Narrare con la voce
C'è una voce che parla da molto lontano. La notte è nera, la brace è poca, là fuori ci sono orrori che non dormono. Il babbo è sveglio e tiene stretta la sua lancia. Anche la nonna è sveglia e con la voce della notte accarezza la nostra paura: racconta di quanto sono forti e furbi i cacciatori della nostra orda, e di come alla fine le fregano, quelle tigri dalle grandi zanne…
Questo è un racconto molto antico, cominciato all'alba del mondo in una grotta, e che continua ogni volta che un uomo lo racconta a un altro, che un grande lo racconta a un bambino alla fine del giorno. Intorno a loro la cosa più antica di tutte accade di nuovo: valle per valle, città dopo città, nasce ogni volta il mondo. È la voce dei racconti che lo crea.
Voce scultrice
Della realtà
La lingua dice
La voce fa
La voce umana può articolare molti suoni, vocali e consonanti di ogni tipo. Sa combinarli fra loro in parole infinite, tante quante sono le cose del mondo, e anzi di più: perché noi 'diciamo' cose del mondo e dell'altro mondo, cose visibili e invisibili, vere e inventate, senz'altro limite che la nostra fantasia.
Anche gli animali comunicano fra loro, e gli uomini si sono sempre chiesti se 'parlano' davvero. Gli scienziati hanno studiato il problema ma ancora non sono d'accordo: alcuni citano il gorilla Koko, che riconosce duemila parole; altri ribattono che Koko ha solo imparato duemila modi per farsi dare caramelle, visto che a ogni parola imparata riceveva un premio. E così via, chiedendosi se siano discorsi le canzoni delle balene, i fischi dei delfini, i gorgheggi degli uccelli …
In fondo però noi uomini restiamo convinti di essere gli unici ad avere questo potere, il potere di nominare ogni cosa che esiste e che non esiste, e grati e orgogliosi lo abbiamo chiamato 'il dono della parola'.
Non appena ricevuto il dono della parola, l'uomo ha iniziato dicendo che la parola ha creato il mondo, uomini compresi. Nel Vangelo di Giovanni c'è scritto:
"Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei".
Ma il dio degli Ebrei e dei cristiani non è il solo ad aver creato il mondo con la voce: c'è il dio con le maracas degli Indios Makiritare in Venezuela, che fuma, canta e con quel canto crea le cose; c'è il dio fantastico di Tolkien che con i cori degli Ainur, millenni prima del Signore degli Anelli, crea Arda, la Terra, e con essa gli Uomini e gli Elfi.
E gli Aborigeni australiani raccontano che un giorno il Sole nacque e svegliò gli Antenati che dormivano nelle buche. Ognuno di loro gridò: "Io sono!", "Io sono il Serpente!", "Io sono il Cacatua!"… E il Vecchio Uomo Serpente, il Vecchio Uomo Cacatua, il Vecchio Uomo Eucalipto e tutti gli altri Antenati delle cose si alzarono, fecero un passo e gridarono il nome di un pozzo, fecero un altro passo e cantarono il nome di un canneto, e così, camminando e cantando le cose, le aiutarono a nascere.
Gli Aborigeni non sono affatto convinti che il mondo sia stato creato una volta per tutte: pensano che vada sempre ricreato. Ogni tanto intraprendono lunghi viaggi, ripercorrendo le Vie dei Canti degli Antenati, cantando anche loro a ogni duna e a ogni pozzo. "Per far venire fuori il paese", dicono.
Così la nostra voce che racconta fa accadere le cose. È il compito della magia, che da sempre si è servita di parole, formule e storie. "Così sia detto, così sia fatto", dice la fattucchiera, che toglie i mali con l'aiuto di piccole storie come questa: "Come Longino ferì nostro Signore in fianco, e quella ferita oleva ('profumava') e non doleva e sangue non raccoglieva, così questa ferita oglia e non doglia e sangue non raccoglia".
E la ferita guarisce. O se non guarisce, il ferito in qualche modo si conforta, perché qualcuno si cura di lui e perlomeno tenta qualcosa.
È superstizione? Può darsi, ma pensate alla pubblicità: una storiella narrata in un minuscolo film e una formula detta in rima fanno la magia… e noi compriamo. O perlomeno desideriamo farlo.
La voce che racconta è uno strumento potente. Gli uomini l'hanno resa ancora più potente col ritmo del cuore e il respiro della poesia, e hanno usato questa lingua imbattibile per dire le cose importanti, da fare per prime: le 'rime di culla' per mangiare, dormire, crescere; le fiabe per sognare e capire il mondo.
Se il racconto è la parola che 'cammina', la poesia è la parola che 'danza'. Come la danza, la sedia a dondolo, l'altalena, la voce che parla in poesia ci culla e ci incanta. Perché in essa c'è il tamburo nascosto del ritmo del corpo, del respiro e del cuore, che dà il tempo ai versi e alle rime. Chi ascolta risponde non solo con la mente che comprende, ma con un piacere più segreto e oscuro, piacere del corpo che sente un tamburo nascosto e risponde col suo.
Questo piacere misterioso gli uomini lo conoscono dalla notte dei tempi, e le cose davvero speciali sono dette in poesia. In rima e versi sono gli scongiuri, le preghiere e gli inni, le prime antichissime storie: come la Storia di Gilgamesh, re dei Sumeri di Uruk, la più antica che sia arrivata fino a noi; i grandi poemi Veda degli Indiani; gli innumerevoli tanka giapponesi, brevi componimenti poetici, famosi per la melodicità del loro verso; l'Odissea dei nostri mari. Il poeta narratore è come uno sciamano che muove a ritmo i 'sonagli' sonori delle parole: e le storie che dobbiamo sapere ci restano impresse.
Le cose davvero speciali sono dette in poesia. Questo vale per l'intera umanità e per ogni singolo uomo che nasce. I primi poeti del mondo sono donne. Le madri della specie umana, non appena mettono al mondo una creatura, cominciano a parlarle in rima e versi per dire le cose importanti: tu devi dormire, devi mangiare, devi star bene, devi imparare. Ognuna di queste grandi imprese ha le sue filastrocche, un po' imparate e un po' inventate. Il neonato non capisce le parole, ma sente il tamburo nascosto, il ritmo del verso, e quello gli basta: per dormire, mangiare, ridere, imparare a parlare.
Non appena ha imparato a parlare, ecco le fiabe. Queste non sono dette in versi e rime, perché le rime irrigidiscono il racconto e non lasciano il gusto di dirlo con parole proprie. Le fiabe non hanno un tamburo nascosto, ma la voce di chi le sa raccontare, se proprio non danza, di sicuro cammina danzando: si ferma, sospira, accelera, sussurra e grida, si fa profonda per riportare le voci dei re, sottile per quelle delle fanciulle, untuosa per quelle dei consiglieri…
E gli ascoltatori, bambini o grandi che siano, per un'ora 'cancellano' il mondo: intorno a loro, infatti, può esserci, di volta in volta, una casetta o una reggia, un tucul africano, un tepee pellerossa, un iglù eschimese…
Perché le fiabe sono come uccelli migratori, che, cambiando di poco, viaggiano per i continenti.
La fiaba di Cenerentola probabilmente nasce in Cina, dove si usava fasciare i piedi delle bambine perché restassero minuti ed eleganti. Lì è stata trascritta per la prima volta da un racconto, tramandato a voce per quasi mille anni prima di giungere a noi. Dalla Cina la ritroviamo in Egitto, riferita da uno storico romano cento anni dopo Cristo; e poi eccola in Arabia, dove Cenerentola fugge dalla festa dell'henné perdendo uno zoccoletto d'oro; e ancora in Vietnam, dove viene addirittura uccisa dalla matrigna, ma poi rinasce e si reincarna grazie a Buddha in persona.
Filosofi e studiosi d'ogni era hanno detto e studiato tante cose sulla fiaba, e tante se ne potrebbero dire che non basterebbe questo libro intero. Ma forse il loro segreto resterà tale, e sarà meglio così. Per alcuni le fiabe sono importanti perché sono semplici e innocenti; per altri perché sono complicate e sapienti; qualcuno sostiene che sono espressione del popolo, qualcun altro espressione delle donne, qualcun altro ancora espressione del profondo del nostro essere…
I secoli sono passati come sogni, queste opinioni sorgono e scompaiono, e le fiabe scorrono sempre come un grande fiume tranquillo. Qual è il loro segreto?
"Ciò che tu ami resta", dice il poeta Ezra Pound, "e non sarà strappato via da te".
Le stanze delle narratrici, le strade dei narratori. I maschi imparano a narrare, e ne fanno un mestiere: cantastorie che vanno raminghi per le vie del mondo, oppure che si fermano alla corte dei principi. Tra i cantori circolano brani di poemi tutti raccontati a memoria. Molti di questi pezzi, cuciti insieme, compongono un fulgente monumento: l'Odissea.
Le donne raccontano le loro fiabe in casa, gli uomini sono sempre via: a caccia o con le greggi. Quando cominciano a coltivare i campi hanno periodi morti; restano in casa e ascoltano le fiabe. Qualcuno di loro che ha spirito e gusto prova a narrarle anche lui, mescolandole con le storie di antenati che sente cantare nei luoghi sacri. Si diverte, si esercita, diventa bravo. E dato che non deve stare a casa a badare ai bambini e al fuoco, esce per raccontarle nelle strade. Agli abitanti del villaggio questo piace, sono contenti, fanno regali. Lui passa al villaggio vicino, poi a un altro: regali anche lì. La sua fama giunge al principe che lo chiama perché racconti a corte. Il principe è contento e lo paga. Quando è stagione di tornare ai campi, quell'uomo si fa i conti in tasca e dice: "Guadagno ciò che mi basta anche così, e in più mi diverto. Addio moglie, io parto per il mondo, divento narratore di mestiere".
Ed ecco i cantastorie, che raccontano nel corso dei millenni e attraverso i continenti. Alcuni cantano, come gli aedi greci, che mille anni prima di Cristo intonavano sulla cetra le storie di dei ed eroi, improvvisando su temi proposti dal pubblico, ma basandosi anche su brani a memoria, fissati in rima e verso, che si scambiavano fra loro.
Dopo quasi tremila anni, raminghi come gli aedi, ecco i narratori siciliani che fanno il cuntu, puntata quotidiana di uno sconfinato racconto che parla delle guerre fra Cristiani e Saraceni. In piedi, possenti, alteri, i cuntaturi non cantano, ma rompono la voce con strani silenzi e singhiozzi nei momenti avvincenti, tenendo lì inchiodati ancora oggi i loro ascoltatori.
Altri narratori invece, anziché andare vaganti, si fermarono alla corte del principe e gli dissero: "Se tu mi paghi, io resto qui e racconto le gesta tue e della tua stirpe, così mantieni saldo il tuo potere".
Ed ecco, presso gli imperatori Incas, gli amauntas, narratori che fungevano da storici: quando il sovrano moriva, d'accordo coi discendenti, cancellavano le sue gesta meno degne, mettevano in versi tutto il resto in un bel poema, e lo cantavano al popolo in tutte le occasioni.
Ed ecco infine i griot africani, gli uomini della parola, che a lungo hanno vissuto alla corte del principe come maestri di cerimonia e cantori delle sue gesta. I griot dell'Africa d'oggi sono una casta importante, ancora stipendiati dai potenti, ma ora in servizio pubblico ambulante: cantastorie, poeti, storici, musicanti, giudici nelle liti, mediatori di matrimoni, araldi… industriose formiche, insomma, più che oziose cicale.
Uno dei più famosi e antichi cantastorie, un aedo greco di nome Omero, sei o sette secoli prima di Cristo, si mise al lavoro e cucì insieme alcuni di quei pezzi di poema che gli aedi si scambiavano fra loro: nacquero l'Iliade e l'Odissea. Pare che non sia stato un solo aedo a fare questo impasto, ma un insieme di molti aedi che poi qualcuno chiamò Omero, come una specie di nome 'di squadra': ma questo interessa poco. Ci interessa invece dire che l'Iliade e l'Odissea ebbero un enorme successo ai loro tempi, e poi anche in seguito, attraversando i millenni fino a noi. Quegli immensi racconti in versi fatti a voce erano in realtà monumentali libri invisibili della vita di un popolo, che raccoglievano in sé storia remota, insegnamenti religiosi, consigli morali e leggi dello Stato, usi del vestire, cucinare, mangiare, prescrizioni su come coltivare, pescare, costruire le navi e navigare…
Insomma, quasi un libro di testo per elementari, medie, liceo e università, costellato di bellissime avventure. E tutto a voce. Tutto a voce? Non più.
I racconti in rima e versi servono anche per ricordare le cose importanti del mondo. Ma un poema o un proverbio non sono i sistemi migliori per tenere a mente cose pratiche e veloci: meglio un paio di segni incisi su una tavoletta. Nasce la scrittura. Per secoli combatte con la voce. Chi vince, chi perde?
Finché tutti eravamo nomadi, pastori e cacciatori, non c'era bisogno di ricordare molto. O meglio, per quello che si doveva ricordare bastavano le 'macchinette di memoria': le rime e i versi. La poesia è una magia misteriosa della voce, che incanta perché si ascolta anche con il corpo: ma accade che funzioni bene anche come sistema per ricordare. Se io dico: "Caro Diario che mi ascolti / i tuoi fogli sono molti / ma i miei giorni sono tanti / e i ricordi sono…", e non mi ricordo più come finisce, può venirmi in mente che i ricordi siano 'belli', o 'svaniti': ma rima e ritmo mi dicono subito che sbaglio, e che la parola giusta è 'canti'. La poesia aiutava a ricordare, suggerendo le parole con la rima, ma senza poterle cambiare, altrimenti non tornava più nulla. E anche se i narratori riadattavano e cambiavano le rime, poemi e fiabe non erano in fondo il sistema più pratico per ricordare tutto. Il nomade si ferma, diventa contadino e vuole ricordare quanti orci di grano ha prestato al vicino per la semina. Farne un poema è un po' esagerato: meglio un paio di graffi su una tavoletta. Ecco: è nata la scrittura.
Molti dicono che la scrittura ha ucciso la narrazione orale, ma… il cadavere non è mai stato trovato. Voce e scrittura, in realtà, hanno a lungo convissuto, e convivono ancora. Quei cantori che si scambiavano fra loro pezzi di storie mandati a memoria si sono resi conto che, imparando a leggere e portandosi dietro uno zaino di rotoli scritti, potevano mettere insieme molte più storie e più in fretta. Ma non per questo hanno mai smesso di inventare e ricordare: i loro eredi del cuntu siciliano mescolano pezzi 'orali', imparati da altri o inventati da loro, con larghi stralci di poemi scritti da fior di poeti: Boiardo, Ariosto e Tasso.
Scrittura e voce si sono a lungo mescolate. Agostino d'Ippona, scrittore infaticabile, era un uomo fra i più colti del suo tempo. Un giorno, verso la fine del 4° secolo dopo Cristo, andò a Milano a trovare il vescovo Ambrogio e rimase allibito: Ambrogio leggeva in perfetto silenzio, senza muovere le labbra. La lettura silenziosa, che a noi sembra così scontata, era ancora sconosciuta dopo un migliaio d'anni di scrittura: le parole erano ancora così 'orali', nella mente degli uomini, che per credere che quei segni neri volessero dire davvero qualcosa, si doveva sentire la propria voce, trasformarli in 'parole vere'.
Sia pure lentamente, la scrittura in qualche modo alla fine ha vinto. Platone potrebbe dire: l'avevo detto fin dall'inizio. Quattro secoli prima di Cristo narrava del dio egizio Teuth, inventore della scrittura, che fu così rimproverato dal faraone: "La tua invenzione serve per ricordare, ma avrà l'effetto opposto, mettendo le cose per iscritto, nessuno ricorderà più".
Così è stato: col tempo la capacità di tenere a memoria lunghissimi brani è svanita dalla nostra mente, e la nostra mente è cambiata. Con la scrittura è cambiata per esempio l'idea di tempo e di spazio: se ci chiedono di disegnare il tempo, come se fosse un fiume su un foglio, lo facciamo mettendo d'istinto a sinistra il 'prima' e scorrendo verso destra, verso il 'poi'. D'istinto?… No, ci ha 'formato la mente' così la nostra scrittura: un arabo farebbe il contrario.
Ma un cambiamento ancora più grande è avvenuto in noi: sappiamo meno fiabe, meno filastrocche: ricordiamo di meno, è vero, ma pensiamo di più. La nostra mente, liberata dal compito di tenere a memoria una sapienza immutabile, impastata in immutabili poemi, ha cominciato a chiedersi cosa invece poteva mutare. E ha cambiato molte volte tutto il mondo. Del resto anche Platone la sua storia contro la scrittura… l'aveva scritta!
Non è solo con la scrittura che la voce si confronta e si mischia: si può raccontare 'facendo le voci', o in due, in tre, facendo i personaggi; si può raccontare con l'aiuto di oggetti, burattini, ombre. Il teatro si stacca dalla narrazione orale come un fiume che scorre vicino, ma con molti incroci.
Il fiume della voce che racconta non ha mai cessato di scorrere: creando il mondo, battendo i ritmi del cuore, crescendo i bambini con le fiabe, facendosi mestiere nelle piazze, conservando la cultura di un popolo, combattendo e convivendo con la scrittura. E biforcandosi ogni tanto per generare altri fiumi altrettanto possenti: per esempio, se chi racconta con la voce 'fa le voci' dei diversi personaggi, si può già dire che recita, e quello che sta facendo, più che racconto, si può già chiamare teatro.
Gli aedi greci cantavano le loro storie spesso con un coro muto alle spalle che faceva figure di danza; qualcuno diede voce a quel coro, perché dialogasse con il narratore. Circa cinquecento anni prima di Cristo Eschilo, il primo grande scrittore greco di teatro tragico, aggiunse al narratore unico un secondo attore; Sofocle, poco dopo, ne aggiunse un terzo, e in breve tempo il coro perse d'importanza. Gli attori si rivolgono sempre più l'uno all'altro, vestono costumi complicati, attorno a loro si dispongono fondali, scenografie, piattaforme girevoli, luci, musiche… Non è più un uomo che si alza e racconta ai suoi simili: è il teatro.
'Teatro' viene dal greco theaomai, che vuol dire "guardare". Il teatro mostra ciò che succede, mettendolo in scena lo fa accadere davanti agli occhi dello spettatore (che vuol dire "colui che guarda"); il racconto, narrando ciò che succede, lo fa immaginare all'ascoltatore. La storia del teatro è un altro fiume possente che attraversa le storie, e la narrazione orale, il racconto a voce rivolto al pubblico, è sempre stata una corrente di questo fiume.
Nell'antico teatro greco, per esempio, era proibito mostrare fatti di sangue: l'unico modo per informarne il pubblico era far giungere il messaggero che raccontava per filo e per segno i delitti avvenuti altrove. E duemila anni dopo, William Shakespeare, il più grande scrittore di teatro della nostra cultura, nel prologo dell'Enrico V fa appello alla forza dell'immaginazione dei suoi spettatori, dicendo così:
"Supplite voi col vostro pensiero alle nostre imperfezioni; dividete in mille parti ogni singolo uomo e immaginatevi un possente esercito; pensate, quando nominiamo i cavalli, di vederli stampare i superbi zoccoli sulla docile terra…".
Anche il teatro lo ammette: recitando si può dire molto, raccontando si può dire tutto.
La voce che narra, oltre ad attori e costumi, ha altri strumenti per arricchire il racconto, trasformandolo in teatro: per esempio, oggetti e figure. Se una bambina gioca con la sua bambola, raccontandosi con la voce ciò che fa, non sta facendo teatro; se chiama i genitori per farsi guardare, sì: fa teatro d'animazione o di figura. In tutte le civiltà i narratori si sono serviti di figure: burattini a guanto e a bastone, mossi da sotto; marionette con aste e fili, mosse da sopra; bambole e manichini; testoni e pupazzi giganti; sagome e ombre.
Sulle tende dei nomadi, rischiarate dal fuoco all'interno, guizzavano le ombre delle donne che preparavano il cibo. A qualche uomo di guardia che, da fuori, guardava è venuta l'idea: ecco il teatro d'ombre karaghiozis, di Grecia e Turchia, con le sue figure bonarie su sfondi colorati. Il teatro bunraku giapponese, invece, usa una marionetta senza fili, col viso di porcellana, elegantissima: tre animatori la muovono a vista, cioè senza nascondersi dietro il telo, ma vestiti di nero per significare che è come se non ci fossero. Le forme più raffinate spesso assomigliano a quelle più semplici: il bunraku è come quella bambina che muove la bambola e con la voce racconta ciò che fa. La voce che narra si serve di ciò che le serve.
Arriva la radio: uno solo racconta e milioni lo ascoltano. Non ha faccia, ma la sua voce diventa potente. Arriva la televisione, mostra le cose: è ancora più potente. Ma la voce che narra a una cerchia di amici si è spenta per sempre? O torna in forme diverse, riaffiorando in tutti gli altri media?
Una voce racconta, moltissimi ascoltano: è la radio. Il 6 ottobre 1924 una voce di signora, da un cubo di legno, disse che erano cominciate le trasmissioni della Radio italiana. Quell'invenzione diede alla narrazione orale una forza miracolosa: una sola voce parlava, milioni di orecchie l'ascoltavano, fino ai più remoti confini del regno. Il cantastorie non deve più girare il mondo per raccontare alla gente le gesta invincibili dei principi. Il principe ci pensa da sé, restando alla reggia: durante il regime fascista Mussolini raccontava alla radio le gesta invincibili sue e dell'Impero di Roma. Ma le onde radio volano nell'aria e l'aria è di tutti. Se durante la Seconda guerra mondiale i bambini seduti in salotto giravano quella 'manopola monella' e cambiavano stazione, potevano sentire Radio Londra raccontare che Mussolini non era affatto invincibile, e che infatti stava perdendo.
Era iniziata la guerra dei racconti, fatta con voci tonanti, impegnate a sovrastarsi l'una con l'altra, da pochissimi che parlano a moltissimi che ascoltano, per convincerli a credere e a comprare.
Ma non soltanto quello, per fortuna: la voce della radio insegnò l'italiano, la religione, la cultura, narrò storie appassionanti, canzoni, teatro… Insomma fece ciò che aveva fatto la narrazione orale per millenni, ma lo fece per milioni di persone in una volta sola: una specie di Odissea gigantesca.
Un'altra cosa fece, e ancora fa, la radio: compagnia. La notte, a chi è solo e non riesce a dormire, se chiude gli occhi, la radio regala un salotto di amici: voci confidenziali, calme, vicine, gli parlano delle cose della vita, gli leggono un libro, scherzano, raccontano… Se chiude gli occhi, dicevamo. E se li apre?
Ecco che arriva la TV, e quel salotto si materializza anche in casa sua. È la famosa finestra sul mondo: ma a quella finestra siamo giunti ai confini della narrazione orale. Abbiamo detto che il teatro fa vedere, mentre il racconto fa immaginare: ma sia il teatro che il racconto sono fatti da qualcuno che sta lì davanti a noi, in carne e ossa; se vogliamo, possiamo interromperlo per dirgli qualche cosa. La radio racconta e non mostra, fa immaginare e non vedere, quindi è vicina alla narrazione orale: ma non c'è nessuno che parla davanti a noi, non lo possiamo interrompere. La TV non racconta ma mostra, non fa immaginare ma vedere, e in più non c'è nessuno lì con noi: siamo troppo lontani dal nostro racconto, e dobbiamo tornare indietro.
Prima di tornare indietro, però, diamo ancora uno sguardo.
Qualcuno dice che i caratteri dell'oralità, della voce che racconta a chi sta intorno, sconfitti dalla scrittura, si sono presi una rivincita nei 'media' che sono venuti dopo. Alla televisione, per esempio, i programmi di chiacchiere in salotto si chiamano talk show, che vuol dire "spettacoli parlati": appunto, orali. E le notizie dei telegiornali, oltre che con le immagini, ci vengono raccontate con la voce, in forme più simili a quelle dei narratori nelle piazze che a quelle dei giornali scritti.
Qualcuno dice che anche la scrittura stia diventando un po' più orale, cambiata dalla forza della voce che ritorna. I messaggi dei cellulari, per esempio, accorciano e storpiano, disegnano e giocano, riavvicinando la scrittura al discorso parlato: "Quando T C metti 6 proprio 3mendo".
E in certa musica di oggi, rap, hip hop, ritornano quelle gare fra aedi improvvisatori che erano all'alba della cultura orale: i giovani rapper chiamati MC (Maestri di Cerimonia, guarda caso) sulle strade americane si sfidano in sedute di free style, rap senza testo scritto, improvvisando in base a ciò che vedono intorno. La voce che narra riaffiora dunque qua e là, ostinata, sotto forme diverse e attraverso nuovi canali.
Ma la voce che narra non si nasconde solo, in forme diverse, nei media di oggi; sta tornando a farsi sentire in tutto il mondo nella sua forma vera: uomini che leggono storie ad altri uomini, ai vecchi, ai bambini. è come un grande mormorio sul Pianeta: che non finirà.
La narrazione orale ritorna, mascherata in altre forme, in altri media. Ma per fortuna ritorna anche a viso aperto, nella sua forma vera. In tutto il mondo, dalla metà degli anni Novanta, presso centri e biblioteche, fioriscono i servizi volontari di lettura ad alta voce per i ciechi, o per chiunque non possa leggere da sé. Compact disc, cassette e siti web aiutano chi fa questo lavoro: gli 'utenti' non vedranno la faccia che legge, ma migliaia ne ascolteranno la voce.
A Bologna e a Venezia i volontari che portano a casa la spesa a chi non può uscire ora portano anche i libri, e qualche volta restano a leggerli. L'iniziativa è intitolata Ad alta voce.
E Ad alta voce si è chiamato anche un programma radiofonico dedicato alla lettura di un libro. Ma non si tratta solo di ciechi o anziani: voci, dal vivo o registrate, in tutto il mondo, raccontano storie a chi fa le pulizie in casa, a chi lavora in officina, a chi guida in viaggio, a chi viaggia in treno, o semplicemente siede e ascolta. Insomma è sempre maggiore il numero di spettatori, sani e di tutte le età, che ascoltano, nei festival e in altre occasioni, scrittori che leggono libri ad alta voce. Sembra quasi di sentirlo: un sussurro di voci di uomini che leggono storie ad altri uomini torna a levarsi da tutta la Terra.
Un altro sussurro si sente: voci di grandi che leggono storie ai bambini. Non bisogna rimpiangere le fiabe narrate a memoria: nel lontano passato non avevano libri e non sapevano leggere. Ora che abbiamo e sappiamo, dobbiamo leggere i libri ai bambini.
Bisogna leggerli perché fa bene a chi ascolta, a chi legge, e al legame che si crea fra i due. Bisogna leggerli perché la voce umana ha una 'vitamina' segreta, che fa crescere i piccoli, e che non si trova nei compact disc di fiabe e alla televisione. Bisogna leggere i libri in un posto dove si sta bene, a ore costanti del giorno, così si crea un'abitudine. Bisogna leggere libri belli, che anche il lettore provi piacere a leggere, così al bambino arriva un libro 'acceso' da quel piacere che lo fa crescere.
C'è un grande progetto chiamato Nati per leggere, diffuso da anni in molti paesi del mondo (Born to read negli USA, Bookstart in Gran Bretagna), in cui bibliotecari e pediatri si sono alleati per dire: "Bisogna leggere i libri ai bambini" e per spiegare quali libri, quando, come, dove e perché.
Qui sta finendo il racconto. Era cominciato con una voce che narra ai bambini in una grotta, all'inizio del tempo; finisce con una voce che narra ai bambini in una camera, alla fine del giorno. I bambini, i racconti, i posti sono cambiati, la voce resta.
Il fiume della voce che racconta attraversa la storia, creando il mondo al principio, battendo i ritmi del cuore, allevando i bambini con le fiabe, facendosi mestiere nelle piazze, tramandando la cultura di un popolo, combattendo e convivendo con la scrittura, biforcandosi nei fiumi del teatro, mescolandosi con gli strumenti di oggi, radio, televisione, telefoni, computer, fino ad arrivare… Dove?
Verso la foce, dice il titolo di un libro di Gianni Celati, con cui finisce questo racconto:
"D'un tratto risuonano richiami di gabbiani, uno chiama e altri rispondono. Anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti: chiamarle, perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui…".
Vedete? È com'era all'inizio: raccontiamo per creare e ricreare il nostro mondo, perché resti con noi.
Sole tramonta, torna domani.
Rima rimani.
"C'era una volta, nel paese di Alifbay, una città triste, la più triste delle città, così disastrosamente triste che aveva persino dimenticato il proprio nome". Nel cuore di quell'infelice città, grigia e rumorosa, si trova un'isola allegra e spensierata nella quale vivono un bambino di nome Harun e suo padre Rashid Khalifa, il più abile raccontastorie che il mondo abbia mai conosciuto. "Pareva che a Rashid bastasse socchiudere le labbra in un rosso e tondo sorriso perché ne sgorgasse una saga assolutamente nuova, farcita di stregonerie, intrighi amorosi, principesse, zii malvagi, zie obese, gangster baffuti in pantaloni gialli a scacchi, luoghi fantastici, vigliacchi, eroi, battaglie e una mezza dozzina di motivi orecchiabili e fischiettabili".
Rashid conosce la magia delle storie. La sua arte è quella della parola e della costruzione di trame. La sua voce ha un timbro caldo e profondo e le avventure che narra affascinano tutti coloro che vogliono ascoltarle. Ma in quella città sono sempre meno le persone che hanno tempo da dedicare alle storie, occupate come sono a correre da un luogo all'altro, da un impegno all'altro. Il mondo ha troppa fretta per fermarsi ad ascoltare.
E così, a poco a poco, anche Rashid diventa triste e, un giorno, smette di raccontare storie. Ad Harun non piace quello che sta accadendo, ma non sa bene cosa fare. Molte terribili domande si rincorrono nella sua testa. E una, in particolare, non smette mai di tormentarlo: "A cosa servono le storie che non sono neanche vere?".
Harun non si arrende. Vuole trovare una risposta e per farlo è disposto a compiere un viaggio lungo e pericoloso. Un viaggio che lo porterà a scoprire che le storie hanno un immenso potere: colorano la vita, riempiono di emozioni, trasformano cose e persone, conducono in un istante in luoghi lontani e misteriosi. Harun non ha scelta: deve salvare le storie. E come lui, in altre parti del mondo, altri eroi lottano contro i nemici della parola parlata. A volte sono bambini, a volte vecchi, altre volte donne dalla parola facile, come Shahrazad, una bellissima fanciulla, sposa del sultano, che sa raccontare fiabe meravigliose. La sua vita è in pericolo perché il sultano ha deciso di uccidere, notte dopo notte, tutte le sue spose. Ma Shahrazad è abile e coraggiosa.
Ogni sera racconta al suo sposo una nuova storia, più affascinante e misteriosa della precedente, ma proprio sul più bello la interrompe e si addormenta. Il sultano, per mille e una notte, aspetta con ansia la conclusione di una fiaba e l'inizio della successiva. Ed è così che Shahrazad salva la sua vita e quella delle altre spose. In un luogo molto lontano da quel paese, una città è in pericolo perché l'Orchessa Maestra ha gettato sugli abitanti un misterioso maleficio.
"Tutte le volte che si apriva bocca / doveva uscire una filastrocca. / Per raccontare, per chiacchierare, / per dire grazie o per domandare / là si faceva in casa e per via / il verso in rima di una poesia".
Chi per caso, per distrazione o per poca abilità non risponde in rima, è destinato a scomparire. Forse per sempre.
In città giunge presto uno strano signore. È Gino Ginestra, un poeta girovago, "un cantastorie un po' qui e un po' là", che si propone di riportare un po' d'ordine in quel luogo, sfidando l'Orchessa a una gara di rime.
L'Orchessa ascolta indispettita le parole del poeta, ma accetta la sfida solo quando Gino Ginestra la provoca dicendo: "non ho rivali nel mondo intero / perché è già in versi il mio pensiero. / Solo una volta venni sfidato / ma l'avversario finì bastonato. / Da allora è noto che sono il poeta / più celebrato di tutto il pianeta".
L'Orchessa risolve una dopo l'altra le rime impossibili, ma proprio non riesce a trovare la rima per la parola "uva". Sconfitta, fugge lontano. Forse ha imparato che non si può costringere nessuno a diventare poeta. O forse no. In un altro luogo, invece, qualcuno ha smesso di parlare. Un bambino osserva il mondo dilaniato dalle bombe e da una guerra appena passata. La tristezza ha cancellato il suo sorriso e i suoi sogni. Non vuole più parlare. Il suo silenzio comunica tante cose e la sua malinconia, presto, si diffonde in tutto ciò che lo circonda. Il gatto raggomitolato accanto al camino osserva il bambino reso muto dal dolore e gli chiede perché tutto ciò accada. "Ma il bambino non rispose, e il gatto, quel giorno, non fece le fusa. Allora la casa chiese: "Perché?". Il gatto rispose: "Il bambino non parla più, così io smetto di fare le fusa". Quel giorno la casa non aprì le persiane". Anche i fiori quel giorno chinano il capo, il sentiero decide di non condurre più al giardino e il sole di non brillare più alto nel cielo.
La notte invade il paese, ma una stella, una sola stella continua a brillare. Nessuno sa perché. Ma guardando quell'unica stella il bambino si scuote e comincia a ripensare a tutte le storie che, prima della guerra, gli raccontava la nonna. Il ricordo di quelle storie riaccende la speranza in un mondo migliore e, come per magia, tutto si sveglia, la tristezza scompare e le parole ritornano sulle labbra del bambino. "Il gatto sentì parlare il bambino. Così si rimise a fare le fusa. Di colpo la casa aprì le persiane. I fiori alzarono il capo. Il sentiero riprese la via del giardino. Il lavoro dei campi ricominciò. Il sole si rimise a brillare… e la vita riprese come prima. E come prima, le storie accesero i sogni negli occhi dei bambini". (Anna Antoniazzi)
Fiabe da 'Le mille e una notte', Fabbri, Milano 2003
Gigi Bigot, Pépito Matéo, Bocca cucita, Zoolibri, Reggio Emilia 2003 [Ill.]
Francesco Gabrieli, Le mille e una notte, Einaudi, Torino 1972 [Ill.]
Salman Rushdie, Harun e il mar delle storie, Mondadori, Milano 1991 [Ill.]
Anna Vivarelli, Per caso e per naso, Fabbri, Milano 2001 [Ill.]