ONU
We, the peoples of the United Nations
Riflessioni sull’ONU
di
14 dicembre 2006
Il sessantaduenne sudcoreano Ban Ki-moon, designato in ottobre come successore di Kofi Annan, giura come ottavo segretario generale delle Nazioni Unite, impegnandosi a non accettare istruzioni da alcun governo o altra autorità esterna all’ONU e a regolare la propria condotta nell’interesse esclusivo dell’organizzazione. Ban Ki-moon si insedierà al Palazzo di Vetro il 1° gennaio.
Al Palazzo di Vetro di New York, che ospita il quartier generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’inizio dell’anno 2007 è stato caratterizzato da due eventi: l’assunzione della carica di segretario generale dell’ONU da parte del già ministro degli Esteri sudcoreano, Ban Ki-moon; l’insediamento di cinque nuovi membri biennali nel Consiglio di sicurezza, eletti dall’Assemblea generale, tra cui l’Italia, assieme a Belgio, Indonesia, Panama e Sudafrica. Due avvenimenti che incideranno non poco, entrambi, sulla vita e sull’attività del massimo organo societario mondiale e che meritano, quindi, una riflessione.
Da Kofi Annan a Ban Ki-moon
La nomina di un cittadino di un paese asiatico alla guida del Segretariato generale dell’organizzazione era attesa. Esiste, infatti, ormai da molti decenni, un gentlemen’s agreement tra i paesi membri, volto a rispettare, nella scelta del segretario generale, un criterio di rotazione geografica tra i quattro maggiori gruppi regionali in cui è suddivisa la membership: nell’ordine Asia, Europa occidentale e altri (USA, Canada, Australia, Nuova Zelanda e, più recentemente, anche se su base temporanea e limitata a New York, Israele); America Latina e Caraibi; Africa. Non ha mai sinora espresso un segretario generale il quinto raggruppamento, quello dei paesi dell’Europa orientale, anche se non sono mancati tentativi in tal senso, soprattutto da parte dell’Ucraina. Tentativi, peraltro, sempre meno fondati poiché il crollo del muro di Berlino, da un lato, e il progressivo allargamento a est dell’Unione Europea, dall’altro, hanno reso in qualche modo anacronistica l’esistenza stessa di un gruppo dell’Europa orientale all’ONU.
In base allo Statuto, il segretario generale resta in carica cinque anni, ma, secondo una prassi invalsa sin dagli albori dell’organizzazione, egli viene di norma rieletto dall’Assemblea generale, su proposta del Consiglio di sicurezza, per un secondo quinquennio. Questa prassi ha avuto un’eccezione nel dicembre del 1995, per precisa scelta di Washington che si oppose a che all’egiziano Boutros Ghali venisse rinnovato il mandato (chi scrive, era all’epoca presidente del Consiglio di sicurezza, e ricorda bene come la prima simulazione di voto in Consiglio avesse prodotto il risultato di 14 voti a favore e uno solo contro la riconferma di Ghali, ma quell’unico voto era di un paese dotato del diritto di veto, gli Stati Uniti), per cui alla fine fu eletto un altro africano, il ghanese Kofi Annan. Peraltro, quest’ultimo ha poi espletato regolarmente il suo mandato per due volte consecutive, sino al dicembre 2006. Tra Boutros Ghali e Kofi Annan, a parte la nazionalità, vi era un’altra sostanziale differenza: Ghali, come tutti i segretari generali prima di lui, era un eminente personaggio politico-diplomatico del suo paese. Annan, viceversa, proveniva dai ranghi interni della stessa ONU, di cui aveva man mano salito i gradini gerarchici, sino a divenire assistente segretario generale per le operazioni di pace. Si disse allora che gli americani preferivano affidare il timone dell’organizzazione a un ‘segretario’ piuttosto che a un ‘generale’, anche perché scontenti del modo in cui Ghali aveva condotto l’operazione di pace in Somalia. In effetti, all’avvento di Annan, furono molte le speranze che egli avrebbe dato priorità alla riorganizzazione del Segretariato generale, potendo avvalersi di una conoscenza diretta e approfondita del funzionamento della macchina delle Nazioni Unite. Speranza, in verità, delusa, perché Annan finì con l’insistere invano sulla riforma del Consiglio di sicurezza e con il concentrarsi sulla preparazione dei due grandi vertici dei capi di Stato e di governo dei paesi membri: l’Assemblea del Millennio del 2000 e quella per celebrare il 60° anniversario dell’ONU nel 2005. Appuntamenti, entrambi, di grande momento: mai la storia era stata testimone di conferenze o incontri che avevano radunato insieme praticamente i massimi leader di tutti gli Stati del mondo, grandi, medi e piccoli. Purtroppo, i risultati non hanno corrisposto alle attese, se non in minima parte. Oltre un terzo del documento conclusivo del secondo dei due vertici (composto di ben 36 pagine e 177 paragrafi) concerneva l’aiuto allo sviluppo e la lotta alla povertà, con l’impegno reiterato dei paesi economicamente più progrediti di raggiungere la quota dello 0,70% dei rispettivi PIL da devolvere ai paesi in via di sviluppo. Impegno poi praticamente disatteso dai più. Un altro capitolo era dedicato alla sostituzione della preesistente Commissione per i diritti umani con un Consiglio dei diritti umani, che avesse la stessa statura e dignità degli altri due grandi organi societari, il Consiglio di sicurezza e l’ECOSOC (Consiglio economico e sociale). Per renderlo più agile ed efficiente, la composizione del nuovo organismo avrebbe dovuto essere drasticamente ridotta: ma quando si è passati all’attuazione pratica, i membri del nuovo Consiglio sono scesi soltanto da 53 a 47, lasciando inalterate le incongruenze del passato. Tra le ombre del documento finale del secondo vertice, va inoltre segnalata la mancanza di qualsiasi accordo sulle gravi e incombenti minacce legate alla proliferazione nucleare e al terrorismo internazionale. Non che il bilancio finale dei due storici eventi sia stato totalmente negativo. Come risultati positivi devono essere considerati, infatti, l’istituzione della Commissione per la costruzione della pace a beneficio di quei paesi che, stremati dalla guerra, spesso civile, da soli non sarebbero in grado di risorgere e di riorganizzare il tessuto politico-istituzionale e le infrastrutture indispensabili al vivere civile; nonché l’istituzione di un Fondo per la democrazia, volto a sostenere gli sforzi che molti paesi stanno ancora compiendo per sviluppare e rinvigorire le rispettive istituzioni democratiche. È anche doveroso riconoscere che nella gestione di Annan non sono mancate le luci, come i suoi meritori tentativi per salvaguardare la pace, senza sottrarsi a rischi per la sua stessa incolumità, e l’azione da lui svolta per riportare sempre nell’alveo della legalità internazionale le operazioni di pace: sforzi che hanno meritato all’ONU, e allo stesso Annan, il premio Nobel per la pace per l’anno 2001.
Comunque, per tornare a Ban Ki-moon, con la sua nomina si è ristabilita la tradizione di far guidare l’ONU da un personaggio di estrazione politica internazionale. In base allo Statuto, il segretario generale agisce in tale qualità in tutte le riunioni dell’Assemblea, del Consiglio di sicurezza e del Consiglio economico e sociale, ove siede sempre alla destra del presidente e svolge la relazione introduttiva dei lavori. Egli inoltre ha la «facoltà di attirare l’attenzione del Consiglio di sicurezza su qualunque questione che, a suo avviso, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale» (art. 99 dello Statuto).
Qualcuno ha affermato che il segretario generale è «il portavoce dei popoli del mondo»: espressione suggestiva che, peraltro, non trova adeguato riscontro nella realtà. Contrariamente a quanto molti credono, infatti, l’ONU non è il governo del mondo, non essendo, in larghissima misura, un’organizzazione sovranazionale.
L’ONU è stata concepita, e resta, come un patto tra le nazioni che la compongono. La sua volontà non è altro che la somma algebrica delle volontà dei suoi 192 membri. Con una precisazione ulteriore: che in materia di pace e di guerra la competenza unica ed esclusiva (con esclusione anche della stessa Assemblea generale) è del Consiglio di sicurezza, largamente dominato dai suoi cinque membri permanenti, in virtù del cosiddetto potere di veto singolarmente attribuito a ognuno di essi. Senza l’effettivo accordo dei cinque è estremamente difficile, se non impossibile, salvaguardare la pace e la sicurezza internazionale.
All’ONU è la volontà degli Stati che continua quindi a prevalere. Qualcuno si chiederà se ciò significa che la comunità internazionale sia rimasta ferma ai Trattati di Westfalia del 1648, che sancirono la nascita appunto degli Stati nazionali. Non è proprio così. Perché un correttivo a tale situazione venne introdotto poco dopo la nascita dell’ONU, con l’adozione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. Con essa, infatti, gli Stati rinunciarono a quella parte della loro sovranità concernente il settore fondamentale della protezione dei diritti umani, che nessun paese può più violare impunemente, trincerandosi dietro lo scudo della sovranità nazionale. Ma, per il resto, sono solo e sempre gli Stati nazionali a decidere, e lo stesso segretario generale dell’ONU è tenuto a eseguirne le decisioni, sempre che siano state espresse naturalmente in Assemblea generale e nelle altre sedi societarie.
Nell’assumere le nuove funzioni, Ban Ki-moon ha indicato come priorità, suo primo obiettivo, la riorganizzazione del Segretariato e del management delle Nazioni Unite. Una burocrazia sempre più pesante, nonché duplicazioni e sprechi di ogni sorta, affliggono da tempo il Segretariato generale dell’ONU, malgrado gli sforzi e l’abnegazione di molti dei suoi valorosi funzionari. Ban Ki-moon ha dichiarato che intende porvi rimedio, rendendo l’organismo più snello e flessibile, imponendo la cultura del dover sempre rendere conto del proprio operato, premiando il merito e la professionalità, incentivando l’addestramento e la mobilità del personale e, infine, riportando «l’ONU al più alto livello di integrità». L’obiettivo è ambizioso e la strada per raggiungerlo lunga e tutt’altro che agevole. Va comunque sin d’ora dato atto al nuovo segretario generale di essersi espresso al riguardo con grande chiarezza e determinazione, senza accettare condizionamenti di sorta. Sull’altro tema, invece, quello scottante della riforma o, per essere più precisi, dell’allargamento del Consiglio di sicurezza (in cui Germania, Giappone, Brasile e India aspirano a ottenere ciascuno un seggio permanente) che da quasi tre lustri, malgrado la sua indubbia rilevanza, si trascina inutilmente nelle sale del Palazzo di Vetro, il neosegretario generale è stato molto più cauto e sfumato del suo predecessore. Ban Ki-moon ha assicurato che non intende prendere partito a favore dell’uno o dell’altro dei contrapposti schieramenti e di non voler interferire nelle relative decisioni, di competenza esclusiva dell’Assemblea generale. Solo questa, infatti, ha la prerogativa di dibattere e decidere su un tema così delicato, che coinvolge principi inerenti al rispetto dell’eguaglianza tra gli Stati e alla salvaguardia della posizione internazionale e di fondamentali interessi politici di molti di essi.
L’Italia e l’ONU
La grande novità riguardante l’Italia nell’orizzonte delle Nazioni Unite del 2007 è stata la sua plebiscitaria elezione, per un periodo biennale, al Consiglio
di sicurezza. È la sesta volta che l’Italia siede in Consiglio, alla pari del Canada, e con maggiore frequenza di Belgio, Germania e Paesi Bassi (5 volte), nonché di Australia, Danimarca, Norvegia e Spagna (4 volte): un segno indubbio del rispetto e del prestigio che l’Italia ha saputo riconquistarsi nell’agone internazionale, risalendo la china dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale.
L’essere componente del massimo organo decisionale societario, deputato a deliberare per la salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale (e non soltanto, sol che si pensi al ruolo del Consiglio di sicurezza nella scelta del segretario generale e dei giudici della Corte internazionale, alla sua facoltà di istituire Tribunali penali ad hoc ecc.), può avere ricadute molto importanti sotto il triplice profilo della difesa degli interessi dell’Italia, di quelli dell’Unione Europea, e della riforma del Consiglio di sicurezza.
Merita anzitutto ricordare che, a differenza delle risoluzioni adottate dall’Assemblea generale, che hanno solo valore di raccomandazione, quelle del Consiglio di sicurezza sono vincolanti per l’intera comunità internazionale. Lo Statuto stabilisce infatti espressamente che gli Stati membri «conferiscono al Consiglio di sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e riconoscono che il Consiglio di sicurezza, nell’adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, agisce in loro nome» (art. 24), e «convengono di accettare ed eseguire le decisioni del Consiglio di sicurezza» (art. 25).
Da notare, inoltre, che se è vero che il Consiglio è, in larghissima parte, condizionato dai suoi cinque membri permanenti che hanno facoltà di usare il potere di veto (o sol anche di brandire la minaccia di farvi ricorso), è pure vero che per poter approvare una risoluzione occorrono 9 voti su 15. In altre parole, è sufficiente che sette membri eletti, non permanenti, del Consiglio, ancorché privi del veto, si coalizzino per bloccare la volontà dei più potenti. È accaduto e potrà tornare ad accadere.
L’Italia avrà la possibilità di tutelare assai meglio, sedendo in Consiglio, la sicurezza delle proprie truppe schierate nei vari scacchieri ove sono in corso operazioni di pace. Basti ricordare il responsabile e ingente impegno italiano in Afghanistan, Libano e nei Balcani e come sia proprio il Consiglio di sicurezza a deliberare, in definitiva, le regole di ingaggio: cioè le norme per l’autodifesa e di combattimento cui devono attenersi i reparti che partecipano alle varie operazioni di pace. Queste ultime, com’è noto, possono essere condotte sia direttamente sotto la bandiera dell’ONU, sia nel quadro di operazioni promosse da organizzazioni regionali – come la NATO o l’UA (Unione Africana) – oppure ancora a opera di coalizioni di paesi ‘volenterosi’, ma sempre sotto l’egida e con l’approvazione del Consiglio di sicurezza.
Sul piano europeo, va anzitutto notato che, a partire dal 2006, per la prima volta nella storia l’Unione Europea vede ben cinque suoi membri sedere contemporaneamente in Consiglio di sicurezza (nel 2007 Francia, Gran Bretagna, Italia, Belgio, Slovacchia): un terzo, cioè, dell’intero Consiglio. Non c’è chi non veda quale grande ed effettiva influenza l’Europa potrebbe esercitare per le sorti della pace nel mondo, solo che riuscisse a esprimere una seria e coerente politica estera comune. Ma non si dimentichi che la stessa Unione è stata costruita a piccoli passi, in un volger di tempo considerevolmente lungo. Analoga costanza e pazienza appaiono necessarie per pervenire alla realizzazione del ‘seggio comune europeo’ in Consiglio di sicurezza.
Il ritorno nel Consiglio dell’Italia, come membro democraticamente eletto, costituisce un’occasione unica per ‘portare più Europa’ nel Consiglio di sicurezza. In particolare, per cercare di attuare concretamente quel progetto di coinvolgimento nel seggio italiano di alti funzionari della presidenza europea di turno e/o di rappresentanti di Mr. PESC (così è detto l’alto rappresentante per la politica estera e di difesa) e della Commissione di Bruxelles. Si darebbe così per la prima volta all’Europa unita la possibilità di avere occhi, orecchi e voce propri all’interno del sancta sanctorum del Consiglio di sicurezza: su quanto accade cioè nella piccola sala, attigua alla grande aula del Consiglio, in cui si svolgono le riunioni cosiddette informali. È infatti in queste ultime, il cui ingresso è rigorosamente precluso ai diplomatici dei paesi non membri del Consiglio, che si articola il 99% dell’attività e delle decisioni del Consiglio di sicurezza. Un precedente esiste già da qualche anno: Argentina e Brasile hanno stipulato un accordo in base al quale, quando uno dei due paesi siede in Consiglio, accredita nella sua delegazione un alto funzionario dell’altro.
Naturalmente, non sfugge come una simile iniziativa non incontri il favore dei due membri europei che in Consiglio siedono a titolo permanente, Francia e Gran Bretagna, le quali paventano che ciò possa segnare l’inizio dello sgretolamento della loro rendita di posizione. Né sfugge come l’iniziativa possa risultare poco gradita a quella parte dello schieramento politico tedesco (per fortuna non tutto) che ancora insegue il miraggio di un seggio permanente per la Germania: senza rendersi conto che il futuro dell’Europa è la sua crescente integrazione e non il ritorno ai fortilizi nazionalistici del passato, causa di ripetute, immani sciagure per il continente e per il mondo intero.
Anche in questo caso, deve soccorrere il metodo galileiano del ‘provare e riprovare’, tenendo presenti due considerazioni: da un lato, che la rigida posizione iniziale di chiusura di Londra e Parigi circa l’opportunità di consultazioni tra i partner europei a New York sulle tematiche in discussione nel Consiglio di sicurezza (con il pretesto di mantenere la confidenzialità dovuta agli altri tre membri permanenti) si è lentamente e gradualmente stemperata, cedendo il passo alla disponibilità a discutere dette tematiche in principio posteriormente ai dibattiti in Consiglio di sicurezza, ma ora anche prima di essi. Dall’altro, che i due paesi chiamati alla presidenza dell’Unione, il Portogallo per il secondo semestre del 2007 e la Slovenia per il primo semestre del 2008, potrebbero avere un serio interesse a uno scambio di funzionari con la delegazione italiana al Consiglio di sicurezza e, se queste ultime concordano, anche con quelle belga e slovacca, per ottenere informazioni di prima mano, senza filtri di sorta, e in tempo reale, su ciò che avviene, o è in programma, nel Consiglio: il che faciliterebbe non poco il compito delle due presidenze di turno ai fini del coordinamento e dell’armonizzazione delle posizioni politiche dei 27 all’ONU.
La riforma del Consiglio di sicurezza
La presenza in Consiglio di sicurezza, sia pure solo per due anni, pone indubbiamente l’Italia in una posizione di maggior autorevolezza anche per quanto concerne la difesa dei suoi interessi nella tormentata vicenda della riforma del Consiglio stesso. Nell’ormai lontano 1993 era stato istituito dall’Assemblea generale un gruppo di lavoro, a composizione aperta (con possibilità cioè di partecipazione di tutti i paesi membri) con il duplice mandato di studiare e proporre all’Assemblea soluzioni da un lato al problema dell’ampliamento del Consiglio e dall’altro al miglioramento dei suoi metodi di lavoro. Progressi non indifferenti vennero realizzati, abbastanza rapidamente, sul secondo di tali obiettivi: furono suggeriti accorgimenti e meccanismi per rendere più trasparenti e, per quanto possibile, più aperti e partecipativi a tutti gli altri membri dell’ONU, i lavori del Consiglio. Per esempio, fu deciso che l’agenda delle riunioni ‘informali’ quotidiane dei 15, sino ad allora rigorosamente riservata, venisse pubblicata ogni mattina sul Journal delle Nazioni Unite; che dopo ogni riunione (delle quali non vengono mai redatti verbali) la presidenza fosse tenuta a informare gli altri membri dell’ONU, anche se per sommi capi, sulle discussioni avvenute e sulle decisioni adottate; che il numero delle riunioni pubbliche del Consiglio – cui tutti i membri dell’ONU possono intervenire non solo come spettatori, ma anche prendendo la parola – fosse aumentato; che i paesi contributori di truppe alle operazioni di pace venissero ascoltati prima, e non dopo, le delibere del Consiglio concernenti l’impiego dei loro soldati. Misure, tutte, praticamente fatte subito proprie e applicate dal Consiglio di sicurezza.
Lo stallo più completo si è registrato, invece, sul problema dell’allargamento del Consiglio. All’inizio, il Consiglio era composto di 11 membri (cinque permanenti muniti di veto: Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti, e sei eletti dall’Assemblea con mandato biennale), rispetto ai 51 paesi fondatori delle Nazioni Unite. Nel 1965, a seguito dell’aumento dei membri dell’organizzazione a 117, il numero dei componenti del Consiglio fu elevato a 15. Oggi che i membri dell’ONU sono divenuti 192, anche la loro rappresentanza nel Consiglio di sicurezza dovrebbe adeguarsi alla nuova realtà. Su questo punto, apparentemente almeno, tutti sembrano concordare. Dove i pareri cominciano a divergere radicalmente, invece, è se l’aumento debba riguardare solo i membri permanenti, o anche quelli eletti, non permanenti. Il problema dei problemi è poi – nel caso si dovesse decidere di creare nuovi seggi permanenti – a chi tali seggi andrebbero attribuiti.
Tra il 1994 e il 1998 si registrò una serie interminabile di riunioni e dibattiti, incontri e scontri in Assemblea generale e dentro e fuori il gruppo di lavoro per la riforma, spesso non privi di acrimonia. Le diplomazie di Germania e Giappone vennero accusate di ricercare – di fronte alla complessità del problema – una soluzione rapida a loro esclusivo vantaggio, pittorescamente denominata quick fix («aggiustamento veloce»), che preconizzava la concessione immediata del seggio permanente a entrambi questi paesi, mentre l’istituzione dei seggi permanenti da destinare ai maggiori paesi in via di sviluppo sarebbe stata differita al momento in cui gli stessi avessero raggiunto un accordo tra loro. Aspirazione quella tedesco-nipponica, se mai veramente nutrita, vanificata dalla semplice circostanza che l’ONU è composta per quasi tre quarti dai paesi in via di sviluppo. In nessun caso questi avrebbero accettato l’allargamento, anche se temporaneo, del Consiglio a soli altri due paesi sviluppati e per di più appartenenti a quell’emisfero settentrionale del mondo che già esprime tutti e cinque gli attuali membri permanenti. Anche l’Italia presentò una sua proposta di riforma, fondata sull’interpretazione dell’art. 23 dello Statuto, secondo cui l’Assemblea generale elegge i membri non permanenti del Consiglio «avendo speciale riguardo, in primo luogo, al contributo dei membri delle Nazioni Unite al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e agli altri fini dell’organizzazione, e inoltre ad un’equa distribuzione geografica». In sostanza da parte italiana si proponeva di istituire una terza categoria di membri – i ‘semipermanenti’, in numero di 8 o 10 – che, scelti in una rosa di circa 30 paesi maggiori contributori, avrebbero ruotato in Consiglio regolarmente due anni su sei, sempre peraltro democraticamente eletti dall’Assemblea. La proposta italiana suscitò l’interesse e l’apprezzamento di una sessantina di paesi, numero tuttavia insufficiente per ottenerne l’approvazione.
Un momento di particolare tensione si verificò nella primavera del 1997, quando l’allora presidente dell’Assemblea generale, il malese Ismail Razali, cercò di forzare la mano proponendo un modello di ampliamento alquanto anomalo. Secondo il progetto Razali, si sarebbero dovuti prevedere cinque ulteriori membri permanenti e quattro non permanenti. Senonché i nuovi permanenti veri e propri sarebbero stati solo due (Germania e Giappone), mentre gli altri tre si sarebbero configurati come ‘permanenti a rotazione’ (un ossimoro, cioè una vera contraddizione in termini!) da destinare a tre grandi paesi rispettivamente di Africa, Asia e America Latina. I nuovi permanenti inoltre non avrebbero avuto il potere di veto, a differenza degli attuali cinque, questi ultimi non essendo affatto disposti a condividere con nessun altro l’inusitato privilegio di cui sono titolari. L’immediata reazione alle manovre poco ortodosse del presidente dell’Assemblea – che veniva meno ai suoi doveri di imparzialità verso tutti i membri – fu la costituzione del Coffee Club, così chiamato perché vedeva riuniti, alle nove del mattino di ogni martedì, gli ambasciatori di Italia, Egitto, Messico, Pakistan, Canada, Spagna, Argentina, Corea e molti altri, decisi a contrastare le mire degli aspiranti a nuovi seggi permanenti.
La risoluzione procedurale del 23 novembre 1998
Uno degli aspetti più insidiosi della formula Razali era il sistema di votazione proposto per pervenire ai nuovi assetti. Il progetto Razali si sarebbe dovuto infatti articolare in quattro fasi: 1) approvazione di una risoluzione – che avrebbe previsto l’aggiunta, ai cinque attuali membri permanenti, di altri cinque, ma senza veto, nonché di quattro non permanenti – con la maggioranza prevista dall’art. 18 dello Statuto (due terzi dei presenti e votanti); 2) selezione dei cinque nuovi permanenti, con procedura eguale a quella per l’attuale elezione dei non permanenti, sempre cioè con la maggioranza dell’art. 18; 3) approvazione formale dell’emendamento dell’art. 23 dello Statuto, per accrescere da 15 a 24 i membri del Consiglio di Sicurezza e aggiungere i nomi dei nuovi permanenti, e dell’art. 27 per modificarne le regole di voto. Qui la maggioranza avrebbe dovuto essere quella dell’art. 108 (due terzi dei membri effettivi, cioè all’epoca 124 paesi); 4) ratifica degli emendamenti di cui sopra, anche qui con la maggioranza prevista dall’art. 108 per la revisione dello Statuto, ivi comprese le ratifiche dei 5 permanenti. La mancata ratifica anche di uno solo di questi ultimi, avrebbe potuto quindi far naufragare in extremis l’intera operazione: ma si faceva affidamento sull’effetto bandwagon/palla di neve per vincere alla fine le resistenze dei più riluttanti. Da notare che la differenza tra le maggioranze previste dagli artt. 18 e 108 non è da poco, perché accade non di rado che in Assemblea, al momento del voto su questioni controverse, parecchi ambasciatori si assentino dall’aula. Sicché, applicando l’art. 18, il voto di soli 90-100 paesi, sui 192 che oggi compongono le Nazioni Unite, basterebbe per far passare una risoluzione. Invece, se si applica l’art. 108, di voti ora ne occorrono non meno di 128.
Il disegno di Razali fu bloccato dall’Italia e dai suoi alleati del Coffee Club nel novembre 1998, quando essi ottennero – grazie all’appoggio dichiarato della grande maggioranza dei paesi cosiddetti non allineati – l’approvazione da parte dell’Assemblea di una risoluzione procedurale. Grazie a tale risoluzione, qualsiasi delibera concernente la riforma del Consiglio di Sicurezza per essere adottata, in qualsivoglia fase del processo, deve ottenere la maggioranza di due terzi dei paesi membri prevista dall’art. 108 dello Statuto. Va ricordato che la risoluzione, ancorché fortemente osteggiata dagli aspiranti a nuovi seggi permanenti, venne alla fine approvata per acclamazione anche da questi ultimi: ciò nel timore che la sicura, pesante sconfitta cui sarebbero andati incontro se si fosse andati al voto, avrebbe potuto segnare il tramonto definitivo delle loro ambizioni.
Nei sei anni che seguirono, sulla questione della riforma non si registrarono sviluppi degni di nota. L’esercizio conobbe un rilancio nel settembre 2004, quando i leader di Germania, Giappone, Brasile e India si riunirono in un albergo di Manhattan e annunciarono che i loro quattro paesi sarebbero tornati a propugnare congiuntamente un seggio permanente in Consiglio di sicurezza per ciascuno di essi. Quanto al potere di veto connesso al seggio, convenivano sull’opportunità di rinunciarvi, almeno temporaneamente. Il gruppo, subito battezzato G4, era ben consapevole che, senza i 53 voti dei paesi africani, qualsiasi formula per l’allargamento del Consiglio di sicurezza era destinata all’insuccesso. Decise pertanto di offrire all’Africa non uno (come previsto sino ad allora) bensì due seggi permanenti, nonché un ulteriore seggio non permanente biennale in aggiunta ai tre già detenuti dall’Africa (di cui uno a rotazione con l’Asia). Ma questa offerta, almeno sinora, non è stata giudicata sufficiente dai vertici, che da allora si sono susseguiti negli anni, dei capi di Stato e di governo africani, i quali insistono per ottenere anche il potere di veto per i due seggi permanenti promessi, nonché l’assegnazione di complessivi cinque, anziché quattro, seggi non permanenti (cosiddetto consenso di Ezulwini, dalla località dello Swaziland in cui fu raggiunto nel marzo 2005).
Prospettive per il futuro
In Assemblea, quindi, sulla questione della riforma si sono formati tre schieramenti: a) il G4 e i suoi alleati, fautori di un aumento di sei nuovi seggi permanenti senza veto, e quattro non permanenti con un Consiglio di sicurezza composto quindi da 25 membri (di cui 11 permanenti e 14 elettivi); b) il gruppo di paesi denominato Uniting for Consensus – praticamente i medesimi del Coffee Club – con in testa Italia, Spagna, Pakistan, Argentina, Messico e Corea, che sostengono l’incremento di 10 nuovi seggi, ma tutti rigorosamente a rotazione ed elettivi, per un totale di 25 membri; c) i paesi dell’Africa, con in testa Algeria ed Egitto, che continuano a propugnare la soluzione di 11 membri permanenti (di cui 2 per l’Africa), ma muniti del potere di veto, e 15 non permanenti, cinque dei quali riservati al continente nero, per un totale di 26 membri. Progetti di risoluzione che prevedono le tre diverse alternative sono stati depositati in Assemblea generale nel 2005 e 2006, ma senza che si sia mai giunti sinora ad alcuna richiesta di votazione su nessuno di essi.
Nel frattempo tutti i tentativi per raggiungere un compromesso – incluso il rapporto di un gruppo di 16 ‘saggi’ di altissimo livello prescelti dal segretario generale Kofi Annan – sono andati a vuoto. I motivi di fondo di uno stallo così prolungato, e apparentemente insuperabile si possono forse ravvisare nei fattori che andiamo a esporre.
Una serie di paesi, nei diversi continenti, mal sopporta l’idea che l’isola di assoluto privilegio costituita dai membri permanenti attuali del Consiglio di sicurezza si allarghi ulteriormente a loro discapito. In Europa, e nel gruppo occidentale in genere, paesi come Italia e Spagna, Turchia e Canada non intendono assistere passivamente a un loro ulteriore ‘declassamento’, oltre a quello già di fatto esistente rispetto a Francia e Gran Bretagna. In Asia, paesi come il Pakistan, l’Indonesia e la Corea del Sud mal sopporterebbero l’egemonia virtuale anche di Giappone e India, in aggiunta a quella cinese. In America Latina, analogo sentire esiste nei confronti del Brasile da parte di Argentina, Messico e Colombia. In Africa, infine, è facilmente immaginabile quale sarebbe la reazione dei paesi arabi del Nord se seggi permanenti venissero attribuiti alla Nigeria e/o all’Africa del Sud, e naturalmente viceversa. Ancora, per quale motivo dovrebbero avere la prevalenza i paesi dell’Africa anglofona rispetto ai francofoni?
Vi è poi un sentimento naturale e assai diffuso, nella grande maggioranza dei membri, di non vedere ulteriormente mortificato, ancor più di quanto già non avvenga data l’esistenza dei cinque permanenti, il concetto dell’uguaglianza sovrana degli Stati, grandi o piccoli che siano, solennemente sancito dallo stesso Statuto dell’ONU. In altre parole, non piace a molti la prospettiva che sei nuovi paesi possano sedere nel Consiglio di Sicurezza in modo permanente, anche se in posizione subalterna rispetto agli attuali cinque perché privi del veto, ma pur sempre evitando di doversi sottoporre, come tutti gli altri, a periodiche democratiche elezioni, e senza dover più rendere conto a nessuno, se non a sé stessi, del proprio comportamento e operato in seno al Consiglio.
Un’ulteriore, indubbia circostanza ostativa al progetto degli aspiranti al nuovo status elitario è l’atteggiamento degli attuali cinque permanenti, i ‘P5’ come sono comunemente indicati nel lessico dell’ONU. Le posizioni mantenute al riguardo dai P5 a partire dal 1993 meritano un’analisi più approfondita. La Cina non ha mai fatto mistero della sua profonda avversione a istituire nuovi seggi permanenti. Ne sono testimonianza le campagne di mobilitazione dell’opinione pubblica cinese contro la candidatura del Giappone. A quest’ultimo si imputano le atrocità commesse dalle sue truppe nei territori occupati del Pacifico nella Seconda guerra mondiale e gli onori che il governo di Tokyo continua a tributare a coloro che, secondo Pechino, di tali orrori furono i responsabili. Inoltre la Cina monta puntualmente efficaci controffensive diplomatiche, inviando ambascerie straordinarie nei paesi del Terzo Mondo, specie dell’Africa e dei Caraibi, ogni qual volta si profili all’orizzonte un nuovo possibile show down in Assemblea. In particolare, a ogni conferenza o incontro internazionale, specie dei paesi non allineati, ove il tema della riforma del Consiglio di sicurezza torna in discussione, la diplomazia cinese è sempre presente, attiva e vigilante.
La Russia ha tenuto sinora una posizione ambivalente. A metà degli anni 1990, quando la sua politica estera era guidata da Evgenij Primakov, Mosca si schierò apertamente a fianco del Coffee Club. La Russia aveva persino sottoscritto, assieme alla Cina, il progetto di risoluzione procedurale di questo per l’applicazione costante dell’art. 108, mentre Francia, Gran Bretagna e USA avevano firmato il controprogetto in favore dell’art. 18, che poi risultò perdente. In tempi più recenti, peraltro, la leadership russa aveva mostrato maggiore favore, almeno nei confronti delle aspirazioni di Germania, Giappone e India. Ma nella sostanza Mosca continua ad affermare di favorire una soluzione basata su un ‘consenso generale’, una maggioranza cioè addirittura superiore al quorum dei 2/3 dei paesi membri, anche per evitare le lacerazioni insanabili all’interno della membership che deriverebbero da una riforma imposta a colpi di maggioranza, sia pur qualificata. Gli Stati Uniti avevano inizialmente manifestato il loro appoggio ‘entusiastico’ (era l’aggettivo usato) alla proposta di assegnazione di seggi permanenti a Giappone e Germania, ma assai meno a quell’epoca all’India e al Brasile o a un paese africano. In tempi più recenti la posizione di Washington è cambiata: aumento di soli uno, o al massimo, due seggi permanenti da attribuire al Giappone e verosimilmente all’India (anche se il nome di quest’ultima non è stato mai fatto, per non urtare la forte suscettibilità pakistana al riguardo)
e un modesto incremento dei seggi non permanenti (due o tre). Di seggio permanente alla Germania non vi è più stata menzione alcuna, presumibilmente per la posizione adottata da Berlino al tempo dell’invasione dell’Iraq. La motivazione ufficiosa americana è che un Consiglio di sicurezza con più di 20 membri risulterebbe ingestibile, inefficiente e inefficace, e che comunque la questione della riforma del Consiglio di sicurezza non rappresenta una priorità per l’attuale amministrazione. La Francia e la Gran Bretagna invece hanno costantemente appoggiato le ambizioni del G4. Il motivo è evidente: Parigi e Londra temono che se la Germania continuerà a restare fuori dal Consiglio, aumenteranno le pressioni per pervenire a un seggio comune europeo, sostitutivo di quelli che i due paesi attualmente detengono. Se non fosse per tale timore, anche Francia e Gran Bretagna con ogni probabilità, nel loro intimo, preferirebbero il mantenimento dello status quo.
La soglia di 128 voti, fissata grazie all’azione diplomatica dell’Italia e dei suoi alleati al Palazzo di Vetro nel 1998, ha costituito, almeno sinora, un baluardo insormontabile contro cui si sono infranti tutti i tentativi di istituire nuovi seggi permanenti. Certo, l’ago della bilancia dell’intero esercizio continua a essere rappresentato dall’atteggiamento del gruppo africano che, forte dei suoi 53 voti, potrebbe far prevalere l’una (aumento dei membri permanenti e non) o l’altra (aumento dei soli membri non permanenti) delle soluzioni. La forza negoziale degli africani all’ONU deriva essenzialmente dalla loro tradizionale compattezza al momento del voto, specie sulle questioni più cruciali e controverse, come appunto quella della riforma del Consiglio di sicurezza. È quindi fondamentale l’atteggiamento del vertice dei capi di Stato e di governo africani. Il più recente, tenuto ad Accra agli inizi di luglio 2007, ha confermato pienamente il ‘consenso di Ezulwini’ e la conseguente richiesta di due seggi permanenti con potere di veto e di cinque seggi non permanenti per l’Africa. In queste condizioni è probabile che il G4 tenti di imboccare la strada della cosiddetta ‘soluzione transitoria’, indicata nel maggio 2007 in un rapporto di cinque ‘facilitatori’ (i rappresentanti permanenti di Cile, Cipro, Croazia, Paesi Bassi e Tunisia) designati dalla presidente dell’Assemblea generale, poi ridotti a due (con la conferma del rappresentante del Cile e la nomina del rappresentante del Liechtenstein). La formula transitoria prevederebbe l’aumento per ora dei soli seggi non permanenti, aumento legato peraltro a un meccanismo automatico di revisione anche del numero dei membri permanenti da realizzarsi tra 10-15 anni. Peraltro, tra gli stessi ‘facilitatori’ non vi è stato accordo né sul numero e sulla ripartizione geografica dei nuovi seggi non permanenti, né sulla loro durata: vengono prospettate infatti ipotesi che vanno da seggi per l’intero periodo transitorio (un camuffamento, in pratica, dei seggi permanenti), a seggi rieleggibili biennali (come gli attuali), oppure di durata intermedia.
Per la vexata quaestio della riforma del Consiglio di sicurezza nuovi scenari non si possono pertanto escludere. Ma, dati il rilievo e la complessità della posta in gioco, qualsiasi pronostico sulle loro reali possibilità di successo appare futile e azzardato.
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Scopi e fisionomia dell’ONU
Unica espressione di cooperazione istituzionalizzata tra Stati per il perseguimento di fini generali con una dimensione praticamente universale, l’ONU esprime un complesso di regole e organi posto in essere dagli Stati membri allo scopo di affrontare i problemi cruciali della comunità internazionale. I fini principali dell’organizzazione sono: mantenere la pace e la sicurezza internazionale; sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni basate sul rispetto dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli; promuovere la cooperazione internazionale in materia economica, sociale e culturale, nonché il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’attività svolta dai suoi organi è rilevante sia ai fini della politica internazionale sia per il diritto internazionale, poiché spesso si concretizza nella produzione di norme che dispongono diritti e obblighi per gli Stati membri, e di norme di diritto internazionale generale, valide per tutti gli Stati (a prescindere dalla loro partecipazione all’ONU). Il complesso di organi che costituiscono le Nazioni Unite forma un ente unitario, dotato di personalità distinta da quella degli Stati membri, cosa che emerge, per es., nella stipulazione di accordi di sede con uno Stato, o di collegamento e cooperazione con altre organizzazioni, o nell’esercizio di diritti in materia di immunità e privilegi dei funzionari internazionali. L’ONU non si pone come un ente sovranazionale né gli Stati si trovano in un rapporto di subordinazione, poiché l’indipendenza e il rispetto dell’eguale sovranità di tutti i membri sono i presupposti fondanti che hanno dato vita alle Nazioni Unite. L’organizzazione comprende cinque organi principali: Assemblea generale, Consiglio di sicurezza, Segretariato, Consiglio economico e sociale, Corte internazionale di giustizia. Fino al 2005 un sesto organo era costituito dal Consiglio di amministrazione fiduciaria.
L’Assemblea generale
Dell’Assemblea generale fanno parte tutti gli Stati membri (192), ognuno dei quali dispone di un pari diritto di voto. Si riunisce in sessione ordinaria una volta all’anno, con possibili sessioni straordinarie convocate su richiesta del Consiglio di sicurezza o della maggioranza dei membri. Ha una vastissima competenza, potendo discutere qualsiasi questione che rientri nei fini dell’organizzazione, ma il suo potere, fatte salve rare eccezioni in cui diventa vincolante, si riduce per lo più all’adozione di ‘raccomandazioni’ (atti non vincolanti rivolti agli Stati membri, al Consiglio di sicurezza o agli altri organi). L’Assemblea generale fa raccomandazioni sia su aspetti generali della pace e della sicurezza internazionale, quali il disarmo o la disciplina degli armamenti, sia su situazioni specifiche in cui la pace o la sicurezza sono in pericolo; si occupa inoltre di problemi economici, sociali, umanitari e sanitari. Le raccomandazioni vengono adottate a maggioranza qualificata dei 2/3 dei paesi membri per le questioni di maggiore importanza (mantenimento della pace e della sicurezza internazionale), semplice per le altre questioni. Può anche accadere che le decisioni vengano semplicemente prese per consensus, a seguito di dichiarazione non contestata del presidente dell’Assemblea. L’Assemblea generale ha poteri giuridicamente più incisivi per quanto concerne la vita interna dell’organizzazione (per es. appartenenza all’ONU, scelta dei membri elettivi del Consiglio di sicurezza, approvazione dei bilanci, contributi dovuti dai singoli Stati). Tra gli organi sussidiari che l’Assemblea generale ha istituito nel tempo figurano l’UNCTAD (United Nations Conference on Trade And Development), l’UNDP (United Nations Development Programme), l’UNICEF (United Nations Children’s Fund), l’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) e l’ILC (International Law Commission).
Il Consiglio di sicurezza
È costituito da 15 membri, di cui cinque (Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti: sostanzialmente i vincitori della Seconda guerra mondiale) siedono a titolo permanente e gli altri 10 sono eletti per un biennio dall’Assemblea. Ogni Stato ha diritto a un voto e le decisioni sono prese con la maggioranza di 9 voti su 15, purché non vi sia il voto contrario di uno dei 5 membri permanenti, che godendo del diritto di veto (esercitato dal 1945 per ben 279 volte) possono annullare qualsiasi decisione. Il Consiglio si occupa di questioni che attengono al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ed è l’organo di maggiore importanza sia per le rilevanti questioni che affronta sia perché è l’unico ad avere poteri decisionali vincolanti per tutti i paesi membri. Può disporre indagini per determinare se una situazione o una controversia tra Stati possa mettere in pericolo la pace o la sicurezza internazionale e, nel caso di effettiva minaccia o violazione delle medesime, fa raccomandazioni (non vincolanti) agli Stati, ma può anche decidere misure, come per es. l’embargo o l’interruzione delle vie e dei mezzi di comunicazione, che tutti gli Stati membri sono obbligati ad adottare. Se ciò non bastasse, il Consiglio potrebbe teoricamente intraprendere, con forze armate sotto la sua direzione, tutte le azioni militari necessarie, cosa che per molteplici ragioni, anche di mancanza di un’organizzazione adeguata, non si è mai verificata. È invece capitato nel 1950 con la guerra di Corea, e poi nel 1991 con l’invasione del Kuwait, che il Consiglio abbia autorizzato Stati membri o coalizioni di Stati a ricorrere a misure armate per ristabilire la pace o la sicurezza internazionale.
Segretariato
Consiste di un segretario generale e degli uffici relativi. Il segretario è nominato dall’Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza, di solito con mandato quinquennale rinnovabile. La carica è ricoperta a titolo individuale e non in rappresentanza di uno Stato membro. Il segretario è il più alto funzionario amministrativo dell’ONU e ha un importante ruolo politico: partecipa alle riunioni di tutti gli organi delle Nazioni Unite, può richiamare l’attenzione del Consiglio di sicurezza su qualsiasi questione che minacci la pace o la sicurezza internazionale, presenta all’Assemblea generale un rapporto annuale sul lavoro svolto dall’organizzazione, esplica le funzioni che gli siano affidate dagli altri organi, negozia e, cosa di fondamentale importanza, conclude gli accordi con gli Stati nei cui territori debbano operare forze di pace ONU e con quelli che contribuiscono a formarle, e prende le decisioni per il concreto impiego delle forze medesime.
Il Consiglio economico e sociale
È composto da 54 stati membri, eletti per tre anni dall’Assemblea generale. Realizza e promuove la cooperazione tra gli Stati in campo economico, sociale, umanitario e culturale, nonché il coordinamento tra l’ONU e gli istituti specializzati dell’organizzazione, senza poteri vincolanti nei confronti degli Stati membri e sotto le direttive e il controllo dell’Assemblea generale.
La Corte internazionale di giustizia
Non è propriamente un organo ONU, nel senso che la sua esistenza e le sue funzioni non hanno il loro fondamento nel sistema di organi e procedure che costituisce le Nazioni Unite. A differenza degli altri organi, che risiedono a New York, ha sede all’Aia dove è succeduta alla Corte permanente di giustizia internazionale. È un tribunale internazionale di natura arbitrale, competente a risolvere le controversie che gli vengono sottoposte in virtù di un accordo fra le parti. È composta da 15 giudici eletti a maggioranza assoluta dei membri del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale con la funzione di dirimere controversie fra Stati e con funzione consultiva, essendo chiamata a dare pareri su qualsiasi questione giuridica all’Assemblea generale o al Consiglio di sicurezza, nonché ad altri organi su autorizzazione dell’Assemblea.
Il Consiglio di amministrazione fiduciaria
Aveva la funzione di controllare l’amministrazione di determinati territori, già sottoposti a un regime di tipo coloniale da parte dello Stato al quale erano affidati. Composto da un numero di membri variabile, agiva sotto l’autorità dell’Assemblea generale. Esaurito il ruolo, la formale chiusura del Consiglio è stata concordata nel vertice tenutosi a New York dal 14 al 16 settembre 2005.
Gli istituti specializzati
Sono organizzazioni internazionali a sé, sorte da trattati distinti dalla Carta delle Nazioni Unite, che costituiscono una rete di agenzie specializzate nei vari settori dello sviluppo economico, sociale e sanitario dei paesi e forniscono assistenza e consulenza agli Stati che ne fanno richiesta. Pur avendo ciascuno proprie caratteristiche, tali istituti presentano una relativa uniformità strutturale che replica sostanzialmente quella delle Nazioni Unite, con un’Assemblea generale, un Consiglio esecutivo, un Segretariato. Essi emanano o predispongono atti di tipo normativo o svolgono attività operative nel campo dell’assistenza e degli aiuti internazionali. I principali sono: FAO (Food and Agriculture Organization); IBRD (International Bank for Reconstruction and Development, comunemente detta World Bank); ICAO (International Civil Aviation Organization); ILO (International Labour Organization); IMF (International Monetary Fund); UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization); WHO (World Health Organization).
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Cenni di storia
La nascita dell’ONU
L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) nacque a San Francisco il 26 giugno 1945 dopo un percorso complesso, passato attraverso alcune tappe fondamentali. La prima era stata la Dichiarazione delle Nazioni Unite, sottoscritta il 1° gennaio 1942 a Washington da 26 Stati. La Seconda guerra mondiale era nel pieno del suo svolgimento e i paesi che sottoscrissero quella Dichiarazione si impegnarono, con essa, a partecipare al conflitto in corso contro le nazioni dell’Asse e a non concludere separatamente nessuna pace o armistizio con i nemici comuni. Fu subito chiaro che Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna intendevano andare oltre questo obiettivo immediato e infatti, nei due anni successivi, spinsero il loro sforzo diplomatico verso una prospettiva più ambiziosa: la costituzione di un’organizzazione internazionale per il mantenimento della pace, fondata sul principio della sovrana uguaglianza degli Stati membri. Momenti salienti del processo furono le conferenze di Mosca (19-30 ottobre 1943), di Dumbarton Oaks (21 agosto-7 ottobre 1944) e infine di Yalta (4-11 febbraio 1945), dove fu elaborata la Carta delle Nazioni Unite, che sarebbe poi diventata lo statuto dell’organizzazione e dove si stabilirono data e luogo in cui sarebbe stata convocata la Conferenza delle Nazioni Unite. L’ONU si ricollegava a idee e istituzioni che avevano già trovato attuazione 27 anni prima. I suoi caratteri, infatti, erano in parte gli stessi sui quali si era fondata la Società delle Nazioni, l’organizzazione internazionale istituita dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale con lo scopo di mantenere la pace e sviluppare la cooperazione internazionale in campo economico e sociale. L’idea si era affermata grazie soprattutto al presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson che, con il paese ormai in guerra contro la Germania (1917), vagheggiò la possibilità di assicurare al mondo una pace perpetua. Wilson raccolse le sue idee nei cosiddetti ‘quattordici punti’, l’ultimo dei quali esprimeva l’esigenza di costituire una «Società generale delle nazioni … in forza di trattati internazionali allo scopo di fornire garanzie reciproche d’indipendenza politica e territoriale ai piccoli come ai grandi Stati», idea che avrebbe dato vita all’atto istitutivo (Covenant, 1919) della Società delle Nazioni. Come stabilito a Yalta, dunque, i rappresentanti di 50 nazioni si riunirono a San Francisco, tra il 25 aprile e il 26 giugno 1945, e sottoscrissero la Carta delle Nazioni Unite che entrò in vigore il 24 ottobre dello stesso anno. In essa si sottolineava tra l’altro la necessità di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra, mantenere la pace e la sicurezza internazionale, comporre tutte le controversie che si fossero costituite nel futuro fra i diversi paesi del mondo». I principi cui si ispirava lo statuto delle Nazioni Unite erano quelli della Carta Atlantica, che era stata concordata il 14 agosto 1941 tra il presidente degli USA Franklin Delano Roosevelt e il primo ministro britannico Winston Churchill. Nelle sue linee essenziali la Carta Atlantica prevedeva già il diritto di autodeterminazione dei popoli rispetto alla forma di governo sotto la quale essi avessero voluto vivere, il diritto di accesso in condizioni di parità al commercio e alle materie prime del mondo, la libertà dei mari e la rinuncia, una volta distrutta la tirannia nazista, all’impiego della forza per la risoluzione delle controversie internazionali. Il documento, che nel 1941 aveva costituito il presupposto dell’alleanza militare tra Stati Uniti e Gran Bretagna al fine del coinvolgimento americano nel conflitto contro la Germania, divenne così, a San Francisco, il modello cui si richiamarono tutti i sottoscrittori della Carta dell’ONU. La prima Assemblea generale ebbe luogo il 10 gennaio 1946 a Londra. Nel gennaio 1951 fu inaugurato il Palazzo di Vetro, la sede di New York, realizzata sulla riva dell’East River, su un terreno donato da John David Rockefeller.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1989
Nel dopoguerra, il sistema di sicurezza delle Nazioni Unite si trovò a essere basato sul difficile equilibrio delle relazioni tra le maggiori potenze internazionali. Qualunque focolaio di conflitto tra i paesi membri dava luogo a un immediato intervento del Consiglio di sicurezza, nel quale sedevano le maggiori potenze internazionali, ma la netta divisione della comunità internazionale in due blocchi contrapposti – da una parte gli USA con la corona dei paesi a economia di mercato e dall’altra l’Unione Sovietica con i satelliti del blocco comunista – ostacolava costantemente la formazione, all’interno del Consiglio di sicurezza, di una comune volontà dei paesi membri permanenti, in occasione di crisi o conflitti. Nel 1950, a seguito dell’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, l’ONU fece quello che può considerarsi il suo unico intervento incisivo nell’epoca della guerra fredda: l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza all’uso della forza armata da parte degli Stati membri per reagire nei confronti dell’attacco nordcoreano. La guerra durò fino al 1953 e la Corea del Sud con l’aiuto massiccio di truppe statunitensi riguadagnò la propria sovranità. Successivamente, e per diversi decenni, le Nazioni Unite furono sostanzialmente paralizzate dai veti incrociati dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza ogniqualvolta si verificava una crisi.
Tuttavia, anche nel lungo periodo precedente il crollo del blocco comunista, l’ONU ha potuto svolgere un’azione fondamentale nella tutela della pace e della sicurezza internazionale. Numerose sono state le iniziative di peace-keeping, con l’invio di forze di pace per assicurare il rispetto degli accordi di cessate il fuoco o il mantenimento di ‘zone di interposizione’ tra paesi e parti belligeranti. Ciò si è verificato, per es., con l’azione dell’ONUC per la crisi interna del Congo nel 1960, dell’UNFICYP per il conflitto a Cipro tra la comunità greca e quella di origine turca nel 1964, dell’UNEF nel 1973, dell’UNDOF nel 1974 e dell’UNIFIL nel 1978 per il conflitto arabo-israeliano, e poi ancora negli anni 1992 e seguenti in Cambogia (APRONUC), in Bosnia e Croazia (UNPROFOR) e in Somalia (UNOSOM).
Per quanto riguarda l’aspetto preventivo dei conflitti internazionali, le Nazioni Unite e le loro sedi hanno rappresentato il principale ‘foro’ internazionale in cui si è combattuta la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica ed è stato sicuramente anche merito dell’ONU se questa guerra si è mantenuta costantemente su un piano politico diplomatico senza sfociare in scontro armato. La Commissione per il disarmo a carattere permanente, istituita nel 1952, ha dato un validissimo contributo nella direzione di una rinuncia bilaterale agli armamenti e non si contano le risoluzioni adottate dall’Assemblea generale contro l’uso di armi di distruzione di massa e della proliferazione di ordigni nucleari e termonucleari.
Gli anni Novanta
Dopo il crollo dei regimi comunisti nell’Est europeo, tra il 1989 e il 1991, ben 17 Stati si sono aggiunti quali nuovi membri delle Nazioni Unite, ma soprattutto la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha mutato gli equilibri mondiali. Il ruolo dell’ONU è cresciuto nel senso di una sua maggiore presenza nei diversi scenari di conflitto, ma si sono al tempo stesso rivelate la sua debolezza e la scarsa incisività del suo sistema. Nel 1991, dopo l’invasione e l’annessione forzata del Kuwait da parte dell’Iraq dell’agosto 1990, l’ONU affidò a una coalizione di forze composte dai maggiori e dai minori paesi membri delle Nazioni Unite il compito di respingere fuori dal Kuwait gli iracheni, attraverso un intervento militare guidato dagli Stati Uniti. Inutili erano stati i tentativi del Consiglio di sicurezza, che aveva varato (6 agosto) dure sanzioni economiche contro l’Iraq, richiedendone poi (25 agosto) il blocco navale da parte degli Stati intervenuti nel Golfo e autorizzando questi ultimi (29 novembre) a usare «tutti i mezzi necessari» contro Baghdad se le truppe irachene non avessero lasciato il Kuwait entro il 16 gennaio 1991. Scaduto l’ultimatum, scoppiò la guerra e, dopo poche settimane, le truppe della coalizione neutralizzarono l’esercito iracheno senza tuttavia esautorare il dittatore Saddam Hussein che, nonostante la sconfitta subita, rimase saldamente al governo di Baghdad. Diverso e sicuramente meno incisivo fu il ruolo dell’ONU in Ruanda, quando il conflitto tra hutu e tutsi esplose violentemente nel 1994. Nessun intervento di interposizione tra le parti sembrò praticabile da parte dell’ONU, che promosse comunque aiuti umanitari per attenuare, quantomeno, la portata del disastro. Nel 1993 il governo ruandese era stato costretto a sottoscrivere ad Arusha, in Tanzania, un accordo di pace che prevedeva la formazione di un governo di unità nazionale e lo svolgimento di elezioni generali dopo un periodo transitorio; tale accordo e l’arrivo in Ruanda di una missione di assistenza ONU non posero però termine a violenze e scontri, che si risolsero in un genocidio senza precedenti nel continente africano. Le milizie hutu decimarono i tutsi (circa 500.000 vittime) e poi, temendo rappresaglie e vendette del FPR (Front Patriotique Rwandais) fuggirono verso lo Zaire e la Tanzania, presto falcidiati dalla fame e dalle epidemie nei campi profughi o vittime successivamente di una sorta di ‘controgenocidio’ da parte dell’Alliance des forces démocratiques pour la liberation du Congo-Zaire (appoggiata in quegli anni dal Ruanda), capeggiata da L.-D. Kabila. Il Consiglio di sicurezza istituì, nel novembre del 1994 ad Arusha, il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per i crimini del Ruanda, con il compito di processare le persone sospettate di genocidio o di altri crimini contro l’umanità commessi in territorio ruandese tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994. Nel settembre del 1998 il Tribunale comminò la prima condanna per genocidio mai pronunciata da parte di una Corte internazionale di giustizia: l’ex sindaco di Taba, J.-P. Akayesu, venne condannato all’ergastolo. Di lì a pochissimi giorni anche l’ex primo ministro ruandese, J. Kambanda, che si era dichiarato colpevole, fu condannato all’ergastolo per genocidio e crimini contro l’umanità. La crisi scoppiata nella Iugoslavia nel 1992, con la dissoluzione della Repubblica popolare federale che si era costituita nel 1943 e il conseguente scontro sanguinoso tra le diverse nazionalità balcaniche, espose le Nazioni Unite a difficili e inconcludenti iniziative. Dal giugno 1992 forze di interposizione ONU vennero dispiegate a Sarajevo e in altre zone del paese, e nel settembre una risoluzione del Consiglio di sicurezza bandì i voli militari nello spazio aereo della Bosnia ed Erzegovina. Nel 1993, sei città musulmane (Sarajevo, Bihac, Gorazde, Srebrenica, Tuzla, Zepa), assediate dai serbo-bosniaci, furono poste sotto la protezione dell’ONU (con la missione UNPROFOR), ma nel complesso l’azione si rivelò fortemente inadeguata rispetto alla violenza del conflitto (massacri, stupri di massa ai danni delle donne musulmane, campi di concentramento per i civili), che nel febbraio indusse l’ONU a istituire un Tribunale sui crimini di guerra nella ex Iugoslavia. Nel luglio 1995 i combattimenti si intensificarono su tutto il territorio bosniaco; i serbo-bosniaci, comandati da R. Mladic, assalirono le ‘zone protette’ dall’ONU, sferrando l’attacco più tragico a Srebrenica, l’enclave musulmana dove dal 1993 si erano concentrati numerosi profughi da altre città e paesi della regione. Il contingente olandese rimase inerte, testimone passivo dell’eccidio di 8000 musulmani. Il Tribunale penale internazionale dell’Aia ha riconosciuto la strage di Srebrenica come un vero e proprio genocidio e ha incriminato come principali responsabili il presidente della Repubblica serbo-bosniaca R. Karadzic e il generale Mladic, tuttora latitanti. Altri episodi di pulizia etnica in varie città e le ripetute stragi nella piazza del mercato di Sarajevo sancirono definitivamente il fallimento delle operazioni ONU in questo frangente. Furono gli Stati Uniti ad avere un ruolo decisivo nel conflitto, ospitando a Dayton (21 novembre 1995) la conferenza che portò a un accordo tra la Serbia, la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. Gli accordi di Dayton, nonostante i conflitti che seguitarono ancora sul territorio, fermarono la guerra e divisero la Bosnia-Erzegovina in due entità confederate, una Repubblica serbo-bosniaca e una Federazione croato-musulmana, con una forza di interposizione multinazionale NATO e l’autorità dell’ONU a garanzia dell’applicazione dell’accordo.
Dopo l’11 settembre
Le attività degli anni Novanta, con il crescente impegno nelle operazioni di peace-keeping e gli interventi a favore della transizione alla democrazia in numerosi paesi, confermarono globalmente la funzione centrale dell’ONU nella salvaguardia degli equilibri mondiali. Misero anche in luce tuttavia i limiti e le contraddizioni di un’organizzazione che, nata per evitare la guerra, per ripristinare l’ordine o promuovere il rispetto dei diritti umani, si è trovata a legittimare la guerra, sia pure umanitaria. Inoltre i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione riflettevano una realtà superata e ne limitavano l’efficacia operativa. Sotto la guida del segretario generale K. Annan (1997-2006), l’ONU ha cominciato a ridefinire il suo ruolo, ma le sue ambivalenze e contraddizioni non si sono ancora sanate.
Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York e al Pentagono, preoccupazione primaria dell’ONU è divenuto l’impegno a difendere la comunità internazionale dalla sfida del terrorismo di Al Qaida. Nell’ottobre dello stesso anno fu promosso un intervento militare multilaterale in Afghanistan finalizzato all’abbattimento del regime teocratico dei talebani. Nel dicembre il Consiglio di sicurezza votò la risoluzione 1386 che istituiva una forza internazionale con il compito di assistere il governo afghano nel mantenimento della sicurezza nel paese. Ma nelle settimane successive il multilateralismo della politica estera americana si affievolì a causa delle mutate valutazioni strategiche degli Stati Uniti che escludevano la possibilità di perseguire la lotta contro il terrorismo attraverso il costante accordo con i membri delle Nazioni Unite e mediante le risoluzioni del Consiglio di sicurezza votate all’unanimità. Nel settembre 2002 l’Amministrazione americana rese pubblico un documento sulla sicurezza nazionale, che promuoveva una politica di esportazione delle istituzioni democratiche nei paesi del Medio Oriente, come unico mezzo per contrastare radicalmente il terrorismo di Al Qaida e delle organizzazioni fiancheggiatrici. Il documento evidenziava le debolezze del multilateralismo istituzionale delle Nazioni Unite che, a causa delle lentezze decisionali del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea, impedivano risposte rapide e adeguate alle crisi generate dal terrorismo. La decisione degli USA di promuovere una coalizione per abbattere il regime iracheno di Saddam Hussein fu presa dunque in contrasto con l’ONU, anche se gli americani sottoposero l’iniziativa della guerra al Consiglio di sicurezza. Nel novembre 2002 fu approvata all’unanimità la risoluzione 1441 che imponeva all’Iraq di accettare ispezioni allo scopo di individuare laboratori segreti nei quali, secondo l’intelligence americana, scienziati e tecnici iracheni stavano apprestando armi chimiche di distruzione di massa. Un team di ispettori ONU, pur non ricevendo un’adeguata collaborazione da parte del governo iracheno, si recò a Baghdad ripetutamente, ma non riuscì a identificare i siti in cui erano depositati questi ordigni. Tra gennaio e febbraio 2003, tuttavia, il Consiglio di sicurezza continuò a discutere ed elaborare i risultati delle ispezioni. Gli USA, la Gran Bretagna e la Spagna presentarono una nuova proposta con la quale si chiedeva l’autorizzazione all’intervento militare. Votata solo da 9 paesi su 15, fu ritirata. Il 20 marzo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, senza il consenso dell’ONU, iniziarono le operazioni militari in Iraq e nel giro di poche settimane neutralizzarono il regime di Saddam. La fine del conflitto non ha riportato la pace in Iraq, che anzi è precipitato nel caos, ma l’ONU ha recuperato un ruolo centrale nella transizione dal regime di Saddam Hussein alla formazione di un nuovo governo. Nell’agosto del 2003 gli uffici delle Nazioni Unite a Baghdad furono bersaglio di un grave attentato che uccise 23 persone tra cui Sergio Vieira de Mello, rappresentante dell’ONU nel paese. Fu quindi approvata dal Consiglio la risoluzione 1500 con cui si prevedeva una nuova missione USA in Iraq. Nel giugno del 2004 con la risoluzione 1546 si decise di appoggiare il governo ad interim che si era formato in Iraq e si conferì all’ONU il compito di guidare il processo di transizione verso la democrazia con il sostegno della comunità internazionale. Tra il 2005 e il 2006 altre decisioni di rilievo hanno dato impulso al processo di rinnovamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, già in atto da alcuni anni all’interno del suo sistema. La Commissione per i diritti umani, più volte oggetto di critiche e discussioni, perché includeva rappresentanti di regimi denunciati per la costante violazione dei diritti medesimi, è stata sostituita da un più snello Consiglio, che si vuole più incisivo nella valutazione del rispetto degli obblighi in materia di diritti umani di tutti gli Stati. All’esigenza di stabilire prassi di assoluta trasparenza sono legate alcune inchieste promosse all’interno dell’organizzazione, soprattutto quella in merito a casi di corruzione nello svolgimento del programma Oil for food con cui si permetteva all’Iraq, paese sottoposto a embargo, di esportare petrolio per l’acquisto di generi di primaria necessità e assistenza sanitaria. Sul fronte politico i maggiori impegni attuali dell’ONU riguardano l’attività di monitoraggio del programma nucleare iraniano, per fermare il quale è stato varato un severo regime di restrizioni economiche e commerciali, e l’impegno per la pace in Medio Oriente. La risoluzione 1701, votata l’11 agosto 2006 dal Consiglio di sicurezza per richiedere la cessazione delle ostilità in Libano fra Hezbollah e lo Stato di Israele e sollecitare l’intervento dei paesi membri per assumere una vasta gamma di responsabilità di carattere politico, umanitario e militare, ha previsto il potenziamento del contingente militare di UNIFIL.