Malattie emergenti
Sommario: 1. Introduzione. 2. Malattie emergenti da microrganismi cellulari. a) Nuovi patogeni. b) Nuovi biotipi di microrganismi noti che presentano un maggiore potere patogeno. c) Batteri resistenti a diverse classi di antibiotici. d) Infezioni emergenti favorite da particolari condizioni dell'ospite. e) Influenza dell'ambiente sulla diffusione di malattie infettive. 3. Malattie emergenti da infezioni virali. a) Premessa. b) Epidemiologia. c) Aspetti virologici. d) Patogenesi e storia naturale. e) Terapia. f) Quadri clinici. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'espressione ‛malattie infettive emergenti', o semplicemente ‛malattie emergenti', coniata di recente, indica le malattie causate da microrganismi patogeni che presentano una diffusione più elevata di quanto fosse prevedibile in base ai dati epidemiologici. Negli anni sessanta, infatti, era diffuso un notevole ottimismo sulla possibilità di ridurre quasi indefinitamente la mortalità per malattie infettive, grazie all'ampia adozione di metodi preventivi, come la vaccinazione e il miglioramento delle condizioni igieniche, e alla disponibilità di numerosi farmaci antinfettivi efficaci (v. Berkelman e Hughes, 1993; v. Krause, 1994). Numerosi erano gli esempi che inducevano all'ottimismo: basterà citare per le malattie virali la quasi totale scomparsa della poliomielite, almeno nei paesi industrialmente sviluppati, dopo l'introduzione nel 1962 del vaccino attenuato orale (v. Modlin, 19903), e per le infezioni batteriche la terapia della tubercolosi con il regime standard di tre antibiotici in grado di garantire, se correttamente applicato, percentuali di successo vicine al 100% (v. Grosset, 1996). Ricordiamo che in mancanza di un adeguato trattamento la tubercolosi presentava una mortalità variabile dal 40% al 60% dei casi.
Due episodi verificatisi nel 1976 dimostrarono tuttavia che potevano insorgere nuove gravi malattie. Il primo riguardò un'improvvisa epidemia di polmonite, provocata da un microrganismo sconosciuto, che si diffuse a Philadelphia tra i partecipanti a una riunione dell'American Legion: la malattia fu fatale per 29 delle 182 persone colpite (v. Fraser e altri, 1977). L'agente patogeno fu poi identificato in un nuovo batterio gram-negativo, denominato Legionella pneumophila. Nel secondo caso, una febbre emorragica di natura sconosciuta si diffuse rapidamente nel Sudan e in modo più grave nello Zaire, dove su 318 persone colpite solo 38 sopravvissero (v. WHO, 1978). Si dimostrò successivamente che la malattia era causata da un nuovo virus, denominato Ebola, appartenente al gruppo Filovirus. Per quanto preoccupanti, questi episodi non vennero considerati veramente allarmanti: infatti, antibiotici comuni, come l'eritromicina e la rifampicina, si rivelarono molto efficaci contro Legionella, e si constatò che l'epidemia da virus Ebola si limitava spontaneamente, probabilmente perché l'infezione si trasmette solo per contatto diretto attraverso il sangue e la rapidità stessa con cui la malattia è fatale riduce le possibilità di contagio.
Neanche la maggiore frequenza, rilevata in quel periodo, dei casi di batteri resistenti a diversi antibiotici destava particolari preoccupazioni: si riteneva che questi agenti patogeni potessero essere controllati dai nuovi mezzi antimicrobici che venivano nel frattempo scoperti e adottati nella pratica clinica.
È stato quindi solamente verso la metà degli anni ottanta che la diffusione di una nuova temibile malattia virale, la sindrome da immunodeficienza acquisita (Acquired Immunodeficiency Syndrome, AIDS), fece comprendere alla classe medica e al grande pubblico il pericolo sempre presente di nuove malattie infettive, non adeguatamente curabili con i farmaci disponibili. Allo stesso tempo, ci si rese conto che si stavano riattivando focolai di infezione o epidemie causati da patogeni noti che avevano acquisito, a causa di alterazioni geniche, diverso potere patogeno o resistenza a varie classi di antibiotici (v. Berkelman e Hughes, 1993). Inoltre, si registrava l'incremento della frequenza di alcune malattie, come la tubercolosi, che negli Stati Uniti, dopo essere costantemente diminuita fino al 1985, tornava ad aumentare, anche considerando solo i casi in cui non era concomitante con l'AIDS (v. Bloom e Murray, 1992). Uno studio retrospettivo ha dimostrato che, negli Stati Uniti, la mortalità per malattie infettive era salita dal 4,7% di tutte le cause di morte nel 1980 al 7,6% nel 1992 (v. Pinner e altri, 1996), con un aumento del 20% della mortalità per malattie polmonari e dell'83% per le setticemie. In altre aree geografiche, anche in assenza di accurati dati epidemiologici, non poteva sfuggire all'attenzione l'imprevista diffusione di epidemie: emblematico il caso del colera, che nel 1991 ha colpito la popolazione del Perù e di altri paesi del Sudamerica nei quali la malattia era scomparsa da un secolo (v. Swerdlow e altri, 1992).
La consapevolezza della gravità del pericolo che le malattie infettive potevano ancora costituire per l'umanità ha dato origine a un rapporto dell'Institute of Medicine (v. Lederberg e altri, 1992), nel cui titolo compare per la prima volta l'espressione emerging infections, infezioni emergenti, frequentemente sostituita nella letteratura successiva dall'espressione ‛malattie emergenti'. In questo rapporto vengono tra l'altro identificate diverse cause che possono favorire o diffondere nuove infezioni: tra le principali vi sono gli squilibri demografici, l'aumento degli spostamenti sia individuali che di massa, l'insorgenza di varianti genetiche nei microrganismi patogeni.
A questo rapporto sono seguite numerose inziative da parte della comunità medica e delle autorità sanitarie. Tra le più importanti ricordiamo: le direttive emesse dal governo degli Stati Uniti, basate su un rapporto intitolato Infectious disease: A threat to global health and security (v. Lederberg, 1996); lo sviluppo di nuove strategie da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per il monitoraggio globale, il rafforzamento delle infrastrutture internazionali, la ricerca applicata e l'aumento delle misure preventive (v. Le Duc, 1996); le iniziative pratiche per la sorveglianza e la prevenzione, su scala sia nazionale che planetaria, del Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie Infettive (CDC) di Atlanta, che tra l'altro ha iniziato la pubblicazione di una nuova rivista scientifica dedicata a questi problemi, intitolata ‟Emerging infectious diseases" (v. Berkelman e altri, 1996).
In questo articolo descriveremo le principali malattie emergenti, i fattori che le causano o ne favoriscono la diffusione e i mezzi proposti per controllarle. Per chiarezza il lavoro sarà diviso in due parti, la prima riguardante le infezioni da microrganismi cellulari (Batteri, Funghi, Protozoi) e la seconda quelle virali.
2. Malattie emergenti da microrganismi cellulari
Si possono identificare diversi fattori che determinano l'insorgenza o la diffusione delle malattie emergenti. Il primo, meno rilevante per le infezioni da microrganismi cellulari che per quelle virali, è la comparsa di nuovi microrganismi patogeni, o di microrganismi noti di cui non si conosceva il potere patogeno. Il secondo, certamente più rilevante per le malattie causate da microrganismi cellulari, è la diffusione di ceppi microbici noti che, in seguito a mutazioni o trasferimento di elementi genici da altri microrganismi, acquisiscono una maggior virulenza o diventano resistenti alla maggior parte degli antibiotici noti. Altri fattori dipendono non dai microrganismi, ma da particolari condizioni dell'ospite umano, ad esempio una diminuita capacità della risposta immunitaria. Infine, possono incidere fattori ambientali e climatici che favoriscano la diffusione di microrganismi patogeni o di loro vettori.
a) Nuovi patogeni
1. Cryptosporidium parvum. - Cryptosporidium è un genere di coccidi comprendente diverse specie, alcune delle quali note da tempo come patogene per gli animali. Solamente nel 1976 sono stati descritti i primi casi accertati di criptosporidiosi nell'uomo, caratterizzati da persistente dissenteria (la durata media nelle persone immunocompetenti è di circa dieci giorni; nei pazienti immunocompromessi i sintomi sono più severi e persistono più a lungo), spesso accompagnata da crampi addominali, nausea e vomito (v. Current e Garcia, 1991). L'infezione aveva presentato un andamento sporadico per alcuni anni, ma nel 1987 un improvviso episodio epidemico coinvolse circa tredicimila persone in una cittadina della Georgia (v. Hayes e altri, 1989). Si riscontrò che l'agente patogeno proveniva dal sistema idrico cittadino, nonostante l'acqua venisse filtrata e clorata secondo le norme vigenti. Altri episodi minori si verificarono negli anni seguenti senza destare particolari preoccupazioni, ma nel 1993 numerosissimi casi di gastroenterite vennero segnalati a Milwaukee nel Wisconsin; con qualche ritardo l'agente patogeno fu identificato in C. parvum, le cui oocisti avevano contaminato l'acquedotto municipale. È stato stimato che più di quattrocentomila persone siano state colpite dall'infezione, quattromila delle quali dovettero essere ricoverate in ospedale data la gravità dei sintomi (v. MacKenzie e altri, 1994).
Studi epidemiologici hanno dimostrato che, oltre alle epidemie localizzate citate, la criptosporidiosi è una frequente causa di gastroenteriti, specialmente nei bambini. Dati raccolti in 40 nazioni tra il 1983 e il 1990 hanno rilevato la presenza di oocisti di C. parvum nelle feci nel 2-3% dei casi di diarrea nei paesi industrializzati, nel 5% in Asia e nel 10% in Africa; queste percentuali salgono notevolmente se si considerano solo i casi pediatrici (v. Current e Garcia, 1991). In un'indagine condotta in Italia nel 1984 si è trovato che il 7,2% dei casi di gastroenterite pediatrica esaminati era da attribuirsi a Cryptosporidium (v. Caprioli e altri, 1989).
Generalmente il trattamento con antibiotici non è efficace contro questa infezione, così che l'intervento medico è limitato a misure di supporto, volte soprattutto alla reidratazione del paziente. Tuttavia, si è constatato che nei pazienti immunosoppressi l'antibiotico paromomicina riduce la severità dei sintomi (v. White e altri, 1994). Fondamentale per limitare la diffusione della malattia è la prevenzione, essenzialmente basata su norme igieniche e sulla bollitura dell'acqua nelle zone a rischio, dato che l'infezione si trasmette per via oro-fecale (v. Current e Garcia, 1991).
2. Bartonella henselae. - Bartonella è un genere di batteri gram-negativi non facili da coltivare in laboratorio. Due specie, B. quintana (precedentemente nota come Rochalimaea quintana) e B. bacilliformis, sono conosciute da tempo come agenti responsabili rispettivamente della febbre da trincea, molto diffusa durante la prima guerra mondiale, e della febbre di Oroya, endemica in Perù. Nel 1983 veniva descritta per la prima volta, in pazienti affetti da AIDS, un'infezione sottocutanea atipica, denominata angiomatosi bacillare (v. Stoler e altri, 1983), il cui agente eziologico è stato identificato nel 1990 in un batterio gram-negativo inizialmente classificato nel genere Rochalimaea (v. Relman e altri, 1990). Negli anni successivi è stato dimostrato che lo stesso microrganismo, denominato Rochalimaea henselae, era responsabile di una adenopatia, diffusa tra i bambini e gli adolescenti, detta ‛malattia del graffio del gatto' (v. Koehler e altri, 1994). In seguito a un esame approfondito delle sue caratteristiche, dal quale sono risultate evidenti le omologie geniche con le specie note di Bartonella, il batterio fu riclassificato in questo genere con il nome di Bartonella henselae (v. Adal, 1995).
La malattia del graffio del gatto è una adenopatia normalmente non grave, i cui sintomi principali sono malessere, dolori diffusi, anoressia e febbricola; si risolve spontaneamente in qualche settimana, senza necessità di trattamento chemioterapico. Come suggerisce il nome, l'infezione è trasmessa attraverso graffi o morsi, anche lievi, dai gatti domestici che sono frequentemente portatori del bacillo (v. Koehler e altri, 1994).
L'angiomatosi bacillare è un'infezione che si manifesta con papule vascolari cutanee, ma che può anche diffondersi e interessare la milza e il fegato, o dare batteriemie (v. Welch e altri, 1992). Può essere causata sia da B. henselae che da B. quintana, ed è stata riscontrata prevalentemente in pazienti immunocompromessi, specialmente negli affetti da AIDS, ma anche in persone immunocompetenti (v. Koehler e altri, 1992). Nei casi dovuti a B. henselae è stata accertata una correlazione con la malattia del graffio del gatto, per cui si ritiene che l'angiomatosi costituisca uno sviluppo di questa malattia in pazienti immunocompromessi (v. Tappero e altri, 1993). Contro l'angiomatosi bacillare e i casi gravi di adenopatia è efficace il trattamento antibiotico: vengono usati principalmente gli antibiotici macrolidici, le tetracicline e le rifamicine (v. Adal, 1995).
3. Helicobacter pylori. - L'ulcera peptica, pur non potendo certamente essere considerata una malattia emergente, deve essere tuttavia brevemente ricordata qui in quanto, sorprendentemente, è stato dimostrato che è causata da un microrganismo identificato recentemente, Helicobacter pylori. La connessione causale tra questo batterio, classificato inizialmente come Campylobacter pylori, e l'ulcera gastrica, proposta per la prima volta nel 1983 (v. Warren, 1983), è stata confermata da numerose ricerche condotte in laboratori di tutto il mondo (v. Taylor e Blaser, 1991). H. pylori è un batterio gram-negativo, microaerofilo, che colonizza la mucosa gastrica mediante due fattori di virulenza: le adesine, strutture che hanno una particolare affinità per le cellule epiteliali, e un enzima che neutralizza l'acidità del microambiente dissociando l'urea in ammoniaca e anidride carbonica (v. Blaser, 1993). La presenza del batterio nella mucosa provoca una gastrite acuta, che in poche settimane cronicizza e permane per decenni, in forma normalmente asintomatica ma in grado di evolvere in ulcera o, più raramente, in gastrite atrofica, una lesione che può a sua volta evolvere in neoplasie (v. Correa, 1991; v. Peterson, 1991). Studi condotti in diversi laboratori, tra cui l'Istituto di Ricerche Immunobiologiche di Siena, hanno chiarito il rapporto tra microrganismo infettante e ulcera peptica (v. Telford e altri, 1994). H. pylori presenta diversi genotipi, tra i quali il tipo I è caratterizzato dalla capacità di produrre una verotossina, VacA, e una proteina antigenica, CagA. Dei ceppi noti circa il 50-60% appartiene al tipo I, ma la percentuale è più elevata nella popolazione di ceppi isolati da pazienti affetti da ulcera rispetto a quelli isolati da pazienti con gastrite (v. Figura e altri, 1989). La verotossina, altamente citotossica, è l'agente responsabile delle erosioni del tessuto epiteliale, e quindi dell'ulcera. Tuttavia, per l'instaurarsi dei processi infiammatori concomitanti è necessaria anche la presenza di altri cofattori, presumibilmente la proteina CagA, di per sé inattiva (v. Telford e altri, 1994). La scoperta di H. pylori come agente eziologico ha portato all'introduzione degli antibiotici nella cura della malattia e nella prevenzione delle ricadute (v. Perroni e altri, 1992; v. Hentschel e altri, 1993). L'identificazione dei fattori molecolari di virulenza e del potere patogeno ha aperto la strada allo sviluppo di vaccini, sia con funzione profilattica, diretti contro i fattori di virulenza, sia con funzione curativa, diretti contro la verotossina VacA (v. Telford e altri, 1994).
b) Nuovi biotipi di microrganismi noti che presentano un maggiore potere patogeno
1. Vibrio cholerae O139 Bengal. - I numerosi ceppi di Vibrio cholerae vengono tradizionalmente divisi in due maggiori gruppi di sierotipi, il gruppo O1 e il gruppo non-O1, a seconda che agglutinino oppure no con l'antisiero O1. Tutte le epidemie di colera, fino al 1992, erano associate unicamente al sierotipo O1, mentre i ceppi non-O1 erano non patogeni o responsabili solo di sporadiche enteriti (v. Morris, 1990).
Tra l'ottobre 1992 e il gennaio 1993 una diffusa epidemia di colera colpiva alcune zone dell'India e del Bangladesh. Molti tra i pazienti erano adulti, un aspetto inconsueto in una regione in cui la popolazione adulta è normalmente immune (v. Nair e altri, 1996). La tipizzazione dei ceppi isolati dai pazienti rivelò che erano tutti appartenenti a un unico sierotipo non-O1 diverso dai 138 sierotipi noti, che venne perciò denominato Vibrio cholerae O139, indicato anche con il sinonimo ‛Bengal' (v. International Centre for Diarrhoeal Diseases Research, 1993).
Studi approfonditi, condotti principalmente in Giappone, hanno consentito di determinare le caratteristiche principali del nuovo ceppo: 1) non agglutina con l'antisiero polivalente O1; 2) a differenza degli altri ceppi non-O1, non agglutina con gli antisieri non-O1 noti; 3) produce la tossina del colera; 4) la composizione dei lipopolisaccaridi di superficie è diversa da quella di tutti gli altri vibrioni; 5) le cellule sono avvolte da una capsula di polisaccaridi (v. Nair e altri, 1994).
Le manifestazioni cliniche della malattia indotta dal ceppo O139 Bengal (persistente dissenteria e vomito) non sono quasi distinguibili da quelle classiche del colera, tranne che per la frequente presenza di crampi addominali. Tuttavia, date le diverse proprietà antigeniche, una precedente infezione da ceppi del gruppo O1 non conferisce immunità (v. Nair e altri, 1996). La terapia, oltre che sulle misure atte a compensare la disidratazione del paziente, è basata sulla somministrazione di tetraciclina, antibiotico a cui il microrganismo è molto sensibile; risultati preliminari incoraggianti sono stati ottenuti con un vaccino, attualmente in fase di sviluppo (v. Tacket e altri, 1995).
Sono stati condotti ulteriori studi volti a determinare l'origine del ceppo Bengal e, sulla base delle attuali conoscenze, si ritiene che esso provenga da un ceppo di Vibrio cholerae O1 El Tor che ha acquisito da un ceppo non-O1, mediante trasferimento orizzontale, alcuni geni i quali ne hanno alterato le proprietà antigeniche (v. Pajni e altri, 1995).
2. Escherichia coli O157:H7 e altri sierotipi enteroemorragici. - Nel 1982 si verificarono negli Stati Uniti alcuni casi di colite emorragica, apparentemente connessi al consumo di hamburgers insufficientemente cotti. Analisi di laboratorio rivelarono che l'agente eziologico era un nuovo sierotipo di Escherichia coli, denominato O157:H7 (v. Riley e altri, 1983). Nel decennio successivo lo studio di numerosi casi sporadici ed episodi epidemici ha dimostrato che l'infezione da E. coli O157:H7 è responsabile di diverse manifestazioni cliniche, talvolta difficili da diagnosticare (v. Boyce e altri, 1995). Negli adulti il quadro clinico di più frequente osservazione è una severa colite emorragica, con crampi addominali, nausea e vomito, raramente con febbre, sintomi che normalmente scompaiono in una settimana, senza lasciare sequele; nei bambini la manifestazione più frequente è una persistente diarrea. Tuttavia, nel 10% circa dei pazienti minori di dieci anni, e più raramente negli anziani, la colite evolve nella gravissima sindrome uremica emolitica, caratterizzata da anemia emolitica, trombocitopenia, blocco renale e lesioni al sistema nervoso. Questa sindrome risulta letale in circa il 6% dei casi ed è causa di persistenti danni renali o cerebrali in circa il 30% delle persone affette (v. Tarr, 1995).
Il ceppo E. coli O157:H7 è patogeno in quanto esprime fattori di virulenza, tra cui le intimine, proteine che aderiscono alla membrana delle cellule, e fattori di patogenicità, in particolare una delle due vero-citotossine SLT (Shiga-Like Toxin) I e II, o entrambe. Le manifestazioni cliniche sono causate dalle citotossine che agiscono sulla mucosa intestinale provocando lesioni attraverso le quali possono poi diffondere nel circolo sanguigno; in particolare la sindrome uremica emolitica appare associata a ceppi produttori di SLT II (v. Louise e Obrig, 1995). La produzione di queste tossine da parte di un ceppo microbico è una condizione necessaria ma non sufficiente per l'instaurarsi della enterocolite emorragica: numerosi sierotipi di E. coli, oltre allo O157:H7, producono tossine del tipo Shiga, ma solo i sierotipi O26, O111 e pochissimi altri sono stati sicuramente identificati come agenti eziologici della malattia. Questi ceppi vengono collettivamente indicati come Escherichia coli enteroemorragico (v. Tarr e Neill, 1996).
Fino al 1991 la diffusione di E. coli O157:H7 era quasi esclusivamente limitata al Nordamerica e alla Gran Bretagna (v. Griffin e Tauxe, 1991), dove erano stati riscontrati casi sporadici o modesti episodi epidemici di colite emorragica. Negli anni successivi, nonostante gli avvertimenti delle autorità sanitarie, gli episodi di infezione si sono moltiplicati (v. Cannon e altri, 1996). Dal gennaio 1993 al settembre 1995 si sono verificati negli Stati Uniti 63 episodi epidemici che hanno coinvolto oltre 1.700 persone. Nella maggior parte dei casi (tipico l'episodio epidemico che ha colpito cinquecento persone nello Stato di Washington) la fonte dell'infezione è stata individuata nel consumo di cibi a base di carne bovina tritata; in altri casi l'infezione è risultata trasmessa attraverso il contatto di carne cruda con le mani o con altri cibi, oppure per contatto da persona a persona, specialmente tra i bambini negli asili nido (v. Boyce e altri, 1995).
Nell'Europa continentale le infezioni da E. coli enteroemorragico sono più rare. In quest'area, infatti, anche se l'agente eziologico più comune dell'enterocolite emorragica rimane il sierotipo O157:H7, la presenza di sierotipi diversi è più frequente che nel Nordamerica (v. Tarr e Neill, 1996). In Italia l'incidenza dell'infezione sembra minore che in altre nazioni: i casi di sindrome uremica emolitica verificati dal 1988 al 1992 sono stati circa venti per anno, con una frequenza annua di circa 0,2 per 100.000 residenti di età inferiore ai quindici anni. Tuttavia, un episodio infettivo causato dal sierotipo O111 è stato riscontrato nel 1993 nella Lombardia orientale, dove per nove bambini che presentavano gravi sintomi si è reso necessario il ricovero in ospedale (v. Caprioli e altri, 1994).
Il serbatoio dell'infezione è costituito dai bovini, nei quali E. coli enteroemorragico può far parte della normale flora microbica. Occasionalmente le feci di questi animali possono inquinare le acque che riforniscono i sistemi idrici, o più frequentemente nella loro macellazione tagli di carne possono essere contaminati in superficie; la cottura elimina facilmente il microrganismo, ma la temperatura, all'interno delle preparazioni a base di carne tritata, deve raggiungere almeno 70 °C. Il contagio può inoltre avvenire per via oro-fecale, particolarmente tra bambini o in comunità per anziani (v. Armstrong e altri, 1996).
Il trattamento con antibiotici dei casi di enterocolite emorragica è oggetto di dibattito, ma viene generalmente sconsigliato in quanto, provocando la lisi delle cellule batteriche, potrebbe favorire il rilascio delle tossine. È anche sconsigliato l'uso di farmaci inibenti la motilità intestinale, mentre può essere utile la reidratazione per via endovenosa. Nei casi che evolvono in sindrome uremica emolitica può essere necessaria la dialisi e la trasfusione di eritrociti e piastrine (v. Tarr, 1995).
c) Batteri resistenti a diverse classi di antibiotici
Il problema dell'insorgenza di ceppi resistenti a determinati antibiotici in popolazioni di batteri originariamente sensibili è stato causa di preoccupazione sin dall'inizio della cosiddetta ‛era degli antibiotici' (v. Finland e altri, 1959). La preoccupazione è aumentata quando ci si è resi conto che i geni determinanti la resistenza possono essere trasferiti da una cellula batterica a un'altra, anche appartenente a una diversa specie (v. Anderson, 1968). Tuttavia, solamente all'inizio degli anni novanta la diffusione della resistenza in alcune specie patogene è diventata una vera emergenza clinica (v. Kunin, 1993): fino ad allora, infatti, era sembrato che il fenomeno potesse essere tenuto sotto controllo mediante un uso razionale degli antibiotici esistenti e grazie all'introduzione in terapia di nuovi antibiotici attivi sui ceppi resistenti. Purtroppo, la ricerca di nuovi antibiotici si è rivelata costantemente meno fruttuosa; l'ultimo antibiotico naturale, la teicoplanina, è stato isolato nel 1978 e introdotto nella pratica clinica nel 1988, e i nuovi chemioterapici ottenuti modificando i prodotti noti non si sono rivelati particolarmente attivi su diversi importanti ceppi resistenti (v. Lancini e altri, 1995).
Il problema della resistenza batterica è inoltre aggravato da fattori demografici, quali l'aumento della popolazione, l'urbanizzazione e l'emigrazione, che creano condizioni favorevoli alla trasmissione di infezioni. È da notare che l'eziologia da batteri resistenti è sempre più frequente nelle infezioni ospedaliere che in quelle della popolazione in generale, talché negli studi epidemiologici le due condizioni vengono spesso trattate separatamente (v. Cohen, 1992).
Bisogna ricordare che la resistenza batterica, sebbene venga comunemente considerata in termini generali, è di fatto costituita da singoli episodi specifici relativi a un microrganismo, a uno o più antibiotici e a un'area geografica. Per esempio, la maggior parte dei ceppi di Staphylococcus aureus è diventata resistente alla penicillina G in meno di dieci anni, mentre Streptococcus pneumoniae è rimasto quasi costantemente sensibile, per oltre quaranta anni, allo stesso antibiotico, che pure è stato ampiamente usato. Di converso, uno stesso microrganismo presenta frequenze di resistenza diverse ai diversi antibiotici: la frequenza di ceppi ospedalieri di Escherichia coli resistenti all'ampicillina è circa venti volte superiore a quella dei ceppi resistenti alla gentamicina, nonostante l'uso dei due antibiotici negli ospedali sia quantitativamente simile. La dipendenza dall'area geografica è chiaramente illustrata dalla frequenza dei ceppi di Pseudomonas aeruginosa resistenti alla gentamicina nelle nazioni europee: da meno del 5% in Inghilterra e Svizzera a più del 35% in Francia, Grecia e Italia (v. Wiedemann, 1996).
Si considerano malattie emergenti, o più propriamente riemergenti, le infezioni dovute a specie di microrganismi originariamente sensibili a determinati chemioterapici e che ora presentano una elevata frequenza di resistenza agli stessi agenti.
1. Stafilococchi. - I vari ceppi di Staphylococcus aureus, uno tra i più diffusi patogeni, negli anni quaranta erano quasi uniformemente sensibili alla penicillina G, allora da poco scoperta, ma già negli anni cinquanta ceppi resistenti venivano identificati con frequenza crescente (v. Finland e altri, 1959). Questi ceppi eludono l'azione della penicillina producendo un enzima, detto penicillinasi (appartenente a una vasta famiglia di cui ora sono noti vari componenti, detti β-lattamasi), che inattiva chimicamente la penicillina convertendola in acido penicilloico. Il problema venne temporaneamente superato dalla ricerca farmaceutica sia mediante l'associazione alla penicillina di un inibitore delle β-lattamasi, quale l'acido clavulanico, sia con la produzione di nuove penicilline, in particolare la meticillina e i suoi congeneri, insensibili all'azione delle penicillinasi (v. Neu, 1992). Tuttavia, nel 1961 venne isolato in clinica un ceppo di S. aureus resistente alla meticillina (v. Jevons, 1961), e da allora un numero sempre crescente di ceppi con questa resistenza è stato riscontrato nelle più diverse aree geografiche. La pericolosità clinica di questi ceppi, detti MRSA (Methicillin Resistant Staphylococcus Aureus), risiede nel fatto che sono resistenti non solo alla meticillina, ma a tutti gli antibiotici β-lattamici e quindi, oltre che alle penicilline, anche alle cefalosporine e ai più recenti carbapenemici. Questa estesa forma di resistenza è dovuta alla produzione di una proteina, detta PBP (Penicillin Binding Protein) 2a, che sostituisce funzionalmente tutte le altre PBP, bersaglio d'azione tipico degli antibiotici β-lattamici (v. De Lencastre e altri, 1994). Il problema terapeutico è accentuato dal fatto che i geni determinanti la sintesi della proteina PBP 2a sono localizzati su un trasposone, un elemento genetico mobile che può essere trasferito da cellula a cellula, sul quale sono frequentemente localizzati anche i determinanti della resistenza ad altri antibiotici (v. Lyon e Skurray, 1987; v. genetica, voll. VIII e X).
La maggior parte dei ceppi MRSA sono oggi resistenti anche ai macrolidi, alle tetracicline, agli amminoglicosidi e ad altri antibiotici minori. Per esempio, alla metà degli anni ottanta gli MRSA erano generalmente sensibili ai nuovi fluorochinolonici, ma già all'inizio degli anni novanta oltre l'80% degli MRSA isolati in clinica era resistente a questi chemioterapici (v. Neu, 1992). I dati epidemiologici disponibili sulla frequenza di ceppi MRSA riguardano quasi esclusivamente l'ambiente ospedaliero, data la difficoltà di ottenerli nella popolazione in generale. Secondo dati del sistema di sorveglianza ospedaliera americano, nel 1991 il 29% dei ceppi di S. aureus isolati negli ospedali degli Stati Uniti era costituito da MRSA; nell'Europa occidentale ne è stata riscontrata una frequenza variabile da meno dell'1% in Danimarca e Svezia a oltre il 30% in Francia, Spagna e Italia (v. Voss e Doebbeling, 1995). Percentuali più elevate si riscontrano nelle infezioni acquisite nelle unità di cura intensiva, il 30% delle quali, secondo una recente indagine europea, è dovuto a S. aureus, con una frequenza dell'80% di MRSA in Italia, Francia e Grecia. La situazione è analoga, o talvolta più grave, per quanto riguarda le specie di stafilococchi diverse da S. aureus: particolarmente difficile può essere la terapia delle infezioni da stafilococchi coagulase-negativi, quali S. haemolyticus e S. epidermidis, molto frequentemente resistenti oltre che ai β-lattamici, agli amminoglicosidi e ai fluorochinoloni (v. Spencer, 1996).
Un importante serbatoio di stafilococchi nella popolazione sono le narici di portatori sani; negli ospedali serbatoi di infezione possono essere le piaghe da decubito, le ferite in genere e il personale ospedaliero che, se non applica rigorosamente le norme igieniche, può trasmettere l'infezione da paziente a paziente (v. Peters e Becker, 1996).
Da quanto esposto è evidente che il trattamento chemioterapico delle infezioni da MRSA e da altri stafilococchi meticillino-resistenti è difficile. Gli antibiotici di prima scelta sono i glicopeptidi vancomicina e teicoplanina, unici antibiotici generalmente attivi su tutti gli stafilococchi; a questi possono eventualmente essere associati la rifampicina, l'acido fusidico, la fosfomicina o la clindamicina, a seconda del caso e dei risultati dell'antibiogramma (v. Peters e Becker, 1996).
2. Streptococchi. - Streptococcus pneumoniae, agente eziologico di malattie molto comuni quali la polmonite negli anziani e l'otite media e la meningite negli infanti, è molto sensibile alle penicilline, e per molti anni non ha dato luogo a significativi casi di resistenza a questi antibiotici. Soltanto nel 1977, in Sudafrica, è stato notato un numero consistente di resistenti tra i ceppi isolati in clinica o da portatori sani. Negli anni seguenti, cloni resistenti venivano isolati con frequenza variabile in Spagna, in Ungheria e negli Stati Uniti, e successivamente anche in altri paesi (v. Appelbaum, 1992). La resistenza si è diffusa negli anni recenti: nel 1990 la prevalenza di pneumococchi resistenti era superiore al 10% dei ceppi isolati in Sudafrica, Messico, Spagna e Ungheria, ma nel 1995 livelli analoghi erano rilevati anche in tutto il Nordamerica, in Argentina, in Brasile, in Francia, in Giappone e in alcune zone dell'Europa orientale e del Vicino Oriente (v. Klugman, 1996).
È importante precisare, tuttavia, che nel caso degli pneumococchi il termine ‛resistenza' è troppo generico e impreciso: infatti dei vari ceppi i più sensibili sono inibiti dalla concentrazione di 0,003 µg/ml di penicillina G, i più resistenti da quella di 8-16 µg/ml e numerosi altri da concentrazioni intermedie. Pertanto, convenzionalmente si considerano sensibili i ceppi inibiti da meno di 0,1 µg/ml di questo antibiotico, a resistenza intermedia quelli inibiti da concentrazioni tra 0,1 ed 1 µg/ml, e ad alta resistenza quelli inibiti solo da concentrazioni maggiori (v. Jacobs e Appelbaum, 1995).
Negli pneumococchi la resistenza alla penicillina G è dovuta alla produzione di una PBP con ridotta affinità per gli antibiotici β-lattamici, la PBP 2b, codificata da un gene a mosaico costituito da sequenze originali tra le quali sono intercalate sequenze di un gene omologo proveniente da streptococchi naturalmente insensibili alle penicilline (v. Klugman, 1996). Ne consegue che i ceppi con resistenza intermedia o elevata alla penicillina G sono poco sensibili o resistenti a quasi tutte le penicilline e cefalosporine, a eccezione di cefotaxime, ceftriaxone e imipenem-cilastatina che mantengono una discreta attività anche su ceppi a resistenza abbastanza elevata. Per quanto riguarda altri chemioterapici e antibiotici, si è osservato che i ceppi resistenti alla penicillina sono molto spesso resistenti al cotrimossazolo, al cloramfenicolo e alle tetracicline, frequentemente all'eritromicina e agli altri macrolidi (v. Jacobs e Appelbaum, 1995).
La conoscenza del quadro complessivo delle resistenze è ovviamente fondamentale per le scelte terapeutiche. Infatti, poiché alle alte dosi di penicillina G corrispondono nel sangue e in molti tessuti concentrazioni più elevate di 2 µg/ml, le polmoniti e le batteriemie da S. pneumoniae a resistenza intermedia possono essere trattate efficacemente con questo antibiotico o, alternativamente, con cefotaxime o ceftriaxone; nel caso di un ceppo altamente resistente ai β-lattamici, gli antibiotici di scelta sono la vancomicina o la teicoplanina (a cui lo pneumococco è invariabilmente sensibile) o l'imipenem-cilastatina. Nelle meningiti, poiché la concentrazione raggiungibile dalle penicilline nel liquido cerebrospinale è molto bassa, s'impone una scelta diversa a seconda del ceppo patogeno: se a resistenza intermedia si possono usare cefotaxime o ceftriaxone, se a resistenza elevata, vancomicina o teicoplanina più rifampicina (v. Lister, 1995; v. Klugman, 1996).
3. Enterococchi. - Dall'inizio del secolo è noto che gli enterococchi, normali componenti della flora batterica intestinale dell'uomo, possono essere patogeni in particolari circostanze. Per molti decenni sono stati una causa minore di morbilità, ma gradualmente, negli anni ottanta, sono stati identificati tra gli agenti eziologici più frequenti delle infezioni nosocomiali (v. Hoffmann e Moellering, 1987). Le patologie più diffuse sono, nell'ordine, le infezioni delle vie urinarie, le infezioni delle ferite o delle ustioni, le batteriemie e le endocarditi, causate nella maggior parte dei casi da Enterococcus faecalis e, in misura minore, da Enterococcus faecium (v. Murray, 1990).
Gli enterococchi sono intrinsecamente poco suscettibili all'azione della maggior parte degli antibiotici β-lattamici e degli amminoglicosidi e dimostrano inoltre nei confronti della benzilpenicillina e dell'ampicillina (i due β-lattamici più attivi) il fenomeno della ‛tolleranza': mentre l'azione di questi antibiotici su altri microrganismi è sempre battericida, sugli enterococchi è solo batteriostatica (v. Healy e Zervos, 1995).
Contemporaneamente alla diffusione delle infezioni da enterococchi si è verificato un notevole aumento della resistenza di questi microrganismi a diverse classi di antibiotici, prevalentemente dovuta a trasferimento orizzontale di geni localizzati su plasmidi o trasposoni. Non sono disponibili dati epidemiologici complessivi, ma indicativamente si consideri che, alla fine degli anni ottanta, degli enterococchi isolati in alcuni centri ospedalieri il 40% era resistente al cloramfenicolo e ai macrolidi, l'80% alla tetraciclina (v. Murray, 1990). Più grave, dal punto di vista delle possibilità terapeutiche, la diffusione della resistenza agli amminoglicosidi e alle penicilline che, somministrati in associazione (ad es., streptomicina e bezilpenicillina), costituivano il trattamento di scelta nelle endocarditi. In un'indagine ospedaliera è stato riscontrato che la concentrazione minima inibente delle penicilline per E. faecium è aumentata in media da 14 µg/ml nel periodo 1969-1988 a 129 µg/ml nel periodo 1989-1990 (v. Eliopulos, 1993); nel 1989 il 15% degli enterococchi isolati in un ospedale londinese risultava resistente alla gentamicina, e percentuali più elevate si riscontravano in diversi centri americani (v. Hall, 1993).
Negli enterococchi la resistenza ai β-lattamici è dovuta alla elevata produzione di PBP 5, che dimostra una bassa affinità per questi antibiotici, e di sue varianti, ancora meno affini (v. Fontana e altri, 1994). La resistenza agli amminoglicosidi è mediata dalla produzione di enzimi che ne inattivano la molecola mediante fosforilazione, acetilazione o adenilazione: poiché questi enzimi sono specifici per determinati substrati, si possono avere ceppi resistenti alla streptomicina e sensibili alla gentamicina, e viceversa (v. Healy e Zervos, 1995).
Fino alla fine degli anni ottanta le infezioni da enterococco multiresistente potevano venire trattate senza particolari problemi con gli antibiotici glicopeptidici (vancomicina negli Stati Uniti, teicoplanina in Europa). Nel 1988, tuttavia, furono individuati i primi ceppi resistenti alla vancomicina, che si diffusero rapidamente, particolarmente negli Stati Uniti, dove la loro presenza è stata riscontrata con un aumento della frequenza dallo 0,5% del 1989 al 10% del 1995 (v. Gold e Moellering, 1996). Fortunatamente in Europa i ceppi resistenti ai glicopeptidi sono più rari: nel 1995 un'indagine multicentrica ha rilevato frequenze comprese tra lo 0,6% del Belgio (0,9% in Italia) e il 4,2% della Svizzera (v. Brown e Courvalin, 1996).
I glicopeptidi agiscono complessandosi con il dipeptide D-alanil-D-alanina terminale dei precursori del peptidoglicano, e bloccando così la sintesi della parete cellulare. Sono stati identificati due fenotipi di E. faecalis ed E. faecium resistenti alla vancomicina: VanA e VanB. In entrambi i casi, la resistenza è codificata da un cluster di geni localizzati su un trasposone (e quindi trasferibile da cellula a cellula) che specificano la formazione di un peptidoglicano contenente D-lattato in luogo della D-alanina terminale. Nei ceppi VanA l'espressione dei geni di resistenza è indotta sia da vancomicina che da teicoplanina, nei ceppi VanB da vancomicina ma non da teicoplanina, alla quale sono invece sensibili (v. Arthur e altri, 1996). La frequenza dei ceppi resistenti alla teicoplanina è quindi alquanto inferiore di quella dei ceppi resistenti della vancomicina: secondo l'indagine sopra citata, in Europa nel 1995 l'1,7% dei ceppi isolati era resistente alla prima e il 2,2% alla seconda.
Da quanto esposto è evidente che la crescente diffusione di ceppi multiresistenti può costituire un serio problema per la terapia. È quindi molto sentita la necessità di attuare negli ospedali misure preventive per limitare la trasmissione dei patogeni da persona a persona e di perseguire la ricerca di nuovi antibiotici ad azione battericida, in quanto l'azione batteriostatica non è adeguata al trattamento di alcune patologie quali l'endocardite.
4. Mycobacterium tuberculosis. - La tubercolosi è in assoluto la principale causa di mortalità per malattie infettive tra gli adulti. Valutazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità stimano che nel 1990 si siano verificati 7,5 milioni di nuovi casi di tubercolosi e che vi siano stati 2,5 milioni di decessi per questa patologia; secondo le stesse stime la tendenza fino agli anni 2000 è per un aumento sia della morbilità che della mortalità (v. The global challenge..., 1994). Il 95% dei casi di tubercolosi si verifica nei paesi economicamente arretrati; tuttavia, in diversi paesi industrializzati, dopo un lungo periodo in cui sia la morbilità che la mortalità sono decresciute costantemente, si è avuta una ripresa della diffusione della malattia (v. Raviglione e altri, 1995). Negli Stati Uniti, per esempio, i casi sono diminuiti da 84.000 nel 1953 a circa 22.000 nel 1984, successivamente sono aumentati fino a oltre 26.600 nel 1992 per declinare fino a 22.800 nel 1995 (v. Kaye e Frieden, 1996). In Europa si registrano tendenze discordanti nei vari paesi: diminuzione della morbilità tra il 1974 e il 1992 in Germania e Belgio, aumento nello stesso periodo in Danimarca, Olanda e Norvegia, sostanziale stabilità nelle altre nazioni (v. Raviglione e altri, 1995). Si ritiene che in Italia la morbilità sia in aumento, ma non vi sono dati certi, in quanto molti casi non vengono notificati: nel 1990, per esempio, sono stati ufficialmente notificati 4.185 casi contro una autorevole stima di circa 20.000 casi reali (v. Migliori e altri, 1996). Si deve notare che nei paesi industrializzati, dove la quasi totalità dei casi è adeguatamente trattata, la letalità è di circa l'8% dei pazienti (la percentuale è inferiore se si considerano solo i casi non concomitanti con AIDS), mentre per l'Africa subsahariana il dato stimato è del 40%. (v. Raviglione e altri, 1995).
Le cause del riemergere della tubercolosi sono molteplici. L'incidenza di nuove infezioni e la riattivazione di infezioni latenti è elevata nei soggetti affetti da AIDS; in particolare, sono frequenti in questi pazienti le infezioni extrapolmonari. L'emigrazione verso i paesi industrializzati costituisce un altro fattore rilevante: in Danimarca, Olanda e Svizzera dal 40 al 50% dei nuovi casi è stato riscontrato in immigrati recenti. Le condizioni igienico-sanitarie delle popolazioni più povere, particolarmente nelle aree urbane, sono da sempre tra le cause principali della diffusione dell'infezione (v. Kaye e Frieden, 1996). Negli anni novanta si è aggiunto un nuovo fattore di rischio, con la comparsa di ceppi di Mycobacterium tuberculosis multiresistenti. Il problema della resistenza nei micobatteri presenta caratteristiche diverse da quello degli altri patogeni, in quanto la resistenza all'isoniazide, alla rifampicina e alla pirazinammide, i principali agenti antitubercolari, non è trasferibile; cloni di M. tuberculosis resistenti possono emergere da una popolazione batterica sensibile solo per selezione di mutanti spontanei. Benché la frequenza di mutanti resistenti a un singolo antibiotico sia relativamente elevata (un mutante su 106 ÷ 108 cellule), la probabilità di un doppio mutante, resistente a due antibiotici, è bassissima (pari al prodotto delle singole frequenze), e praticamente nulla quella per la resistenza a tre antibiotici. Da questo deriva l'efficacia della terapia combinata con l'associazione di tre farmaci. La comparsa di resistenza si verifica quando la terapia non è seguita correttamente e i pazienti, per trascuratezza o altro, si curano con un solo antibiotico: è inevitabile, in questo caso, la selezione di un clone resistente che, se il paziente viene successivamente trattato con un altro farmaco, diventerà resistente anche a questo, dando origine a un ceppo multiresistente (v. Chapman e Henderson, 1994).
L'incidenza dei ceppi resistenti varia notevolmente nelle diverse aree geografiche: frequenze dal 15 al 30% sono state riscontrate in alcuni paesi dell'Asia (v. Bustreo e altri, 1996); nel 1995 il 7,6% dei casi di tubercolosi registrati negli Stati Uniti era dovuto a ceppi resistenti all'isoniazide, e l'1,4% a ceppi multiresistenti (v. CDC, 1996). In Italia uno studio condotto a Roma negli anni 1990-1992 su un rilevante numero di pazienti ha riscontrato il 10,3% di ceppi resistente all'isoniazide, il 7,9% resistente alla rifampicina e il 5,7% resistente a entrambi gli antibiotici (v. Girardi e altri, 1996).
La terapia delle infezioni da ceppi resistenti è ovviamente complessa: i pazienti devono essere trattati con almeno quattro farmaci, scelti praticamente caso per caso a seconda del tipo di resistenza presentato dal microrganismo. Esistono, infatti, numerosi prodotti alternativi a quelli di prima scelta, quali l'amikacina, la ciprofloxacina, la capreomicina, l'etionammide e la cicloserina; tuttavia, questi farmaci sono meno efficaci o peggio tollerati degli antitubercolari classici (v. Iseman, 1993).
La necessità di affrontare globalmente il problema della tubercolosi è stata affermata da autorevoli ricercatori e dalle autorità sanitarie (v. Bloom e Murray, 1992) e nel 1993 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la tubercolosi una emergenza sanitaria globale. Le strategie proposte per fronteggiarne la diffusione prevedono un sistema generalizzato di sorveglianza per determinare la frequenza dei ceppi resistenti, e soprattutto l'applicazione della cosiddetta ‛terapia direttamente osservata': la corretta esecuzione del trattamento standard con tre-quattro farmaci, infatti, oltre a curare i pazienti, rappresenta il mezzo principale per limitare la diffusione dell'infezione. È necessaria, tuttavia, una costante supervisione, in quanto un'applicazione parziale del trattamento non solo non è efficace, ma comporta il rischio della selezione e della diffusione di ceppi multiresistenti (v. Kaye e Frieden, 1996).
d) Infezioni emergenti favorite da particolari condizioni dell'ospite
1. Terapie antitumorali. - I moderni farmaci citostatici, che indubbiamente contribuiscono a migliorare sostanzialmente la prognosi di diverse forme tumorali, comportano come inevitabile conseguenza la depressione delle difese immunitarie del paziente. Il trattamento delle leucemie, in particolare, induce granulocitopenia, una condizione che permette il rapido instaurarsi di infezioni batteriche. Nei pazienti che hanno da poco iniziato il trattamento è frequente l'insorgenza di setticemie da patogeni classici, enterobatteri e Pseudomonas aeruginosa (negli ultimi anni si è notato un relativo aumento di infezioni da Staphylococcus epidermidis); quando queste infezioni vengono controllate con l'uso dei numerosi antibatterici disponibili, possono subentrare infezioni da microrganismi opportunisti o meno virulenti, contro i quali le risorse terapeutiche sono molto limitate (v. Meunier, 19903).
Le infezioni da funghi sono comuni: un'estesa indagine basata su dati autoptici ha consentito di rilevare l'esistenza di micosi nel 25% dei casi di leucemia e nel 12 % di quelli di linfoma, in una percentuale meno elevata, circa il 5%, negli affetti da tumori solidi. L'organismo infettante in circa il 60% dei casi apparteneva al genere Candida ed era diffuso in diversi tessuti, nel 34% al genere Aspergillus, localizzato quasi sempre nei polmoni (v. Bodey e altri, 1992); raramente si riscontrano criptococchi o altri funghi (v. Anaissie e altri, 1989). Le specie di Candida più frequentemente isolate sono C. albicans e C. tropicalis; tuttavia l'uso di amfotericina B e di fluoconazolo, agenti a cui queste specie sono sensibili, ha portato a un aumento relativo di altre specie più resistenti, in particolare C. glabrata e C. parapsiliosis (v. Wingard, 1994). Tra i batteri opportunisti che colonizzano i pazienti sottoposti a trattamenti antitumorali prevale Mycobacterium avium, che tuttavia, a differenza di quanto osservato nei casi di AIDS, non si presenta con frequenze elevate (v. Wolinsky, 1992).
2. Trapianti di midollo e di organi. - Le gravi infezioni conseguenti alla terapia immunosoppressiva, necessaria per evitare la reazione di rigetto, sono una preminente causa di morbilità e mortalità nei recipienti di trapianti. Vi sono naturalmente differenze che dipendono dall'organo trapiantato, che determina principalmente la sede dell'infezione, e dagli agenti immunosoppressivi adottati, cui sono in parte correlate la frequenza e la gravità delle infezioni.
Il quadro degli episodi infettivi nei soggetti sottoposti al trapianto di midollo è simile a quello sopra riportato per le leucemie: prevalenza di batteri nel periodo iniziale, di Candida dalla seconda settimana e di Aspergillus dalla sesta settimana. Successivamente sono molto comuni le infezioni da virus del gruppo Herpes, particolarmente da Citomegalovirus (v. Meyers, 19903).
Analogamente, nel trapianto di organi si osserva una prevalenza di infezioni batteriche nel primo mese, micotiche e virali nel secondo mese, da Protozoi (particolarmente Pneumocystis carinii) nei mesi seguenti. La frequenza e la gravità degli episodi infettivi risultano particolarmente elevate nei recipienti di trapianto di fegato: le infezioni sono inizialmente addominali, ma si diffondono dando origine quasi inevitabilmente a batteriemie spesso letali. Molto elevate sono anche la frequenza e la gravità di infezioni, principalmente polmonari, dopo il trapianto di cuore e polmoni (v. Monto e altri, 19903). L'introduzione dei trattamenti comprendenti ciclosporina, un immunomodulante non citotossico, ha ridotto la morbilità e la mortalità conseguenti a questo tipo di trapianti; tuttavia dopo il trapianto di cuore si osserva ancora una mortalità per infezioni pari al 10-15% dei casi (v. Hofflin e altri, 1987). Nei trapianti di rene sono molto comuni le infezioni delle vie urinarie, che tuttavia non presentano difficili problemi terapeutici; più gravi sono le polmoniti, osservate in circa il 10% dei casi, a prognosi favorevole se batteriche, ma difficilmente curabili se dovute ad aspergilli (v. Peterson e Andersen, 1986).
3. Infezioni associate a protesi e cateteri. - Un importante fattore responsabile del potere patogeno dei microrganismi e della loro colonizzazione di organi e tessuti è rappresentato dal fatto che essi sono in grado di aderire a diverse superfici. Il materiale polimerico di cui è costituita la maggior parte dei cateteri e delle protesi è un substrato facilmente colonizzabile, in quanto non possiede le difese naturali presenti, ad esempio, nelle mucose. L'estesissimo uso di questi presidi è quindi all'origine di una considerevole parte delle infezioni nosocomiali.
Tra le infezioni associate a protesi sono particolarmente gravi le endocarditi da stafilococchi (raramente da Candida) in recipienti di valvole cardiache artificiali: la loro incidenza, secondo alcuni studi, non è molto elevata, pari a circa il 3,8% dei casi, ma la mortalità è alta, circa il 20% dei casi di infezione (v. Threlkeld e Cobbs, 19903). Più alta è l'incidenza di infezioni da catetere venoso centrale, che in alcuni ospedali è del 7% circa. Anche in questo caso gli stafilococchi, particolarmente S. epidermidis, sono gli organismi predominanti; altri batteri riscontrati sono i patogeni gram-negativi tipici delle infezioni nosocomiali. Nei pazienti immunodepressi le diverse specie di Candida rappresentano un problema crescente, causando dal 6% al 22% delle infezioni sistemiche associate a cateteri (v. Jansen, 1993); C. albicans è sempre l'agente più frequente, ma altre specie, meno sensibili agli agenti antimicotici, stanno emergendo rapidamente. In Italia un'estesa indagine condotta su mille pazienti in un ospedale universitario ha rilevato che le micosi da C. parapsiliosis sono aumentate da 0,7% negli anni 1983-1986 a 7,4% negli anni 1991-1994. La connessione causale con i cateteri è suggerita dal parallelismo esistente tra l'aumento delle infezioni e quello dell'uso di cateteri, e dall'osservazione che il 94% degli affetti da micosi era portatore di catetere venoso centrale (v. Girmenia e altri, 1996).
Sono in corso diversi studi che mirano alla prevenzione di queste infezioni. Un approccio è basato sullo sviluppo di nuovi materiali meno facilmente colonizzabili; sembra però più promettente la tecnica di impregnare i cateteri con antibiotici non comunemente utilizzati in terapia, che impediscano l'adesione dei batteri (v. Tunney e altri, 1996).
e) Influenza dell'ambiente sulla diffusione di malattie infettive.
1. Variazioni climatiche. - L'aumento della temperatura globale, previsto da molti esperti e secondo certi dati già in atto, comporta il rischio di diffusione di numerose malattie infettive. Particolarmente temute sono le diverse malattie virali trasmesse da Artropodi, attualmente limitate alle zone calde del pianeta, nelle quali è favorito lo sviluppo di tali vettori. Il rischio è tuttavia elevato anche per malattie protozoarie, particolarmente per la malaria, il cui agente principale, Plasmodium falciparum, si sviluppa solo in zone con isoterma invernale superiore ai 16 °C (v. Patz e altri, 1996). Una conferma che il rischio è reale si è avuta in Rwanda, dove, in seguito a una stagione anormalmente calda, la malaria si è estesa in zone di altopiano di solito indenni (v. Loevinshon, 1994). Si teme che il fenomeno possa ripetersi in aree urbane fittamente popolate, come Nairobi in Kenia e Harare nello Zimbabwe, nelle quali, grazie all'elevazione sul livello del mare, la malaria non è frequente (v. Patz e altri, 1996).
Per quanto riguarda le infezioni batteriche, si ritiene che la temperatura del mare più elevata della norma sia stata una concausa dell'epidemia di colera che nel 1991 ha colpito le zone costiere del Sudamerica (v. Swerdlow e altri, 1992): l'aumento della temperatura favorisce, infatti, lo sviluppo del plancton che costituisce un serbatoio di Vibrio cholerae e di altri batteri gram-negativi (v. Huq e altri, 1990).
2. Variazioni ecologiche locali. - È evidente che i cambiamenti delle colture agricole e forestali o nell'allevamento degli animali possono influire, in senso sia positivo che negativo, sulla diffusione di agenti patogeni. Si possono ricordare, per esempio, gli episodi epidemici di criptosporidiosi dovuti a inquinamento delle acque da feci di bovini (v. Current e Garcia, 1991). Paradossalmente, una grave infezione si è diffusa negli Stati Uniti a causa dell'abbandono di colture agricole situate nei pressi di zone suburbane fittamente popolate: in questo caso, l'inselvatichimento delle aree e lo sviluppo di boschi ha favorito un eccessivo ripopolamento di una specie di cervo americano, Odocoiles virginianus, portatore di zecche del genere Ixodes che possono trasmettere all'uomo e agli animali domestici una spirocheta, Borrelia burgdorferi, causa di una grave malattia detta ‛sindrome di Lyme' (v. Steere, 19903). La malattia, in realtà, è endemica nelle aree forestali dell'Europa, particolarmente tra i boscaioli, dove ha una incidenza limitata, mentre negli Stati Uniti si è diffusa rapidamente: nel 1991 sono stati accertati circa 10.000 casi (v. Barbour e Fish, 1993). Il sintomo iniziale dell'infezione è un tipico esantema, detto erythema migrans, che si espande dal punto di infezione. Se non opportunamente trattata, l'infezione si può diffondere in diversi organi: frequentemente nelle articolazioni, dove provoca fenomeni infiammatori; meno frequentemente nel sistema nervoso, con possibile insorgenza di meningiti e radicolonevriti, e al cuore, ove causa disturbi della conduzione. La tetraciclina è efficace per prevenire le conseguenze più gravi, se somministrata nelle fasi iniziali dell'infezione; nelle fasi più avanzate è consigliata la doxiciclina o un antibiotico β-lattamico (amoxicillina o ceftriaxone; v. Steere, 19903).
3. Malattie emergenti da infezioni virali
a) Premessa
Questo capitolo verte essenzialmente sull'AIDS che, al termine del secondo millennio, rappresenta l'esempio paradigmatico di una malattia emergente che ha sconvolto la convinzione diffusa che il periodo delle pestilenze prodotte da agenti infettivi si fosse ormai concluso. Tale malattia ‛nuova' ha messo in crisi anche sistemi di assistenza medica ben collaudati e si è estesa rapidamente negli Stati Uniti e in Europa, assumendo il carattere di pandemia con larga diffusione tra le popolazioni africane, asiatiche e sudamericane.
L'AIDS ha mobilitato un massiccio numero di ricercatori e ha prodotto studi epidemiologici, clinici e sperimentali in quantità finora mai realizzate in così breve tempo nel campo della biomedicina. Grazie alle precedenti ricerche condotte con successo sui Retrovirus, dopo appena due anni dall'inizio dell'epidemia è stato isolato il virus dell'immunodeficienza umana (HIV), che è l'agente causale dell'AIDS. Ciò ha consentito, tra l'altro, l'allestimento di esami diagnostici sierologici che, impiegati subito su larga scala nei centri trasfusionali e nella preparazione di emoderivati, hanno impedito che l'infezione si propagasse ulteriormente attraverso la somministrazione terapeutica del sangue e dei suoi derivati. Il pronto ed efficiente intervento della ricerca scientifica ha, d'altra parte, causato effetti collaterali per alcuni aspetti anch'essi ‛nuovi', legati all'esasperata competitività dei laboratori coinvolti, dando origine a un'annosa controversia che ha visto la partecipazione di governi e ha lasciato strascichi legali tra prestigiose istituzioni scientifiche. Va infine rimarcato come l'AIDS abbia profondamente scosso la società del benessere introducendo nuove problematiche etiche, culturali ed economiche: provvedimenti in difesa della sanità pubblica sono stati presi in aperta violazione dei diritti umani, e fenomeni di discriminazione e ghettizzazione hanno spesso alterato i rapporti interpersonali in famiglia, nella scuola, sul lavoro. È auspicabile che irrazionali paure e tabù scompaiano presto e che l'AIDS venga considerata alla stregua di una comune malattia infettiva che può colpire gente ‛normale' e non soltanto omosessuali e tossicodipendenti.
b) Epidemiologia
La prima comunicazione formale su casi clinici relativi a una nuova sindrome risale al 5 giugno 1981: nella pubblicazione settimanale ‟Morbility and mortality weekly report" dell'osservatorio di epidemiologia statunitense (Centers for Disease Control, CDC) venivano segnalati da ospedali di Los Angeles cinque casi di grave polmonite da Pneumocystis carinii in giovani maschi omosessuali, tre dei quali presentavano nel sangue periferico una drastica riduzione di linfociti T CD4+. Ulteriori segnalazioni provenivano quasi contemporaneamente da altre località della California e da New York, a giustificazione delle richieste avanzate dai centri medici per la fornitura di pentamidina, farmaco attivo nelle polmoniti da P. carinii. Molti soggetti risultavano affetti anche da sarcoma di Kaposi (per l'occasione etichettato gay cancer) a localizzazione, oltre che cutanea, anche mucosa e viscerale. Alla fine del 1981 i casi segnalati di AIDS erano circa 200, e importanti riviste mediche, quali ‟New England journal of medicine" e ‟The lancet", cominciarono a ospitare articoli sulla nuova sindrome; da allora l'AIDS, in crescita esponenziale, è dilagata in 190 paesi assumendo carattere di epidemia mondiale e raggiungendo alla fine del 1995, secondo stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, i 6 milioni di casi (v. Mertens e Piot, 19973).
In Italia, poiché i primi pazienti affetti da AIDS furono osservati nel 1982 e ancora nel giugno 1984 le segnalazioni si riferivano complessivamente solo a una decina di casi, l'inizio dell'epidemia è stato certamente tardivo e con modalità di circolazione del virus verosimilmente diverse rispetto agli Stati Uniti. Dal 1984 nel nostro paese è stato istituito un sistema ufficiale di sorveglianza epidemiologica e, a partire dal 1987, è diventata obbligatoria la denuncia dei casi di AIDS, poiché tale patologia è stata assimilata alle malattie infettive a notifica speciale (v. Rezza, 1994): dall'inizio dell'epidemia sino a giugno 1996 lo European Centre for the Epidemiological Monitoring of AIDS ha registrato 34.741 casi di AIDS (v. ‟HIV/AIDS surveillance in Europe", 1996); quindi, per quanto riguarda il numero totale di casi di AIDS, tra i paesi europei l'Italia segue la Francia e la Spagna. Nei soggetti con AIDS il tasso di letalità supera il 50%, ma questo dato è verosimilmente sottostimato, poiché la notifica del decesso, contrariamente a quella della diagnosi, non è stata resa obbligatoria e, nella valutazione della mortalità, va considerato il periodo di tempo intercorso dal momento della diagnosi di AIDS: per i casi notificati negli anni ottanta, la mortalità si avvicina al 90%.
La trasmissione dell'infezione da HIV avviene con tre modalità principali: mediante rapporti sessuali, attraverso il sangue, da madre a figlio. La trasmissione sessuale è responsabile globalmente di tre quarti dei casi di AIDS e, pertanto, l'infezione da HIV può essere considerata alla stregua di malattie a trasmissione sessuale. La netta prevalenza nel sesso maschile notata inizialmente era dovuta al fatto che, soprattutto nei paesi industrializzati, particolarmente esposti al contagio erano i giovani maschi omosessuali, a causa dell'elevato numero e della promiscuità dei partners e in conseguenza di pratiche sessuali rischiose. In seguito, con il propagarsi del virus, il contagio attraverso rapporti eterosessuali è diventato di gran lunga più frequente, come già avveniva nei paesi a basso livello socio-economico, dove ha rappresentato il mezzo principale di diffusione sin dalle prime fasi dell'epidemia. L'HIV è di solito presente nei linfociti e nei monociti-macrofagi di cui è ricco il liquido spermatico; queste cellule, in condizioni di flogosi cervico-vaginale, possono contaminare anche la mucosa vaginale. Il virus si propaga attraverso soluzioni di continuo delle mucose genitali e ano-rettale o, più raramente, attraversando la barriera epiteliale può raggiungere e infettare cellule del sistema macrofagico mucosale, da cui si diffonde a tutto l'organismo.
La trasmissione per via ematica diretta ha purtroppo avuto un ruolo rilevante nella diffusione della malattia prima che fossero messi a punto gli esami diagnostici per anticorpi anti-HIV: infatti, non poche trasfusioni di sangue e parecchi lotti di emoderivati anti-emofilici risultarono essere contaminati dal virus. Dopo l'introduzione obbligatoria di analisi sulle donazioni di sangue e di procedure di rigorosa sterilizzazione sugli emoderivati, il pericolo di trasmissione ‛iatrogena' dell'infezione si è notevolmente ridotto, almeno nei paesi industrializzati. Relativamente al 1995 in molti paesi europei, Italia inclusa, da 1 a 5 donazioni su 100.000 sono risultate positive per anticorpi anti-HIV (e ovviamente sono state scartate). Tuttavia, anche se solo teorico, il rischio di contrarre il virus attraverso trasfusioni permane, poiché la produzione di anticorpi avviene dopo un periodo minimo di 2-3 settimane dall'infezione primaria (periodo ‛finestra') e quindi nel sangue di un donatore contagiato da pochi giorni non sarebbero riscontrabili anticorpi specifici. Da qui deriva la buona prassi di limitare le trasfusioni ai casi di reale necessità, e di utilizzare ove possibile l'auto-emotrasfusione. Purtroppo, nei paesi sottosviluppati il contagio nosocomiale (per trasfusioni di sangue infetto, uso di siringhe e strumenti non appropriatamente sterilizzati) è ancora presente. Va anche ricordato quanto accaduto in Romania, ove la sciagurata tendenza terapeutica a trasfondere nei primi anni di vita bambini iposviluppati ha causato oltre 800 casi di AIDS pediatrico (v. Hersh e altri, 1991).
La trasmissione per via ematica è anche alla base del contagio in seguito ad assunzione di droga per via endovenosa: lo scambio di siringhe e di aghi infetti presenta, infatti, un alto rischio di trasmissione del virus. In Italia, così come in Spagna e Portogallo, i tossicodipendenti rappresentano la quota maggiore di soggetti colpiti da AIDS (in Italia il 68% circa), realizzando quello che viene definito il ‛modello mediterraneo' di diffusione dell'infezione da HIV (v. Rezza, 1994). I dati riportati per l'Italia dai SERT (servizi di assistenza per i tossicodipendenti) mostrano chiaramente un gradiente nord-sud, con prevalenze d'infezione tra i tossicodipendenti di oltre il 50% a Milano, 30% a Roma, meno del 10% nell'area napoletana. Segnali positivi rappresentati da un decremento dell'incidenza di nuovi casi di infezione tra i tossicodipendenti provengono dalle indagini recenti, ma è opportuno che questa variazione di tendenza venga verificata nel medio-lungo periodo.
La trasmissione madre-figlio può avvenire all'interno dell'utero per via transplacentare, durante il parto, oppure attraverso l'allattamento. Da studi europei (v. European Collaboratory Study, 1992) è risultato che la percentuale di trasmissione da madre infetta ai figli varia dal 15 al 20% circa. Percentuali più alte, fino al 48%, sono riportate per i paesi africani, verosimilmente a causa del fatto che il virus può essere trasmesso anche durante l'allattamento, in Europa sconsigliato per le madri sieropositive, ma necessariamente praticato presso molte popolazioni africane per il difficile reperimento di un'alimentazione sostitutiva. I dati raccolti dal Registro italiano per le infezioni pediatriche da HIV indicano che più del 90% dei bambini contrae l'infezione in epoca perinatale (v. Italian Register for HIV Infection in Children, 1994). Le condizioni che favoriscono il passaggio del virus dalla madre al figlio non sono ancora chiare: sicuramente, una fase avanzata di malattia, con alta carica virale plasmatica, sembra correlata con un maggior rischio di trasmissione. D'altra parte, è anche possibile che siano in gioco fattori di resistenza ‛naturale' fetale o neonatale (v. Ometto e altri, 1995) e che l'assenza di infezione nella grande maggioranza di bambini nati da madri positive per l'HIV non sia imputabile solo a eventi stocastici.
c) Aspetti virologici
L'HIV appartiene alla famiglia dei Retrovirus, sottofamiglia Lentivirus. I Retrovirus sono virus a RNA molto diffusi nel regno animale e, come sequenze nucleotidiche retrovirali endogene, sono molto conservati nella filogenesi (v. Coffin, 19963). Il loro nome deriva dalla peculiare modalità del ciclo replicativo che prevede la retrotrascrizione, da parte dell'enzima virale trascrittasi inversa (RT, DNA-polimerasi RNA-dipendente), dell'RNA genomico in un DNA provirale in grado di integrarsi stabilmente nella cellula ospite (v. virus, vol. VII; v. neoplasie: Oncologia sperimentale, vol. XI). Il genoma dei Retrovirus è costituito da due copie identiche di 10 kilobasi di RNA, e comprende, oltre al gene pol che codifica la RT, i geni gag ed env responsabili della sintesi delle proteine strutturali del virione. Mentre cinque dei sette gruppi di Retrovirus comprendono virus con capacità oncogena appartenenti alla sottofamiglia degli Oncornavirus e la sottofamiglia Spumavirus annovera virus la cui patogenicità è ancora da definire, i Lentivirus sono caratterizzati dalla capacità di causare infezioni croniche persistenti nelle quali le manifestazioni cliniche della malattia sono precedute da lunghi periodi di incubazione. Questi virus infettano cellule del sistema emolinfopoietico, hanno effetto citopatico ed eludono abitualmente le difese immunitarie dell'organismo producendo a lungo andare lesioni irreversibili e gravi alterazioni funzionali, fra cui appunto l'immunodeficienza.
L'HIV - messo in evidenza, come si è già detto, nel 1983 a partire da colture linfocitarie ottenute da un paziente con linfoadenopatia e immunodeficienza (v. Barré-Sinoussi e altri, 1983) e successivamente da soggetti affetti da AIDS (v. Gallo e altri, 1984) - è, tra i Lentivirus, il più studiato nelle caratteristiche morfologiche, molecolari e funzionali. Indicato con varie denominazioni (HTLV-III, LAV), ha ricevuto l'attuale denominazione nel 1986 da una commissione di nomenclatura virologica (v. Coffin e altri, 1986). Più specificatamente, HIV-1 è l'agente causale della gran parte dei casi di AIDS nel mondo, mentre un secondo Lentivirus umano, HIV-2, isolato nel 1985, è maggiormente diffuso nell'Africa occidentale e ha potere patogeno attenuato, pur potendo provocare ugualmente l'AIDS.
Si è discusso molto se l'agente responsabile di una malattia ‛nuova' dovesse essere anch'esso ‛nuovo'. Tra le varie ipotesi avanzate, la più plausibile sembra essere quella secondo cui l'HIV sarebbe emerso di recente da un serbatoio animale costituito da alcune specie di scimmie e, trasmesso accidentalmente dall'animale all'uomo, avrebbe acquisito, per variabilità genetica, spiccato tropismo per la specie umana (v. Essex, 19973). In effetti, l'omologia molecolare tra il virus dell'immunodeficienza della scimmia (SIV) e l'HIV è alta (50% per HIV-1 e 75% per HIV-2), e il tasso di variazione nella sequenza nucleotidica del gene env dell'HIV-1 è rilevante, aggirandosi sull'1% per anno. Inoltre, la prima evidenza di infezione da HIV-1 basata sulla dimostrazione di anticorpi specifici è stata ottenuta in Africa centrale nel 1959 (v. Nahmias e altri, 1986), e segnalazioni di casi con manifestazioni cliniche simili all'AIDS sono state non di rado effettuate in Africa ben prima che la sindrome fosse descritta negli Stati Uniti.
Il ciclo replicativo dell'HIV inizia con l'adesione della particella infettante alla superficie della cellula bersaglio (v. Coffin, 19963): il legame avviene tra la glicoproteina dell'involucro virale, gp120, e la molecola CD4, un recettore presente sulla membrana cellulare, e fa sì che un'altra proteina virale, gp41, operi la fusione dell'involucro pericapsidico virale con la membrana cellulare, consentendo al virus di penetrare nel citoplasma. Recenti ricerche hanno dimostrato che, oltre al CD4, funzionano da corecettore per l'HIV e sono indispensabili per l'infezione altre molecole appartenenti alla famiglia dei recettori per le chemochine, fattori prodotti da cellule del sistema immunitario necessari per la migrazione leucocitaria o chemotassi (v. Premack e Schall, 1996). Quindi, per la penetrazione nella cellula, l'HIV utilizza molecole il cui ruolo fisiologico è molto importante per l'attività funzionale della cellula stessa. Una volta nel citoplasma, il virione perde l'involucro e l'RNA genomico, sotto forma di complesso nucleoproteico, viene rapidamente convertito a opera della trascrittasi inversa in una copia di DNA bicatenario e trasportato nel nucleo ove, grazie a un altro enzima virale, l'integrasi, si inserisce nel DNA cromosomico ospite. Il provirus DNA-integrato si comporta quindi come qualsiasi gene cellulare e può replicarsi in maniera sincrona con il DNA cellulare. È da notare che l'HIV, diversamente da altri retrovirus, può infettare anche cellule non in ciclo replicativo e integrarvisi, peculiarità che consente al virus di annidarsi in cellule quiescenti.
L'espressione del provirus comporta la sintesi di RNA genomico virale e di RNA messaggero (mRNA) virale che, a seguito di una complessa elaborazione, danno origine a precursori proteici dai quali, per scissione proteolitica operata dalla proteasi, derivano le proteine strutturali virali. Queste ultime vengono assemblate con l'RNA genomico a livello della membrana citoplasmatica per formare una nuova particella virale che gemma a guisa di una estroflessione della membrana medesima, staccandosi infine da essa negli spazi extracellulari. Nel processo di gemmazione diversi componenti strutturali della membrana plasmatica cellulare rimangono incorporati nell'involucro virale: ciò spiega fenomeni apparentemente antitetici, quali la capacità di eludere parzialmente la reazione immunitaria dell'ospite attraverso un ‛mimetismo' fenotipico e l'innesco di processi autoimmunitari per rottura della tolleranza verso molecole self (v. immunologia: Autoimmunità, vol. XI). Il controllo della trascrizione provirale è alquanto complesso, poiché sia sequenze virali regolatrici che fattori cellulari e segnali extracellulari possono indurre drastici cambiamenti, da una condizione di quasi completa latenza con livelli di espressione non svelabili, a un'attiva produzione di trascritti virali. Tra le sequenze virali vanno ricordate innanzitutto le LTR (Long Terminal Repeats), che hanno la funzione di promuovere, potenziare o arrestare la trascrizione del provirus; il gene tat (trans activator of transcription), il cui prodotto proteico è essenziale per l'inizio della trascrizione; e il gene rev (regulator of virion expression), la cui proteina è responsabile per la stabilizzazione e il trasporto nucleo-citoplasmatico degli mRNA virali. In aggiunta ai geni regolatori tat e rev, altri geni definiti accessori (vif, vpr, vpu, nef) rendono l'organizzazione genomica dell'HIV complessa, e ciò si contrappone alla struttura ‛semplice' di altri retrovirus il cui genoma comprende, oltre alle LTR, solo i geni strutturali gag, pol, env. I fattori cellulari coinvolti nell'attivazione virale appartengono essenzialmente alla famiglia dei fattori trascrizionali, la cui azione si estrinseca a vario livello nella cascata di eventi molecolari connessi con la trasduzione di segnali che raggiungono la cellula dall'esterno. Molti dei fenomeni descritti nell'interazione in vitro HIV-cellula ospite si riferiscono a linfociti T CD4+: antigeni, mitogeni, citochine possono indurre, attraverso il legame con molecole recettoriali di membrana, uno stato di attivazione del provirus in cellule infettate in fase latente, o promuovere una maggiore produzione di RNA virale. È molto plausibile che simili fenomeni possano verificarsi anche in vivo, assumendo un rilevante ruolo patogenetico attraverso l'instaurarsi di un circolo vizioso del tipo: infezione opportunistica-stimolazione antigenica-aumento della viremia-aggravamento dell'immunodeficienza (v. Fauci, 1996).
Diversi tipi di cellule possono essere infettati dall'HIV e permetterne la replicazione. Tuttavia, i bersagli preferenziali sono rappresentati dai linfociti T CD4+ e dai monociti-macrofagi. Anzi, il più delle volte sono proprio questi ultimi gli elementi cellulari colpiti nell'infezione primaria e per una lunga fase ne costituiscono il réservoir virale. Sulla base del tropismo mostrato in vitro, si è soliti distinguere i ceppi isolati di HIV in monocitotropici, linfocitotropici e dualtropici; i ceppi monocitotropici crescono sia su monociti che su linfociti CD4+ (V. De Rossi e altri, 1995), i ceppi linfocitotropici e dualtropici, oltre che linfociti CD4+, sono in grado di infettare cellule T neoplastiche appartenenti a linee stabilizzate in vitro e di replicarvisi. I ceppi isolati linfocitotropici e dualtropici in colture linfocitarie di solito inducono effetti citopatici che consistono nella formazione di voluminosi sincizi (virus SI, syncytium inducing); i ceppi monocitotropici sono abitualmente privi di questa capacità (virus NSI). I virus SI sono anche caratterizzati da una rapida e attiva replicazione (rapid/high), mentre quelli NSI mostrano bassi livelli e lenta replicazione (slow/low). Il tropismo cellulare è determinato dalla sequenza amminoacidica della gp120 codificata dal gene env, e in particolare della regione chiamata V3, che condiziona quindi anche le capacità infettive, citopatiche e antigeniche. Il sequenziamento nucleotidico di ceppi HIV-1 isolati in varie aree geografiche ha dimostrato un'ampia divergenza, e ha portato a suddividere l'HIV-1 in almeno nove sottotipi (o clades) A, B, C, D, E, F, G, H, O. In Europa e negli Stati Uniti predomina il sottotipo B, mentre i sottotipi A, C e D sono stati isolati più frequentemente in Africa; il sottotipo E è presente soprattutto in Thailandia e sembra essere diffuso di preferenza attraverso la trasmissione eterosessuale, infettando principalmente i macrofagi delle mucose genitali. Alcuni sottotipi potrebbero aver avuto origine per ricombinazione genomica e non è ancora chiaro se vi sia corrispondenza tra genotipi e fenotipi sierologici. In ogni caso, l'esistenza di una variabilità nelle sequenze nucleotidiche dell'HIV-1 deve essere tenuta in considerazione nella produzione di kits per esami diagnostici e nella preparazione di vaccini, procedure entrambe basate principalmente sul sottotipo B.
d) Patogenesi e storia naturale
La patogenesi dell'AIDS è molto complessa e dipende da più fattori insiti nel virus e nell'ospite. L'evento iniziale è rappresentato dall'infezione dell'HIV che altera la struttura e la funzione del sistema immunitario provocando, sia pure in un lungo periodo di tempo, effetti devastanti sull'organismo. Stime precise indicano che, nel corso dell'infezione, circa 1010 virioni vengono prodotti ed eliminati ogni giorno; il ciclo replicativo completo del virus ha la durata di 2,6 giorni e coinvolge nell'infezione 1010 linfociti T CD4+, la cui emivita è di 1,6 giorni (v. Perelson e altri, 1996). A causa di un inefficiente sistema di riconoscimento degli errori di trascrizione, peculiare dell'HIV, si verificano circa 3 × 10-5 mutazioni per nucleotide per ciclo replicativo. In considerazione del fatto che il genoma virale consta di 104 nucleotidi e in ragione dell'alto ritmo replicativo è virtualmente possibile che nella popolazione virale di un singolo paziente ogni giorno vengano generate molteplici mutazioni (v. Coffin, 1995). Questa estrema eterogeneità, che è determinante nell'emergenza di varianti resistenti ai farmaci, si estrinseca anche a livello antigenico, sollecitando un'efficiente risposta immunitaria cellulare. È stata avanzata l'ipotesi che la reazione immunitaria, sostenuta principalmente da linfociti T citotossici (CTL), per un tempo molto lungo (corrispondente alla fase asintomatica) sia in grado di fronteggiare l'HIV: tra virus e risposta immunitaria si realizzerebbe un equilibrio dinamico destinato a durare fintanto che la generazione di linfociti T CD4+ continua a ritmi sufficienti a bilanciare la quantità di virus presente nell'organismo (v. Miedema e Klein, 1996). La progressione verso la malattia conclamata inizia allorché la produzione di linfociti T gradualmente si esaurisce ed emergono varianti virali non più riconosciute dai CTL (escape mutants; v. Goulder e altri, 1997). In definitiva, nell'AIDS in fase avanzata si osserva un drastico calo dei linfociti T CD4+, una diminuita risposta dei CTL, un aumento della viremia e una relativa riduzione dell'eterogeneità virale (v. Pantaleo e Fauci, 1995).
La reazione immunitaria dell'ospite si manifesta anche con la sintesi di anticorpi verso i vari antigeni virali: la dimostrazione di anticorpi nel siero e in altri liquidi biologici costituisce la base del procedimento diagnostico che, in prima istanza, svela la presenza di infezione. Gli anticorpi, tuttavia, non sono sempre protettivi e in grado di neutralizzare il virus, anzi talvolta possono facilitare l'ingresso dell'HIV nelle cellule; inoltre, non vi è grande correlazione tra esistenza di anticorpi neutralizzanti e protezione contro la progressione clinica. La stimolazione antigenica sul compartimento linfocitario B, deputato alla sintesi anticorpale è, tuttavia, marcata e persistente per tutta la durata dell'infezione e può essere svelata mediante la dimostrazione della produzione spontanea in vitro di anticorpi anti-HIV, osservabile in colture di linfociti B (v. Amadori e altri, 1988). L'intensa attivazione e proliferazione dei linfociti B, istologicamente corrispondente a una cospicua espansione dei centri germinativi nella corticale dei linfonodi, spiega anche la possibile comparsa di fenomeni autoimmuni e lo sviluppo di linfomi maligni che, con una certa frequenza, complicano il quadro clinico (v. Amadori e Chieco-Bianchi, 1990).
Anche se i fenomeni immunitari sono più facilmente osservabili e svelabili nel sangue periferico, l'alterazione immunitaria è presente a livello degli organi linfoidi, ove svolge un ruolo cruciale (v. Pantaleo e Fauci, 1995). In particolare, durante la fase della disseminazione iniziale dell'HIV, nei linfonodi è documentabile l'intrappolamento di un notevole numero di virioni tra le propaggini delle cellule follicolari dendritiche nei centri germinativi e un'accentuata attivazione linfocitaria e macrofagica con rilascio di citochine, quali α-TNF (Tumor Necrosis Factor) e interleuchine (IL-1, IL-6), che paradossalmente potenziano la replicazione virale.
Lo stato di iperplasia follicolare persiste in maniera più o meno accentuata per tutta la fase asintomatica, nella quale si nota, in genere, una dicotomia tra basso contenuto plasmatico di RNA virale e alti livelli replicativi del virus nei linfonodi: è verosimile, come si è già detto, che nel mantenere sotto controllo la viremia sia più efficace l'attività dei CTL che la produzione di anticorpi. Con il progredire della malattia, in concomitanza con la riduzione del numero di linfociti T CD4+ (al di sotto di 400/mm3), si osservano gravi modificazioni nell'architettura del linfonodo con scomparsa delle cellule follicolari dendritiche, microemorragie e necrosi dei follicoli, involuzione sclerotica di tutto il linfonodo. Questo quadro corrisponde a un aumento della quantità di copie virali nel sangue periferico, a livelli di cellule T CD4+ minori di 200/mm3 e a un aggravamento progressivo della sintomatologia sino all'exitus. Tra i parametri immunologici utilizzati per seguire l'evoluzione dell'infezione, è stato molto studiato il profilo citochinico, quale indicatore della risposta da parte dei linfociti T CD4+ con funzione helper (TH), risposta che consiste in un'aumentata espressione di IL-2 e interferone γ, contrapposta all'espressione di IL-4, IL-5 e IL-10. Questi due profili citochinici, definiti rispettivamente Th-1 e Th-2, dovrebbero riflettere il passaggio da una situazione di immunoreattività ad azione protettiva a una condizione di risposta inefficiente e di aggravamento clinico (v. Clerici e Shearer, 1993).
A rendere ulteriormente complesso il ruolo della risposta immunitaria è la recente osservazione che linfociti T CD8+ attivati, e verosimilmente altre cellule immunocompetenti, secernono fattori solubili appartenenti alla famiglia delle chemochine, a cui si è accennato in precedenza, che avrebbero la capacità di sopprimere la replicazione dell'HIV. In realtà, un'attività inibitoria nei confronti dell'HIV era stata dimostrata da tempo nel sovranatante di colture di linfociti T CD8+, indipendentemente da una loro funzione citotossica antigene-specifica (v. Levy e altri, 1996). Dall'analisi dei sovranatanti e da altre prove sperimentali sembra chiaro che, almeno in parte, l'attività soppressiva diretta contro l'HIV sia imputabile a β-chemochine denominate RANTES, α-MIP-1 e β-MIP-1 (v. Cocchi e altri, 1995): tale inibizione è forse correlata alla competizione esercitata da tali molecole a livello di recettori specifici presenti sulla superficie cellulare che, insieme con quelli CD4, rappresentano i recettori necessari per l'ingresso dell'HIV nella cellula bersaglio.
I meccanismi con cui l'HIV provoca la deplezione linfocitaria, non ancora completamente chiariti, sono verosimilmente molteplici. A prescindere da un effetto citopatico diretto con lisi o formazione di sincizi (fenomeni tuttavia riscontrati prevalentemente in vitro e non in vivo), è possibile che cellule infettate vengano eliminate dalla risposta effettrice immunitaria, mediata da cellule o anticorpi; è stata anche prospettata l'ipotesi che linfociti T CD4+ non infettati siano resi anergici o muoiano per apoptosi a causa di microcomplessi, costituiti da gp120 virale solubile e da anticorpi anti-gp120 che aderiscono sulla loro superficie e, ‛legando' le varie molecole CD4 tra loro, inattivano la funzionalità linfocitaria o trasmettono segnali di ‛suicidio' cellulare (v. Amadori e altri, 1992). Infine, la propagazione del virus al parenchima timico potrebbe causare una drammatica deplezione di precursori linfocitari T, di cui il timo è l'organo progenitore primario; effettivamente, è stato dimostrato che i linfociti timici in vitro sono estremamente sensibili all'infezione e all'effetto citopatico dell'HIV (v. De Rossi e altri, 1990), e in vivo sono state isolate nel timo varianti dell'HIV con esaltato potere patogeno (v. Calabrò e altri, 1995).
La storia naturale dell'infezione da HIV, pur dimostrando una notevole variabilità da individuo a individuo, ha un'evoluzione generalmente distinguibile in tre fasi successive: l'infezione acuta, la fase di latenza clinica o asintomatica, lo sviluppo dell'AIDS (v. Piazza e D'Abbraccio, 1994).
L'infezione primaria, o acuta, decorre senza segni palesi in circa la metà dei casi, mentre in un altro 40% entro 3-6 settimane dal contagio si manifesta una sindrome simil-influenzale con febbre, artralgie, astenia, faringite, microlinfoadenopatia. La viremia è molto alta e la risposta immunitaria cellulare e umorale (sieroconversione) compare dopo circa 10 giorni, ma a volte può tardare fino a 3-4 mesi. In particolare, come si è già accennato, la dimostrazione della sieropositività per anticorpi anti HIV può dare esito negativo nelle prime settimane, pur essendo il soggetto in grado di trasmettere il virus. Con l'apparire della risposta immunitaria i sintomi per lo più si attenuano fino a scomparire del tutto e la viremia cala marcatamente; tuttavia, in un limitato numero di casi, forse in relazione con l'alto tasso virale iniziale, dalla fase acuta si passa gradualmente all'AIDS senza che si verifichi un periodo asintomatico.
Il più delle volte, però, subentra la fase di latenza clinica assolutamente priva di manifestazioni patologiche. Anche la viremia si mantiene a livelli assai bassi, o addirittura non è rilevabile (antigene p24 negativo, RNA virale 〈 200 copie/ml) e il numero dei linfociti T CD4+ è >500/mm3. La sieropositività e la risposta cellulo-mediata sono presenti, segno che negli organi linfoidi periferici persiste la replicazione virale. Questa fase può durare molti anni: eccezionalmente alcuni individui (long term non progressors) possono rimanere in perfetto benessere, del tutto privi di segni di immunodeficienza, anche a distanza di 10 anni dal contagio. La causa di questa prolungata fase asintomatica non è ancora chiara, anche se è probabile che risieda nel basso potere patogeno del virus (ceppi NSI), nell'efficiente controllo immunitario dell'infezione, o in una condizione di resistenza ‛naturale' quale, per esempio, l'omozigosi per forme mutate non funzionali dei corecettori virali.
La fase sintomatica dell'AIDS conclamata è contrassegnata da livelli crescenti di viremia (RNA virale >100.000 copie/ml) e, in circa metà dei casi, dal passaggio da ceppi NSI a quelli SI, dalla caduta più o meno rapida dei linfociti T CD4+ (〈 200/mm3) e dall'insorgenza di quadri clinici inizialmente sfumati (astenia, anemia, perdita di peso, linfoadenopatia generalizzata persistente) e quindi sempre più gravi con infezioni opportunistiche, manifestazioni neurologiche, neoplasie. Nell'80% circa dei pazienti il decesso avviene in media entro i due anni dalla diagnosi di AIDS. Grazie ai nuovi protocolli terapeutici, basati sulla combinazione di più farmaci antiretrovirali, si spera che la sopravvivenza degli individui con AIDS sia destinata ad allungarsi considerevolmente.
e) Terapia
I principali farmaci antiretrovirali disponibili attualmente appartengono a tre categorie (v. Commissione Nazionale per la Lotta contro l'AIDS, 1996; v. Tozzi e altri, 1996): 1) inibitori della trascrittasi inversa analoghi nucleosidici (zidovudina o AZT, didanosina o ddI, zalcitabina o ddC, stavudina o d4T, lamivudina o 3TC); 2) inibitori della trascrittasi inversa non analoghi nucleosidici (nevirapina, delavirdina, loviride); 3) inibitori delle proteasi (saquinavir, ritonavir, indinavir, nelfinavir).
L'AZT e gli altri analoghi nucleosidici sono stati per lungo tempo adoperati come monochemioterapia, con risultati discreti: tuttavia, l'emergenza di ceppi virali resistenti ha costituito un limite notevole all'efficacia terapeutica. Sulla scorta di studi sulla carica virale plasmatica trova oggi diffuso impiego clinico una terapia combinata, basata sull'associazione di inibitori della trascrittasi inversa e inibitori della proteasi. Per esempio, la combinazione AZT+3TC +indinavir è in grado di indurre una notevole e duratura riduzione della viremia (oltre 2,5 unità logaritmiche). È auspicabile che con migliori protocolli terapeutici e nuove molecole inibitrici della replicazione virale si possa ottenere il controllo stabile e persistente della malattia anche in assenza di completa eradicazione del virus.
f) Quadri clinici
Le manifestazioni cliniche dell'AIDS sono molteplici e proteiformi e consistono principalmente in infezioni opportunistiche, complicazioni neurologiche, neoplasie.
1. Infezioni opportunistiche. - Vengono così denominate perché sono causate da microrganismi il cui potere patogeno è di solito ben controllato dalle difese immunitarie. Nell'AIDS, in analogia con quanto si verifica nelle immunodeficienze congenite o in quelle indotte nei soggetti trapiantati o affetti da tumori come conseguenza dei trattamenti chemio- o radioterapici, questi agenti patogeni provocano manifestazioni gravi e persistenti.
La polmonite da Pneumocystis carinii (PCP) è stata la prima di tali patologie ad attirare l'attenzione sull'esistenza di una nuova entità nosologica: per anni negli Stati Uniti e in Europa ha rappresentato la più frequente manifestazione patologica che consentiva la notificazione dei casi di AIDS. Il quadro è quello di una polmonite interstiziale a esordio febbrile, con tosse non produttiva e progressiva instaurazione di grave insufficienza respiratoria. Il microrganismo, considerato un protozoo, viene trasmesso per via inalatoria, e può essere identificato microscopicamente nell'escreato o, meglio, nel liquido di lavaggio bronchiale. La terapia con cotrimossazolo e pentamidina, se attuata tempestivamente, è molto efficace; la profilassi primaria o secondaria ha notevolmente ridotto l'incidenza della PCP e delle sue recidive, contribuendo ad aumentare la sopravvivenza e a migliorare la qualità di vita (v. Lazzarin, 1994).
La toxoplasmosi è un'altra frequente infezione causata dal protozoo Toxoplasma gondii, contratta per via transplacentare o per ingestione di cibi contaminati. Le localizzazioni possono essere diverse: per lo più interessano l'encefalo, il miocardio, il polmone, l'occhio, i linfonodi. Nella forma disseminata la toxoplasmosi è rapidamente ingravescente, con possibili segni di compromissione d'organo. È anche molto frequente la neurotoxoplasmosi, inizialmente caratterizzata da segni neurologici non focali (disorientamento, stato confusionale) e quindi da segni focali (emiparesi, emiplegia, afasia, paralisi dei nervi cranici). La diagnosi si basa sulla dimostrazione del parassita con tecniche microscopiche o molecolari; nelle localizzazioni cerebrali, per una diagnosi differenziale con linfomi primitivi, sono utilmente impiegate tecniche di diagnostica per immagini (TAC, RMN). La terapia si avvale dell'associazione di pirimetammina e di sulfadiammina, inibitori del metabolismo dell'acido folico nel parassita (v. Pauluzzi, 1994).
Tra le altre infezioni parassitarie, rivestono importanza medica nell'ambito dell'AIDS le protozoosi intestinali coccidiche sostenute da Isospora belli, da Cryptosporidium parvum e da altri parassiti, un tempo di esclusivo interesse veterinario e recentemente riconosciuti importanti anche in patologia umana. La trasmissione è oro-fecale e il quadro clinico, in accordo con quanto descritto in precedenza, è caratterizzato da gastroenterite con diarrea coleriforme, dolori addominali colici, nausea, talvolta vomito e febbre. La diagnosi si basa sulla ricerca nelle feci, dopo eventuale arricchimento, delle oocisti parassitarie. La terapia, nel caso di infezione da I. belli, consiste nella somministrazione di cotrimossazolo o nell'associazione sulfadoxina-pirimetammina; nella criptosporidiosi, come si è già detto, il trattamento è per lo più sintomatico, poiché i molteplici chemioterapici finora utilizzati hanno mostrato un'efficacia relativa (v. Carosi e Matteelli, 1994).
Le micosi sono causate principalmente da Candida albicans, Cryptococcus neoformans, Aspergillus fumigatus e Aspergillus flavus. Questi miceti sono contaminanti ambientali e causano lesioni in condizioni di ridotta risposta immunitaria per riattivazione endogena (Candida) o per assunzione per via respiratoria (Cryptococcus, Aspergillus). La candidosi si localizza soprattutto a livello delle mucose orofaringea, esofagea, vaginale, ove provoca flogosi persistente con erosioni e ulcerazioni. La manifestazione iniziale più frequente della criptococcosi è rappresentata dalla comparsa di segni neurologici, cefalea e compromissione meningea, con febbre; sono anche abbastanza comuni sepsi disseminata e localizzazioni d'organo (polmoni, fegato, reni, miocardio). L'aspergillosi provoca di solito lesioni infiltrative e cavitarie nei polmoni. La diagnosi di micosi è per lo più clinica ed è convalidata dall'identificazione diretta microscopica. La terapia si basa sull'uso di antibiotici polienici (nistatina, amfotericina B) e di derivati azolici (miconazolo, ketoconazolo, fluconazolo, itraconazolo) (v. Bassetti e Canessa, 1994).
Le infezioni batteriche più frequenti sono sostenute da Mycobacterium tuberculosis e da Mycobacterium avium complex (MAC). Le micobatteriosi, che negli ultimi decenni risultavano in netto declino per le migliorate condizioni igieniche ambientali e per l'impiego in terapia di farmaci molto efficaci con conseguente riduzione dei serbatoi epidemici, a partire dagli anni ottanta hanno fatto registrare un brusco aumento correlato alla comparsa dell'AIDS. M. tuberculosis, di cui si è già trattato nel capitolo precedente, è ubiquitario e si diffonde generalmente per via inalatoria; nel soggetto immunocompromesso, oltre a quelle polmonari, che però determinano raramente lesioni cavitarie, si osservano spesso localizzazioni atipiche extrapolmonari e disseminate. La diagnosi può risultare alquanto difficile, in quanto la intradermoreazione alla tubercolina può essere negativa e altrettanto negativa, per l'assenza di fenomeni cavitari, può essere la dimostrazione microscopica o colturale di micobatteri nell'espettorato. Nelle forme da MAC, frequentemente contraddistinte da lesioni disseminate con scarsa reazione flogistica granulomatosa e alta carica batterica, la diagnosi citologica e istologica può anche essere suffragata, e ulteriormente definita dal punto di vista genotipico, mediante tecniche molecolari. Come si è detto in precedenza, poiché la terapia della tubercolosi deve fronteggiare l'emergenza di ceppi farmaco-resistenti, i regimi consigliati prevedono l'impiego di isoniazide, rifampicina e pirazinammide; questi regimi sono però scarsamente efficaci nelle infezioni da MAC, nel cui trattamento si deve quindi ricorrere a farmaci antitubercolari di seconda linea, quali etambutolo, eritromicina, claritromicina (v. Angarano, 1994).
Le infezioni virali opportunistiche si identificano con quelle causate da virus erpetici e da virus Papova (v. Revello e Gerna, 1994). Tra le prime, quelle sostenute da Citomegalovirus (CMV) sono le più comuni: il CMV è, come tutti i virus erpetici, molto diffuso nella popolazione; la trasmissione può avvenire per via sessuale o tramite trasfusioni di sangue, ma va sottolineato che nei soggetti adulti, nella maggior parte dei casi, si tratta di infezione riattivata o di reinfezione. L'ampio spettro di segni clinici dipende dalla localizzazione (retinite, meningoencefalite, radicolomielite, gastroenterite, insufficienza surrenalica, ecc.). Lesioni cutanee e mucosali molto estese e persistenti con localizzazioni oro-facciali e genito-anali sono comuni nelle infezioni da virus dell'herpes simplex tipo 1 e 2 (HSV-1 e 2). Il virus della varicella-zoster (VZV) induce lesioni oftalmiche ed encefalitiche, mentre il virus di Epstein-Barr (EBV), oltre a essere associato a molti linfomi Hodgkin e non-Hodgkin, in pazienti con AIDS è anche responsabile della leucoplachia orale villosa. La diagnosi delle infezioni erpetiche è basata, oltre che sulla presenza di anticorpi specifici nel siero e nei liquidi biologici - in realtà non molto significativa in ragione della grande diffusione di questi agenti virali nella popolazione - su tecniche colturali e molecolari. I farmaci utilizzati nella terapia delle infezioni da CMV sono un analogo purinico (ganciclovir) e l'acido fosfonoformico (foscarnet); entrambi questi composti sono impiegati, con efficacia variabile, anche contro le infezioni da EBV, mentre l'aciclovir rappresenta il farmaco di scelta nel caso delle infezioni da HSV-1 e 2 e da VZV.
Il virus JC, appartenente alla famiglia dei Papovavirus, può causare una grave malattia demielinizzante, la leucoencefalopatia multifocale progressiva, caratterizzata da demenza progressiva, deficit motori e sensitivi, convulsioni; la diagnosi si basa sulla dimostrazione del virus con tecniche molecolari nel liquor o nel tessuto nervoso patologico. Non è stata ancora messa a punto una terapia utile per combattere il virus JC. Il virus del papilloma umano (HPV), caratterizzato da molteplici genotipi, è responsabile, come vedremo, delle lesioni displastiche e neoplastiche dei genitali: la diagnosi può essere posta indirettamente mediante l'osservazione microscopica di un peculiare effetto citopatico espletato dal virus sugli epiteli infettati (coilocitosi), ovvero viene eseguita mediante tecniche molecolari di ibridizzazione in situ o di amplificazione genica che evidenziano sequenze nucleotidiche HPV.
2. Complicanze neurologiche. - Oltre alle lesioni e ai quadri clinici a carico del sistema nervoso centrale (SNC) causati da infezioni opportunistiche, sopra descritti, le complicanze neurologiche legate specificamente all'infezione da HIV sono frequenti e costituiscono entità patologiche non riconducibili ad alcuna malattia neurologica precedentemente nota (v. Tavolato e altri, 1994). Il momento patogenetico unificante per le varie forme è il marcato neurotropismo dell'HIV, con localizzazione e replicazione del virus nelle cellule macrofagiche-microgliali: il quadro istopatologico è caratterizzato dalla presenza nel tessuto nervoso di cellule giganti multinucleate contenenti virus, raggruppate in piccoli focolai diffusi, commiste a gliosi astrocitaria reattiva, infiltrati linfocitari e limitate zone di necrosi. Queste lesioni sarebbero indirettamente causate dall'HIV, e dovute a fattori tossici che, prodotti dai macrofagi infettati, svolgerebbero a distanza un'azione patogena. Sono state quindi formulate diverse ipotesi per spiegarne la genesi: blocco dei canali del calcio neuronali operato dalla gp120 virale; attività demielinizzante svolta da citochine infiammatorie (Tumor Necrosis Factor, α-TNF; Transforming Growth Factor, β-TGF; interleuchine, β-IL-1, IL-6; Macrophage Colony Stimulating Factor, M-CSF; ecc.); effetto eccitotossico indotto dal legame con i recettori neuronali del glutammato da parte dell'acido chinolinico con conseguente neurostimolazione prolungata; liberazione di ossido nitrico (NO) con effetti citotossici. Queste varie possibilità implicano verosimilmente l'esistenza di meccanismi diversi non mutualmente esclusivi: che l'infezione da HIV del tessuto nervoso rappresenti comunque l'evento cruciale è ulteriormente provato dalla constatazione che la terapia antiretrovirale, riducendo il tasso di replicazione virale, produce un relativo miglioramento dei sintomi neurologici e arresta la progressione della neuropatia. I quadri clinici, inizialmente noti come ‛complesso AIDS-demenza', possono configurarsi come encefalite, leucoencefalopatia con danno diffuso della mielina negli emisferi cerebrali e cerebellari, mielopatia vacuolare, poliodistrofia diffusa della corteccia cerebrale, dei gangli della base e dei nuclei del tronco encefalico o, più raramente, encefalopatia spongiforme con lesioni difficilmente distinguibili da quelle della malattia di Creutzfeldt-Jakob.
3. Neoplasie. - L'insorgenza di neoplasie nel corso di grave e persistente immunodeficienza è una evenienza ben nota e rappresenta una delle più temibili complicanze dei regimi immunosoppressivi impiegati nei soggetti portatori di trapianto d'organo. Lo spettro dei tumori ‛opportunistici' è, anche nel caso dell'AIDS, ristretto al sarcoma di Kaposi, ai linfomi maligni, al carcinoma della cervice uterina (v. International Agency for Research on Cancer, 1996).
Il sarcoma di Kaposi (KS) è una neoplasia che da un punto di vista epidemiologico e clinico si presenta nelle forme classica, endemica, iatrogena ed epidemica. La prima colpisce individui anziani abitanti in regioni del bacino mediterraneo, e si manifesta con lesioni cutanee, prevalentemente localizzate agli arti inferiori, a evoluzione cronica. La forma endemica è presente in special modo nelle popolazioni dell'Africa centrale e può evolvere in molteplici quadri clinici, anche extracutanei, assumendo frequentemente un decorso aggressivo e rapido. Il KS iatrogeno è, appunto, una complicanza osservata nei pazienti trapiantati e sottoposti a prolungate terapie immunosoppressive; la sua pecularietà risiede nella possibilità che le singole lesioni regrediscano spontaneamente con la sospensione del trattamento immunosoppressivo. Il KS associato all'AIDS compare generalmente in adulti giovani (30-40 anni), di sesso maschile: è più frequente nei soggetti omosessuali o bisessuali, molto più raro nei tossicodipendenti e negli emofilici. Dall'insieme dei dati epidemiologici emerge la possibilità che il KS AIDS-associato rappresenti una malattia a trasmissione sessuale. Numerose ricerche sono state svolte per chiarire l'eziopatogenesi di questa neoplasia: ne è derivata l'ipotesi secondo cui l'HIV avrebbe solo un ruolo indiretto, causando un complesso di fenomeni infiammatori che, attraverso la produzione di una ‛cascata' di citochine e di altri fattori solubili, innescherebbero un circuito autocrino-paracrino di stimolazione della proliferazione di cellule mesenchimali con fenotipo misto, endoteliale e muscolare liscio (v. Ensoli e altri, 1991). Recentemente, mediante sofisticate tecniche molecolari, sono state messe in evidenza nel tessuto neoplastico sequenze nucleotidiche riferibili a un virus simil-erpetico (v. Chang e altri, 1994): questa osservazione, confermata in altri laboratori, ha consentito un'iniziale caratterizzazione di un nuovo agente virale, appartenente alla famiglia degli Herpesvirus, denominato KSHV (Kaposi's Sarcoma Herpes Virus) o HHV-8 (Human Herpes Virus-8). Ulteriori indagini sono ovviamente necessarie per definire il suo ruolo causale o concausale nell'insorgenza del KS (v. Boshoff e altri, 1995; v. Albini e altri, 1996).
Il quadro clinico è alquanto proteiforme, con inizio sfumato e quindi rapidamente ingravescente, caratterizzato dalla comparsa di macule e chiazze multiple di colore rosso-violaceo, di dimensioni variabili fino a qualche centimetro di diametro, localizzate al tronco, al capo, agli arti; sono frequenti anche le localizzazioni mucose, viscerali e linfonodali. La prognosi è sfavorevole e l'exitus è quasi sempre legato alla coesistenza di infezioni opportunistiche. La terapia si basa, oltre che sull'utilizzazione di farmaci antiretrovirali e, più recentemente, antierpetici, su schemi di polichemioterapia antitumorale e sull'impiego di α-interferone.
I linfomi non-Hodgkin (NHL) sono, dopo il sarcoma di Kaposi, le neoplasie più frequentemente associate all'AIDS: generalmente si tratta di NHL originati da linfociti B, con grado elevato di malignità. In circa la metà dei casi sono forme Burkitt-simili, con tipiche anomalie citogenetiche e molecolari coinvolgenti l'oncogene c-myc (v. neoplasie: Oncologia sperimentale, vol. XI); nell'altra metà si tratta di NHL di tipo immunoblastico privi di peculiari lesioni molecolari. È interessante notare, per le possibili implicazioni patogenetiche, che i primi si osservano nelle fasi iniziali dell'AIDS, quando l'immunodeficienza non è ancora marcata, mentre gli NHL immunoblastici compaiono più tardivamente, quando il deficit immunitario è molto grave (v. Carbone e altri, 1991). È probabile che il ruolo dell'HIV sia indiretto anche nel caso degli NHL, potendo provocare una continua e spiccata attivazione e proliferazione di linfociti B, della quale la linfoadenopatia persistente generalizzata verosimilmente costituisce un fenomeno prodromico, cui si sovrappongono eventi oncogeni diversi. In questo quadro il significato che riveste l'infezione e l'immortalizzazione dei linfociti B da parte dell'EBV è ancora da definire (v. Ometto e altri, 1997). Nella maggior parte dei casi il quadro clinico è caratterizzato, già all'atto della diagnosi, da stadi avanzati della malattia; le localizzazioni sono spesso extralinfonodali, con coinvolgimento del midollo osseo, del tratto gastro-intestinale, dell'encefalo. L'andamento è rapidamente evolutivo; risultati incoraggianti sono stati tuttavia ottenuti con l'impiego di regimi di polichemioterapia associati a farmaci antiretrovirali. Sembra che anche i linfomi di Hodgkin (HL) aumentino in concomitanza con l'infezione da HIV, ma il dato epidemiologico e statistico necessita di ulteriore conferma.
Il carcinoma invasivo della cervice uterina è per lo più derivato da lesioni prodotte da HPV: in particolare, nelle forme associate all'AIDS, nel tessuto carcinomatoso si possono identificare i genotipi 16 e 18 dell'HPV (Human Papilloma Virus), e questo dato è correlato con l'evoluzione più aggressiva e invasiva del carcinoma (v. Del Mistro e altri, 1994). La terapia è quella convenzionale chirurgica, con o senza radioterapia o chemioterapia (v. neoplasie: Oncologia clinica, vol. XI).
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