Magistratura
In tutte le società caratterizzate da un certo grado di differenziazione strutturale esistono ruoli specializzati cui viene affidato istituzionalmente il compito di risolvere in via autoritativa le controversie che nascono dall'applicazione delle norme riconosciute. I titolari di questi ruoli vengono di norma denominati 'giudici', così come l'insieme dei giudici è denominato 'magistratura'. In realtà, in alcuni paesi fanno parte della magistratura anche i titolari della pubblica accusa, cioè coloro che svolgono le funzioni di pubblico ministero. È questo il caso di Francia e Italia. Altrove, per esempio nei paesi anglosassoni, o anche in Germania, dove giudici e pubblici ministeri appartengono a corpi separati, con un termine - judiciary, Richtertum - si designano i giudici, con un altro - public prosecution, Staatsanwaltschaft - i pubblici ministeri.
Così, per sistema giudiziario si può intendere quel complesso di strutture, procedure e ruoli mediante il quale il sistema politico svolge la funzione fondamentale di aggiudicazione delle norme (v. Marradi, 1983). Come si può notare, il rapporto fra sistema politico e sistema giudiziario, che diventa in questa prospettiva un sottosistema del primo, è strettissimo, con la conseguente intrinseca politicità della funzione svolta dalla magistratura. Naturalmente, considerare politica l'attività della magistratura non implica che i giudici debbano essere considerati attori politici del tutto simili agli altri. In realtà, non solo la funzione giudiziaria presenta delle sue proprie specificità ma, e questo vale soprattutto per i regimi democratici, i giudici, pur facendo parte del sistema politico, vi sono inseriti in modo radicalmente differente dagli altri attori politici. Comunque, per comprendere i caratteri del loro agire, così come le conseguenze del loro comportamento per l'ambiente in cui operano, è necessario partire da un'analisi della logica sottesa al loro operare.
La risoluzione di controversie tramite l'intervento di un terzo è un procedimento ben conosciuto e diffuso in molte, se non in tutte le società (v. Dawson, 1968; v. Shapiro, 1981). In genere, l'intervento di un terzo tende a far sì che la controversia venga risolta in modo relativamente rapido e pacifico. Nella realtà sono presenti vari tipi di intervento da parte del terzo, cioè di procedimenti triadici, caratterizzati dalla diversa importanza che esso assume per il componimento della lite.Prescindendo qui da interventi molto semplici come quello del messaggero, cioè di colui che si limita a svolgere il compito di trasmettere notizie fra le due parti in conflitto, un procedimento triadico in cui il terzo inizia ad acquistare un certo rilievo è quello che vede la presenza di un mediatore. Il mediatore, infatti, ha la possibilità di assumere un ruolo attivo, e quindi di prendere iniziative e di proporre soluzioni alla controversia. Naturalmente, a parte il suo carattere di soggetto attivo, il mediatore è simile al messaggero nel senso che le sue iniziative, e il loro successo, dipendono interamente dalle parti, che restano sempre libere di respingere in ogni momento le sue proposte. Quindi, che esso venga scelto da una sola delle parti o da entrambe è relativamente indifferente, dato che in un caso o nell'altro le parti sono sempre libere di rifiutarne le indicazioni. In effetti, in ogni momento il terzo, su iniziativa anche di una sola delle parti, può scomparire di scena.
Un terzo le cui decisioni sono dotate di autorità è l'arbitro. All'arbitro le parti affidano il compito di comporre la controversia, ma nel fare questo si impegnano automaticamente a riconoscere come vincolante la soluzione che egli vorrà darle. Il procedimento arbitrale è sicuramente più efficace, nel senso che è quello che garantisce comunque una soluzione della controversia. Difatti in questo caso, una volta nominato l'arbitro, le parti devono conformarsi alla sua volontà e quindi non sono più libere, come avviene invece con il mediatore, di respingerne le proposte. Se l'efficacia decisionale di questo procedimento è sicuramente maggiore, i rischi cui le parti si espongono sono certamente superiori in quanto con la loro scelta rinunciano alla libertà d'azione di cui prima disponevano. Questo spiega le cautele con cui l'arbitro tende a essere scelto e le regole che spesso deve rispettare nel prendere la propria decisione.
Il procedimento giudiziario - in altre parole, una triade caratterizzata dalla presenza di un giudice - segna un'ulteriore limitazione dei margini di libertà delle parti in conflitto. Difatti, non solo queste sono obbligate a rispettarne le decisioni, ma non possono neanche sceglierlo: il giudice, infatti, diversamente dall'arbitro, viene imposto dall'esterno, dal sistema politico, dallo Stato. Il procedimento giudiziario presenta, almeno rispetto agli altri procedimenti, notevoli vantaggi in fatto di rapidità ed efficacia di risoluzione della disputa. Ma questa maggiore efficacia viene controbilanciata, dal punto di vista delle parti, dai rischi molto maggiori cui vanno incontro a causa della decisione di un terzo su cui non possono esercitare, almeno legittimamente, alcuna influenza diretta. Tanto più che le strutture giudiziarie moderne, pur mantenendo di regola il giudice in una posizione passiva, non hanno bisogno, per attivarsi, che entrambe le parti siano d'accordo. Basta solo che una - l'attore - si rivolga al giudice per citare l'altra - il convenuto - perché questa sia obbligata a utilizzare il procedimento giudiziario per risolvere la disputa. Inoltre, e la cosa avviene soprattutto nel processo penale, spesso è lo Stato stesso che interviene nel conflitto, attraverso il pubblico ministero, dando inizio al procedimento giudiziario, anche al di là della volontà delle parti.
È chiaro che, data questa situazione, il giudice si trova, nei confronti delle parti, in una posizione abbastanza difficile. Deve infatti risolvere il caso pur in assenza di una delle condizioni che stanno alla base del meccanismo triadico come risolutore pacifico ed efficace di controversie: il consenso diretto delle parti nei confronti del procedimento e del terzo. Sta qui la radice della crisi che, almeno potenzialmente, è sempre presente nel procedimento giudiziario (v. Shapiro, 1981, pp. 8 ss.). Inoltre, nella società sono presenti anche altri meccanismi di risoluzione dei conflitti - e alcuni li abbiamo appena illustrati - che non sono colpiti dal deficit di consenso nella misura in cui lo è il giudice e che possono perciò, a certe condizioni, competere con successo con lui.
Così, il procedimento giudiziario mira, in modo più o meno esplicito, ad acquisire il consenso delle parti o quantomeno tale consenso deve poter essere presupposto. Le caratteristiche strutturali del procedimento giudiziario più frequentemente messe in evidenza saranno dunque le seguenti (v. Marradi, 1983; v. Pederzoli, 1990): a) le controversie che nascono dall'applicazione concreta di norme sono risolte con la decisione di un individuo o di un gruppo di individui a ciò istituzionalmente preposti ed estranei alle parti e ai loro interessi: si tratta dei cosiddetti principî della naturalità e imparzialità del giudice; b) di fronte a tali individui entrambe le parti, direttamente o indirettamente, sono in grado di illustrare con prove e testimonianze la loro versione dei fatti, riferendosi a specifiche norme sulla base delle quali dovrebbe essere decisa la disputa e/o a dispute più o meno analoghe (i 'precedenti') risolte nel modo desiderato da organi giudicanti più o meno analoghi: è il principio del contraddittorio; c) l'organo giudicante non può autoattivarsi ma si limita, almeno in linea di principio, a prendere in considerazione gli elementi forniti dalle parti che gli hanno deferito la disputa; d) l'organo giudicante decide la controversia scegliendo, fra le norme preesistenti, quelle che a suo avviso sono applicabili ai fatti. Per facilitare l'accettazione della decisione la scelta di tali norme e la decisione che ne consegue tendono a essere motivate dal collegio giudicante in termini che non lasciano trasparire alcuna considerazione soggettiva. Anzi, si tende a presentare la decisione come l'unica corretta e compatibile con il complesso delle norme e/o decisioni precedenti, suscettibile quindi di essere intesa come la 'risposta' dell'intero sistema sociale piuttosto che del singolo organo giudicante.
Come si può vedere, questi caratteri sono finalizzati soprattutto a garantire l'imparzialità del terzo giudicante e un imparziale trattamento delle parti nel corso del giudizio per giungere così ad un'efficace risoluzione della controversia. Dato che il giudice si trova a dover risolvere la disputa che gli viene presentata in assenza di una delle principali condizioni che permettono alle procedure triadiche di funzionare efficacemente, il consenso esplicito delle parti, si cerca di ovviare a tale deficit di consenso principalmente in due modi: rafforzando l'imparzialità del terzo giudicante, soprattutto la sua apparenza di imparzialità, e introducendo una serie di norme destinate a vincolare la decisione del giudice. Infatti, la presenza di norme preesistenti al giudizio tende ad assorbire la delusione del perdente per il contenuto della decisione che lo ha visto sconfitto, evitando altresì che il giudice ne possa apparire personalmente responsabile (v. Eckhoff, 1965).
Che però, nella realtà, i procedimenti giudiziari non riproducano sempre fedelmente i caratteri della triade dipende soprattutto dal fatto che la risoluzione di controversie non è l'unica funzione che si trovano a svolgere. Anzi, in certi sistemi politici può accadere che si tenda a privilegiare altre funzioni, di tipo amministrativo - come contribuire all'attuazione delle politiche pubbliche o, più in generale, al controllo sociale (v. Shapiro, 1981; v. Damaška, 1986) -, con la conseguenza che i caratteri triadici possono venire offuscati. Si può però in generale affermare che tanto più il procedimento giudiziario si avvicina al modello che abbiamo delineato - come, ad esempio, nel processo penale accusatorio - tanto più elevata risulta la sua capacità di risolvere le controversie che gli sono portate davanti sulla base del consenso delle parti. Di minore efficacia, da questo punto di vista, sono infatti le procedure - come, ad esempio, quella tendenzialmente diadica del processo penale di tipo inquisitorio - che si allontanano dal modello triadico, proprio perché in questi casi, dove un giudice-accusatore confronta l'accusato, viene offuscata l'immagine di imparzialità del terzo giudicante.
Del resto, proprio la sua capacità di risolvere efficacemente controversie fa sì che, anche in contesti caratterizzati da forme non democratiche di autorità politica, il procedimento giudiziario tenda a presentare, almeno in una certa misura, i caratteri tipici della triade (v. Shapiro, 1981, pp. 32 ss.). A maggior ragione, nei regimi democratici le tendenze a far sì che l'amministrazione della giustizia si conformi a tale modello sono più forti: si tratta infatti di regimi che, più di altri, si basano sul consenso, esplicito o implicito, dei membri della comunità politica. Da qui l'importanza particolare che in tali regimi assumono le garanzie volte ad assicurare l'imparzialità del giudice (v. § 3a). Così, le diverse esigenze che si scaricano sul procedimento giudiziario - fra cui non va trascurata quella, di intensità variabile ma sempre presente, della legittimazione politica della magistratura (v. § 3b) - unitamente alle vicissitudini storiche dei singoli paesi, non mancano di influire sui caratteri che esso concretamente assume. Ad esempio, diversa può essere la composizione dell'organo giudicante - con giudici singoli o con collegi, soluzione più frequente in sede d'appello - così come la sua durata: se stabile o formato di volta in volta con riferimento ad un certo insieme di cause o addirittura per una singola controversia, come nel caso della giuria. Diversi possono poi essere i caratteri dei giudici, ad esempio quanto a reclutamento - se per pubblico concorso, nomina, elezione o sorteggio -, rapporto d'impiego - retribuito o onorario - o tipo e livello di preparazione giuridica.
La posizione del giudice, così come l'abbiamo appena descritta, presenta una serie di implicazioni di particolare rilievo. La prima, ovvia ma non priva di importanza per le sue conseguenze (v. § 3b), è che il giudice, trovandosi a risolvere controversie sulla base delle norme poste dal sistema politico, vede la sua attività assumere un'immediata rilevanza politica. Inoltre, l'esigenza di garantire l'imparzialità del giudice implica che egli vada messo al riparo dalle interferenze delle parti, in altre parole che ne venga reso in una certa misura indipendente. L'indipendenza dalle parti in causa è pertanto una condizione necessaria per garantire l'imparzialità - e l'immagine di imparzialità - del giudice. Un giudice che dipende in qualche modo da una delle parti non può essere, né soprattutto apparire, imparziale.
D'altro canto, la presenza di giudici imparziali, perché indipendenti dalle parti in causa, rappresenta un limite alle modalità con le quali in un sistema politico vengono esercitate le pubbliche funzioni, dato che, se ne ha competenza, il giudice può fungere da terzo imparziale in dispute in cui una delle parti è lo Stato o una sua articolazione. Infatti, le garanzie di indipendenza, quando esistono, fanno sì che i giudici possano risolvere tali dispute - e interpretare le norme in tal senso rilevanti - senza essere soggetti a pressioni da parte dello Stato (v. Finer, 1961; v. Eckhoff, 1965).
Nello sviluppo dei sistemi politici occidentali l'inquadramento del giudice nell'apparato statale - o la prevalenza di giudici statali su altri tipi di giudici (v. Tarello, 1976) - ha avuto come conseguenza proprio quella di rendere i giudici adeguatamente garantiti nei confronti delle parti - private - in causa. Ma lo stesso inquadramento del giudice nell'apparato statale pone il problema di una ridefinizione della sua indipendenza, se si vuole che la sua immagine di imparzialità non venga messa a repentaglio quando lo Stato è coinvolto nella causa: l'indipendenza del giudice va intesa allora anche nei confronti di coloro da cui la sua carica dipende, quindi dello Stato stesso (v. Shapiro, 1981, pp. 19-20).
È in questo contesto che la protezione dell'imparzialità dei giudici attraverso un rafforzamento delle loro garanzie di indipendenza diventa una delle richieste del costituzionalismo liberale (v. Costituzionalismo) nella sua lotta per la limitazione del potere (v. Vile, 1967; v. Rebuffa, 1993³). Il processo di costituzionalizzazione è stato definito come "quel processo storico-culturale per cui [...] viene a configurarsi come un rapporto giuridico la relazione intercorrente tra il detentore (o i detentori) del potere politico e coloro che sono soggetti a tale potere", cioè "un rapporto definito da, regolato da, subordinato a, norme giuridiche conoscibili" (v. Tarello, 1976, p. 22). Elemento cardine del costituzionalismo è allora "una struttura della società politica, organizzata tramite e mediante la legge, allo scopo di limitare l'arbitrarietà del potere e di sottometterlo al diritto" (v. Sartori, Elementi..., 1987, p. 21). Sottoporre chi esercita pubbliche funzioni al vaglio di un organismo indipendente diventa, quindi, uno strumento efficace - anzi essenziale - per controllare le modalità di esercizio del potere politico, assicurando il primato della legge: è perciò un elemento fondamentale nella costruzione dello Stato costituzionale. Solo in questo modo, infatti, la risoluzione delle controversie fra cittadino e Stato può essere operata da un terzo imparziale sulla base di norme generali da questi liberamente interpretate. Prende forma così il principio della separazione dei poteri nella formulazione classica di Montesquieu: "Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà" e "non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato da quello legislativo e da quello esecutivo [...]. Tutto sarebbe perduto se un'unica persona, o un unico corpo di maggiorenti, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri [...]" (cfr. Esprit des lois, libro XI, cap. 6).
Quindi, in un sistema politico a tradizione demo-costituzionale, le garanzie di indipendenza dei giudici sono finalizzate in primo luogo a garantirne, o comunque a sostenerne, l'imparzialità nel corso del giudizio e, pertanto, si orientano soprattutto nei confronti dello Stato o, meglio, delle altre istituzioni politiche. Ovviamente, il primo punto di riferimento è l'esecutivo, la struttura di autorità che più spesso è destinata a trovarsi in giudizio. Si pensi al caso del processo penale dove, di regola, una delle due parti in causa è una struttura pubblica, il pubblico ministero, colui che rappresenta la pubblica accusa, spesso posto più o meno direttamente alle dipendenze dell'esecutivo. Naturalmente, qualora il giudice debba sottoporre a controllo anche la legge (v. § 4a), ed è questo il caso quando si trova ad esercitare il giudizio di costituzionalità, anche le strutture legislative vanno prese come riferimento.
Se l'obiettivo delle garanzie di indipendenza è quello di salvaguardare l'imparzialità del terzo giudicante anche quando parte in causa è lo Stato, esse devono permettere al giudice di giudicare liberamente, senza temere sanzioni per il suo operato, ma anche, va sottolineato, senza sperare ricompense: sine spe ac metu. Tali garanzie, nell'ambito dei caratteri generali del procedimento giudiziario che abbiamo sopra elencato, si concretizzano innanzitutto nel far sì che il giudice sia sottoposto, nel decidere i casi, solo al sistema normativo, escludendo in particolare la legittimità di istruzioni, generali o particolari, da parte dei titolari delle altre strutture d'autorità: è la cosiddetta indipendenza sostantiva o materiale. Poi, e si tratta dell'indipendenza personale (v. Shetreet, 1985), nell'assegnare al giudice uno status particolare, che lo protegga da trasferimenti o rimozioni arbitrarie - garantendone l'inamovibilità - così come da un uso improprio delle sanzioni disciplinari e, dove esistono, delle promozioni. Tali garanzie si applicano di norma al giudice ma possono riferirsi anche alla magistratura nel suo complesso, come corpo di giudici, soprattutto nel caso in cui le vengano affidati compiti di amministrazione dello status dei propri membri. Si può distinguere allora fra indipendenza esterna, riferita ai rapporti fra giudice e altre autorità politiche, e interna, fra giudici. Quest'ultima diventa rilevante in certe magistrature, quelle caratterizzate da un assetto organizzativo di tipo burocratico, dove di solito è istituzionalizzata una carriera, strutturata su più gradi gerarchici, con relativi meccanismi di promozione.
Si tratta, va sottolineato, di garanzie di indipendenza o, con altra espressione, di indipendenza strutturale o istituzionale: la loro presenza non garantisce ovviamente un comportamento indipendente da parte del giudice. Il concreto comportamento decisionale dei giudici, anche se naturalmente influenzato dal livello di indipendenza istituzionale, dipende da una serie molto ampia di fattori, non tutti peraltro adeguatamente esplorati (v. cap. 5). Del resto, il reale valore politico delle garanzie di indipendenza dei giudici dipende dal contesto in cui operano. Infatti, il grado con cui giudici indipendenti possono svolgere le loro funzioni è fortemente condizionato dalla loro effettiva capacità di influenzare i comportamenti dei vari attori politici. È evidente che il significato della presenza di giudici indipendenti muta a seconda che essi operino in un sistema giudiziario di scarso o elevato rilievo politico.
Svariati sono i fattori che influenzano il grado di incidenza politica del sistema giudiziario: oltre ovviamente al grado di indipendenza dei giudici, importante è la sua struttura (v. Becker, 1970; v. Sarat e Grossman, 1975; v. Guarnieri, 1981, pp. 109 ss.; v. Shetreet, 1985, pp. 615 ss.). In particolare sono di rilievo: a) le regole che stabiliscono la sua giurisdizione, cioè quali tipi di controversie vengono assegnate al sistema giudiziario. Infatti, diversa può essere l'incidenza a seconda che il giudice si trovi a dover risolvere esclusivamente dispute fra privati o fra privati e Stato o addirittura fra diverse istituzioni politiche; b) quelle che regolano l'accesso al sistema giudiziario, stabilendo chi può sollevare una controversia davanti ad un giudice. È un punto che assume particolare rilevanza in campo penale, per il ruolo che normalmente vi svolge il pubblico ministero e, in certi casi, la polizia: dato che il procedimento giudiziario è, come abbiamo visto, di norma passivo, il ruolo di chi è in grado di regolare l'immissione di casi è evidentemente cruciale; c) le modalità con cui vengono applicate, cioè rese esecutive, le decisioni giudiziarie: è qui importante il grado con cui altre strutture possono vanificarne l'esito; d) i poteri di cui il giudice si trova a disporre: ad esempio, è rilevante, sotto questo profilo, oltre alla struttura processuale, la possibilità di esercitare il controllo di costituzionalità delle norme ordinarie.
La complessità dei fattori in gioco rende spesso difficile valutare con precisione il grado di incidenza politica di un sistema giudiziario. Più difficile ancora è arrivare a stabilire il livello di incidenza caratteristico di un regime democratico, anche se in generale i regimi democratici - ed in particolare quelli dove più forte è l'attaccamento ai valori del costituzionalismo - si contraddistinguono dagli altri per un livello di incidenza politica del giudiziario più elevato. Infatti, anche se sembrano esistere notevoli variazioni nel tipo di controversie che, in un regime liberaldemocratico, possono essere risolte dai giudici, caratteristica di tali regimi è il rispetto di determinati diritti dei cittadini e, come abbiamo visto, l'intervento di terzi imparziali in controversie fra privati e Stato è proprio uno degli strumenti a questo fine più efficaci. L'incidenza politica del giudiziario in un regime democratico non può pertanto ridursi fino a escludere le controversie aventi per oggetto le principali libertà politiche.
Che la risoluzione di una controversia tramite l'intervento di un giudice abbia rilievo politico non deve certo sorprendere dato che in questo modo si assiste, abbastanza banalmente, al dispiegarsi in un caso concreto della funzione politica fondamentale di assegnazione di valori. Come abbiamo visto, l'intervento del giudice tende ad essere effettuato attraverso il ricorso a norme giuridiche o a precedenti aventi carattere normativo. È questo infatti un aspetto che rafforza la capacità di risoluzione dei conflitti del procedimento giudiziario, ma che ne accentua immediatamente la politicità rendendo il giudice partecipe della funzione di applicazione delle norme. Se però il giudice si limitasse ad applicare passivamente al caso concreto le regole che gli vengono fornite dal sistema normativo della società in cui opera, tale constatazione non meriterebbe di certo grande attenzione. In realtà, si apre qui un problema di rilievo molto maggiore, e cioè se e in che misura tale attività venga condotta in modo autonomo: è in altre parole il problema della creatività giurisprudenziale (v. Cappelletti, 1984).
La completa sottoposizione del giudice alla legge, o comunque al sistema normativo, è una visione presente tradizionalmente, anche se con varie sfumature, in tutti i paesi a tradizione liberaldemocratica: secondo la famosa affermazione di Montesquieu i giudici non sono che la bouche de la loi e, quindi, il loro potere è "nullo". Come è stato efficacemente sottolineato, tale visione si accompagna di regola ad una teoria del processo di interpretazione delle norme che si basa essenzialmente su due assunti: "che in qualche senso 'esiste' un significato proprio, o vero, delle norme, precostituito rispetto a, e del tutto indipendente da, i processi nei quali e coi quali gli operatori giuridici impiegano le norme; che la natura stessa della norma imponga taluni criteri o canoni per la scoperta di tale significato, per cui si possa discriminare tra un'interpretazione vera e un'interpretazione falsa [...]" (v. Tarello, 1974, p. 393). La critica della fondatezza di questi assunti ha fatto sì che venisse alla luce l'aspetto creativo di norme dell'azione del giudice: la norma non ha un significato perché è un significato, segue come prodotto il processo interpretativo.
Il riconoscimento che un certo grado di creatività è connaturato al processo di interpretazione di norme apre la via a riconoscere la discrezionalità dell'attività giudiziaria. Anche se discrezionalità non significa necessariamente arbitrio, resta che il giudice si trova a dover operare scelte fra alternative interpretative. Ma, se il giudice può scegliere fra alternative, la sua decisione diviene fonte di incertezza per chi viene a contatto con lui. Così facendo, il giudice acquista potere, che è potere politico vista la sua posizione e gli effetti delle sue decisioni e che assume particolare rilevanza nel caso di giudici di tribunali come le corti supreme, in grado, attraverso l'influenza che esercitano su quelli inferiori, di elaborare vere e proprie norme a carattere generale.
Se la creatività giurisprudenziale è ormai un fatto ampiamente riconosciuto, è difficile arrivare a determinarne con precisione il grado: tanti essendo i fattori in gioco, è probabile che tenda a variare da caso a caso. Qui ci basta rilevare la presenza del fenomeno e la sua difficile reversibilità, almeno nei regimi democratici contemporanei. Infatti, come è stato sostenuto (v. Cappelletti, 1984), questo fenomeno non è solo connesso ad una serie di movimenti culturali - la 'rivolta contro il formalismo' - che hanno fortemente eroso la veridicità della tradizionale concezione del ruolo del giudice come di colui che si limita ad applicare la legge al caso concreto, ma trova la sua radice in una serie di fattori più complessi. Fra questi, un ruolo di rilievo va senz'altro assegnato alla diffusione, specie dopo la seconda guerra mondiale, del controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi (v. Cappelletti, 1989). D'altra parte, l'espansione dei diritti sociali, la crescita degli apparati amministrativi incaricati di tutelarli, la crescente, e inevitabile, delega all'esecutivo di funzioni un tempo riservate al legislativo, e l'aumentata rilevanza che decisioni di soggetti formalmente privati hanno per un numero sempre più ampio di cittadini, hanno moltiplicato le occasioni di conflitto fra cittadini, Stato e grandi organizzazioni e perciò rafforzato nei cittadini il bisogno di tutela nei confronti di apparati amministrativi che sempre più si ingeriscono nella vita dei singoli. Proprio per le sue caratteristiche procedurali, che fanno sì che una risposta alle domande del cittadino vada comunque data, il sistema giudiziario si è trovato sollecitato ad intervenire a difesa degli interessi del singolo nei confronti delle grandi organizzazioni pubbliche e private (v. Chayes, 1976; v. Friedman, 1985). Così, nella maggior parte dei paesi a regime democratico l'esigenza di controllare le azioni di queste organizzazioni è stata soddisfatta soprattutto attraverso un ruolo più attivo degli organi giudiziari e quindi anche attraverso interpretazioni più 'creative' del sistema normativo.
Riconoscere l'inevitabile politicità dell'attività giudiziaria pone immediatamente, in una democrazia, alcune questioni di importanza cruciale: se il giudice in qualche modo esercita potere politico - e possiamo così intendere per potere giudiziario la presenza di un corpo di giudici, almeno in una certa misura, indipendenti e 'creativi' - in che misura sono giustificate le sue garanzie di indipendenza? Non devono forse queste garanzie essere rese compatibili con il più generale principio, che sta alla base di questi regimi, che chi esercita potere politico deve essere chiamato a risponderne davanti alla comunità? Ma come conciliare meccanismi di responsabilità con la necessità di garantire l'imparzialità del giudice, che, come abbiamo visto, è alla base delle sue garanzie di indipendenza?
Svariate risposte sono state date a questi interrogativi (v. Guarnieri, 1992, pp. 27-40). Per chi sostiene che, tutto sommato, il giudice non dispone nell'applicare le norme di alcuna discrezionalità rilevante, il problema della sua legittimità democratica in sostanza non si pone. Su questa linea si può arrivare a sostenere che anche giudici investiti del potere di controllare la costituzionalità delle leggi non fanno altro che applicare le norme costituzionali. D'altra parte, in risposta a chi segnala i pericoli di una crescita incontrollata del potere giudiziario, c'è innanzitutto chi sottolinea che gli attuali regimi democratici sono in realtà liberaldemocratici o demo-costituzionali, nel senso che il principio maggioritario, attraverso il quale di regola si esprime la volontà popolare, non va inteso in senso assoluto ma deve essere limitato, soprattutto dalla considerazione che alle minoranze, e ai singoli, vanno riconosciuti e garantiti dei diritti il cui esercizio deve essere sottratto alla volontà della maggioranza. Si tratta del resto di limiti che mirano a garantire il corretto funzionamento di questi regimi, impedendo a più o meno temporanee maggioranze di prevaricare. C'è infine chi rileva che in realtà i giudici, anche se creativi, non possono - né debbono - essere considerati completamente autonomi dall'ambiente politico in cui operano. Esistono diversi tipi di condizionamenti cui sono sottoposti ed è un bene che sia così. Perciò, se si può parlare, nelle democrazie contemporanee, di un potere giudiziario, non bisogna dimenticare che esso risulta limitato dall'articolata rete di contropoteri in cui è inserito.
Da questo ampio e non concluso dibattito sui rapporti fra potere giudiziario e democrazia è possibile far emergere una serie di punti di rilievo. Innanzitutto, in una democrazia costituzionale non esiste un assetto ottimale dei rapporti fra magistratura e politica: proprio perché vi sono coinvolti principî di eguale valore ma fra loro in tensione sono possibili più opzioni, anche se non tutte possono essere considerate ugualmente soddisfacenti. Esistono infatti diversi modi con cui è possibile bilanciare le opposte, ed entrambe legittime, esigenze dell'imparzialità del giudice e della responsabilità di chiunque eserciti potere politico. D'altra parte, la presenza di ambiti legittimi di variazione non esclude che si possa cercare di individuare i requisiti minimi che l'assetto istituzionale della magistratura deve avere in una democrazia. È possibile dare una risposta a questa domanda ricordando che le garanzie di indipendenza del giudice trovano il loro fondamento, e la loro giustificazione, nella sua funzione istituzionale, la risoluzione di controversie: le garanzie di indipendenza stanno a difesa della sua imparzialità nei confronti delle parti in causa soprattutto in controversie in cui è parte lo Stato. Se questo è vero, si può ritenere necessario che esse operino almeno in tutti quei casi in cui sono in gioco i diritti fondamentali, civili e politici, dei cittadini. In realtà, si tratta di un insieme di diritti la cui ampiezza può variare a seconda dei momenti storici e che anzi tende oggi ad allargarsi fino a toccare in talune interpretazioni i diritti sociali, segnalando anche per questa via la continua espansione dell'incidenza politica del sistema giudiziario.
Naturalmente, non tutte le soluzioni offerte alla tensione fra potere giudiziario e principî democratici appaiono ugualmente convincenti dal punto di vista descrittivo: ad esempio, è realistico descrivere ancora - anche in paesi dell'Europa continentale (ma v. § 4a) - il ruolo del giudice come quello di un semplice applicatore di norme, stante la tendenza, apparentemente inarrestabile, verso un aumento della creatività giurisprudenziale? E, più in generale, è possibile trascurare le condizioni istituzionali e organizzative che sostengono questa definizione di ruolo? In altre parole, trascurare che un giudice 'esecutore' significa anche un giudice inserito nella rete di controlli penetranti tipica di un assetto burocratico e gerarchico?
Va però sottolineato che nel dibattito internazionale esiste un vasto consenso sul fatto che il potere dei giudici si trova ad essere limitato - o che comunque va limitato - anche se ciò può avvenire con modalità diverse: perché le loro garanzie di indipendenza non sono assolute ma risultano in un modo o in un altro ridotte; perché fra i giudici tendono ad affermarsi - grazie, ad esempio, ai meccanismi di reclutamento e socializzazione - concezioni del proprio ruolo di tipo esecutorio o che mettono l'accento sulla doverosità di un atteggiamento di self-restraint o che comunque tendono a ridurre, nei fatti, i margini della loro creatività; perché la struttura del sistema giudiziario condiziona il grado di incidenza politica della magistratura.
Se la presenza di giudici indipendenti è un tratto comune a tutte le democrazie costituzionali - poiché è qui che essi svolgono un ruolo particolarmente importante - esistono in realtà nell'ambito di questi regimi delle differenziazioni anche di notevole portata. La principale è, o almeno tale è stata tradizionalmente, quella che corre fra i paesi dell'Europa continentale, in cui domina la tradizione giuridica di civil law, e quelli anglosassoni, in cui prevale quella di common law (v. Finer, 1961; v. Merryman, 1984²; v. Van Caenegem, 1987). In estrema sintesi si può affermare che nei primi la posizione della magistratura risulta - o almeno risultava - politicamente meno incisiva. Alla radice di tale differenza sta soprattutto il fatto che nell'Europa continentale il processo di centralizzazione dell'autorità politica, e quindi anche della funzione giudiziaria, si svolge in modo molto più discontinuo. Anche se con modalità diverse a seconda dei casi, la conseguenza principale è che tale processo, nella misura in cui sfocia nella costruzione dello Stato assoluto, si compie in capo al sovrano, cui pertanto i giudici si trovano, almeno inizialmente, subordinati (v. Tarello, 1976, pp. 49 ss.). Il successivo processo di costituzionalizzazione, e il conseguente sviluppo delle garanzie di indipendenza, allenta, ma non elimina, questo vincolo, che del resto si basa sulla comune matrice organizzativa di magistratura e amministrazione. Il progressivo indebolimento della posizione del sovrano nel corso dell'Ottocento non muta la situazione ma trasferisce semplicemente al governo la capacità di influenzare il corpo giudiziario.
Il livello più modesto delle garanzie di indipendenza dei giudici continentali, dovuto al loro stretto legame con l'apparato statale, non è però l'unico né forse il principale elemento che li distingue dai giudici anglosassoni. In generale, forte è nell'Europa continentale la diffidenza verso i giudici: è il potere giudiziario il potere da controllare (v. Rebuffa, 1993³). Del resto, è questo un atteggiamento che si manifesta con più forza proprio nel paese, la Francia, dove il processo di centralizzazione diretto dai sovrani, pur raccogliendo indubbi successi, trova nella magistratura una resistenza più tenace: qui la Rivoluzione e le successive riforme napoleoniche portano a definitivo compimento il progetto di subordinazione politica dei giudici. D'altra parte, nei paesi in cui la costruzione dello Stato incontra maggiori difficoltà - si pensi alla lentezza del processo di unificazione in Germania e Italia - un ruolo particolarmente importante nel processo di interpretazione del diritto continua ad essere svolto dai giuristi accademici (v. Van Caenegem, 1987, pp. 83 ss.). Così, come conseguenza di questa diffusa diffidenza nei confronti della magistratura, nei paesi continentali alla giurisdizione dei tribunali ordinari verrà spesso sottratta una fetta piuttosto ampia di controversie fra Stato e cittadini, affidate ad organi interni all'amministrazione o ad una magistratura - quella amministrativa - separata da quella ordinaria e di solito dotata di minori garanzie di indipendenza. Poi, elemento anche più importante, i giudici dei paesi di civil law si troveranno ad operare in modo subordinato rispetto agli organi rappresentativi e alle norme da questi emanate. È qui che, a partire dalla fine del XVIII secolo, si sviluppa un processo di razionalizzazione legislativa che porta all'emanazione di codici: insiemi di norme completi, coerenti e privi di ambiguità interpretative (o che almeno tali si pretende che siano). All'emanazione di codici si collega così la richiesta ai giudici di adottare un ruolo rigidamente esecutorio. Pertanto, la separazione dei poteri non solo non viene riferita a organi collocati sullo stesso piano, a tutto favore del legislativo, ma sfuma fino a diventare in certe interpretazioni una semplice classificazione di atti sulla base della loro diversa forma (v. Rebuffa, 1993³, pp. 51-52). Il costituzionalismo continentale - e l'influenza del positivismo giuridico non farà che rafforzare questa tendenza - si limiterà a garantire l'imparzialità del giudice nella singola disputa escludendone ogni sindacato sulla legge: il potere degli organi legislativi risulta, al di là dei limiti procedurali, estremamente ampio (v. Sartori, The theory..., 1987). Il giudice continentale resta così, ancora per molto tempo, un funzionario pubblico stretto dalle maglie della legge, sulla cui applicazione veglia con la sua autorità la dottrina accademica e con i suoi poteri il ministro della Giustizia (v. Merryman, 1984²; v. Van Caenegem, 1987).
Diversa la situazione nei paesi anglosassoni. Si consideri anzitutto il caso inglese. Qui lo sviluppo istituzionale si caratterizza per una continuità molto maggiore che fa sì che non vi sia una distinzione netta fra diritto e storia giuridica: il diritto è un 'tessuto continuo' (seamless web) di norme e precedenti giurisprudenziali (v. Van Caenegem, 1987, pp. 11 ss.). In questo paese, poi, il processo di centralizzazione dell'autorità politica, che pure avviene, si traduce sì nella prevalenza di un'istituzione, quella parlamentare, di cui i giudici sono alleati, ma in un contesto maggiormente policentrico dove non si afferma il principio del monopolio statale della produzione normativa e un ruolo importante viene riservato al diritto giurisprudenziale (v. Tarello, 1976). Con la Glorious revolution del 1688 esce definitivamente sconfitto il tentativo degli Stuart di imporre l'egemonia dei tribunali regi - come la Star chamber - con giudici responsabili verso il sovrano. L'Act of settlement del 1701 sancirà le garanzie di indipendenza del giudice inglese, non più nominato quamdiu nobis placuerit ma quamdiu se bene gesserit. È la formula del during good behavior che ancora oggi definisce lo status dei giudici dei paesi di common law. I giudici inglesi mantengono quindi una posizione di relativa autonomia nei confronti della legge di origine parlamentare. I principî della common law, anche se accanto alla crescente importanza della statutory law, rimangono ancora oggi il fondamento delle loro decisioni (v. Bell, 1983). Ridotto resta il ruolo della dottrina accademica: è il giudice la figura chiave della common law.
Negli Stati Uniti - che pure ereditano la tradizione giuridica inglese ma in un contesto politico diverso, caratterizzato dalla diffidenza nei confronti delle istituzioni parlamentari - la presenza di una costituzione scritta, e di un controllo giudiziario di costituzionalità, esclude nettamente la presenza di un rapporto di subordinazione fra giudici e istituzioni politico-rappresentative. In questo paese, anzi, la magistratura emerge chiaramente come un potere collocato sullo stesso piano degli altri, essendo la sua principale funzione quella di controbilanciare i poteri del legislativo. Lo stesso Hamilton, nel Federalist (n. 78), pur sottolineando che la magistratura - non disponendo "né della spada né della borsa" - va considerata il potere meno pericoloso per i diritti politici sanciti dalla Costituzione, non manca di indicarne il ruolo di difensore dei diritti dei cittadini dalle possibili usurpazioni del corpo legislativo (v. Matteucci, 1988², cap. 6).Certo, le trasformazioni che, specie dopo la seconda guerra mondiale, hanno investito molti sistemi giudiziari dell'Europa continentale - si pensi solo all'introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità -, hanno in parte modificato questo quadro, rafforzandovi l'incidenza politica della magistratura (v. Cappelletti, 1989). Peraltro, le magistrature dei regimi democratici, pur presentando - come vedremo fra poco - svariati caratteri in comune, si differenziano ancora soprattutto per il contesto organizzativo in cui si muovono: burocratico, nel caso delle magistrature operanti nei paesi a tradizione di civil law, professionale, per quelle di common law. Ne consegue che nelle magistrature di civil law, al contrario di quanto avviene in quelle di common law (v. Di Federico, 1978; v. Freddi, 1978): 1) la selezione del personale è effettuata su base tecnica, tramite esami in età giovanile, di solito subito dopo gli studi universitari, senza che assumano alcuna rilevanza precedenti esperienze professionali esterne; 2) la socializzazione professionale al ruolo di giudice avviene pertanto in misura preponderante all'interno del corpo giudiziario; 3) i magistrati sono fra loro ordinati gerarchicamente in una carriera che prevede meccanismi di progressione competitivi, basati sull'anzianità di servizio e su valutazioni del merito, di diritto o di fatto operate con larghi margini di discrezionalità dai superiori gerarchici; 4) il lavoro giudiziario viene definito in termini generalisti, cioè si basa sull'assunto per cui il personale giudiziario è formato da individui omogenei per addestramento, qualificazione e attitudini. Pertanto, si ritiene che esso possa ricoprire senza problemi una molteplicità di ruoli all'interno dell'organizzazione giudiziaria, ad esempio giudicare in campo penale o fallimentare, minorile o fiscale o anche svolgere le funzioni di pubblico ministero. La conseguenza più importante è che il giudice, o il magistrato, non viene reclutato per una specifica posizione ma per uno spettro molto ampio di funzioni. Così, nel corso della sua carriera lavorativa tende a mutare spesso di posizione, con gli inevitabili problemi che nascono per la sua inamovibilità; 5) in generale, le garanzie di indipendenza sembrano minori anche perché, proprio a causa di quanto abbiamo messo in evidenza ai punti 3 e 4, nei paesi di civil law più ridotta è di regola l'indipendenza interna, cioè quella del singolo giudice nei confronti di altri giudici.
Nonostante le differenze, in entrambi i tipi di magistrature sono presenti meccanismi, anche se di vario tipo, volti ad assicurare che i fini istituzionali dell'organizzazione giudiziaria vengano perseguiti. Le magistrature anglosassoni, che impiegano personale già professionalmente formato all'esterno dell'organizzazione, di regola con un lungo tirocinio, fanno minore affidamento sui controlli interni, al contrario di quelle continentali che reclutano un personale privo di esperienze professionali, che viene inserito alla base della struttura piramidale, ma i cui "progressi compiuti sulla via della socializzazione e dell'addestramento" vengono poi vagliati "per il tramite di una carriera articolata su più gradi gerarchici" (v. Freddi, 1978, p. 41).
I caratteri organizzativi influenzano anche il gruppo di riferimento sul quale i giudici tendono a orientare i propri comportamenti. È evidente che nel caso delle magistrature di tipo burocratico, esso sarà in primo luogo interno, sia perché è all'interno dell'organizzazione che si svolge una parte rilevante della socializzazione professionale, sia perché la presenza di una carriera, così come di trasferimenti e provvedimenti disciplinari, controllata dai magistrati di grado più elevato - spesso concentrati in corti supreme come la Corte di cassazione - fa sì che gli incentivi, positivi e negativi, in mano al vertice organizzativo per condizionare i giudici di grado inferiore siano notevoli. Anche l'influenza della dottrina accademica, molto forte in taluni paesi di civil law, si fa sentire soprattutto attraverso l'influenza dei superiori gerarchici (v. Merryman, 1984²). Diversa invece la situazione delle magistrature professionali, dove le condizioni appena menzionate sono poco o per nulla presenti. In questo caso il gruppo di riferimento dell'azione giudiziaria sarà prevalentemente esterno, anche se corre una notevole differenza fra i giudici inglesi, il cui gruppo di riferimento è in pratica solo un segmento professionale molto ristretto, i circa 6.000 barristers, e quelli americani, che provengono da una professione molto più diversificata e vengono nominati di solito dopo aver fatto esperienze professionali, e politiche, molto articolate (v. Atiyah e Summers, 1987).Analogo discorso può essere fatto per gli orientamenti di ruolo. Nelle magistrature burocratiche dei paesi di civil law ha prevalso, almeno tradizionalmente, una concezione esecutoria, o comunque ristretta, del ruolo del giudice (v. Merryman, 1984²). Certo, in questo dopoguerra anche fra i giudici continentali si sono andate manifestando con crescente intensità tendenze verso una più accentuata creatività giurisprudenziale e verso un maggiore attivismo. Una parte importante in questo processo è stata svolta dall'istituzione, in molti paesi, del controllo giudiziario di costituzionalità. Anche se tale controllo è stato attribuito in ultima istanza - al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti - a giudici diversi da quelli ordinari, di regola le magistrature vi sono state in qualche modo sempre coinvolte (v. Cappelletti, 1989). Resta comunque il fatto che concezioni più dinamiche o più politicamente orientate del ruolo giudiziario sono diffuse prevalentemente negli Stati Uniti. In Inghilterra, invece, l'estrazione socioprofessionale dei giudici, insieme ai caratteri del sistema politico, ha fatto sì che prevalessero definizioni di ruolo più prudenti.
D'altra parte, le magistrature operanti nei regimi democratici sono caratterizzate da una serie di elementi comuni: 1) i processi di reclutamento dei giudici sono tutti, direttamente o meno, influenzati dall'ambiente politico. La differenza principale sta fra i paesi di civil law, dove tale processo avviene per lo più per pubblico concorso ed è gestito dal Ministero della Giustizia - e quindi, di norma, da funzionari o magistrati più o meno sottoposti all'esecutivo - e quelli di common law, dove le strutture di governo sono direttamente coinvolte: il Lord Cancelliere e il Primo Ministro in Inghilterra, il Presidente e il Senato negli Stati Uniti. In quest'ultimo paese, in molti Stati i giudici vengono eletti direttamente, e spesso per periodi di tempo limitati, dalla comunità; 2) le garanzie di indipendenza, pur elevate ed in qualche caso elevatissime, lasciano sempre alle altre istituzioni politiche una qualche possibilità di intervento: più ampia, e più pervasiva, nelle magistrature di civil law; riservata a casi eccezionali, con la rimozione del giudice tramite impeachment, in quelle di common law; 3) le funzioni della pubblica accusa sono esercitate da magistrati o funzionari direttamente o indirettamente responsabili nei confronti delle altre strutture di governo, quando non immediatamente verso la comunità politica. Vari sono i meccanismi di responsabilità politica delle strutture requirenti: si va dalla classica struttura ministeriale - nella sua versione centralizzata, in Francia, o federale, in Germania - ad una struttura semiautonoma come quella del Crown Prosecution Service inglese fino all'assetto statunitense che prevede a livello federale un rapporto gerarchico fra i capi dei diversi uffici - funzionari di carriera, nominati con il consenso del Senato e spesso con valide alternative professionali a disposizione -e il ministro della Giustizia, mentre in molti Stati è presente l'elezione diretta del capo dell'ufficio. Solo in Francia - e in Italia - ci troviamo di fronte ad uno stesso corpo di magistrati che svolge funzioni sia giudicanti sia requirenti. Altrove, giudici e pubblici ministeri sono separati, anche se non è escluso, a certe condizioni, il passaggio dall'uno all'altro corpo.
Come conseguenza si ha che, pur con alcune significative varianti, in tutti i paesi a regime democratico questi caratteri della struttura istituzionale agiscono da contrappeso all'indipendenza della magistratura, in quanto fungono da modalità istituzionali attraverso cui le altre strutture di governo - o in qualche caso lo stesso corpo elettorale - possono condizionare, almeno indirettamente, i comportamenti dei giudici e la loro incidenza politica. L'influenza sui processi di reclutamento, anche quando filtrata dall'apparato burocratico, assicura che i valori del personale che svolge funzioni giudiziarie non siano troppo distanti da quelli prevalenti nel sistema politico. La posizione, separata, del pubblico ministero è poi elemento che garantisce la passività del procedimento giudiziario e della stessa magistratura, cioè la sua impossibilità ad attivarsi in via autonoma e permette all'ambiente politico, grazie all'influenza che vi può esercitare, di regolare in una certa misura le domande che si rivolgono al sistema giudiziario.
Perciò, nei regimi democratici esistono due modalità principali di regolazione dei rapporti fra magistratura e politica. Nelle magistrature burocratiche l'influenza dell'ambiente politico, ed in particolare delle altre istituzioni politiche, si esercita innanzitutto sul vertice, diffondendosi più o meno direttamente, grazie alla struttura gerarchica, su tutto il corpo. Tale influenza risulterà perciò tanto più forte non solo quanto più vasti saranno i poteri a disposizione, ma anche quanto più unificato sarà il vertice gerarchico e quanto più ampi i suoi poteri sul resto della magistratura. È stato questo il caso, almeno tradizionalmente, della magistratura francese dopo le riforme napoleoniche. Al contrario, nelle magistrature professionali l'influenza del sistema politico tende a manifestarsi soprattutto per via indiretta, tramite il processo di reclutamento che qui è in mano alle altre strutture di autorità, influenzando così, almeno sul lungo periodo, i valori e le concezioni di ruolo prevalenti all'interno della magistratura. Infatti, la possibilità di rimuovere un giudice, pur teoricamente presente, non è facilmente attuabile e resta confinata a casi eccezionali.
Naturalmente, tutto questo non vuol dire che il contesto politico non giochi anch'esso un ruolo: com'è stato notato (v. Lijphart, 1984), assetti consensuali, caratterizzati da una maggiore diffusione del potere, tendono a favorire un aumento dell'incidenza politica del sistema giudiziario e comunque della magistratura. D'altra parte, assetti maggioritari tendono a concentrare il potere nelle mani dell'esecutivo, aumentandone l'efficacia decisionale e, molto probabilmente, la ricettività nei confronti delle domande politiche, che invece in un più bilanciato assetto consensuale trovano conveniente rivolgersi anche al sistema giudiziario. Perciò, proprio con questo elemento va messo in relazione il differente peso politico di due magistrature organizzativamente simili come quella inglese e quella americana. Il minore attivismo politico dei giudici inglesi non può non essere collegato al carattere diverso, fortemente maggioritario del sistema politico britannico che tende ad esaltare il ruolo svolto dall'esecutivo (v. Atiyah e Summers, 1987). La stessa analisi dello sviluppo dei rapporti fra magistratura e politica in questo paese mostra come il progressivo emergere e consolidarsi dei caratteri maggioritari si sia accompagnato ad un declino del peso politico della magistratura (v. Shetreet, 1976).
Nel complesso, in entrambi i tipi di magistratura si cerca di conciliare in qualche modo i principî dell'indipendenza e imparzialità dei giudici con quelli della loro responsabilità democratica, anche se si può ritenere che nei paesi di common law l'imparzialità dei giudici venga meglio salvaguardata, senza peraltro danneggiarne eccessivamente la responsabilità. Infatti, in questi paesi il potere giudiziario viene controbilanciato con modalità che permettono al sistema politico di influenzarne indirettamente i valori, piuttosto che, come invece tende ad avvenire con più frequenza nei paesi di civil law, con interventi tesi a condizionare direttamente i singoli giudici.
I regimi non democratici si caratterizzano, rispetto a quelli democratici, soprattutto per un'erosione - più o meno marcata a seconda dei casi - della garanzia giudiziaria delle libertà politiche. Tale erosione può essere ottenuta con modalità, e può avere conseguenze, diverse. Un primo caso è costituito da quei regimi politici caratterizzati da un basso livello di differenziazione strutturale e che perciò non conoscono, neanche in una forma minimale, il principio della separazione dei poteri, inteso anche semplicemente come - relativa - separazione di istituzioni. Oltre che nei regimi tradizionali, dove spesso il ruolo di giudice coincide con altri ruoli d'autorità, è questo quanto avviene in molti regimi militari, ad esempio in America Latina. In questi regimi ci troviamo di fronte ad una situazione di forte instabilità dell'amministrazione della giustizia: elevata incertezza nelle competenze dei vari organi, creazione continua di tribunali speciali, spesso ad hoc, nomina di giudici con procedure straordinarie e al di fuori di ogni considerazione di capacità professionale, avocazione di casi da parte di organi dell'esecutivo, spesso rappresentati da una giunta militare, ruolo accentuato delle forze di polizia, ecc. Tutti questi elementi rendono il sistema giudiziario estremamente debole e comunque del tutto incapace, al di là di qualche iniziativa coraggiosa di singoli giudici, di garantire i diritti dei cittadini.In parte diverso è il caso dei regimi in cui l'amministrazione della giustizia presenta un livello più elevato di differenziazione strutturale. Qui è opportuno distinguere fra regimi autoritari e regimi totalitari (v. Toharía, 1974 e 1975). Nei primi, infatti, il regime tende non tanto a intervenire sulla magistratura quanto a limitarne indirettamente l'incidenza politica. Così, il corpo giudiziario riesce di norma a mantenere delle garanzie di indipendenza, certamente inferiori a quelle caratteristiche dei regimi democratici, ma comunque non inesistenti. Di solito, il regime si limita a influenzare le nomine dei magistrati di grado più elevato cui affida la gestione del corpo. Tentativi di integrare i giudici nelle organizzazioni politiche che sostengono il regime sono assenti o vengono perseguiti con scarsa efficacia. D'altra parte, il sistema giudiziario viene strutturato in modo da circoscrivere la giurisdizione della magistratura ordinaria alle controversie prive di rilevanza politica, mentre quelle politicamente importanti vengono affidate a strutture direttamente controllate dai vertici del regime: tribunali speciali, forze di polizia, ecc. Gli esempi storici più significativi di questo assetto sono il Portogallo di Salazar e soprattutto la Spagna franchista. Anche l'Italia fascista può essere fatta rientrare in questa categoria, almeno fino alla metà degli anni trenta. Solo dopo quella data, infatti, facendosi più forti le tendenze totalitarie, il regime accentuerà la pressione sulla magistratura, peraltro con scarso successo.
Nei regimi totalitari - e qui ci riferiamo soprattutto alla Germania nazista e ai regimi comunisti del periodo staliniano (v. Kirchheimer, 1961, pp. 260 ss.) - il tentativo di controllare la magistratura, e di integrare i giudici nelle organizzazioni politiche del regime, è perseguito con determinazione, con una conseguente drastica diminuzione delle loro garanzie di indipendenza. Si mira infatti ad evitare che le decisioni dei giudici - e quindi la protezione dei diritti dei cittadini - entrino in contraddizione col progetto di trasformazione totalitaria della società che questi regimi perseguono. Anzi, l'obiettivo è quello di mobilitare anche la magistratura in questa direzione. Così, oltre a garanzie di indipendenza limitate o addirittura inesistenti e a meccanismi di reclutamento e carriera che tendono ad assicurare l'affidabilità politica dei giudici, i sistemi giudiziari di questi regimi si caratterizzano per la forte subordinazione gerarchica dei tribunali inferiori a quelli superiori - che dispongono spesso di poteri di avocazione - così come per i vasti poteri degli organi esecutivi e legislativi, sovente in grado di rovesciare anche retroattivamente decisioni giudiziarie non gradite. In molti regimi comunisti (v. Kirchheimer, 1961) un ruolo particolarmente incisivo è svolto dall'ufficio del pubblico ministero - la sovietica Prokuratura - organizzato separatamente in forma gerarchica, autonomo dagli organi di governo locali e centrali ma collegato al vertice con le massime autorità del partito. Anche nella Germania nazista l'amministrazione della giustizia viene completamente subordinata agli obiettivi del regime. Semmai, la presenza di una magistratura ben disposta nei confronti del nazismo ma anche gelosa delle proprie prerogative di corpo rende la sua integrazione nel regime più lenta, anche se con effetti non meno nefasti (v. Kirchheimer, 1961, pp. 300 ss.; v. Müller, 1988).
La magistratura italiana ha tradizionalmente presentato un assetto molto simile a quello delle altre magistrature di civil law dell'Europa continentale. Soprattutto nel corso del processo di unificazione, l'influenza del modello francese risulta sempre molto forte. Anche il fascismo si limita ad aggiustamenti minori che in realtà ne perfezionano il tradizionale impianto burocratico. Come abbiamo visto, il tentativo di integrare politicamente la magistratura nel regime viene effettuato troppo tardi e troppo debolmente per avere risultati concreti. Le cose cambiano però drasticamente nel periodo repubblicano: una serie di modificazioni istituzionali, accompagnate da mutamenti nei comportamenti dei principali attori presenti nell'arena giudiziaria, ha profondamente alterato il ruolo svolto dalla nostra magistratura (v. Guarnieri, 1992).
Il risultato di questo processo è stato che oggi la magistratura italiana presenta un assetto istituzionale peculiare, per buona parte diverso da quello che prevale negli altri paesi a regime liberaldemocratico, in qualche modo collegato alla tendenza verso un assetto consensuale che ha caratterizzato, almeno fino ad oggi, il sistema politico italiano. In primo luogo, i magistrati italiani godono di garanzie di indipendenza, interna ed esterna, più elevate di quelle dei loro colleghi stranieri. Sia nel processo di reclutamento e socializzazione professionale sia nell'amministrare le garanzie che circondano il proprio status, i giudici italiani, così come i pubblici ministeri, non sono soggetti che a condizionamenti molto limitati e decisamente inferiori a quelli che si possono ritrovare altrove. Infatti, tutte le decisioni che li riguardano sono prese dal Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), istituito nel 1959 e composto per due terzi da magistrati eletti dai propri colleghi e per un terzo da professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con 15 anni di esercizio professionale eletti dal Parlamento. La tradizionale gerarchia è stata poi completamente smantellata. Una serie di provvedimenti legislativi, assieme all'interpretazione che ne è stata data dal CSM, ha reso le promozioni, che pure rimangono formalmente previste, di fatto automatiche nel senso che "il semplice soddisfacimento dei requisiti di anzianità previsti dalla legge è divenuto il solo criterio che regola lo sviluppo della carriera dei magistrati" (v. Di Federico, 1978, p. 811). Perciò, la magistratura italiana non è soggetta ai controlli esterni che, nonostante le critiche, sopravvivono ancora in Francia, il paese che è rimasto più fedele al tradizionale modello burocratico-gerarchico e quindi ad una magistratura fortemente condizionata dall'esecutivo. Gode poi di maggiori garanzie di quella tedesca, sottoposta anch'essa in una certa misura all'influenza dell'esecutivo e del legislativo. Inoltre, il reclutamento dei giudici italiani, al contrario di quanto avviene nei paesi di common law, risulta completamente sottratto ad ogni intervento istituzionale da parte dell'ambiente politico.
D'altra parte, se si fa eccezione per lo smantellamento della gerarchia interna, poco è cambiato nell'assetto burocratico della magistratura italiana. Le modalità di reclutamento - esclusivamente dal basso, con la tassativa esclusione di ogni entrata laterale e con l'immissione di giovani laureati privi di qualunque esperienza professionale - così come l'assetto generalista del personale non sono sostanzialmente cambiati. L'addestramento avviene sempre all'interno del corpo, anche se sono venuti meno quegli strumenti che un tempo permettevano ai magistrati di grado più elevato di controllare questo processo. Al momento attuale, al contrario di quanto avviene negli altri paesi europei, dopo aver vinto il concorso ed aver svolto un breve tirocinio di circa un anno, al giovane magistrato vengono affidate funzioni giudiziarie e di fatto le sue capacità professionali non vengono più vagliate nel corso della sua lunga carriera.
La peculiarità dell'assetto istituzionale della magistratura italiana emerge poi in modo ancor più chiaro se si considera la posizione del pubblico ministero. In tutti i principali regimi liberaldemocratici esistono dei legami istituzionali fra l'ufficio del pubblico ministero e il sistema politico (v. Guarnieri, 1984). Anche se esistono delle differenze fra paese e paese, specifici meccanismi fanno sì che il pubblico ministero venga influenzato, almeno in linea generale, dall'ambiente politico, pur cercando ovunque di salvaguardare l'autonomia delle decisioni operative di chi svolge tali funzioni. Solo l'Italia presenta un assetto diverso, nel senso che gli strumenti istituzionali a disposizione del sistema politico sono pochi e comunque poco adoperati. Qui, infatti, lo status dei magistrati del pubblico ministero è identico a quello dei giudici. Anzi, giudici e pubblici ministeri fanno parte dello stesso corpo di magistrati indipendenti che si autogoverna tramite il CSM.
Pertanto, l'Italia spicca per la singolarità dei rapporti fra la magistratura e le altre strutture di governo, dal momento che queste sono quasi completamente prive di strumenti istituzionali di influenza su quella. Una prima conseguenza di tale assetto è che i comportamenti dei magistrati italiani sono in grado di incidere in misura molto elevata sull'ambiente politico e soprattutto sulle altre strutture d'autorità (v. Di Federico, 1988; v. Zannotti, 1989). Tale incidenza politica, favorita dalle elevate garanzie di indipendenza, è particolarmente rilevante in campo penale, grazie ad un assetto che permette ai magistrati del pubblico ministero di condizionare in modo decisivo le domande che si rivolgono verso il sistema giudiziario. Infatti, il principio di obbligatorietà dell'azione penale, pur inserito nella Costituzione del 1948, non sembra essere in grado, in mancanza di un efficace sistema di controlli, di ridurre in modo significativo la discrezionalità di cui tali magistrati di fatto godono. È difficile stabilire in che misura queste condizioni istituzionali siano state concretamente sfruttate. Quello che va sottolineato è che permettono interventi politicamente molto incisivi, sia per la discrezionalità presente nel sistema giudiziario sia per i tempi, lunghi, della nostra giustizia che fanno sì che il momento dell'iniziativa penale venga enfatizzato a scapito del giudizio (v. Di Federico, 1991).
Un altro fatto che ha caratterizzato in questi ultimi anni la vita della magistratura italiana è lo sviluppo e la crescente importanza delle 'correnti', cioè di gruppi organizzati di magistrati. Si tratta di un fenomeno presente anche in altre magistrature di civil law, come Francia e Spagna, ma che in Italia ha acquistato un rilievo maggiore a causa soprattutto del ruolo che tali correnti svolgono in un organo decisionale di rilievo come il CSM. È stata soprattutto l'introduzione, nel 1975, della proporzionale con scrutinio di lista per l'elezione della componente togata ad esaltarne il ruolo: a partire dal 1976, tutti i magistrati sono stati eletti al CSM in rappresentanza di questa o quella corrente. Anzi, a partire da quella data, il Consiglio è diventato l'istituzione dove tutte le principali correnti sono rappresentate in base alla loro forza elettorale. Non è quindi esagerato affermare che in questo periodo la gestione del personale giudiziario è stata affidata alle correnti che l'hanno esercitata insieme ai rappresentanti dei partiti eletti dal Parlamento. Il CSM è diventato così il principale, se non unico, luogo istituzionale di incontro e mediazione fra magistratura e sistema politico, fatto che spiega la crescente incidenza politica che ha assunto, così come i conflitti che vi si sono scaricati.
Quindi, in Italia le interazioni fra sistema politico e sistema giudiziario non seguono nessuno dei due classici modelli che abbiamo sopra disegnato (v. § 4a). Il reclutamento avviene per pubblico concorso sotto il controllo del CSM. La gerarchia interna è stata smantellata. Perciò il potere dei magistrati di grado più elevato, così come quello del governo, è stato drasticamente ridotto se non annullato, almeno a confronto con quanto avviene negli altri paesi di civil law. D'altro canto, il sistema politico è in grado di esercitare una certa influenza attraverso i suoi rappresentanti nel CSM, anche se negli ultimi tempi tale influenza è risultata abbastanza ridotta a causa della fase di instabilità politica che si è aperta nel 1992.
È ancora presto per dire se il modello italiano sia destinato a diventare una 'terza' modalità di impostare le relazioni fra magistratura e politica nei regimi democratici. Va però segnalato che tale assetto, pur risultando ancora radicalmente diverso da quello presente negli altri paesi a regime democratico, esercita nondimeno una forte attrazione sugli altri paesi di civil law. In alcuni di questi, come Francia, Spagna e Portogallo, sono stati istituiti dei Consigli superiori simili a quello italiano, anche se dotati, almeno fino ad oggi, di minori poteri e di minore rilievo politico. Del resto, proprio la recente introduzione di un Consiglio superiore in paesi come la Polonia sembra suggerire che tale modalità di rapporti fra magistratura e politica sia associata anche a processi di transizione alla democrazia.
Lo studio dei giudici, del loro comportamento decisionale e delle conseguenze che ne derivano dipende in buona misura da come il loro ruolo viene definito. Ad esempio, è probabile che lo studio del comportamento giudiziario non venga incoraggiato dal prevalere di una concezione del ruolo giudiziario di tipo esecutorio, che cioè metta l'accento sull'aproblematicità del processo di interpretazione delle norme. Se infatti il giudice viene visto come una semplice 'bocca della legge', investigarne il comportamento è semplicemente inutile. È sufficiente infatti analizzare il sistema normativo con le sue indicazioni e darne l'interpretazione giuridicamente 'corretta'.
La concezione esecutoria della funzione giudiziaria ha prevalso a lungo, anche se con versioni diverse, sia nei paesi di civil law sia in quelli di common law. Solo in questo secolo si è cominciato a metterla seriamente in discussione (v. Friedman, 1975; v. Cappelletti, 1984). Certo, la critica del formalismo giuridico e della correlata definizione esecutoria del ruolo giudiziario non ha fatto venir meno le analisi di ispirazione giuridica, basate cioè in primo luogo sulla considerazione di dati giuridico-formali. Essa però ha, da un lato, fatto sì che la discrezionalità giudiziaria divenisse ormai un aspetto ampiamente riconosciuto e, dall'altro, messo in luce più chiaramente il carattere prescrittivo di certi contributi. Lungo quest'ultima direzione si è mossa, ad esempio, la cosiddetta 'giurisprudenza dei valori' che si è sviluppata negli ultimi anni negli Stati Uniti e che, ad esempio, secondo uno dei suoi massimi esponenti, Ronald M. Dworkin, affida ai giudici il compito di enunciare nelle loro decisioni i valori fondamentali di una società (v. Shapiro, 1983).
Che lo studio empirico del comportamento giudiziario si sia sviluppato in primo luogo negli Stati Uniti è certamente legato all'affermarsi in quel paese, più che altrove, di correnti di pensiero critiche del tradizionale formalismo giuridico (v. Marradi, 1971). Non va però sottovalutato che il contesto statunitense risulta particolarmente adatto a mettere in luce i limiti della tradizionale visione formalista della funzione giudiziaria. E questo non solo e non tanto in quanto partecipe della tradizione giuridica di common law, dove da sempre gioca un ruolo rilevante il diritto di origine giurisprudenziale, ma soprattutto grazie al rilievo politico che i giudici vi hanno assunto fin dai primi anni di vita della federazione (v. § 4a). Anche se negli ultimi anni gli studi delle scienze sociali - e della scienza politica - sulla magistratura e sul sistema giudiziario hanno cominciato a diffondersi anche in altri paesi (v. Tate e Vallinder, 1994), essi restano più sviluppati negli Stati Uniti che altrove.
Tradizionalmente, negli Stati Uniti, gli studi di scienza politica sul sistema giudiziario sono stati raggruppati sotto l'etichetta political jurisprudence e classificati in due filoni: il judicial behavior e il judicial process (v. Marradi, 1971). È il primo - che discende soprattutto da movimenti come il realismo giuridico e il comportamentismo - ad aver focalizzato la sua attenzione sul comportamento decisionale del giudice (v. Murphy e Tanenhaus, 1972; v. Gibson, 1983). L'attenzione è infatti rivolta al singolo giudice, fatto reso possibile dalla presenza, in quel paese, non solo di numerosi giudici monocratici, ma soprattutto - al contrario di quanto avviene di regola nei paesi di civil law - della possibilità per i giudici che operano in collegi di dissentire pubblicamente, tramite le cosiddette dissenting opinions, dalla decisione assunta dalla maggioranza dei loro colleghi, possibilità di cui i giudici statunitensi si sono avvalsi con crescente frequenza negli ultimi anni. Così, attraverso l'analisi delle scelte operate dai giudici, questi studi hanno teso ad individuare i principali fattori che le influenzano. Sono state elaborate a questo proposito diverse generalizzazioni, anche abbastanza articolate, senza però che si sia arrivati, a tutt'oggi, alla costruzione di vere e proprie teorie. L'attenzione si è comunque soffermata sulle attitudini dei giudici, sulle modalità con cui individuarle in modo sufficientemente affidabile e soprattutto sulle aspettative che circondano il loro ruolo. Anzi, alla ricostruzione degli orientamenti di ruolo che caratterizzano la figura del giudice è stata data particolare attenzione, riutilizzando così anche parte delle elaborazioni normative della dottrina tradizionale. In stretta connessione con questi interessi l'analisi si è poi rivolta all'importanza dei fattori di background - ad esempio, origini sociali, educazione, precedenti esperienze politiche e professionali - e di aspetti istituzionali come le garanzie di indipendenza e i meccanismi di reclutamento. Specifica attenzione hanno ricevuto i processi di socializzazione tramite i quali vengono acquisiti i valori, le attitudini e gli orientamenti di ruolo. Del resto, su questi temi un certo lavoro è stato compiuto anche in Europa e soprattutto nel nostro paese (v. § 4c; v. Di Federico, 1989). Anzi, i particolari caratteri delle magistrature operanti nei paesi di civil law, ad assetto burocratico (v. § 4a), hanno spinto le analisi a soffermarsi proprio sui processi di reclutamento e formazione professionale (v. Mestitz, 1990; v. Pederzoli, 1992).
Negli Stati Uniti oggetto di ricerca privilegiato è stata la Corte Suprema, per la frequenza delle dissenting opinions - fatto che ha permesso di individuare i comportamenti decisionali dei singoli giudici e di applicarvi tecniche statistiche anche di notevole sofisticazione - ma soprattutto per il particolare rilievo politico assunto negli ultimi sessant'anni. Negli ultimi tempi l'analisi si è comunque estesa anche ad altri tribunali, come corti d'appello federali o corti supreme statali. Il fatto che la maggior parte degli studi si sia rivolta di necessità a corti collegiali - in quanto le più rilevanti politicamente - ha spinto gli studiosi a tener conto anche della fase collettiva del processo decisionale, venendo in questo modo a porre in risalto i vincoli istituzionali che lo condizionano (v. Murphy e Tanenhaus, 1972).
Collocare i giudici nell'ambito del sistema giudiziario e del più ampio sistema politico è da sempre caratteristica del judicial process (v. Peltason, 1968). Le analisi di questo tipo si sono infatti concentrate sull'interscambio fra sistema giudiziario e ambiente, sia sul versante dell'input, e quindi in particolare sulle domande che si indirizzano al sistema giudiziario, sia su quello dell'output, e quindi soprattutto sull'impatto delle decisioni giudiziarie. Sul primo aspetto, le ricerche - favorite proprio dai già richiamati caratteri del caso statunitense ed i cui primi esempi possono essere rinvenuti già agli inizi del secolo nei lavori di Arthur Bentley - hanno messo in luce il ruolo svolto dai gruppi di pressione nel plasmare la domanda di giustizia così come il complesso rapporto che si viene a creare fra questi gruppi e l'attivismo di certi tribunali. Sempre in questo campo un altro filone, che si ricollega ai numerosi studi sul funzionamento della giustizia penale, ha sottolineato l'importanza del ruolo svolto dal pubblico ministero nel condizionare il flusso dei casi che entrano nel sistema giudiziario. Sul secondo aspetto le analisi, partendo dalla differenza fra il semplice rispetto (compliance) delle sentenze da parte di coloro che ne sono i destinatari e le più vaste conseguenze che esse possono avere sull'ambiente politico, si sono soffermate su quest'ultimo punto, e cioè sul loro impatto così come sulla complessità dei fattori che lo influenzano. Comunque, anche se a tutt'oggi mancano analisi comprensive dei rapporti fra magistratura, sistema giudiziario e sistema politico, merito di questo genere di studi è stato quello di sottolinearne continuamente le molteplici interconnessioni. (V. anche Arbitrato; Costituzioni; Giurisprudenza; Processo; Sistemi giuridici comparati).
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