paradiso
Il luogo della beatitudine eterna
Con il termine paradiso (dal greco paràdeisos, «giardino», che a sua volta deriva dal persiano pairidaeiza, cioè «luogo recintato») si indica comunemente la sede celeste di Dio e dei beati, il luogo del premio eterno concesso ai giusti dopo la morte, contrapposto all’inferno destinato ai malvagi. Nel paradiso cristiano, che ha ricevuto la sua più celebre rappresentazione nella Divina Commedia di Dante, i giusti godono di una perfetta letizia derivante dalla contemplazione di Dio. Nella tradizione islamica i beati trascorrono una vita felice in un giardino di delizie anche materiali
La speranza di un premio ultraterreno riservato a quanti in vita si siano comportati rettamente è antica quanto l’uomo, così come la credenza in un castigo per i malvagi (inferno). Nelle società primitive, dove si pensava alla vita dopo la morte come a un semplice prolungamento dell’esistenza terrena, la ricompensa sperata era di tipo materiale, consistente in una sopravvivenza senza fine trascorsa nel lusso e nel piacere dei sensi; i defunti, perciò, erano sepolti con i loro beni più preziosi, per continuare a goderne anche nell’altra vita.
Non c’erano idee precise sul luogo in cui sarebbe stato possibile vivere questa esistenza felice: in genere immaginato lontano e inaccessibile, spesso riservato agli eroi (come il Walhalla germanico), il paradiso – o comunque venisse chiamato – era collocato ai confini del mondo o al di là dei mari (le Isole dei beati), sottoterra (i Campi Elisi) oppure nelle regioni celesti dove dimorano gli dei (antica letteratura vedica). Secondo l’originaria accezione del termine (cioè «giardino»), la sede dei beati è spesso rappresentata come un luogo d’incantevole bellezza (locus amoenus), dove regna un’eterna primavera e la natura prodiga i suoi doni agli abitanti, che vi trascorrono il tempo suonando, cantando e banchettando serenamente: così per esempio descrive Virgilio il paradiso pagano, nel libro 6° dell’Eneide.
Anche la tradizione islamica, nel Corano, parla del paradiso come «i giardini dell’Eden», in cui i beati godono di frutti abbondanti e bevande non inebrianti in compagnia delle urì, le vergini «dagli occhi neri».
Bellezza, armonia e gioia, insieme a luce e profumi sovrumani, sono elementi costitutivi del paradiso anche nelle concezioni antiche più spirituali, come quelle presenti nella religiosità cinese e in alcune forme di buddismo (Buddha) e di induismo.
Perfino al di fuori dell’ambito religioso, il termine paradiso e l’aggettivo paradisiaco, da esso derivato, evocano immagini di bellezza e felicità straordinarie, quasi inconcepibili su questa Terra.
Nei Vangeli, Gesù promette ai suoi fedeli la vita eterna e l’eredità del regno dei cieli dove dimora Dio, come insegna la preghiera «Padre nostro, che sei nei cieli»; e al ladrone pentito che gli chiedeva: «Ricordati di me, quando sarai nel tuo regno», Gesù dalla croce assicura: «Oggi sarai con me nel paradiso». Perciò per il cristiano non v’è dubbio che il paradiso sia in cielo: lo credeva Paolo di Tarso, il quale rivela nella Seconda lettera ai Corinzi di essere stato trasportato «fino al terzo cielo» nel corso di un rapimento estatico e di aver ricevuto «nel paradiso» una speciale rivelazione. Mancano però elementi descrittivi a caratterizzare il paradiso promesso: nulla di preciso si dice nella parabola raccontata da Gesù (quella cosiddetta del ricco epulone), dove il malvagio condannato all’inferno è tormentato dalle fiamme e dalla sete, mentre il mendicante Lazzaro è trasportato in cielo dagli angeli e «consolato» (senza altre specificazioni) nel «seno di Abramo» (cioè nel luogo dove risiedono i giusti, secondo la tradizione giudaica).
Per colmare il silenzio delle Sacre Scritture, sono intervenute da una parte la riflessione teologica e dall’altra la fantasia popolare, con le visioni e i viaggi nell’aldilà (fra i quali il più famoso è quello cantato da Dante nella Divina Commedia).
I teologi, pur non rifiutando l’ubicazione celeste del paradiso, insistono piuttosto sul concetto di paradiso come stato, cioè come condizione di piena ed eterna beatitudine riservata in premio ai giusti dopo la morte e consistente nella visione di Dio «faccia a faccia». Dopo il giudizio finale e la resurrezione dei morti ogni anima si riunirà al proprio corpo glorificato; tutte insieme godranno per l’eternità la beatitudine del paradiso, in grado diverso a seconda dei meriti acquisiti nella vita terrena.
In molte antiche culture ha avuto grande fortuna il mito della cosiddetta età dell’oro – così la chiamavano i Greci –, un’epoca all’inizio della storia dell’umanità in cui la vita trascorreva felice, nell’abbondanza dei doni della natura, senza dolore e senza fatica. Anche la Bibbia afferma che Dio creò l’uomo perché vivesse alla sua presenza, in piena felicità e armonia con il resto della creazione, senza conoscere né morte né sofferenze di alcun genere; fu solo dopo il peccato originale che l’uomo fu privato di questi doni – detti appunto preternaturali, cioè superiori alla natura umana – e scacciato dal luogo meraviglioso in cui si trovava, che nella Genesi è chiamato semplicemente «giardino» (gan in ebraico).
Questo paradiso primordiale era collocato in Eden, una misteriosa regione a oriente della Palestina; perciò fu poi denominato paradiso terrestre per distinguerlo dal paradiso vero e proprio, che è quello escatologico e celeste. Dopo la cacciata di Adamo ed Eva, sempre nella Genesi si legge che il paradiso terrestre con l’albero della vita fu chiuso agli uomini e a sua custodia furono posti i cherubini armati di «spada fiammeggiante».
Secondo un’antica concezione il paradiso non è che il paradiso terrestre, riaperto dopo la resurrezione di Cristo e trasportato in cielo; nell’Apocalisse si parla dell’albero della vita «che sta nel paradiso di Dio» e nella «Gerusalemme celeste».
Il giardino celeste. Nella letteratura e nell’arte cristiane dei primi secoli si trovano due modi diversi, a volte fusi insieme, di rappresentare il paradiso: come giardino e come abitazione.
Nel primo caso la sede dei beati è collocata in un ambiente bucolico ricco di alberi, fiori e uccelli, in cui spesso si trova Cristo in figura di Buon Pastore: ne sono esempio le pitture catacombali – dove i beati sono raffigurati in atteggiamento orante, cioè mentre pregano con le mani levate al cielo – e le più antiche visioni dell’aldilà in lingua latina, come quelle contenute nella Passione di Perpetua e Felicita, dove i martiri vestiti di bianco sono accompagnati dagli angeli fino al trono di Dio. Inoltre, nell’iconografia sacra il giardino alberato serve da sfondo per ambientare le scene del paradiso terrestre: Adamo che dà il nome agli animali, il peccato originale con l’albero e il serpente, la cacciata di Adamo ed Eva.
La dimora celeste. Accanto alla rappresentazione del paradiso-giardino c’è quella del paradiso concepito come dimora celeste, la ‘casa’ di Dio in cui andranno ad abitare gli eletti; essa si ispira alla descrizione della Gerusalemme celeste, la città santa di cui parla il capitolo 21° dell’Apocalisse. Nell’immaginario popolare il paradiso è spesso raffigurato come un palazzo meraviglioso, costruito con materiali preziosi, risplendente di luce divina; qui risiedono i beati cantando nella gioia, allietati da suoni e profumi ineffabili.
La scena del Giudizio. Nelle rappresentazioni del Giudizio universale, come quella dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina, al paradiso è riservata la parte superiore, dove Cristo è raffigurato in veste di giudice circondato dagli eletti nella gloria celeste sopra le nuvole; al di sotto si trova l’inferno, con i diavoli e i dannati tra fiamme e tormenti.
Secondo Dante. Nella letteratura italiana, il vertice artistico della rappresentazione del paradiso è costituito dalla terza cantica della Divina Commedia, dove si fondono mirabilmente la fantasia del poeta e la dottrina del teologo. Sulla vetta della montagna dove ha sede il purgatorio Dante colloca «la divina foresta» del paradiso terrestre; sopra ci sono i nove cieli del paradiso, rappresentati come una serie di sfere concentriche che ruotano intorno alla Terra, in cui i beati si manifestano disposti secondo l’intensità della loro beatitudine; l’ultimo cielo, immobile e metafisico, è l’empireo, dimora della «candida rosa» formata da tutti gli angeli e i santi al cospetto della Trinità.