono presenti anche nella concezione politica di Kant. Anche per lui, infatti, la proprietà privata è già presente nello stato di natura, e la costituzione civile ha fra i suoi obiettivi fondamentali quello di rendere perentorio, ovvero giuridicamente garantito, quel possesso (il mio e il tuo esterni, secondo la terminologia kantiana) che nello stato naturale era provvisorio, cioè non sufficientemente garantito. Inoltre, nella sua teoria del potere legislativo, Kant considera la posizione economica e il censo quali condizioni imprescindibili per l'esercizio dell'elettorato attivo e passivo. Per avere il diritto di voto, e dunque per essere cittadino in senso pieno, occorre infatti, dice Kant, essere padrone di sé (sui juris), e quindi avere una qualche proprietà che procuri i mezzi per vivere. Con ciò si intende che il cittadino deve avere una qualunque attività, manuale, professionale, artistica, scientifica, che gli assicuri una vita economicamente autonoma. E Kant distingue puntigliosamente fra il domestico, il garzone di bottega, chi lavora a giornata, il precettore privato, ecc., i quali sono da qualificarsi solo come operarii, e quindi non possono essere cittadini, e coloro che sono invece artifices, e quindi possono alienare un opus (come l'artigiano, il fittavolo, l'insegnante, l'artista, ecc.): questi sono cittadini in senso pieno (e quindi titolari dei diritti politici), mentre i primi sono soltanto consociati sotto la protezione dello Stato. Nessun dubbio che qui Kant esprima un punto di vista rigidamente classistico, che sarà corretto in notevole misura dagli sviluppi successivi del pensiero liberale.
E infatti la concezione della proprietà come qualcosa di naturale e di presociale trova una significativa attenuazione nell'opera di Benjamin Constant. Certo, anche Constant è assai fermo nell'escludere gli indigenti dai diritti politici. Nessun popolo, egli dice infatti, ha mai considerato come membri dello Stato tutti gli individui che risiedano come che sia sul suo territorio: né la nascita nel paese né la maturità dell'età sono elementi sufficienti a conferire i diritti politici. Per esercitare tali diritti occorre qualcos'altro: occorre il tempo indispensabile all'acquisizione della cultura e di un retto giudizio. Ma soltanto la proprietà garantisce questa disposizione.E tuttavia, detto ciò, Constant introduce qualcosa di nuovo e di importante nella concezione della proprietà privata. Egli polemizza infatti contro "un errore grave": l'errore di coloro che hanno rappresentato la proprietà come antecedente alla società o indipendente da questa. "Nessuna di queste asserzioni - dice Constant - è vera. La proprietà non è affatto anteriore alla società, perché senza l'associazione che le dà una garanzia essa non sarebbe che il diritto del primo occupante, in altri termini il diritto della forza, cioè un diritto che non è tale. La proprietà non è indipendente dalla società perché uno stato sociale, in verità assai miserevole, può concepirsi senza proprietà, mentre non si può immaginare la proprietà senza stato sociale". In realtà, la proprietà esiste perché esiste la società, e quindi essa "non è altro che una convenzione sociale", anche se dal considerarla tale non discende che essa sia meno essenziale e meno necessaria di quanto la considerino altri scrittori (op. cit., p. 182).
Questa concezione constantiana della proprietà come "convenzione sociale" è assai importante, sia perché spezza lo schema giusnaturalistico della proprietà come qualcosa di presociale, sia perché, implicitamente, inaugura un modo di considerare la proprietà in funzione della società, delle sue esigenze e dei suoi bisogni (e ciò valse a Constant l'accusa, da parte di liberali conservatori come il Laboulaye, di aver aperto la strada al comunismo!).Un altro aspetto importante della concezione constantiana della proprietà consiste nel fatto che egli ritiene che la Rivoluzione francese abbia aperto un positivo processo di frazionamento della proprietà fondiaria, un processo che si concluderà con l'estinzione della grande proprietà e con l'estendersi e il consolidarsi delle piccole proprietà. Questo processo sarà accelerato dal rafforzarsi continuo dell'industria (che è tutta nelle mani del Terzo stato), la quale contribuirà a rendere la proprietà fondiaria sempre più divisa, mobile, circolante all'infinito. Sorgerà così una classe media sempre più numerosa, formata da tutti gli individui intraprendenti e dotati di iniziativa e di talento, una classe che costituirà la spina dorsale della nazione. Il pensiero di Constant su questo punto costituisce un'importante testimonianza del passaggio dall'ideologia liberale propria dei ceti terrieri a quella propria dei ceti industriali.
Ma il pensatore liberale che rielabora più profondamente la connessione fra liberalismo e proprietà privata è John Stuart Mill (1806-1873). Egli assume un atteggiamento tutt'altro che ostile verso le varie scuole di indirizzo socialista (owenismo, sansimonismo, fourierismo, anche se è un deciso avversario di Marx e dei suoi seguaci). E tuttavia Mill non ritiene che la strada giusta sia quella della soppressione pura e semplice della proprietà privata. Egli pensa che un regime comunistico non lascerebbe sufficiente spazio all'individualità dei caratteri, che l'assoluta dipendenza di ciascuno da tutti e la sorveglianza di tutti su ciascuno ridurrebbero gli uomini a una tetra uniformità di pensieri, di sentimenti e di azioni. La strada da seguire è quindi, per lui, un'altra: incidere profondamente sul meccanismo della distribuzione della ricchezza. Mill, che vive in un paese che ha il più avanzato sviluppo industriale, non ha dubbi sul fatto che in futuro le classi lavoratrici - rese sempre più mature dall'istruzione, dalla partecipazione all'attività sindacale e politica, dalla stampa - accresceranno di gran lunga il loro peso nella società e non si accontenteranno della condizione di lavoratore salariato come condizione definitiva. Il rapporto fra padrone e operaio sarà sostituito a poco a poco, secondo Mill, dall'associazione: in alcuni casi dall'associazione dei lavoratori col capitalista, in altri casi, e forse alla fine in tutti, dall'associazione dei lavoratori fra loro. In tali cooperative i lavoratori si troveranno su un piede di eguaglianza, possiederanno collettivamente il capitale, e lavoreranno sotto direttori eletti e destituibili da loro stessi.Il sistema cooperativistico permetterà di conseguire i vantaggi morali ed economici della produzione associata, e, senza violenza o spoliazione, realizzerà, almeno nel campo industriale, le migliori aspirazioni dello spirito democratico, cancellando tutte le distinzioni sociali, salvo quelle giustamente meritate coi servizi e le attività personali. Al tempo stesso tale sistema si baserà sulla concorrenza, a proposito della quale i socialisti hanno, secondo Mill, idee molto confuse, e anzi sbagliano quando attribuiscono a essa tutti i mali economici. "Essi - egli dice - dimenticano che dovunque non vi è concorrenza, vi è monopolio; e che il monopolio, in tutte le sue forme, è una tassazione sugli uomini attivi per il mantenimento dell'indolenza, se non della ruberia". In realtà, se si eccettua la concorrenza fra i lavoratori (donde, per Mill, l'importanza, per la classe operaia, degli insegnamenti di Malthus), ogni altra concorrenza è a vantaggio dei lavoratori, in quanto riduce il costo delle merci che essi consumano (Principî di economia politica, Torino 1962, pp. 747-748).
Come si vede, la concezione liberalsocialista di Mill si ispira al principio dell'adeguato compenso allo sforzo individuale. Di qui l'esigenza, da lui sempre rivendicata, di incisivi interventi sul diritto di successione (soltanto i discendenti diretti dovrebbero poter ereditare, e solo quanto è necessario per una modesta esistenza; il di più dovrebbe essere avocato dallo Stato), per evitare quell'eccessiva concentrazione delle fortune che è all'origine di tanti mali sociali. E di qui anche lo sfavore con cui Mill guarda alla proprietà privata della terra, e la sua critica alla rendita fondiaria. La proprietà deve essere frutto del lavoro, e poiché "nessun uomo ha fatto la terra" ed essa è "l'eredità originaria di tutta la specie umana", nessuno può vantare dei diritti su di essa. La proprietà terriera si giustifica solo e soltanto se la terra viene costantemente coltivata e migliorata (di qui la simpatia di Mill per la piccola proprietà contadina); in caso contrario i proprietari, dice Mill, "diventano più ricchi quasi dormendo, senza lavorare, senza rischiare e senza risparmiare. Che diritti possono avere, secondo i principî generali della giustizia sociale, a questo incremento di ricchezza?" (ibid., pp. 368, 372, 1077).
Un aspetto fondamentale del pensiero liberale è da cercare nella sua convinzione che l'antagonismo fra gli individui, i gruppi, i ceti e le classi sia estremamente fecondo, e che senza tale antagonismo in campo economico, sociale, politico e culturale non ci sia progresso nella società, bensì solo stagnazione e regresso. Il confronto e il conflitto fra interessi e opinioni diversi non sono dunque fatti negativi, ma altamente positivi, che lo Stato liberale deve porre a proprio fondamento, limitandosi a tutelare il loro corretto svolgimento. La società pluralistico-conflittuale è enormemente superiore a qualsiasi società omogenea e organicistica. Solo la prima è una società dinamica, e quindi in grado di produrre e accumulare beni, conoscenze, sapere; la seconda è invece una società statica, incapace di miglioramento e di progresso. "Solo nella lotta, - ha affermato uno scrittore liberale italiano - solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso a vittorie e ad insuccessi, una società, una nazione prospera. Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale e gli uomini hanno perduto la ragione medesima del vivere" (cfr. L. Einaudi, Prediche inutili, Torino 1974, p. 243).
Chi ha espresso questo punto di vista con maggior forza è stato forse, fra i 'classici', Kant. Egli ha affermato che il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è l'antagonismo degli individui, in quanto esso è la causa dell'ordinamento civile della società. Per antagonismo si deve intendere - egli ha chiarito - la "insocievole socievolezza" degli uomini, cioè la loro tendenza a unirsi in società, congiunta con una generale avversione, che minaccia continuamente di disunire la società medesima. Si tratta, dice Kant, di una tendenza insita nella natura umana. L'uomo, infatti, ha per un verso una forte inclinazione ad associarsi con gli altri uomini, perché egli sente di poter sviluppare meglio, nella società, le proprie disposizioni naturali; ma per un altro verso ha una forte tendenza a dissociarsi, poiché ha in sé la qualità antisociale di voler volgere tutto al proprio interesse, contro gli interessi degli altri.
Questa caratteristica della natura umana costituisce per Kant qualcosa di altamente positivo. Infatti la resistenza di ognuno contro tutti, egli dice, eccita le energie dell'uomo, lo induce a vincere la sua tendenza alla pigrizia; l'uomo, spinto dal desiderio di onori, di potenza, di ricchezza, si conquista un posto tra i suoi consoci. In tal modo si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla civiltà, si sviluppano a poco a poco tutte le capacità umane, si educa il gusto, ecc. Senza la insocievolezza, "tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco", e "gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico". "Siano allora rese grazie alla natura - esclama Kant (op. cit., p. 128) - per l'intrattabilità che genera, per l'invidiosa emulazione della vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio! Senza di esse tutte le eccellenti disposizioni naturali insite nell'umanità rimarrebbero eternamente assopite senza svilupparsi".
Questa tematica trova importanti sviluppi in Wilhelm von Humboldt (1767-1835), il quale ha espresso in modo estremamente efficace il punto di vista secondo il quale il progresso della società ha la propria molla nel libero dispiegarsi degli individui. Perché tale libero dispiegamento abbia luogo occorre naturalmente piena libertà nel campo sociale e politico, ma occorrono anche una ricca varietà di situazioni e una vasta gamma di scelte. Infatti, anche l'uomo più libero e più indipendente, se posto in un ambiente uniforme, ha uno sviluppo meno completo. Questo è per Humboldt un punto assai importante e delicato, anche in considerazione del fatto che il progresso della civiltà comporta uniformità (Humboldt è il primo ad avvertire questo problema, che, come vedremo, sarà sempre più discusso successivamente): ogni epoca è sempre meno varia di quella che l'ha preceduta, a causa dei processi di unificazione e di omogeneizzazione (degli stili di vita, del costume, della mentalità, ecc.) che la diffusione della civiltà comporta. Inoltre, il continuo complicarsi della vita sociale richiede un intervento ognora crescente dello Stato, e quindi un continuo potenziamento della macchina burocratico-amministrativa. "Di decennio in decennio - dice Humboldt - aumentano, nella maggior parte degli Stati, il personale dei funzionari e gli archivi, mentre diminuisce la libertà dei sudditi" (Antologia degli scritti politici, Bologna 1961, p. 73).
Verso il crescente intervento dello Stato nella vita civile Humboldt è estremamente diffidente e preoccupato, in quanto esso comporta un aumento costante della regolamentazione della società dall'alto, e un progressivo indebolimento dell'iniziativa individuale dal basso. Ma l'intelletto umano si educa solo attraverso la propria attività autonoma, la propria inventività o la personale utilizzazione di invenzioni altrui. Le istituzioni statali, e le iniziative da esse promosse, comportano invece sempre costrizione, oppure abituano a contare su direttive, controlli e aiuti esterni, invece che a pensare e ad agire autonomamente. Di qui, anche, la diffidenza di Humboldt verso le grandi associazioni e le grandi organizzazioni, le quali non richiedono agli individui di essere sempre più autonomi, più originali e più riccamente dotati, bensì, all'opposto, di essere sempre più omogenei e uniformi, sempre più conformisti, di avere sempre minore iniziativa personale, di diventare meri strumenti dell'organizzazione. "L'individuo che sia spesso e in larga misura eterodiretto - dice Humboldt - arriva facilmente a sacrificare quasi volontariamente ogni residuo di indipendenza. Egli si crede sollevato da ogni responsabilità, constatando come altri se l'accolli, e pensa di fare abbastanza attendendo le altrui direttive e seguendole" (ibid., p. 67).
Questi motivi ritorneranno, alcuni decenni dopo, in Alexis de Tocqueville (1805-1859). Il pensatore francese apprezzerà altamente, nella democrazia americana, l'autonomia della società civile dal potere politico: un'autonomia che ha risvegliato tutte le capacità e tutto lo spirito d'iniziativa della società civile medesima, la quale ha individuato da sola le proprie necessità e le ha soddisfatte con straordinaria efficacia. "Non c'è paese al mondo - dice Tocqueville - ove gli uomini facciano, in definitiva, tanti sforzi per creare il benessere sociale. Non conosco un popolo che sia riuscito a creare scuole altrettanto numerose ed efficienti; chiese più adatte ai bisogni religiosi degli abitanti; strade comunali meglio tenute. Non bisogna dunque cercare negli Stati Uniti l'uniformità e stabilità di vedute, la cura minuziosa dei particolari, la perfezione dei procedimenti amministrativi; ciò che vi si trova è l'immagine della forza, un po' selvaggia, è vero, ma piena di potenza, l'immagine della vita, disseminata di contrarietà, ma anche di movimento e di sforzi" (Scritti politici, Torino 1968-1969, vol. II, pp. 115-116).
A questa libertà un po' selvaggia ma estremamente vitale, il seguace dello Stato paternalistico è portato a contrapporre un modello completamente diverso, caratterizzato da un'autorità sempre all'erta, che veglia sulla tranquillità del suddito, che vola davanti ai suoi passi per allontanarne tutti i pericoli, che gli assicura l'esistenza materiale senza che egli abbia bisogno di pensarvi. Ma, esclama Tocqueville, che cosa importa tutto ciò, "se poi questa autorità, nello stesso tempo in cui allontana le più piccole spine dal mio passaggio, è padrona assoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e la vita al punto che, quando essa langue, tutto langue, quando essa dorme, tutto dorme, quando essa muore, tutto muore?" (ibid., p. 116). Ma è soprattutto in John S. Mill che rivive nel modo più suggestivo l'ispirazione individualistica humboldtiana, per il fortissimo accento da lui posto sul singolo, sulla sua libertà, sulla sua originalità, e quindi sulla varietà delle personalità umane e delle loro libere aggregazioni. "La natura umana - dice Mill- non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di nascere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente" (Saggio sulla libertà, Milano 1981, p. 92). Non è dunque stemperando nell'uniformità tutte le caratteristiche individuali, ma coltivandole e facendo appello a esse entro i limiti imposti dai diritti e dagli interessi altrui, che gli individui diventano nobili esempi di vita. Solo così l'esistenza umana si arricchisce, si diversifica e si anima, fornendo maggiore stimolo ai pensieri e ai sentimenti più elevati. Ma perché la natura di ciascuno abbia la possibilità di esplicarsi, è essenziale che sia consentito a persone diverse di condurre vite diverse, secondo la loro vocazione, i loro talenti, le loro aspirazioni e il loro carattere. Per Mill l'unanimità non è mai utile (dunque non è un valore), mentre la diversità di opinioni è sempre altamente auspicabile (dunque è un valore). Gli uomini infatti non sono infallibili, e quello che credono falso oggi può dimostrarsi vero domani; inoltre, le loro verità sono per la maggior parte delle mezze verità, e anche l'opinione erronea può contenere, e spesso contiene, una parte di verità, che può emergere solo e soltanto attraverso il confronto tra opinioni opposte.
È appena il caso di avvertire che la ferma difesa dell'antagonismo, della concorrenza, nonché della varietà e del dissenso, e la correlativa esaltazione della personalità individuale, della sua originalità, della sua intima energia creatrice, che si rafforza solo attraverso il confronto e la lotta, implicano, nei pensatori liberali, una forte diffidenza nei confronti dello Stato e la tendenza a ridurne al minimo indispensabile non solo i poteri ma anche le funzioni. E infatti, sotto il profilo della riduzione e del controllo dei poteri, i pensatori liberali teorizzano (come abbiamo visto) lo Stato limitato; sotto il profilo della riduzione, quanto più ampia possibile, delle funzioni, essi teorizzano lo Stato minimo (v. Bobbio, 1986, p. 13). Il primo e più deciso difensore dello Stato minimo è stato senza dubbio Humboldt. È significativo che Humboldt abbia apposto come motto alla propria opera principale (Idee per un saggio sui limiti dell'attività dello Stato, 1792) un'affermazione di Mirabeau padre che dice: "Il difficile è di promulgare soltanto leggi necessarie, di restare sempre fedeli a questo principio veramente costituzionale della società, di stare in guardia contro il furore di governare, la più funesta malattia dei governi". Lo Stato, dunque, deve intervenire il meno possibile nel libero svolgimento e nella libera crescita della società civile, che ha in se stessa tante energie, tanto rigoglio e tanta forza da assicurare senz'altro, nel modo più ampio, quello svolgimento e quella crescita, i quali possono essere invece solo inceppati e compromessi dall'intervento della pubblica autorità. Ma protagonista della società civile è l'individuo. Dunque, più la sfera d'azione dell'individuo è ampia e libera, e, correlativamente, più la sfera d'intervento dello Stato è ristretta, e più il progresso della società è assicurato.
Naturalmente, in questa concezione humboldtiana il fine della società non è lo Stato, il quale è invece solo lo strumento, strettamente subordinato alla società, per garantirne lo sviluppo infinitamente mutevole e vario. Lo Stato è coercizione, la società è libertà degli individui che la compongono. Perciò l'optimum sarebbe poter fare a meno dello Stato. Ciò però non è possibile, perché senza lo Stato le sfere d'azione degli individui, le loro libertà, entrerebbero in collisione e la convivenza diventerebbe presto impossibile. Lo Stato è dunque un male necessario (ein notwendiges Übel), ma occorre fare in modo che sia il male minore, ovvero che la sua funzione sia mantenuta entro limiti assai precisi e molto ristretti: garantire la sicurezza sia contro i nemici esterni sia nel caso di contrasti interni tra i cittadini. (Ed è appena il caso di ricordare la profonda consonanza fra queste proposizioni di Humboldt e l'ispirazione di fondo della Ricchezza delle nazioni di Smith).
Senonché, quelli che Humboldt considerava i possibili vantaggi dello Stato minimo diventano sempre più problematici per i pensatori liberali che vivono il passaggio dalla società liberale alla società democratica. È soprattutto Tocqueville ad avvertire i grandi pericoli antiliberali che la società democratica sviluppa nel proprio seno: da un lato la tirannia della maggioranza e il conformismo di massa (un nuovo, potente Leviatano), dall'altro lato l'accentramento politico-amministrativo. Per il primo aspetto, osservato negli Stati Uniti, Tocqueville rileva che, a mano a mano che i cittadini divengono più uguali e più simili, la disposizione di ciascuno a identificarsi nella massa e a credere in essa aumenta, ed è sempre più l'opinione comune a guidare la società. Il pubblico viene quindi a godere, presso i popoli democratici, di un singolare potere: "non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello spirito di tutti sull'intelligenza di ciascuno", sicché "si può prevedere che la fede nell'opinione pubblica diverrà come una specie di religione, di cui la maggioranza sarà il profeta" (op. cit., vol. II, p. 302). Si delinea così il pericolo di un nuovo dispotismo, tanto più pernicioso in quanto non controlla solo i movimenti e le azioni esteriori, bensì annichila l'autonomia dello spirito e isterilisce la creatività dell'intelligenza. Per il secondo aspetto Tocqueville rileva che su tutti gli Stati della vecchia Europa (ma il suo sguardo è rivolto soprattutto alla Francia), quanto più avanza il processo democratico, tanto più scende la coltre di una legislazione uniforme. È uno sviluppo indotto dal livellamento sociale egualitario e dagli effetti che esso produce nella mentalità e nella psicologia degli uomini. Se a ciò si aggiungono i formidabili problemi creati dalla rivoluzione industriale, che richiedono un intervento sempre più esteso dei pubblici poteri nell'economia, non può stupire che la democrazia finisca col produrre un nuovo Stato paternalistico, in cui il sovrano si ritiene responsabile delle azioni e del destino di ciascuno dei suoi sudditi, e perciò opera al fine di guidarli e di illuminarli nei diversi atti della loro vita e, se occorre, di farli felici loro malgrado. Da parte loro, i cittadini considerano sempre più il potere sovrano da questo stesso punto di vista, lo chiamano continuamente in aiuto per i loro bisogni, e vedono in esso un precettore o una guida. "Sostengo - dice Tocqueville - che in tutti i paesi d'Europa l'amministrazione pubblica non solo è diventata più centralizzata, ma anche più inquisitiva e più minuziosa; ovunque essa penetra più profondamente di un tempo negli affari privati; ovunque regola a suo modo un numero sempre più grande di azioni sempre più piccole e si insedia, ogni giorno di più, a fianco di ogni cittadino, intorno a lui e sopra di lui, per assisterlo, consigliarlo e costringerlo". "Vedo una folla innumerevole - conclude Tocqueville - di uomini simili e uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. [...] Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite" (ibid., pp. 801, 812, 818).
Contro il nuovo Stato paterno che asservisce interamente gli individui e crea un mostruoso sistema di controllo capillare, di uniformità intellettuale e morale, di infiacchimento delle coscienze e di mortificazione della società civile (la quale viene completamente 'inghiottita' dal potere sovrano), Tocqueville invoca come rimedio in primo luogo un largo decentramento amministrativo, sul tipo di quello realizzato in America, che renda possibile un ampio autogoverno locale. Egli indica poi nell'associazionismo e nella libertà di stampa due importanti antidoti al potere onnipervasivo del nuovo Leviatano. Un'associazione, egli dice, sia essa politica o economica o letteraria o scientifica, "è come un cittadino illuminato e potente, che non può essere assoggettato a piacere, né oppresso in segreto" (ibid., p. 818). La libertà di stampa, a sua volta, è lo strumento attraverso il quale il singolo può rivolgersi alla nazione intera, esprimendole le proprie ansie, le proprie esigenze, i propri ideali, i propri timori. È l'autonomia della società civile dal potere politico e burocratico che sta a cuore a Tocqueville; e al tempo stesso gli stanno a cuore il pluralismo e la ricca articolazione della società civile medesima, che permettono all'individuo di vivere in un quadro di vera e piena libertà. In questo modo è possibile neutralizzare i pericoli insiti nella democrazia, e quest'ultima può coniugarsi col liberalismo. Ma il pensatore liberale che ha espresso nel modo più suggestivo l'incontro fra liberalismo e democrazia è stato probabilmente John S. Mill. Anche Mill è ben consapevole dei pericoli, messi in rilievo da Tocqueville (di cui fu ammiratore), che la società democratica cova nel proprio seno contro lo spirito e la prassi liberali; ma, a differenza di Tocqueville, Mill non provò una sorta di "terrore religioso" verso quella società, e si mostrò fiducioso che fosse possibile superare gli inconvenienti della democrazia.Il fatto è che nella riflessione di Mill confluisce tutta la ricca e complessa vicenda politica inglese dell'Ottocento, a partire dalla grande battaglia per la riforma elettorale. Già alla fine del Settecento la rivoluzione industriale aveva creato in Inghilterra un vasto ceto manifatturiero, che era del tutto escluso dall'assetto politico. L'aristocrazia terriera monopolizzava non solo la Camera dei Lord, ma anche quella dei Comuni, i cui rappresentanti erano nominati, nella loro grande maggioranza, da collegi interamente soggetti ai grandi proprietari. "Di fronte a contee e a borghi formati da poche decine di elettori, dipendenti da un padrone e votanti pubblicamente, sotto il controllo di questo, v'erano i nuovi ceti industriali, o affatto privi di rappresentanze, o forniti di rappresentanze privilegiate, a guida degli altri collegi: il che rendeva anche più stridente il contrasto tra le forze effettive e i pochi possessori dei diritti politici" (v. De Ruggiero, 1962, pp. 92-93). Nell'aspra battaglia che fu ingaggiata per la riforma elettorale ebbero un ruolo fondamentale i seguaci di Bentham: nel 1823 James Mill (padre di John Stuart) e i suoi amici fondarono la "Westminster review", per esporre e diffondere le loro vedute. Il loro obiettivo essenziale era la riforma del sistema politico inglese, sulla base di una più autentica rappresentanza popolare. Essi promossero una forte agitazione politica, che si diffuse in tutto il paese e portò presto i suoi frutti: nel 1824 e nel 1825 furono tolti i divieti delle coalizioni operaie; nel 1829 fu votata dal Parlamento l'emancipazione dei cattolici, nel 1832 fu realizzata la grande riforma elettorale, che era, certo, frutto di un compromesso, e come tale lasciava insoddisfatti i radicali (i quali continueranno a battersi per una riforma più incisiva, basata sul suffragio universale), ma che poneva le premesse indispensabili per svolgimenti ulteriori (ibid., pp. 101-102).
Tutti gli umori di questa grande vicenda (che è la vicenda del passaggio della società inglese da un assetto liberale ad assetti sempre più vicini alla liberaldemocrazia) si ritrovano, come abbiamo detto, nell'opera di John S. Mill. Il quale è fermamente convinto che la miglior forma di governo sia quella che investe della sovranità l'intera comunità, e in cui ciascun cittadino è chiamato, di quando in quando, a prendere parte effettiva al governo con l'esercizio di qualche funzione pubblica locale o generale. In particolare, la superiorità dello Stato democratico-rappresentativo riposa, secondo Mill, su due principî fondamentali. Il primo principio è che i diritti o gli interessi di chicchessia hanno la sicurezza di non essere mai trascurati solo là dove gli interessati posseggano essi stessi la forza di difenderli; il secondo principio è che la prosperità della cosa pubblica tanto più aumenta, quanto più le capacità politiche individuali (di tutti gli individui, o della maggior parte di essi) abbiano modo di svilupparsi. Ne consegue che lo Stato democratico-rappresentativo deve sollecitare il maggior numero di persone a partecipare al governo.
Sulla base di questi principî Mill è non solo un difensore del suffragio più esteso possibile (ne esclude gli analfabeti e coloro che vivono dell'elemosina delle parrocchie), ma anche un convinto proporzionalista. Una maggioranza di elettori, egli afferma, dovrebbe sempre avere una maggioranza di rappresentanti, e una minoranza di elettori dovrebbe sempre avere una minoranza di rappresentanti. Là dove le minoranze non sono rappresentate, i loro diritti sono inevitabilmente disconosciuti e i loro interessi conculcati.Il pensiero liberale del Novecento considera ormai come un dato acquisito che la democrazia debba essere considerata come il naturale sviluppo dello Stato liberale (se la si prende, beninteso, non dal lato del suo ideale sociale egualitario, bensì dal lato della sua formula politica, che è la sovranità popolare; v. Bobbio, 1986, p. 30). Come ebbe a osservare acutamente De Ruggiero, "non appena il liberalismo sorpassa lo stadio feudale e ripudia il concetto della libertà come privilegio o monopolio tradizionale di pochi, per assumere quello di una libertà come diritto comune, almeno potenzialmente, a tutti, esso è già sulla stessa strada della democrazia". Certo, storicamente questo passaggio è stato tutt'altro che facile e tutt'altro che indolore, per le resistenze opposte dai ceti e dagli ambienti più conservatori (basti pensare agli sforzi che sono stati necessari, in alcuni paesi d'Europa, per l'allargamento del suffragio). E tuttavia, una volta aboliti privilegi e monopoli, una rigida divisione di ambiti tra liberalismo e democrazia non è più possibile, e anzi il loro territorio è comune. E infatti essi hanno finito col coincidere nella concezione formale dello Stato, fondata sul riconoscimento dei diritti individuali e della capacità del popolo a governarsi da sé. "L'estensione democratica dei principî liberali - ha affermato ancora De Ruggiero - ha avuto il suo pratico complemento con la concessione dei diritti politici a tutti i cittadini e con la immissione degli strati più bassi della società nello Stato; e l'assimilazione ha potuto effettuarsi senza modificare essenzialmente la struttura politica e giuridica delle istituzioni liberali, confermando così l'unità dei principî" (v. De Ruggiero, 1962, pp. 357-359).
E tuttavia - come ha rilevato lo stesso Autore - fra i concetti di liberalismo e di democrazia (e fra le due realtà e le due culture che essi sottendono) c'è una differenza profonda di mentalità politica, che dà luogo a seri e durevoli conflitti sul terreno della pratica. "Innanzi tutto, vi è nella democrazia una forte accentuazione dell'elemento collettivo, sociale, della vita politica, a spese di quello individuale" (ibid., p. 359). Tale elemento collettivo si rafforza nella società industriale, che vede un doppio accentramento, capitalistico e operaio, il quale annega nell'organizzazione di categoria - sia essa il trust o il sindacato - le iniziative spontanee e autonome. "Questi convergenti impulsi - aggiungeva De Ruggiero - hanno servito a capovolgere gradualmente l'originario rapporto che la mentalità liberale aveva istituito fra l'individuo e la società: non è la cooperazione spontanea delle energie individuali che crea il carattere e il valore dell'insieme, ma è questo che determina e foggia i suoi elementi. [...] Il logico sviluppo di siffatta tendenza porta non soltanto a disconoscere l'efficacia formatrice della libertà, ma anche a comprimerla e a deprimerla" (ibid.).
Inoltre, c'è una sostanziale differenza di atteggiamento, fra liberalismo e democrazia, verso le decisioni della maggioranza. Come ha osservato Friedrich von Hayek, dal punto di vista del liberale è necessario che solo quanto è accettato dalla maggioranza diventi legge, ma non è da credere che ciò basti a renderla una buona legge; dal punto di vista del democratico, invece, il solo fatto che la maggioranza voglia qualcosa è sufficiente per considerare buono ciò che essa vuole.Ancora: per il liberale è indispensabile, in primo luogo, che la maggioranza osservi determinati principî e determinate regole; e, in secondo luogo, che il processo di formazione della maggioranza sia indipendente e spontaneo. Ciò però presuppone l'esistenza di vaste sfere libere dal controllo della maggioranza medesima, entro le quali si formano le opinioni individuali. Il democratico, invece, è portato, per mentalità e per cultura, a sottovalutare queste esigenze, fondamentali per il liberale (cfr. F. von Hayek, The constitution of liberty, Chicago 1960; tr. it., La società libera, Firenze 1969, pp. 127-133). E, insomma, "ci sono delle libertà che esorbitano dalla sensibilità della democrazia, così come ci sono delle eguaglianze che non sono apprezzate dal liberalismo" (v. Sartori, 1958², p. 238).
La discussione del rapporto che intercorre fra liberalismo e democrazia ci porta dunque a discutere il rapporto fra liberalismo ed eguaglianza. Si tratta di un problema assai delicato, perché nelle moderne società democratiche è sempre viva l'aspirazione all'eguaglianza sociale, variamente recepita da partiti politici e da organizzazioni sindacali (sempre più potenti in una società democratico-industriale). Senonché, come ha osservato Bobbio in modo perentorio (ma qui la perentorietà va a tutto vantaggio della chiarezza), "libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel senso che non si può attuare pienamente l'uno senza limitare fortemente l'altro: una società liberal-liberista è inevitabilmente inegualitaria così come una società egualitaria è inevitabilmente illiberale". E mentre per il liberale il fine principale della società è l'espansione della personalità individuale - anche se lo sviluppo della personalità più ricca e dotata può andare a detrimento dello sviluppo della personalità più povera e meno dotata - per l'egualitario il fine principale è lo sviluppo della comunità nel suo insieme, anche a costo di diminuire la sfera di libertà dei singoli (v. Bobbio, 1986, p. 27).
Sul rapporto libertà-eguaglianza c'è una vastissima letteratura, corrispondente all'intenso dibattito svoltosi su questo tema nel nostro secolo, e in questa sede non è certo possibile riassumerlo. Qui basti dire che il pensiero liberale più coerente e più maturo ha sempre respinto la svalutazione della libertà civile e politica a favore dell'eguaglianza sociale. La libertà civile e politica è stata considerata sempre fondamentale dai liberali, perché senza di essa c'è solo il regime del privilegio insieme a quello dell'arbitrio (come i regimi totalitari hanno mostrato nel modo più convincente e più terribile), e quindi senza libertà civile e politica non possono essere raggiunte nemmeno quelle libertà sociali che stanno giustamente a cuore anche al liberalismo più avanzato. Senza libertà civile e politica, insomma, non ci può essere nemmeno giustizia sociale (la quale è sempre il risultato di una dialettica politica in cui devono avere libero gioco i partiti, i sindacati, i movimenti d'opinione, ecc.).
A ciò si può aggiungere che lo stesso ideale fatto proprio da diversi filoni del pensiero liberale contemporaneo, che siano assicurate a tutti le stesse opportunità, è un'esigenza che ha un senso solo in una società integralmente libera: ovvero in una società in cui gli individui possano affermare le proprie potenzialità in tutti i campi (economico, professionale, culturale, politico) senza incontrare vincoli e condizionamenti, senza trovare limitazioni e ostacoli.Problemi assai delicati nascono, per il pensiero liberale, dall'esigenza di assicurare alla collettività determinati servizi e determinate provvidenze (quali sono assicurate oggi dal cosiddetto 'Stato del benessere'), poiché ciò implica una forte ridistribuzione della ricchezza e un ampio intervento dello Stato in molti settori della vita sociale, cioè implica l'esercizio di una serie di poteri e l'adozione di una serie di misure da parte del governo, che vengono sentiti da molti liberali come una seria minaccia (si pensi, a questo proposito, alle analisi di von Hayek). A dire il vero, ben pochi liberali hanno contestato, in passato, le esigenze e le finalità del cosiddetto Stato del benessere (Welfare State). Su questo punto si è registrata una sostanziale convergenza fra liberali e democratici, o addirittura fra liberali e socialisti. Come ebbe a rilevare Luigi Einaudi (op. cit., pp. 211-212), "su taluna maniera di porre rimedio alla disuguaglianza nei punti di partenza vi ha sostanziale concordia fra liberali e socialisti ed è per quel che riguarda l'apprestamento - a spese di tutti, e cioè dei contribuenti, ossia, formalmente, dello Stato, degli enti pubblici e delle varie specie di opere di bene, coattive o volontarie - di mezzi di studio, di tirocinio e di educazione aperti a tutti. [...] Ad uguale sentenza si giunge rispetto a quei provvedimenti intesi ad instaurare parità di punti di partenza tra uomo e uomo con le varie specie di assicurazioni sociali: contro la vecchiaia e la invalidità, contro le malattie, a favore della maternità, contro la disoccupazione e simiglianti". E anche uno scrittore liberale come von Hayek, noto per le sue posizioni contrarie allo Stato-Provvidenza, dopo aver rilevato che "tutti gli Stati moderni hanno adottato provvedimenti per gli indigenti, gli sfortunati, gli invalidi, e si sono preoccupati dei problemi sanitari e della diffusione della scienza", ha affermato che "non c'è ragione che, con il generale aumento della ricchezza, non aumenti anche il volume di queste attività di puri e semplici servizi", e che è impossibile negare che, quanto più ci arricchiamo, tanto più dovrà aumentare il ruolo dello Stato nel settore delle assicurazioni sociali e dell'educazione (op. cit., pp. 291-292).
La differenza, semmai, fra liberali e democratici, e fra liberali e socialisti, sorge sui modi e sui criteri di applicazione di tali provvedimenti. Poiché mentre i primi (come dice Einaudi) sono più attenti ai meriti e agli sforzi della persona, e quindi sono propensi a mantenersi stretti nell'ammontare dei sussidi, i secondi, invece, sono pronti a maggiori larghezze. E, più in generale, mentre il liberale "vuole porre le norme, osservando le quali risparmiatori, imprenditori, lavoratori possono liberamente operare", il socialista, invece, "vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori e lavoratori anzidetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico; il socialista indica od ordina le maniere dell'operare" (cfr. Einaudi, op. cit., pp. 213-218). E von Hayek, a sua volta, traccia quella che egli ritiene un'importante distinzione tra due diversi modi di concepire la sicurezza: "C'è una limitata sicurezza che può essere realizzata per tutti e che pertanto non è un privilegio, e una sicurezza assoluta, che, in una società libera, non può essere garantita a tutti. La prima è la sicurezza contro le privazioni fisiche gravi, la certezza di un minimo di mezzi di sussistenza per tutti; la seconda è la certezza di un dato livello di vita, che si determina mettendo a confronto il livello di vita di cui godono gli uni con quello di cui godono gli altri. La distinzione da fare, quindi, è tra la sicurezza di un reddito minimo uguale per tutti e la sicurezza di un particolare reddito che si ritiene una persona dovrebbe avere" (op. cit., pp. 293-294).
Da questa impostazione risulta escluso, naturalmente, qualunque modello di giustizia distributiva. Per il liberale, infatti, da un lato non esistono principî generali di giustizia distributiva universalmente riconosciuti, e, dall'altro lato, anche se fosse possibile raggiungere un accordo su di essi, non li si potrebbe imporre a una società in cui gli individui debbono essere liberi di impiegare le loro capacità e le loro cognizioni per il conseguimento di fini privati. Imporre alla società una gerarchia di fini - ha affermato von Hayek - equivarrebbe a chiedere agli individui di fare ciò che è necessario nella prospettiva di un programma autoritario: cioè significherebbe realizzare un modello che è esattamente l'opposto della società liberale.Inoltre il liberale auspica (per usare di nuovo le parole di von Hayek) che nell'attuazione dei servizi e delle assicurazioni sociali venga lasciata aperta la possibilità di un intervento per l'iniziativa privata ogni qualvolta ciò appaia concretamente fattibile; che tali servizi siano gestiti, finché è possibile, dalle autorità locali, anziché da quelle centrali; e che infine la maggior parte dei servizi di previdenza sociale siano forniti mediante la creazione di istituti assicurativi concorrenziali, al fine di evitare il monopolio di un'unica macchina burocratica sempre più vasta e potente, il cui controllo da parte della collettività è assai problematico, mentre i danni che essa arreca agli interessi e alla libertà dei cittadini sono sicuri. "Invece - ha aggiunto von Hayek - la decisione di fare dell'intero campo delle assicurazioni sociali un monopolio statale, nonché quella di trasformare l'apparato costruito a tale scopo in un grande meccanismo di ridistribuzione del reddito, hanno condotto a una crescita progressiva del settore pubblico dell'economia (ossia del settore controllato dallo Stato) e a un costante restringimento di quell'area dell'economia in cui ancora prevalgono i principî liberali" (v. Hayek, 1978, pp. 990-991).
Nel Novecento i pensatori liberali sono diventati sempre più sensibili alla connessione fra istituzioni e mentalità liberali da un lato e contesti socioeconomici dall'altro lato. Se nel corso dell'Ottocento le preoccupazioni espresse in questa direzione dal pensiero liberale si erano concentrate sui pericoli di massificazione, di conformismo generale, di tirannide della maggioranza, insiti nel passaggio dalla società liberale alla società liberaldemocratica, nel nostro secolo, invece, esse si sono concentrate soprattutto sulle trasformazioni che l'economia e la società civile subiscono o potranno subire a opera dei cartelli, dei trusts e dei monopoli da un lato, e dei movimenti socialisti e comunisti dall'altro lato. Le istituzioni liberali potranno o no sopravvivere a limitazioni sempre più consistenti della libertà di intrapresa, di commercio, di iniziativa individuale? E inoltre, la società socialista (che nella prima metà del nostro secolo costituiva l'ideale sociale e politico di grandi partiti politici e di grandi movimenti d'opinione in numerosi paesi) è compatibile o no col liberalismo? Questi interrogativi si sono imposti con forza ai pensatori liberali, e nel nostro paese essi hanno suscitato una vivace e vigorosa discussione fra Luigi Einaudi e Benedetto Croce.
Croce aveva affermato che se il comunismo avesse avuto ragione nel ritenere che l'ordinamento capitalistico ha come effetto di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, il liberalismo non avrebbe potuto se non approvare e invocare per suo conto l'abolizione della proprietà privata, poiché "l'idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà privata della terra e delle industrie". Il promovimento della libertà, aveva detto ancora Croce, è l'unico criterio con cui l'idea liberale misura istituti politici e ordinamenti economici, in rapporto alle varie situazioni storiche, a volta a volta accettandoli o respingendoli secondo che quegli istituti serbino o perdano efficacia per il suo fine. Del resto, precisava il filosofo napoletano, "l'ideale liberale ha natura religiosa", e solo muovendo dalla libertà come esigenza morale è dato interpretare la storia nella quale questa esigenza si è affermata e ha creato di volta in volta le proprie istituzioni secondo che di volta in volta è stato possibile nelle varie epoche: "come monarchie feudali e come repubbliche comunali, come monarchie assolute e come monarchie costituzionali, e via dicendo, e anche come vario ordinamento della proprietà nell'economia a schiavi, a servi e a salariati, nella massima del lasciar fare e lasciar passare, e nell'altra, diversa, dell'intervento statale, e via" (cfr. B. Croce e L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, Napoli 1957, pp. 134-135).
A queste posizioni di Croce (che coincidevano largamente, su questo punto, con quelle di Kelsen), Einaudi obiettò, in primo luogo, che un liberalismo il quale accettasse l'abolizione della proprietà privata e l'instaurazione del comunismo, in ragione di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, non sarebbe più liberalismo, e che l'essenza di quest'ultimo, che è la libertà, non può sopravvivere là dove la società civile è interamente dominata e plasmata dallo Stato (ibid., p. 128). Inoltre, a Einaudi non sembrava accettabile "la tesi che la libertà possa affermarsi qualunque sia l'ordinamento economico e anche nell'economia a schiavi o a servi". In realtà, egli ribatteva, "l'idea liberale trionfa e si perfeziona non con l'uso dello strumento della schiavitù, bensì col negarlo e collo sforzarsi di spezzarlo e di sostituirlo con altro più congruo" (p. 136). In particolare, a Einaudi sembrava che nel mondo contemporaneo due sistemi economici, diversissimi fra loro nei presupposti ma assai simili nei risultati, negassero in eguale misura la libertà umana: il comunismo e il capitalismo monopolistico. Tali sistemi, diceva Einaudi, "tendono, per l'indole loro propria, a ridurre gli uomini a meri strumenti, anelli minimi di una ferrea catena che lavora e produce", "a imprimere uno stampo uniforme su tutti gli uomini, a farli svegliare, muovere, entrare in certi luoghi di lavoro, che si direbbe di pena, alla stessa ora, a compiere i medesimi atti". Ma se questo era vero, perché affermare che la libertà morale può prosperare in qualunque ordinamento economico? "Se la filosofia indaga la realtà, perché chiudere gli occhi al fatto che in certi ordinamenti economici la libertà è l'appannaggio di pochissimi eroi o ribelli?" (p.144).
Per questo, secondo Einaudi, gli economisti neoliberali non potevano accettare l'atteggiamento di quasi indifferenza con cui Croce guardava ai mezzi economici (liberismo, protezionismo, monopolismo, economia regolata e razionalizzata, autarchia economica, ecc.), ciascuno dei quali poteva, a giudizio del filosofo napoletano, essere adottato o rigettato a seconda delle varie situazioni storiche. Era vero, invece, che il liberalismo ha come base il liberismo, inteso come iniziativa individuale, operosità, libera concorrenza come selezione di capacità e via dicendo. "Cadendo nel protezionismo, nel parassitismo di industrie e di lavoratori verso lo Stato, ecc. - concludeva Einaudi - ci si avvia a negare anche il liberalismo nel suo valore più schiettamente politico e morale" (p. 158).
Oggi lo stretto rapporto che intercorre fra liberalismo e contesti socioeconomici è un dato fermamente acquisito dal più maturo pensiero liberale, e posizioni come quelle sostenute da John Dewey negli anni trenta (gli anni della grande depressione) - che il liberalismo dovesse abbandonare ogni mentalità liberistica e costruirsi strumenti ideali e politici di tutt'altro tipo, fino a far propria l'idea della socializzazione delle forze produttive e correlativa pianificazione dell'economia (Liberalism and social action, New York 1935) - sarebbero del tutto improponibili. Chi si è impegnato di più a lumeggiare e a discutere il rapporto fra liberalismo e contesti socioeconomici è stato, dopo L. von Mises, Friedrich von Hayek. In pagine assai importanti egli ha messo in rilievo la profonda connessione esistente fra la sfera intellettuale e scientifica - in cui il progresso delle conoscenze ha luogo in modi e secondo itinerari assolutamente imprevedibili, essendo il risultato di una combinazione di concetti, di scoperte e di circostanze estremamente vari, a volte addirittura fortuiti, e appartenenti sempre ai più vari campi del sapere -e la sfera socioeconomica. "La libertà d'azione, anche nelle cose umili, - dice Hayek - è tanto importante quanto la libertà di pensiero. È diventato d'uso comune svilire la libertà d'azione chiamandola 'libertà economica'. Ma il concetto di libertà d'azione è molto più ampio di quello di libertà economica, che vi è ricompreso, e - cosa ancor più importante - è discutibile che esistano mere azioni 'economiche' e che possano applicarsi restrizioni alla libertà limitatamente ai cosiddetti aspetti puramente 'economici"'. In realtà, secondo Hayek, esaltare il valore della libertà intellettuale a detrimento della libertà sociale equivale a considerare il cornicione da solo come se fosse tutto l'edificio. Tale punto di vista non comprende che abbiamo idee nuove da discutere e visuali diverse da confrontare, ed eventualmente da adattare e da combinare fra loro, solo perché quelle idee e quelle visuali sono nate dagli sforzi fatti in tutte le nuove circostanze dagli individui che nei loro compiti concreti hanno sperimentato nuovi metodi e nuovi strumenti (The constitution of liberty, cit.; tr. it., pp. 54-55). Proprio per questo la società deve essere integralmente libera (e quindi estremamente varia) a tutti i livelli, socioeconomici e intellettuali. (Sul pensiero di Hayek ha esercitato un influsso profondo la Inquiry di Smith, da lui ritenuta "in misura forse maggiore di qualsiasi altra opera, l'inizio del pensiero liberale moderno").
Nel nostro secolo il liberalismo ha dovuto misurarsi con profondi mutamenti economici, sociali e politici, e ha dovuto sostenere grandi sfide. L'ulteriore balzo in avanti dell'industrializzazione (fondata sul motore a scoppio e sulle macchine elettriche), la vastissima urbanizzazione e l'avvento della società di massa (nel 1910 Londra e New York avevano ormai più di cinque milioni di abitanti, Parigi circa tre, Vienna due, Berlino quasi quattro milioni) hanno prodotto forti inquietudini sociali e politiche e creato un clima non favorevole al liberalismo. "Queste masse di salariati e di stipendiati - ha scritto G. Lichtheim - non potevano accontentarsi delle vedute individualistiche tipiche della borghesia europea nella sua fase creativa; erano attratte dai nuovi slogan: da una parte il nazionalismo, dall'altra il socialismo" (Europe in the twentieth century, London 1972; tr. it., Roma-Bari 1973, p. 38). Il processo di 'massificazione' (che è stato analizzato da un'ampia letteratura), con i suoi stereotipi, il suo conformismo, la sua burocratizzazione, ecc., non poteva non mettere in discussione i fondamenti della mentalità e della cultura liberali (come Tocqueville aveva previsto). A ciò bisogna aggiungere che dopo il decennio 18701880, in cui il liberalismo europeo aveva raggiunto il proprio apice, incominciò a imporsi sempre più una politica di protezionismo e di interventi statali. Tali interventi venivano chiesti dai socialisti in nome del movimento operaio, dai nazionalisti a sostegno delle loro rivendicazioni, e dalle associazioni industriali e finanziarie. "Tutti quanti contribuivano a spingere l'intervento dello Stato oltre il punto considerato accettabile dalla dottrina liberale classica, che assegnava alle autorità pubbliche una funzione regolatrice soltanto nei confronti di quelle attività che esorbitavano chiaramente dalle capacità dei privati" (ibid., p. 39).Ma gli avvenimenti più sconvolgenti del nostro secolo sono stati il sorgere e il consolidarsi dei grandi regimi totalitari: del comunismo bolscevico in Russia, del fascismo in Italia, del nazionalsocialismo in Germania. I liberali hanno dovuto confrontarsi in primo luogo con queste realtà epocali e drammatiche, e nella battaglia contro la 'società chiusa' dei totalitarismi hanno difeso i principî e le ragioni della 'società aperta', ovvero della società liberaldemocratica, ritrovando in tale battaglia una più profonda fiducia in se stessi e nella superiorità dei propri ideali.
La società aperta e i suoi nemici è appunto il titolo di una celebre opera di K. Popper pubblicata nel 1945 (scritta quindi negli anni bui della seconda guerra mondiale). Per Popper la 'società aperta' è una società fondata sul razionalismo critico o scientifico; e come in campo scientifico non esiste una teoria assolutamente vera (poiché ogni teoria sarà sostituita prima o poi da un'altra teoria, più soddisfacente e adeguata), così in campo sociale e politico non esiste un assetto perfetto e definitivo. Ogni assetto istituzionale è sempre rivedibile e migliorabile. Ma se una società perfetta non può esistere, non può esserci nemmeno un intervento politico risolutivo di tutti i problemi sociali. Gli interventi per modificare la società devono essere quindi sempre parziali, graduali, per migliorare questa o quella situazione: non possono essere utopistici e olistici. In questo quadro di ingegneria sociale (l'unico possibile) la discussione e il confronto fra posizioni e soluzioni diverse (a tutti i livelli: dai partiti ai sindacati, ai giornali, al parlamento) sono essenziali e fondamentali. Il pluralismo culturale e politico deve dunque essere garantito e istituzionalizzato, e il momento del dissenso è, in fondo, ancora più prezioso di quello del consenso. La 'società aperta' (contrapposta a qualunque tipo di società teocratica, o comunque fondata su valori indiscutibili) è l'unico tipo di società in grado di dare adeguata soluzione ai conflitti sociali e di assicurare un reale, anche se graduale, progresso della società civile.
L'enorme superiorità dei regimi costituzional-pluralistici sui regimi autoritari o totalitari, non solo 'di destra' ma anche 'di sinistra', è stata sostenuta con vigore anche da quei pensatori liberali che, come Raymond Aron, si sono ispirati, nelle loro analisi, alle teorie elitistiche. Ogni regime politico, ha affermato Aron, è oligarchico, poiché tutte le società - per lo meno tutte le società complesse - sono governate da un piccolo numero di uomini. A questa sorte non sfuggono nemmeno le società liberaldemocratiche. "La sovranità popolare - ha detto Aron - non significa che la massa dei cittadini prenda essa stessa, direttamente, le decisioni relative alle finanze pubbliche o alla politica estera. È assurdo paragonare i regimi democratici moderni all'idea irrealizzabile di un regime in cui il popolo si governi da sé" (Démocratie et totalitarisme, Paris 1965; tr. it., Milano 1973, p. 111). Detto questo, però, Aron ha messo in rilievo la profonda trasformazione che i regimi costituzional-pluralistici hanno subito nel passaggio dalla fase liberale alla fase liberaldemocratica. Nel XIX secolo, in Gran Bretagna e in Francia, era difficile penetrare nella minoranza governativa quando non si era dalla parte buona della barricata, a meno che non ci fosse una rivoluzione. Il quadro è poi profondamente mutato: oggi le minoranze dirigenti sono molto più aperte di quanto fossero nel secolo scorso, per ragioni che dipendono anche dalla struttura delle società industriali. Infatti, quanto più il sistema di istruzione si allarga, quanto più aumentano le possibilità di selezione e di ascesa sociale, tanto più il regime politico diventa democratico. E non solo i regimi costituzional-pluralistici sono meno oligarchici di tutti i regimi conosciuti finora, ma in essi, anche se le minoranze economicamente dominanti sono sempre legate in certa misura agli ambienti politici dirigenti, il potere politico è separato dal potere economico. Coloro che esercitano le funzioni politiche più importanti non sono gli stessi che detengono le posizioni economiche più importanti. Questo dualismo di élite economica e di personale politico ha, per Aron, una grande rilevanza, perché comporta una divisione del potere, e quindi lascia al cittadino margini di libertà più ampi rispetto ai regimi nei quali potere socioeconomico e potere politico sono concentrati nelle stesse mani (come è avvenuto negli Stati totalitari comunisti). Inoltre, la difesa che Aron ha fatto dei regimi costituzional-pluralistici non si fonda soltanto sulla constatazione del maggior benessere e delle maggiori chances sociali che essi assicurano, ma anche su alcuni valori o principî che essi realizzano: la libertà e la legalità. "I regimi pluripartitici - ha detto infatti Aron - derivano dai regimi costituzionali o liberali, e vogliono mantenere i valori del liberalismo nell'ambito di una politica divenuta democratica. Il potere dev'essere esercitato in conformità di precise norme, i diritti degli individui devono essere rispettati, e i governanti devono avere abbastanza autorità per poter agire in maniera efficace" (ibid., p. 89). Nella riflessione di Aron, dunque, fra liberalismo e democrazia scompare ogni tensione, ed essi sono concepiti come assolutamente complementari, perché solo la democrazia può assicurare benessere e un'ampia selezione sociale delle élites dirigenti, e solo il liberalismo può garantire che tutto ciò avvenga in un quadro di rigoroso rispetto delle norme e dei diritti individuali.Le società liberaldemocratiche hanno ampiamente vinto il confronto con il mondo comunista, assai prima che questo crollasse come di schianto. A partire dal 1956 (l'anno della denuncia, fatta da Chruščëv, dello stalinismo, e della rivoluzione ungherese) è apparso sempre più chiaro a tutti che la società sovietica e le società dei paesi satelliti erano caratterizzate da un lato dal dominio di apparati burocratici fondato sul terrore poliziesco e sulla negazione di tutti i diritti civili e politici dei cittadini, e dall'altro lato da un'estrema penuria di beni materiali. Le società liberaldemocratiche, al contrario, non solo si sono mostrate capaci di garantire i diritti civili e politici dei cittadini, ma sono diventate società sempre più ricche. Questo però non ha eliminato in tali società gravi questioni sociali, dovute all'esistenza di larghe fasce di povertà e di disoccupazione; di qui molti e seri problemi relativi all'esercizio della cittadinanza nel senso pieno della parola.
Su questi problemi si è svolto negli ultimi decenni, e continua a svolgersi, un intenso dibattito nel pensiero etico-politico di ispirazione liberale, con esiti e soluzioni, però, radicalmente diversi tra loro. Così, John Rawls (A theory of justice, Cambridge, Mass., 1971) ha espresso preoccupazioni di giustizia sociale, ed è partito nella sua riflessione da due principî: il primo di ispirazione liberale ("ciascun individuo possiede un eguale diritto a una libertà di base la più estesa possibile, compatibile con altrettanta libertà per gli altri"), il secondo ispirato da ideali di giustizia distributiva ("le disuguaglianze sociali ed economiche debbono essere strutturate in modo tale da essere: a) volte al vantaggio dei meno favoriti e b) connesse a posizioni e cariche accessibili a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità"); R. Nozick, invece, ha teorizzato lo 'Stato minimo', e, interessato soltanto alla giustizia commutativa, fondata sui contratti fra privati (la cui tutela è l'unico compito dello Stato), ha criticato aspramente qualunque forma di giustizia distributiva, fino ad affermare che "la tassazione dei guadagni di lavoro è sullo stesso piano del lavoro forzato" (Anarchy, State and utopia, New York 1974). Le posizioni di Rawls e di Nozick incarnano due ispirazioni radicalmente differenti (Nozick è convinto che una società è tanto più ricca e più libera quanto più è ridotto il ruolo dello Stato), e attestano una profonda lacerazione nel pensiero liberale degli ultimi decenni del nostro secolo. Una lacerazione destinata probabilmente ad aggravarsi con la crisi dello 'Stato del benessere' manifestatasi in diversi paesi e con la necessità sempre più evidente di ridimensionare, a causa dei loro costi eccessivi, le garanzie e le protezioni che quello Stato assicura. (V. anche Costituzionalismo; Costituzioni; Democrazia; Eguaglianza; Giusnaturalismo e giuspositivismo; Liberismo; Libertà).
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