Abstract
Viene descritto l’apparato strutturale della Pubblica Amministrazione in Italia, che si presenta come un quadro molto complesso: declinata al singolare l’espressione “P.A.” rivela una valenza semplificatoria, perché riassume una realtà assai variegata. Ci si sofferma, dapprima, sugli enti pubblici e sulla loro articolazione in organi ed uffici, e, poi, sulle relazioni tra la P.A. e le persone fisiche che operano per essa.
Alla locuzione “organizzazione amministrativa” possono darsi diversi significati. Per delimitare i confini della presente trattazione, pertanto, occorre chiarire, anzitutto, che ci si occuperà di come è “organizzata”, non la funzione (per la quale si v. Attività amministrativa), ma la struttura della pubblica amministrazione (d’ora in poi P.A., volutamente con le lettere maiuscole), assumendosi perciò la locuzione in parola quale sinonimo di “apparato strutturale della P.A.”. In secondo luogo, va precisato che il tema verrà trattato, non sul piano della teoria generale della scienza dell’organizzazione, bensì con riferimento all’ordinamento positivo italiano, guardando cioè a come effettivamente si presenta l’apparato strutturale della P.A. in Italia, secondo le linee essenziali tracciate dalla disciplina normativa vigente. Linee essenziali che non sembrano essere assai significativamente alterate dal nuovo corso inaugurato di recente dal Legislatore, sebbene esso si connoti per l’intenso (e forse talora addirittura frenetico) lavorio di modernizzazione del sistema, l’ultima manifestazione del quale è senz’altro la l. 11.8.2014, n. 114 (di conversione del d.l. 24.6.2014, n. 90), che detta, fra l’altro, misure di semplificazione della organizzazione amministrativa.
Per illustrare come si configura in Italia il versante strutturale della P.A., bisogna prima convenire su cosa si intenda per P.A.: adoperate al singolare, infatti, le due parole rappresentano una semplificazione lessicale, giacché in effetti esistono (non una sola, ma) tante e diverse figure strutturali, le quali possono dirsi in ogni caso riconducibili ad un unico universo, quello della P.A., appunto.
Si distinguono almeno tre grandi “tipologie”, per così dire, organizzatorie: quella stricto sensu statale; quella delle strutture “parallele” allo Stato, ma comunque ad esso facenti capo; e quella delle strutture facenti capo ai soggetti istituzionali esponenziali delle comunità territoriali infranazionali. Tali tipologie sono state spiegate in modo efficace adoperando tre diverse espressioni, derivanti dalla osservazione della fenomenologia dell’organizzazione per come questa si era in via progressiva determinata nella esperienza dello Stato unitario pre–repubblicano: esse sono, rispettivamente, il decentramento organico (o burocratico), per le strutture stricto sensu statali; il decentramento ed il policentrismo autarchici, per la parte, almeno storicamente, più consistente delle strutture “parallele” allo Stato; il pluralismo istituzionale e autonomistico (la locuzione segnalando, per un verso, la sua diversità dal “pluralismo sociale”, e, per un altro, l’autonomia di indirizzo politico–amministrativo riconosciuta agli enti che ne sono espressione), per le strutture facenti capo ai soggetti istituzionali esponenziali delle comunità territoriali infranazionali, i quali – come è noto – si affrancarono definitivamente dalla dipendenza statale soltanto con l’avvento della Costituzione del 1948.
Può ben dirsi che, in seguito, con la piena maturazione della cultura dello Stato repubblicano, le prime due tipologie e le relative denominazioni abbiano acquisito dignità di categorie teoriche generali, sì da considerarsi applicabili anche oltre la dimensione statale, di tal che sia il fenomeno del decentramento organico, sia quello del decentramento e del policentrismo autarchici, sono oggi riferibili pure agli enti territoriali infranazionali.
Quando si parla di “pubblica amministrazione” si suole indicare tanto il soggetto P.A. quanto l’attività amministrativa. Struttura e funzione sono le due facce di una stessa medaglia: una struttura esiste perché deve svolgere una funzione; una funzione postula l’esistenza di una struttura che la svolga; e l’una e l’altra si influenzano reciprocamente. Questo preliminare richiamo si rivela necessario per capire come storicamente si sia realizzata la crescita graduale della “soggettività” pubblica, dapprima stricto sensu statale e poi pubblica a prescindere dallo Stato.
Quando, per la estensione via via più ampia del diritto di voto (fino al suffragio universale), lo Stato di diritto, diventando compiutamente democratico, ha abbandonato la sua versione ‘liberale’ per abbracciare quella “sociale”, e dunque ha assunto una gamma sempre più vasta di compiti, si è reso indispensabile adeguarne conseguentemente l’apparato. In altre parole, la struttura statale ottocentesca, funzionale a rispondere ai compiti essenziali dello Stato propri della sua versione minimale (quella liberale) – secondo una risalente metafora: bandiera (la difesa), spada (l’ordine pubblico), toga (la giustizia) e moneta (il batter moneta, appunto) –, una volta assunti dallo Stato i compiti ccdd. di welfare, ha dovuto gioco –forza conformarsi nel suo impianto alle corrispondenti nuove esigenze. Ciò ha comportato, anzitutto, la proliferazione degli uffici, e poi, coerentemente, la scomposizione di ciascuna attribuzione in diverse competenze. Siffatto processo ha generato, dapprima, un mero decongestionamento degli uffici centrali, senza alterazione delle competenze (intese in senso tecnico-giuridico), che restavano comunque in capo agli organi centrali; e, in un secondo momento, il fenomeno che va sotto il nome di decentramento organico o burocratico, implicante lo spostamento di competenze in capo ad organi periferici (generalmente, ma non necessariamente, creati ad hoc).
Parallelamente, a cavallo tra Ottocento e Novecento, ed in maniera più evidente a far data dagli inizi del secolo scorso, nel mentre si assiste ad esperienze di pubblicizzazione di persone giuridiche private (si pensi alla trasformazione delle “Opere Pie” in Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, IPAB, ad opera della l. 17.7.1890, n. 6972, cd. “legge Crispi”), così configurandosi le prime forme di policentrismo autarchico, i Comuni si danno progressivamente un ruolo significativo nella cura dei bisogni della società, in questo anticipando lo Stato, che solo in seguito perverrà alla scelta di assumere i compiti di welfare.
Come è noto, agli inizi del Novecento, lo Stato – improntato com’era alla filosofia liberale del laissez faire – di regola non si interessava di tutta una serie di attività (costruire case popolari, provvedere alle connesse indispensabili infrastrutture quali l’illuminazione, i trasporti, ecc.), considerando anzi addirittura “obbrobrioso” un intervento pubblico in tali campi. L’emersione di un interesse sociale ritenuto rilevante dalla comunità locale, però, finì inevitabilmente per determinare la necessità di un intervento pubblico: essendo lo Stato assente in ragione dell’imperante ideologia liberale, furono i Comuni, e cioè i soggetti pubblici più vicini alla comunità, ad “intercettare” i bisogni che questa manifestava e a soddisfarli. Nel corso del “deprecato ventennio”, inoltre, in piena coerenza con quanto accade nella gran parte del mondo occidentale in ragione della crisi economica internazionale (dal New Deal roosveltiano alla Germania nazista), anche in Italia si assiste alla moltiplicazione di enti pubblici istituzionali, strumentali allo svolgimento di compiti dello Stato (si pensi alla nascita dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, IRI, con il d.l. 23.1.1933, n. 5, prima, e il d.l. 24.6.1937, n. 905, poi): per mano del regime fascista, dunque, prende corpo il fenomeno del decentramento autarchico.
La Costituzione del 1948 registra l’evoluzione di cui si è in breve riferito, e all’art. 5, nel dare per presupposte la unità e la indivisibilità della Repubblica, afferma che questa, per un verso, «riconosce e promuove le autonomie locali»; per un altro, «attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo»; per un altro ancora, infine, «adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» (si v. Decentramento amministrativo). La disposizione va attentamente meditata. In primo luogo, il suo dettato sancisce, in maniera inequivocabile, la non coincidenza fra Repubblica e Stato: è la prima che è chiamata ad attuare «il più ampio decentramento amministrativo» nei servizi che dipendono dal secondo, ciò che, evidentemente, esclude ogni eventuale confusione tra i due soggetti. Oggi, del resto, dopo la l. cost. 18.10.2001, n. 3, che ha riscritto il Titolo V della Parte Seconda della Carta (provvedendo ad aggiornare l’impianto strutturale dei pubblici poteri, al fine di renderlo coerente con le profonde trasformazioni socio-economiche della realtà contemporanea), l’art. 114, co. 1, Cost. recita: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato», così segnandosi il definitivo superamento dell’equivoco reso possibile dal tenore letterale del testo originario («La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni»), equivoco che, peraltro, la più autorevole dottrina aveva ritenuto doversi escludere, anche allora, sulla base di una convincente lettura sistematica della Costituzione. In secondo luogo, ad un’attenta osservazione la disposizione contiene tre norme. Nella prima viene consacrato un vero e proprio valore centrale dell’ordinamento costituzionale: il riconoscimento delle autonomie locali, entità che, perciò, il Costituente assume come preesistenti alla Repubblica, quali elemento caratterizzante la sua impalcatura istituzionale. Detto valore esprime, altresì, una formula organizzatoria, parallela ed in qualche modo integrativa di quella del decentramento amministrativo, sancita dalla seconda norma. La terza norma, infine, stabilisce un vincolo per il Legislatore, il quale dovrà operare, non solo nel rispetto del valore “autonomia”, bensì anche in funzione della implementazione di entrambe le formule organizzatorie, l’autonomia e il decentramento.
Prima di illustrare, ancorché in estrema sintesi, l’attuale impianto organizzatorio della P.A. italiana per come si è determinato a seguito del processo storico appena richiamato, è bene soffermarsi su alcune nozioni fondamentali, comuni ad ogni specie di P.A.: le nozioni di ente pubblico, di organo e di ufficio, le figure soggettive che esprimono la consistenza della P.A. in genere, delle quali è necessario trattare sebbene operando di volta in volta gli opportuni rinvii alle voci corrispondenti.
Per ente pubblico si intende una persona giuridica (un soggetto, cioè, dotato di personalità giuridica) di diritto pubblico. L’ordinamento (in particolar modo la legge) assegna ad ogni ente pubblico una “quota” di potere giuridico, denominata “attribuzione”: in tal senso l’ente pubblico, titolare di attribuzione, può essere definito “centro di potere” giuridico: l’atto (si v. Atto amministrativo) che un organo dell’ente assume al di fuori della attribuzione di quest’ultimo è inesistente o nullo (si v. Nullità) (e, dunque, affetto da “incompetenza assoluta” o, appunto, “difetto di attribuzione”), con la conseguenza che chi, per causa di esso, abbia subìto un danno non dovrà rivolgersi al giudice amministrativo per ottenerne l’annullamento (si v. Annullabilità e annullamento), perché quod nullum est nullum producit effectum. L’ente pubblico è caratterizzato da un peculiare regime giuridico, che consiste, in buona sostanza, nella autarchia, la quale – diversamente da come è intesa nel lessico comune – in gergo giuridico non significa autosufficienza, bensì capacità riconosciuta agli enti pubblici diversi dallo Stato di disporre di potestà pubbliche e, dunque, essenzialmente, di esprimersi mediante provvedimenti amministrativi nel regime giuridico equiparati a quelli dello Stato. L’attribuzione di cui l’ente è dotato si scompone in “competenze”, che quindi possono correttamente qualificarsi come “sfere”, o parti, della attribuzione.
La legge assegna una o più competenze agli organi dell’ente. L’organo, pertanto, viene definito come “centro di competenze”. Salvo eccezioni, gli organi non sono dotati di personalità giuridica, in ciò consistendo il principale elemento di discrimine dall’ente. Essi, perciò, si qualificano come strutture organizzatorie dell’ente, alle quali, peraltro, comunque si riconosce una certa soggettività giuridica interna alla organizzazione di questo. Gli atti che un organo assume al di fuori della sua competenza si dicono invalidi o illegittimi (perché viziati da “incompetenza relativa”, uno dei tre “vizi” di legittimità, appunto, dell’atto amministrativo), con la conseguenza che l’interessato dovrà rivolgersi al giudice amministrativo per ottenerne l’annullamento. In definitiva, il potere giuridico di un ente, e cioè la sua attribuzione, si scompone in diverse competenze, dalla legge assegnate agli organi nei quali l’ente si articola. Il potere, e dunque l’attribuzione, consta di una sua identità genetica: le diverse unità che lo compongono sono, quindi, tutte ugualmente connotate geneticamente, proprio perché tutte manifestazioni dello stesso potere, della stessa attribuzione. In altre parole, la competenza si nutre dello stesso tratto genetico dell’attribuzione. L’atto emanato da un soggetto privo di quel tratto genetico è come se non esistesse. Epilogando: l’organo è figura soggettiva che rappresenta una articolazione organizzatoria dell’ente, alla quale è preposta una persona fisica (o più persone fisiche, nel caso di organo collegiale). Ma – deve essere chiaro – esso rileva quale entità oggettiva, a prescindere dalla persona fisica che ne è titolare. Ciò è dimostrato dal fatto che l’organo mai può restare privo della capacità di agire, occorrendo assicurare la continuità di funzionamento dell’apparato: laddove il titolare (colui che è preposto all’organo in situazione di “primarietà”) dovesse essere, per una qualsiasi causa, assente o comunque impedito, l’ordinamento dispone, nelle più diverse maniere, i congegni necessari a garantire l’esercizio ontologicamente indefettibile della competenza (supplenza, vicarietà, reggenza, interinato, delegazione, prorogatio, ecc.). L’esercizio del potere, insomma, in via di principio non conosce, non può conoscere, intermittenza.
La terza nozione che occorre dare è quella di ufficio. Secondo la più convincente, esso consiste nel complesso di beni, mezzi e persone funzionale allo svolgimento dell’attività dell’organo. La differenza tra organo ed ufficio è ben resa in esempio da quella che passa fra il Prefetto e la Prefettura: il primo è l’organo, la seconda è l’ufficio. Mentre all’organo sono dalla legge assegnate le competenze, il che significa che esso detiene la capacità cioè di emanare atti amministrativi, all’ufficio sono assegnati – non necessariamente dalla legge, ed anzi, di regola, da atti amministrativi a contenuto organizzatorio – compiti strumentali all’esercizio delle diverse competenze dell’organo. L’ufficio, dunque, ha un’assai circoscritta rilevanza giuridica, questa afferendo esclusivamente alla competenza, che è propria dell’organo: senza gli uffici, però, la P.A. non potrebbe esistere, giacché grava su di essi la più cospicua mole dell’azione che questa compie, quella consistente nella materiale “preparazione” degli atti amministrativi, oltre che nello svolgimento degli innumerevoli compiti “operativi” sovente connessi alla erogazione di servizi pubblici (si v. Servizi pubblici), i quali per gran parte non si traducono in atti amministrativi. Ed infatti, solo gli organi sono titolari del potere di emanare atti amministrativi, gli atti assunti dagli uffici non essendo tecnicamente veri e propri atti amministrativi: i primi hanno rilevanza esterna (e, quando sono atti-provvedimenti, anche capacità di modificare unilateralmente la sfera giuridica dei destinatari), i secondi, invece, ne sono sprovvisti. Riassumendo, mentre l’ente è titolare di attribuzione e l’organo è titolare di competenze, l’ufficio è titolare di compiti che, almeno in parte, sono strumentali all’esercizio delle competenze.
Un ufficio può “servire” più organi, ma ad un organo possono anche far capo più uffici, così come un ufficio può corrispondere ad un solo organo: dipende sempre dalla fonte (primaria o secondaria che sia) che, di volta in volta, disciplina la fattispecie. Di regola, all’ufficio sono addette (una o) più persone fisiche.
Nonostante quel che si è sin qui esposto, nel lessico comune spesso le locuzioni “organo” ed “ufficio” sono adoperate come sinonimi. Ciò si deve, anche se non integralmente, alla mancanza di unanimità concettuale e terminologica rinvenibile nella dottrina. V’è chi, ad esempio, non distingue tra organo e ufficio, bensì tra “ ufficio-organo” e “mero ufficio”: come a dire che nell’unico genus dell’ufficio si distinguono uffici che godono della particolare, a dir così, “dignità” di organi (perché detentori di competenza) ed altri che, invece, si qualificano come meri uffici (perché titolari di compiti solo strumentali all’esercizio della competenza). Come è facile intuire, fintanto che si resti su un piano siffatto, la differenza è puramente nel lessico adoperato. Ma la diversa terminologia non deve indurre in errore. Usare il termine organo come sinonimo di ufficio non deve confondere in merito alla titolarità del potere di emanare atti amministrativi, che è propria soltanto di una figura e non dell’altra: tecnicamente, l’atto non è mai del Ministero, bensì del Ministro. È l’organo che manifesta la volontà dell’ente all’esterno e non l’apparato di uffici che è strumentale al funzionamento dell’organo. Naturalmente, sembra indiscutibile che il Ministro non sia in grado di operare senza giovarsi del supporto dell’intero apparato ministeriale, sovente composto da innumerevoli uffici. Proprio perché alla nozione di ufficio non si riconnette alcuna rilevanza giuridica, possiamo affermare che essa è propria, piuttosto che del diritto, della scienza dell’amministrazione. Ciò nondimeno, si rivela indispensabile alla comprensione del fenomeno che stiamo illustrando.
Intorno all’organo, dunque, agisce l’ufficio, e la sua nozione è decisiva sul piano “aziendalistico”, giacché è di vitale importanza che la P.A. come “ azienda” funzioni al meglio. La nozione, però, sul piano giuridico, non ha rilievo: giuridicamente l’ufficio non conta, è l’insieme di tutto ciò che occorre per far sì che l’organo manifesti all’esterno la volontà dell’ente (del soggetto cioè di cui esso è un’articolazione organizzativa).
Un ente si definisce pubblico se possiede alcune caratteristiche e, per conseguenza, è dotato di quel peculiare regime coerente con la sua natura giuridica: in poche parole, è pubblico un ente che persegue interessi che la legge qualifica come pubblici ed affida alla sua cura, essendo a questo scopo dotato di quella speciale energia giuridica chiamata potere, che è propria dello Stato.
Capire se una figura soggettiva sia, oppure no, ente pubblico è, però, nei fatti per nulla semplice. Ed infatti, un conto è la definizione, altro è la singolare identificazione di un ente pubblico. In altre parole, un conto è descrivere gli elementi definitori dell’ente pubblico, altro è, laddove sia dubbio che un ente sia pubblico, procedere alla sua identificazione come tale. Se ci si muove sul primo piano, si deve affermare che un ente è pubblico se ha la natura giuridica di ente pubblico, in virtù della quale è dotato del relativo regime giuridico particolare. Se ci si muove sul secondo piano, invece, essendo incerta la sua natura giuridica, occorre procedere alla ricerca di indici che ne rivelino la sussistenza, così da poter ritenere applicabile ad esso il regime giuridico pubblicistico.
Quella della identificazione, invero, è una complessa questione teorica, derivante da una pressante esigenza pratica, oggi, peraltro, in gran parte sostanzialmente recessiva. Storicamente il problema nasce dal bisogno concreto di sapere quale trattamento giuridico, se di diritto pubblico o di diritto privato, andasse riservato a figure soggettive di incerta qualificazione, stante la rilevante differenza fra i due in relazione agli atti da esse emanati e, per certi versi soprattutto, in relazione al regime applicabile ai loro dipendenti ed al connesso profilo della individuazione della giurisdizione competente per le controversie di lavoro (se quella amministrativa, o quella civile). La questione può dirsi in larga misura superata, perché il pubblico impiego è stato significativamente privatizzato, con la conseguenza che i dipendenti pubblici vedono il loro rapporto di lavoro disciplinato in prevalenza dallo Statuto dei lavoratori, e solo in via residuale dal Testo unico sugli impiegati civili dello Stato (v. infra, § 3.7). Vigendo la precedente disciplina, però, la dottrina, elaborando i relativi arresti della giurisprudenza che risolvevano in concreto casi dubbi nel tempo via via presentatisi, ha enucleato una serie di indici di riconoscimento della pubblicità di un ente.
Naturalmente, la questione non si pone laddove sia la legge a qualificare esplicitamente un ente come pubblico, anche se di recente si è preso in alcune circostanze a dubitarne. Essa nasce invece in quelle, tuttora non rare, ipotesi in cui manchi una legge siffatta: e questo accade sebbene l’art. 97 Cost. affermi che «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge» (con ciò stabilendo una riserva, sia pur relativa, di legge), ed il disposto dell’art. 4, l. 20.3.1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), sancisca che «nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge». Ciò nonostante, ancor oggi, molti enti continuano ad essere istituiti, non per legge, ma soltanto sulla base della legge (così non violandosi la riserva relativa), la quale, peraltro, resta la principale fonte in cui vanno comunque ricercati gli elementi formali in grado di dimostrare che di ente pubblico si tratti, pur mancando una espressa dichiarazione della pubblicità.
La questione, dunque, anche se ridimensionata quanto a rilevanza pratica, è tutt’altro che risolta sotto il profilo teorico. Nella opinione di un’autorevole dottrina (non proprio recente, ma che sembra, tuttavia, non aver perso di attualità), l’identificazione dell’ente pubblico deve fondarsi su due criteri, derivabili da «elementi estrinseci e formali»: da un canto, il regime giuridico che l’ordinamento gli riserva; dall’altro, il suo, per così dire, “inserimento” nel “sistema” delle PP.AA., inserimento che si ricava sulla base della effettiva sussistenza di alcuni pregnanti indici di riconoscimento (Sandulli, A.M., Manuale di Diritto Amministrativo, Napoli, 1989, 194). L’impostazione può ritenersi condivisibile, ancorché solo in parte. E infatti, posto che un criterio scientifico non può avere valenza meramente descrittiva, esso dovendo invece connotarsi per la capacità determinativa di un effetto giuridicamente significativo, il primo criterio non è (almeno non integralmente) assumibile, giacché non gli si può riconoscere che valenza descrittiva della pubblicità di un ente. Invero, laddove già si conosca il regime giuridico da applicare all’ente, il problema della sua identificazione come pubblico non si pone: anzi, può ben dirsi che vien meno la stessa ragione del porsi un siffatto problema, che sta proprio nell’appurare quale debba essere il regime applicabile. Concettualmente il regime giuridico è, con ogni evidenza, una conseguenza della identificazione, e non un criterio da utilizzarsi per pervenire ad essa. Se già sappiamo dalla legge che il regime giuridico da applicare ad un ente è quello pubblicistico, vuol dire che si tratta di un ente pubblico. In altre parole, il regime giuridico non può essere considerato quale criterio per la identificazione dell’ente pubblico, essendone, invece, il principale ed essenziale effetto.
Alla luce di quanto abbiamo appena affermato, dunque, possiamo concludere che, nei casi dubbi, l’unico criterio per identificare l’ente pubblico è quello fondato sulla verifica della sussistenza di alcuni indici di riconoscimento, criterio la cui capacità determinativa della pubblicità appare indiscutibile. In proposito va detto a chiare lettere che nessuno degli indici, preso singolarmente, può considerarsi di per sé sufficiente a dimostrare la pubblicità; laddove, però, nel caso concreto ricorra più d’uno di essi, ciò sembra consentire di indurre la loro idoneità a costituire una base significativa per ritenere sussistente la pubblicità di un ente.
Fra gli indici va menzionato, anzitutto, l’interesse pubblico. Non è revocabile in dubbio che la funzionalizzazione ad un interesse pubblico sia il primo ed indefettibile indice di riconoscimento della natura pubblica di un ente. Una persona giuridica la cui unica vocazione formale sia il perseguimento di un interesse privato, individuale o collettivo che sia, non può essere ente pubblico. Da un lato, però, non può non rilevarsi che la pur comprovata sussistenza di tale indice è di per sé insufficiente a concludere per la pubblicità, visto che a curare interessi di rilievo ultraindividuale, sociale, possono ben essere, come sono, anche soggetti privati, singoli o associati. Questi ultimi, invero, restano “conservati” nell’ambito della società civile, pur connotandosi lo spirito che ne contraddistingue l’attività in senso oggettivamente (anche se non formalmente) pubblico, giacché è pacifico che la loro azione giuridica risulti priva di quel tratto tipicamente pubblicistico che si traduce nel dispiego di poteri, e dunque nella imperatività dei relativi provvedimenti. D’altro lato, va sottolineato pure che alla cura di un interesse pubblico possono essere funzionalizzati anche strumenti giuridici privatistici, fino al punto che un’attività capace di produrre utili (che ontologicamente sarebbe propria, e caratterizzante, di soggetti privati) potrebbe esser stata “ costruita” giuridicamente come funzionalizzata alla cura di un interesse pubblico, destinandosi gli utili prodotti al perseguimento materiale di questo (che senza risorse non sarebbe conseguibile): insomma, non vi sono ostacoli concettuali nel ritenere che un interesse pubblico possa esser perseguito anche (sebbene non esclusivamente) attraverso l’uso di strumenti giuridici privatistici. Se ciò è vero, tuttavia, lo è altrettanto che un soggetto che non dispone di potestà pubbliche non può essere considerato ente pubblico, di questo essendo elemento distintivo (che discrimina cioè fra persone giuridiche di diritto pubblico e di diritto privato), appunto, il peculiare regime giuridico dei suoi atti (sul quale torniamo subito di seguito). Sotto il profilo teorico, in definitiva, l’essenza dell’ente pubblico risiede nella particolare rilevanza pubblicistica dell’interesse perseguito dall’ente, non disgiunta però dal disporre esso di un minimum di potestà pubbliche.
Oltre all’interesse pubblico (che è sempre necessario, pur non essendo sufficiente), generalmente si individua un insieme composito di indici rivelatori, che può ricondursi ad unità sotto la denominazione “ particolare relazione con gli enti territoriali”, e cioè con le soggettività che incarnano i «pubblici poteri» (secondo la locuzione gianniniana), ossia gli enti (Stato, Regione, Città metropolitana, Provincia e Comune, gli elementi costitutivi, cioè, della Repubblica, ex art. 114 Cost.) che, per investitura/esponenzialità democratica, sono rappresentativi di tutti gli interessi del popolo stanziato sul relativo territorio (si v. Organizzazione amministrativa 3. Regioni ed enti locali).
Lo “speciale” rapporto con l’ente territoriale è dato dai seguenti elementi: a) controllo da parte dei “pubblici poteri”; b) nomina e revoca dei “ vertici” dell’ente da parte dei “ pubblici poteri”; c) partecipazione dei “pubblici poteri” alle spese di gestione; d) devoluzione degli utili ai “ pubblici poteri”; e) possibilità di avvalersi di servizi propri dei “pubblici poteri”.
Indice della pubblicità di un ente è senz’altro il fatto che esso sia in qualche modo soggetto ad una forma più o meno intensa di controllo ad opera del pubblico potere cui fa capo; d’altra parte, l’indice non può considerarsi risolutivo, anche l’attività di persone giuridiche private (riconosciute e non) essendo sovente sottoposta al controllo da parte degli enti territoriali (si pensi a gran parte delle attività delle cd. “organizzazioni non profit”). Parimenti, se i “ vertici” di un ente vengono nominati o revocati dal pubblico potere di riferimento, ciò può ben dirsi indice della sua pubblicità; anche in questo caso, però, l’indice, da solo, non è sufficiente, giacché, pur se di rado, è possibile che i pubblici poteri quanto meno interferiscano nella nomina e nella revoca di amministratori e sindaci di persone giuridiche private. Alla stessa stregua, è indice di pubblicità dell’ente il fatto che il pubblico potere di riferimento almeno concorra alla sua capacità finanziaria (quando addirittura non la risolva in toto); ma, ancora una volta, l’indice non è sufficiente, dal momento che risorse finanziarie pubbliche non raramente sono destinate (mediante contributi o sgravi fiscali) alla copertura dei costi di gestione di persone giuridiche private. Così come il sostegno, è indice di pubblicità anche la devoluzione degli utili (o di una quota di essi) al pubblico potere di riferimento; nulla esclude, peraltro, che una persona giuridica privata devolva parte dei suoi utili al pubblico potere di riferimento, rivelandosi così anche questo indice non decisivo. L’ultimo indice solitamente utilizzato per la identificazione dell’ente pubblico concerne la possibilità che ad esso può esser riconosciuta di usufruire di alcuni servizi propri del pubblico potere di riferimento (si pensi a quelli resi da uffici tecnici, o a quello, di grande rilevanza, consistente nella difesa giudiziaria ad opera della Avvocatura dello Stato).
Posto che sia identificato come tale, l’ente pubblico gode di un particolare regime giuridico, che lo differenzia dall’ente privato. Esso consiste (come abbiamo ricordato nel § 3.1) nella autarchia, in base alla quale si riconosce in capo ad enti diversi dallo Stato la capacità di disporre di potestà pubbliche. Ciò significa che i provvedimenti da essi assunti sono dotati degli stessi caratteri, e soggetti allo stesso regime giuridico, di quelli dello Stato: essenzialmente, i provvedimenti si connotano per la imperatività, e cioè per la capacità di modificare unilateralmente la sfera giuridica dei destinatari; e per essere sottoposti alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo. Ad integrare il regime giuridico, alla autarchia deve aggiungersi la cd. autotutela, o, come è più corretto dire, l’insieme dei poteri derivanti dalla inesauribilità di esercizio del potere amministrativo, il che vuol dire riconoscere al soggetto pubblico di poter sempre tornare sui propri passi per la cura di interessi pubblici (si v. Autotutela). È vero che vi sono alcuni enti che operano utilizzando in via quasi esclusiva lo strumentario giuridico civilistico (si pensi agli enti pubblici economici), ma anche questi, affinché possano qualificarsi come pubblici, non possono non disporre di un minimum di potestà pubbliche (in termini almeno di capacità certificatoria ed autoorganizzatoria), nonché dei poteri di autotutela.
Sono ulteriori tratti del regime giuridico degli enti pubblici i seguenti. Anzitutto, gli atti concernenti la propria organizzazione, l’assunzione del personale, nonché le modalità di realizzazione dei loro compiti soggiacciono alle regole cui è, in generale, sottoposta l’attività amministrativa. In secondo luogo, essi sono assoggettati ai poteri di direzione, indirizzo, coordinamento e controllo, da parte dell’ente territoriale di riferimento, al quale è in genere riconosciuto anche il potere di sottoporli ad amministrazione straordinaria (solo allo Stato, invece, è dato di procedere all’annullamento d’ufficio dei provvedimenti illegittimi). Gli enti pubblici non possono essere dichiarati falliti, né estinguersi per atto di volontà, se non alle condizioni prescritte dall’ordinamento. Infine, essi godono, in sede penale, di una tutela particolare, sia nei confronti del proprio personale (artt. 314 ss. c.p.), che nei confronti dei terzi (artt. 336 ss. c.p.).
Possiamo dire, in conclusione, che gli eventuali dubbi e perplessità generabili dal sovrapporsi di indici rivelatori ed elementi del regime giuridico rivelano una contraddizione solo apparente: la necessità di riconoscere nel regime giuridico il tratto distintivo della pubblicità di un ente, invero, non deve indurre a ritenere errato l’assunto secondo cui gli indici servono per riconoscere la pubblicità. Una volta che questa sia riconosciuta all’ente si applica il peculiare regime giuridico pubblicistico, senza il quale non si può parlare di ente pubblico. Ma quando sussistono dubbi sulla natura dell’ente, per poter applicare quel regime giuridico occorre accertare se ricorrano elementi tali da giustificare la detta applicazione.
Pur nei limiti della valenza essenzialmente descrittiva propria di ogni classificazione, gli enti pubblici possono classificarsi sulla base di diversi criteri. I più significativi sono: a) la necessarietà, o meno, della loro esistenza; b) la diversità di configurazione strutturale che essi assumono in relazione alle modalità organizzative di rappresentazione degli interessi, la tipologia dei quali si differenzia a seconda che siano individuati da un loro organo legittimato ad esprimere la volontà della generalità dei cittadini (oppure della categoria) di cui l’ente è esponenziale, ovvero siano stati fissati da una fonte dell’ordinamento; c) i fini che perseguono, se generali o particolari; d) la delimitazione geografica dell’efficacia dei loro atti, se operanti su tutto il territorio nazionale ovvero su una sua circoscrizione.
Naturalmente, ove si consideri l’assetto organizzativo che caratterizza l’ordinamento positivo vigente, la prima, fondamentale distinzione di cui occorre tener conto, anche a prescindere dai detti criteri, è quella fra enti territoriali ed enti istituzionali, distinzione che comunque emergerà all’esito delle classificazioni che ci apprestiamo ad illustrare.
Con riguardo al primo criterio, si distinguono gli enti necessari da quelli non necessari, il discrimine risiedendo nella inevitabilità, o meno, della loro esistenza secondo quanto prescritto dall’ordinamento: si pensi alla differenza, ad esempio, fra un Ordine professionale o una Camera di Commercio, che devono essere immancabilmente presenti in ogni circoscrizione territoriale, da un lato, ed un Consorzio fra enti territoriali, una Unione di Comuni, una Comunità montana, la cui esistenza è invece eventuale, dall’altro.
Relativamente alla configurazione strutturale, si distinguono gli enti a struttura associativa (o corporativa che dir si voglia) dagli enti a struttura istituzionale. I primi sono esponenziali degli interessi facenti capo alle comunità territoriali, oppure alle categorie, che rappresentano, di ciò risentendo la conformazione dei loro organi, nel senso che la composizione di questi ultimi è determinata da una investitura elettiva da parte dei soggetti che compongono le menzionate comunità (cittadini), o categorie (affiliati). Diversamente, gli enti a struttura istituzionale vedono gli interessi che debbono perseguire etero-definiti dall’ordinamento e generalmente indisponibili per gli organi nei quali si articola la loro struttura, organi che sono, perciò, ad investitura non elettiva. Come si intuisce facilmente, la distinzione richiama quella operata dal Codice civile tra associazioni e fondazioni (artt. 14 ss. c.c.), prevalendo nelle prime l’elemento personale (e cioè la volontà degli associati), nelle seconde, invece, quello patrimoniale (e cioè lo scopo voluto dal fondatore collegato funzionalmente alla utilizzabilità del patrimonio).
Quanto ai fini, si distinguono gli enti a fini generali dagli enti a fini particolari (o forse, più precisamente, a fini determinati). Si dice a fini generali l’ente che, in ragione della investitura democratica da parte dei destinatari della sua azione, è riconosciuto dall’ordinamento titolare della capacità di interpretarne i bisogni, formalizzandoli in interessi pubblici da perseguire. Per converso, è a fini particolari l’ente abilitato a realizzare esclusivamente quei fini ad esso assegnati da una fonte dell’ordinamento, anche a prescindere dalla eventuale esponenzialità democratica dei propri organi. Come vedremo, sono a fini generali soltanto gli enti territoriali, e non anche gli altri enti a struttura associativa, la cui pur presente investitura democratica non si nutre di valenza politica.
Infine, con riferimento alla delimitazione geografica dell’efficacia dei loro atti, si distinguono gli enti nazionali, che operano sull’intero territorio nazionale, dagli enti a circoscrizione territoriale definita, che operano su una porzione soltanto del detto territorio.
L’applicazione dei quattro criteri testé illustrati ad ogni singola tipologia di ente può determinare in concreto la loro intersecazione. L’affermazione si spiega facilmente con qualche esempio. Si pensi, innanzitutto, per un verso, allo Stato – ente territoriale per antonomasia – che, con ogni evidenza, è necessario, a struttura associativa, a fini generali e nazionale; per altro verso, alla Regione, anch’essa ente territoriale, necessario, a struttura associativa, a fini generali, ma operante sulla circoscrizione definita dal suo proprio territorio (chiaramente infranazionale); e per altro verso ancora, all’Istituto nazionale per la previdenza sociale, ente necessario, a struttura istituzionale, a fini determinati, operante sull’intero territorio nazionale. Si pensi, inoltre, per un verso, al Comune, ente territoriale, necessario, a struttura associativa, a fini generali, operante sulla circoscrizione definita dal suo proprio territorio; e, per altro verso, agli Ordini professionali, enti istituzionali, necessari, a struttura associativa, a fini determinati, operanti su circoscrizioni territoriali definite; e, per altro verso ancora, ad una Unione di Comuni, ente territoriale, non necessario, a struttura associativa, a fini generali, operante su una circoscrizione definita dall’insieme dei territori propri dei Comuni che le danno vita.
Come preannunciato, all’esito della sintetica spiegazione dei criteri classificatori, è ora più semplice rilevare la distinzione fra enti territoriali ed enti istituzionali. Nei primi il territorio è elemento costitutivo; ciò significa che esso rappresenta, non soltanto la delimitazione della sfera geografica di azione dell’ente, ma la stessa base su cui l’ente medesimo si radica: l’ente territoriale trova cioè nel territorio l’elemento che ne connota l’essenza, nel senso che la comunità stanziata su di esso si proietta nelle istituzioni proprio per il tramite dell’ente. In altre parole, l’ente territoriale è esponenziale, rappresentativo, si fa portatore fisiologico di tutti gli interessi potenzialmente ascrivibili a quella comunità: in ciò è la sua intrinseca politicità. La Costituzione, nell’indicare nominativamente gli enti territoriali (Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni, Stato), li qualifica come costitutivi della Repubblica (art. 114, Cost.) e li riconosce dotati di autonomia di indirizzo politico-amministrativo. Nel seno della categoria vanno differenziati gli enti locali (Comuni, Province e Città metropolitane), che presentano alcuni connotati peculiari, il principale fra i quali è senz’altro il non essere dotati della potestà legislativa (si v. Enti locali. Comune [dir. amm.] ed Enti locali. Provincia e Città metropolitana [dir. amm.]). Sebbene non sia pacificamente riconosciuto, giacché il novero relativo è diffusamente considerato come caratterizzato sul piano costituzionale da numerus clausus, va detto che pare non infondato far rientrare fra gli enti territoriali locali anche le Comunità montane, le Unioni di Comuni e, con minor certezza, i Consorzi fra enti locali, essi sembrando disporre delle caratteristiche proprie della categoria. Viceversa, gli enti istituzionali, che non hanno il territorio quale elemento costitutivo (e per i quali esso è criterio di delimitazione della sfera di competenza), sono vocati al perseguimento di interessi particolari, definiti in via eteronoma da essi, e cioè da una fonte dell’ordinamento diversa dai regolamenti emanati dagli enti medesimi.
Ancorché non suscettibili di classificazione in base ai criteri enunciati, meritano comunque di essere richiamate alcune importanti figure soggettive, in prevalenza di genesi recente, che possono ben dirsi facenti capo, in qualche modo, all’universo dell’apparato organizzatorio pubblicistico.
In primo luogo, vanno segnalati gli enti pubblici economici, persone giuridiche pubbliche che svolgono attività d’impresa nell’interesse dello Stato o di altro ente territoriale, le quali paiono costituire ormai una figura recessiva, essendo state oggetto dell’ampio processo di privatizzazione che ha caratterizzato specialmente gli ultimi due decenni.
In secondo luogo, occorre menzionare gli enti privati di interesse pubblico, che sono privati per nascita o per trasformazione di enti pubblici. Sono soggetti alla vigilanza dello Stato e possono beneficiare di sovvenzioni o esenzioni tributarie (si pensi, ad esempio, alle IPAB – Istituzioni Pubbliche di Assistenza e di Beneficenza –, agli enti lirici, trasformati recentemente in fondazioni di diritto privato, alle federazioni sportive, ovvero alle ONLUS – Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale –, che svolgono funzioni di pubblica utilità (fra esse, le associazioni di volontariato).
Una terza species è costituita dai ccdd. “organismi di diritto pubblico”, che costituiscono il frutto della sovrapposizione del diritto comunitario alle categorie giuridiche consolidate nel diritto interno (si v. Organismo di diritto pubblico). L’introduzione di tale figura negli ordinamenti nazionali è ispirata all’esigenza, primaria per l’ordinamento comunitario, di fare in modo che soggetti i quali perseguono finalità pubbliche ed hanno un particolare legame con lo Stato non possano, quando si proceda all’aggiudicazione di un appalto, eludere il rispetto delle regole di mercato e falsare il gioco della concorrenza. Le caratteristiche salienti dell’organismo di diritto pubblico, dettate dall’art. 3, co. 26, d.lgs.12.4.2006, n. 163, sono: a) l’istituzione finalizzata al perseguimento di interessi generali di carattere non industriale o commerciale, a margine del quale l’ente può anche svolgere altre attività; b) la personalità giuridica; c) il finanziamento «maggioritario» ad opera dello Stato, di altri enti territoriali o altri organismi di diritto pubblico, oppure il controllo di questi sulla sua gestione.
Infine, bisogna riferire delle cd. “società per azioni a partecipazione pubblica” (si v. Società pubbliche). Sono disciplinate dal Codice civile, il cui art. 2449 prevede che lo Stato o gli enti pubblici che abbiano «partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio» possano godere, ove stabilito dallo statuto, della «facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione del capitale sociale». La maggior parte dei problemi sollevati da queste figure consiste nella loro qualificazione come soggetti pubblici o privati, giacché la forma societaria resta propria del diritto privato. In linea di massima, si tende ad affermare che – sulla base agli indici rivelatori del carattere pubblico di un ente ed indipendentemente dalla partecipazione azionaria – la società è un soggetto di diritto pubblico quando non può disporre della propria esistenza e quando sia comunque assoggettata ad un potere pubblico di ingerenza e/o di vigilanza.
Non diversamente da quella degli enti, anche la classificazione degli organi, e conseguentemente, in gran parte, degli uffici, sopporta l’enunciato limite della valenza essenzialmente descrittiva propria di ogni classificazione.
Anzitutto si deve dar conto dell’unica distinzione concernente i soli uffici: questi sogliono distinguersi in semplici e complessi. Sono uffici complessi quelli che si articolano a loro volta in diversi uffici: ne è il più classico esempio il Ministero, che è sì un ufficio, ma, come è noto a tutti, di regola è costituito da una pluralità di uffici (ai quali sovente, pur se non sempre, fanno capo anche diversi organi: si pensi, ad esempio, ai Direttori generali, ai Soprintendenti e così via).
Le distinzioni riguardanti invece gli organi e, per conseguenza, gli uffici si basano sui seguenti criteri: a) l’ambito circoscrizionale dell’attività; b) la stabilità, persistente o meno, della loro presenza nel tessuto organizzatorio dell’ente; c) la tipologia dell’attività svolta.
Con riferimento al primo criterio, si distinguono gli organi centrali dagli organi periferici, a seconda che l’efficacia dei loro atti non sia geograficamente circoscritta (la relativa competenza estendendosi all’intera attività dell’ente, pur se sia riferita ad un campo materiale definito), ovvero operi soltanto in un delimitato ambito geografico della menzionata attività (la distinzione vale anche per i compiti degli uffici).
Quanto alla stabilità della loro presenza nel tessuto organizzatorio dell’ente, gli organi sono distinguibili, per un verso, in permanenti o temporanei, a seconda che la loro esistenza (e/o attività) sia duratura, ovvero limitata ad un determinato arco di tempo; e, per un altro verso, in ordinari o straordinari, a seconda che siano fisiologicamente previsti, ovvero vengano istituiti laddove quelli ordinari, a prescindere dalla causa, non siano in grado di operare, allo scopo essendo necessaria la loro sostituzione. La distinzione si estende, naturalmente, anche agli uffici, la cui esistenza è di regola legata a quella degli organi corrispettivi (sebbene gli organi temporanei, ordinari o straordinari che siano, ben possano svolgere la loro attività valendosi di uffici permanenti.
Con riguardo alla tipologia dell’attività svolta, invece, gli organi si distinguono in attivi, consultivi e di controllo (ciascuno di questi potendo, a loro volta, rivestire natura amministrativa o tecnica, e talvolta anche mista). I primi si caratterizzano per la capacità di manifestare la volontà della P.A. in funzione dell’interesse pubblico specifico, la cui cura è ad essa attribuita dalla legge; ai secondi l’ordinamento riconosce la capacità di formulare pareri e/o valutazioni tecniche in ordine all’attività che l’organo attivo richiedente deve svolgere; gli organi di controllo, infine, sono vocati a verificare la legittimità, e oggi più raramente anche il merito, dell’attività svolta dagli organi attivi (anche in questo caso la distinzione è applicabile pure agli uffici).
Alcune distinzioni, poi, sono riferibili soltanto agli organi. Segnatamente, quella fra organi rappresentativi e non rappresentativi e quella fra organi monocratici e collegiali.
Si definiscono rappresentativi gli organi i soggetti preposti ai quali vengano scelti, mediante elezione o designazione, da una comunità ovvero da una categoria che si riflette nell’ente (ne sono classici esempi, da un lato, il Sindaco e, dall’altro, il Presidente dell’Ordine degli avvocati); viceversa, sono non rappresentativi gli organi i soggetti preposti ai quali siano investiti in via professionale, di regola tramite concorso (ne è un esempio significativo il Prefetto). Naturalmente, da quanto si è appena riferito consegue che gli organi rappresentativi sono tendenzialmente, seppur non necessariamente, propri degli enti a struttura associativa (o corporativa).
La più pregnante distinzione tra gli organi è, però, quella fra organi monocratici ed organi collegiali. Si dicono monocratici (o individuali) gli organi l’esercizio delle cui attività venga rimesso ad una sola persona fisica. Viceversa, si dicono collegiali gli organi l’esercizio delle cui attività venga rimesso ad «un corpo costituito da una pluralità di persone dotate di pari attribuzioni, le quali debbano provvedervi in seduta comune attraverso una deliberazione unitaria» (così Sandulli, A.M., op.cit., 226). Per la complessità dei problemi connessi al suo funzionamento, l’organo collegiale meriterebbe un approfondimento che non si può fare in questa sede. Non può non dirsi, però, che esso si esprime mediante atti che risultano dalla volontà della maggioranza dei suoi componenti. In ragione di ciò, si pone la questione del quorum, e cioè della percentuale dei componenti necessaria affinché un collegio sia validamente costituito, ovvero sia valida una sua deliberazione. Si parla di quorum strutturale (o costitutivo) nel primo caso, per indicare, appunto, il numero dei componenti che devono essere presenti affinché il collegio sia legittimamente costituito (di regola si tratta della metà più uno, ma non nei collegi perfetti, per i quali è richiesta la presenza della totalità dei componenti). Si parla, invece, di quorum funzionale (o deliberativo) nel secondo caso, per indicare il numero dei componenti che devono essere presenti affinché il collegio possa legittimamente deliberare. Tanto il quorum strutturale quanto quello funzionale sono disciplinati, di volta in volta, per ciascun organo collegiale, dalla legge, la quale può disporre la necessità anche di una maggioranza qualificata.
Va detto che, rispetto alla soluzione strutturale della composizione di interessi rappresentata dall’organo collegiale, la tendenza ordinamentale a far data dalla l. 7.8.1990, n. 241, sembra privilegiare una soluzione funzionale, quella della conferenza di servizi (si v. Conferenza dei servizi), che si presenta come una modalità procedimentale in grado di contrarre un segmento del procedimento amministrativo (si v. Procedimento amministrativo) in funzione di semplificazione (si v. Semplificazione amministrativa). La conferenza, infatti, pur seguendo oggi la regola della maggioranza (diversamente dagli esordi, allorché era prescritta l’unanimità), non può in alcun modo scambiarsi con l’organo collegiale, visto che le volontà delle diverse PP.AA. partecipanti non si fondono, come in quello, in una unica deliberazione, restando fra loro distinte anche le rispettive competenze.
Una delle principali diversità concettuali rinvenibili nella dottrina con riguardo alla distinzione tra organo ed ufficio, cui si è poc’anzi fatto cenno (v. supra § 3.1), concerne il rapporto organico (o immedesimazione organica), e cioè una delle due relazioni (l’una organizzatoria, l’altra giuridica) che intercorrono tra la P.A. e le persone fisiche che operano per essa (l’altra è il rapporto di servizio, o rapporto di ufficio). È molto diffuso in dottrina sostenere che il rapporto organico intercorra fra l’organo e l’ente, e ciò sia che si consideri l’organo come la persona fisica che lo incarna (Casetta, E., Manuale di Diritto Amministrativo, Milano, 2012, 136, ad esempio, ritiene che «l’organo va identificato nella persona fisica o nel collegio in quanto – e fino a quando – investito della competenza attribuita dall’ordinamento»), sia che lo si consideri come un’entità oggettiva, a prescindere dalla persona fisica. Seguendo l’impostazione che riteniamo preferibile (quella sandulliana), viene di osservare che l’appena riferita opinione della dottrina rischia di generare un equivoco, dal quale possono derivare erronee conseguenze in tema di responsabilità civile della P.A. nei confronti dei terzi (si v. Responsabilità civile della p.a.).
Appare pertanto necessario soffermarsi sulla definizione di rapporto organico, e poi, a seguire, su quella di rapporto di servizio.
Anzitutto occorre chiarire che il rapporto organico non è un rapporto giuridico (sebbene produca conseguenze giuridiche). Anzi, ad essere rigorosi sul piano concettuale, proprio non si tratta di un rapporto. Un rapporto, infatti, presuppone l’esistenza di due distinti soggetti che entrano in relazione tra loro: il che, nel caso in esame, non è. Eppure, per una lunga e assai risalente stagione, in dottrina si è erroneamente utilizzata la teoria della “rappresentanza” per spiegare la natura giuridica del rapporto organico. In realtà, la più corretta qualificazione della “situazione” che stiamo analizzando è quella di immedesimazione organica, a significare che la persona fisica che opera per la P.A. incarna (si “immedesima”, appunto, con) la P.A., imputandosi a questa direttamente l’intero suo agire e le relative conseguenze. L’immedesimazione ricorre sempre, con riguardo a tutte le persone agenti per una P.A., tanto che siano preposte ad un organo, e dunque svolgano attività giuridica, quanto che siano addette ad un ufficio, e dunque svolgano attività materiale; ed a prescindere dal fatto che svolgano la loro attività a titolo onorario ovvero professionale, in via permanente o temporanea, stabile od occasionale.
Il rapporto organico nasce, di regola, con la instaurazione del rapporto di servizio, che – come vedremo ( v. infra, § 3.7) – è un vero e proprio rapporto giuridico. In rari casi può verificarsi che il rapporto organico nasca di fatto: quando ciò accade, il rapporto di servizio consegue (sebbene instaurandosi a titolo precario) alla venuta in vita del rapporto organico. Pertanto, salvo eccezioni, la immedesimazione organica scaturisce, automaticamente, dalla instaurazione del rapporto di servizio, e si determina concretamente con l’assegnazione della persona fisica all’organo o all’ufficio. Mentre il rapporto di servizio nasce (nel caso di rapporto professionale) con l’atto di assunzione, contratto o provvedimento che sia, ovvero (nel caso di rapporto onorario) con l’elezione o l’atto di designazione; il rapporto organico nasce con l’atto di assegnazione, o incardinazione, all’organo o all’ufficio.
In conclusione può ben dirsi che l’immedesimazione organica costituisca una fictio, che consente di spiegare come e perché agisce la persona giuridica ente pubblico: esiste un solo soggetto, l’ente, le cui attività giuridiche (proprie degli organi) ed operazioni materiali (proprie degli uffici) sono manifestate da tutte le persone fisiche che operano per esso. Insomma, il rapporto organico rileva come relazione di tipo esclusivamente organizzatorio, sebbene da essa derivino anche conseguenze giuridicamente rilevanti, essenzialmente con riguardo alla responsabilità civile della P.A. nei confronti dei terzi.
Diversamente dal rapporto organico, il rapporto di servizio è un vero e proprio rapporto giuridico. Esso, infatti, riguarda due distinti soggetti giuridici (la P.A. ed il suo agente), altro non essendo che un rapporto di lavoro, avente ad oggetto attività facenti capo a compiti propri della P.A., il cui contenuto essenziale e principale consiste nel sinallagma che lega la prestazione lavorativa dell’agente al corrispettivo (che sia o no retribuzione) dovuto dalla P.A.: non costituiscono dunque rapporto di servizio le prestazioni d’opera che non consistano in attività esplicative dei compiti istituzionalmente assegnati alla P.A.
Il rapporto di servizio di diritto nasce, di regola, con un contratto, ovvero – nelle ormai circoscritte ipotesi previste dalla legge (magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, militari e forze di polizia, personale della carriera diplomatica e prefettizia, professori e ricercatori universitari, personale di alcune autorità indipendenti) – con un provvedimento amministrativo. Solo eccezionalmente – vi abbiamo fatto cenno – può nascere a seguito di un rapporto organico di fatto: in tal caso, però, esso si instaura a titolo precario. Evidentemente, ove ciò accada, il rapporto di servizio non sempre implica il diritto alla retribuzione: ciò sembra doversi ritenere plausibile soltanto laddove l’agente di fatto possa vantare comunque un rapporto organico di diritto, sebbene viziato, ovvero inefficace, ma mai laddove sia mancato un qualsiasi atto di assegnazione.
Il rapporto di servizio di diritto può essere volontario o coattivo. In questa seconda ipotesi, che deve essere sempre prevista e disciplinata dalla legge (stante la riserva di cui all’art. 23 Cost.), la persona fisica non si può sottrarre al rapporto (si pensi, fin quando è esistito, al servizio di leva obbligatorio, ma anche, oggi, a quello volontario una volta che sia stato instaurato e per il periodo stabilito).
Mentre il rapporto di servizio coattivo non può che essere professionale, il rapporto di servizio volontario – che può ben dirsi quello fisiologicamente più ricorrente – è, a sua volta, di due specie: onorario ovvero professionale. Si dice onorario laddove sortisca ad una nomina derivante da elezione o ad un atto di designazione. Si dice professionale, invece, quando consiste in un vero e proprio rapporto di lavoro.
Il rapporto di servizio professionale è qualificato di lavoro dipendente quando si tratti di lavoro subordinato. Esso, però, può anche essere di lavoro autonomo. In entrambi i casi l’attività del prestatore è comunque imputata alla P.A., sebbene non allo stesso titolo. La differenza fra le due specie sta nella diversa disciplina giuridica (al primo si applica, in gran parte, sia pur non sempre, lo Statuto dei lavoratori, l. 20.5.1970, n. 300), e cioè nelle diverse modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, e nel diverso configurarsi dell’insieme dei diritti e obblighi (ovvero doveri, nel caso si tratti di rapporto di diritto pubblico) reciproci di P.A. ed agente. Inoltre, mentre quello subordinato può instaurarsi solo con persone fisiche, il rapporto di servizio di lavoro autonomo può instaurarsi anche con una persona giuridica.
Il rapporto di servizio qualificato di lavoro dipendente, dopo la privatizzazione del pubblico impiego – intercorsa a far data dal d.lgs. 3.2.1993, n. 29, e completata con il d.lgs. 31.3.1998, n. 80, le cui disposizioni sono state poi raccolte nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165 –, si distingue a seconda che si instauri mediante contratto e sia regolato dal diritto privato (ed in particolare dal diritto del lavoro), pur conservando comunque profili di disciplina pubblicistica: ed oggi è così in via generale; ovvero mediante provvedimento amministrativo e sia regolato dal diritto pubblico: ciò che si verifica nelle circoscritte ipotesi previste dalla legge (si v. voce Impiego pubblico).
Nonostante oggi, in gran parte, si instauri mediante un contratto di diritto privato, il rapporto di servizio (che sia di lavoro dipendente oppure autonomo) non deve essere confuso con quello, ugualmente generato da un contratto, avente ad oggetto una prestazione d’opera che la P.A. può sempre scegliere di richiedere ad un soggetto privato (anche persona giuridica). In tal caso, invero, l’opera prestata a vantaggio della P.A. è imputata al prestatore e non a quest’ultima, con le naturali conseguenze che ciò implica in tema di responsabilità civile verso i terzi (si v. voce Responsabilità civile della p.a.).
L’ipotesi più largamente ricorrente è quella del rapporto di servizio professionale che si configura come di lavoro dipendente, con riguardo al quale bisogna, sia pur in maniera essenzialissima, descrivere: a) come vi si accede; b) qual è l’insieme dei diritti e obblighi (o doveri) reciproci della P.A. e dei dipendenti; c) qual è la giurisdizione competente.
a) Accesso all’impiego nella P.A. – Come detta l’art. 97, co. 3, Cost., «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». La regola, naturalmente, resta immutata anche dopo la privatizzazione del pubblico impiego. La legge oggi non prescrive il concorso quando la qualifica della quale occorre provvista richieda il solo requisito della scuola dell’obbligo; ma anche nelle ipotesi in cui è obbligatorio riservare una quota alle categorie protette. Una volta che sia stata approvata la graduatoria del concorso, salvo che nelle ipotesi circoscritte poc’anzi ricordate – in cui continua ad essere costituito tramite un provvedimento amministrativo –, il rapporto si costituisce mediante un «contratto individuale di lavoro» (art. 35, d.lgs. n. 165/2001). Fermo restando che, normalmente, l’assunzione e l’impiego del personale avviene tramite contratto a tempo indeterminato, in presenza di esigenze particolari la P.A. può utilizzare forme contrattuali flessibili.
b) Diritti e obblighi (o doveri) reciproci della P.A. e dei suoi dipendenti. – I dipendenti pubblici, che il loro rapporto di lavoro sia di diritto pubblico o di diritto privato, vantano uno status particolare. La prestazione del dipendente della P.A., che ben può identificarsi con il dovere d’ufficio, si esplica attraverso lo svolgimento dei compiti propri dell’organo o dell’ufficio presso il quale egli è incardinato. A fronte del dovere d’ufficio si pone una serie di diritti: l’insieme dell’uno e degli altri, unitamente alle relative garanzie e sanzioni, costituisce lo stato giuridico del personale, il quale varia a seconda che questo sia in un rapporto di diritto pubblico, ovvero di diritto privato.
Per quanto attiene ai rapporti di diritto privato, i comportamenti inerenti al dovere d’ufficio del dipendente sono disciplinati dal «Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», che, secondo la legge, deve essere “definito” dal Governo «al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico» (art. 54, co. 1, d.lgs. n. 165/2001). Il Codice – che, come previsto dalla legge, è stato approvato con d.p.r. 16.4.2013, n. 62 –, una volta «pubblicato nella Gazzetta Ufficiale» deve essere «consegnato al dipendente, che lo sottoscrive all’atto dell’assunzione» (art. 54, co. 2). La legge, poi, impone il dovere di esclusività del rapporto di lavoro con la P.A. anche se di diritto privato (art. 53, co. 1, d.lgs. n. 165/2001, che sul punto richiama espressamente la disciplina valevole per i dipendenti in rapporto di diritto pubblico, di cui agli artt. 60 ss. del T.U. 10.1.1957, n. 3). Vista la natura negoziale del rapporto, i diritti del dipendente in rapporto di diritto privato sono per lo più codificati nei contratti collettivi (tranne il diritto alle mansioni, che è disciplinato dall’art. 52, d.lgs. n. 165/2001), e questi, tendenzialmente (sia pur non integralmente), riprendono i diritti propri del dipendente in rapporto di diritto pubblico.
Per i rapporti di lavoro che restano di diritto pubblico, la disciplina è invece disposta, nella gran parte, dal T.U. n. 3/1957 e dalla l. 29.3.1983, n. 93 (legge quadro sul pubblico impiego); i doveri del dipendente sono ricavabili dal giuramento al quale è tenuto al momento dell’assunzione, la cui formula (dettata dall’art. 2, d.p.r. 19.4.2001, n. 253: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi dello Stato, di adempiere ai doveri del mio ufficio nell’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene») richiama fondamentalmente quelli di fedeltà, di diligenza, di legalità, di rettitudine, e di subordinazione. Quanto ai diritti del dipendente in rapporto di diritto pubblico, essi consistono principalmente nei seguenti: al posto (che, secondo Sandulli, A.M., op.cit., 329, «per quanto non ricorra in ogni rapporto di servizio […] è il diritto di essere mantenuto nel rapporto di servizio al quale il soggetto fu assunto»); alla funzione; alla qualifica; alle competenze economiche (in primis alla retribuzione); al riposo settimanale; ai congedi, ordinario e straordinario; ai permessi; all’assistenza sanitaria; a svolgere attività sindacale.
c) La giurisdizione sul rapporto di impiego nella P.A. – Le controversie derivanti dai rapporti di servizio professionale di lavoro dipendente e di diritto privato sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice ordinario «in funzione di giudice del lavoro». Per indicare di quali controversie si tratti, la legge (d.lgs. n. 165/2001) usa, sì, la locuzione «tutte le controversie», ma stabilisce delle eccezioni (allo scopo di individuarle il co. 1 rinvia al successivo co. 4). Nel corpo della stessa disposizione subito dopo viene chiarito che nel novero di siffatte controversie si devono intendere comprese quelle «concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti» (art. 63, co. 1). Alla stessa stregua, sono di competenza del giudice ordinario «le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni», e quelle «promosse da organizzazioni sindacali, dall’ARAN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di contrattazione collettiva» (co. 3).
Viceversa, coerentemente con la scelta legislativa di diritto sostanziale, restano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie derivanti dai rapporti di lavoro non privatizzati, «ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi» (co. 4). Alla giurisdizione del giudice amministrativo, infine, – ma quella generale di legittimità – restano devolute anche «le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» (co. 4), a prescindere dalla tipologia del concorso (per titoli, esami, o titoli ed esami), e considerandosi assimilate ad esse anche le procedure concernenti la progressione in carriera dei dipendenti interni. La scelta, invero, non sembra spiegarsi con ragioni teoriche, bensì di mera opportunità pratica (in buona sostanza, la maggior idoneità a garantire una celere ed efficace trattazione di cause siffatte, che il processo amministrativo vanterebbe rispetto a quello civile).
L. 17.7 1890, n. 6972, Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza; d.p.r. 10.1.1957, n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato; l. 20.5.1970, n. 300, Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento; l. 20.3.1975, n. 70, Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente; l. 29.3.1983, n. 93, Legge quadro sul pubblico impiego; d.lgs. 3.2.1993, n. 29, Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421; d.lgs. 31.3.1998, n. 80, Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59; d.lgs. 30.3.2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; l. cost. 18.10.2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione; d.p.r. 16.4.2013, n. 62, Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; l. 11.8.2014, n. 114, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari.
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