Michelangelo Buonarroti
Il gigante del Rinascimento
Genio incontrastato del Rinascimento, Michelangelo Buonarroti seppe rivoluzionare l’arte del proprio tempo dando un’interpretazione personalissima e libera da regole a pittura, scultura e architettura. Con la straordinaria energia del suo talento, creò modelli insuperabili negli affreschi della Cappella Sistina, nella Pietà, nel Mosè, capolavori di una personalità titanica, in grado di sconvolgere non solo il nostro modo di guardare all’arte, ma anche quello di considerare l’uomo e il mondo. L’uomo, infatti, nel suo rapporto difficile e drammatico con il mondo da un lato e con il divino dall’altro è al centro della poetica di Michelangelo, che fece della rappresentazione della figura umana in movimento il centro di tutti i propri studi e interessi
Michelangelo nacque nel 1475 a Caprese, vicino ad Arezzo, figlio del podestà Ludovico Buonarroti e di Francesca di Miniato, discendente della famiglia Rucellai. Nel 1487 entrò come apprendista nella più importante bottega fiorentina del tempo, diretta da Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio. Il poco tempo trascorso presso questa bottega, che l’artista abbandonò due anni dopo, fu tuttavia molto importante soprattutto per la sua formazione di pittore, quale si ricava dalle poche e dubbie opere rimasteci: la Madonna col Bambino, S. Giovannino e angeli (detta Madonna di Manchester) e il Seppellimento di Cristo.
Se la produzione pittorica giovanile dell’artista si esaurì a questi pochi esempi, quella scultorea appare fin dagli inizi ricca e articolata. Intorno al 1489 l’amico pittore Francesco Granacci introdusse l’artista presso il giardino di S. Marco, domicilio della collezione di antichità della famiglia Medici, che era una specie di accademia di scultura diretta da Bertoldo di Giovanni, allievo di Donatello.
Sembra che fu in questa scuola che Lorenzo il Magnifico notò per la prima volta Michelangelo rimanendo colpito dalla bravura del giovane nello scolpire una testa di Fauno, ispirata a un marmo antico. Grazie anche alle sue illustri origini familiari, l’artista venne introdotto presso la corte medicea dove ebbe modo di continuare la formazione a fianco di importanti letterati e filosofi quali Angelo Poliziano e Marsilio Ficino. L’esperienza del giardino di S. Marco lo mise a contatto diretto con la statuaria classica e con la filosofia neoplatonica (Rinascimento), che sarebbero state entrambe componenti essenziali per lo sviluppo di tutta la sua arte successiva.
Tra le prime prove scultoree, lo straordinario bassorilievo con la Battaglia dei centauri dei primi anni Novanta mostra una personale elaborazione del tema antico, rivelando nello studio anatomico e del movimento il principale interesse dell’artista; la Madonna della Scala, realizzata negli stessi anni, manifesta invece l’interesse per lo stile di Donatello.
Il periodo più felice della giovinezza di Michelangelo fu interrotto nel 1492 dalla morte di Lorenzo il Magnifico, in seguito alla quale egli abbandonò la corte medicea. Nel 1494, preoccupato per i violenti conflitti politici seguiti a questo evento, Michelangelo fuggì prima a Venezia e poi a Bologna, dove fu incaricato di completare l’Arca di S. Domenico, il grande sepolcro marmoreo collocato nella chiesa dedicata al santo e che era rimasto incompiuto. L’artista vi intervenne con tre statue (S. Petronio, S. Proclo e l’Angelo reggicandelabro) che si stagliano nette dal complesso ancora tardogotico dell’Arca, emergendo per energia, compattezza e movimento.
Tornato a Firenze intorno al 1496, Michelangelo eseguì per un mercante fiorentino un Cupido dormiente, nel quale veniva ancora una volta ripreso il confronto con la scultura antica. Il pezzo venne venduto come opera antica al potente cardinale Riario, residente a Roma, il quale, avvisato della truffa, rimase talmente ammirato da invitare l’autore della statua a trasferirsi presso di lui.
A Roma Michelangelo eseguì un’altra composizione ispirata all’antico, un Bacco ubriaco accompagnato da un ironico satiro, che fu collocato nel cortile della casa del banchiere fiorentino Jacopo Galli, amico dell’artista.
Al termine di questo primo soggiorno romano, nel 1498 il cardinale francese Jean de Bilhères incaricò Michelangelo di eseguire il gruppo marmoreo della Pietà per la propria tomba in S. Petronilla, la chiesa della nazione francese presso S. Pietro oggi non più esistente. La collocazione della statua in una nicchia richiedeva dimensioni ridotte: Michelangelo scelse con grande cura il marmoa Carrara e studiò bene le proporzioni, il panneggio, la composizione e le pose, fino a dare all’insieme un senso di profondità e grandiosità inaudito. La coppia di madre e figlio, quasi fusa in un nucleo di altissima tensione emotiva, si adagia su una roccia ruvida, al cui confronto risaltano i corpi e le vesti, lucidi fino alla luminosità. Per il carattere di perfetta armonia, grazia e bellezza, l’opera suscitò e suscita ancora universale ammirazione.
La Pietà consacrò la fama dell’artista che nel 1501 venne richiamato in patria dai rappresentanti della nuova Repubblica fiorentina, instauratasi dopo la cacciata dei Medici del 1494.
Tra i numerosi incarichi, il più celebre è senz’altro quello di eseguire la gigantesca statua di David (1501-04), in origine pensata per la cattedrale fiorentina. L’opera presentava una sfida alle capacità di Michelangelo in quanto era previsto che egli riutilizzasse un blocco di marmo in parte già usato dallo scultore Agostino di Duccio nel Quattrocento. Discostandosi dalla tradizione, Michelangelo scelse di rappresentare il momento precedente all’azione, quando David individua Golia alla sua sinistra e contrae i muscoli prima di passare al movimento. L’eroe biblico è raffigurato senza nessun attributo, a eccezione della fionda, in completa nudità. Le forme possenti e l’anatomia perfettamente studiata donano al giovane le fattezze di un dio greco, facendone un prototipo della bellezza maschile. Il risultato fu talmente entusiasmante che i Fiorentini decisero di collocare il David nella piazza della Signoria, quale campione nella lotta alla tirannia e guardiano della Repubblica fiorentina.
In questi anni Michelangelo dimostra di essere giunto a piena maturità anche in pittura con il Tondo Doni, il dipinto di forma circolare raffigurante la Sacra Famiglia eseguito per il mercante Agnolo Doni. Anche in questo caso l’artista si riallaccia alla tradizione figurativa fiorentina ma inserendo rivoluzionarie novità di forme e contenuti. Il gruppo della Madonna, s. Giuseppe e il Bambino è reso come un gruppo scultoreo al quale la torsione della Madonna e il movimento del Bambino imprimono una rotazione. I misteriosi nudi maschili sullo sfondo e i colori accesi e cangianti preannunciano alcuni risultati poi raggiunti nella Cappella Sistina.
Dopo essere stato eletto papa, Giulio II chiamò nel 1505 l’ormai celebre Michelangelo a Roma con l’incarico di eseguire la propria tomba in S. Pietro. I lavori per quella che fu definita dai biografi «la tragedia della tomba» andarono avanti per decenni, occupando a più riprese l’artista nel corso di quasi tutta la vita e procurandogli grandissimi dispiaceri.
Il primo progetto prevedeva un monumento all’antica di grandi dimensioni, suddiviso in tre livelli e decorato con ben 40 statue; in cima doveva essere collocato il sarcofago del papa mentre lungo i fianchi del primo piano dovevano essere disposte le celebri statue dei Prigioni. Nel frattempo il papa perse interesse per il programma e l’artista fu momentaneamente distolto dall’incarico a favore della nuova impresa della Cappella Sistina.
La tomba venne ripresa nel 1513, dopo la morte di Giulio II, con un secondo progetto di forme ridotte che prevedeva 22 statue, ma i lavori andarono a rilento a causa non solo dei numerosi impegni dell’artista ma anche della sua mancanza di entusiasmo per l’opera così combattuta.
Il terzo progetto definitivo, completato nel 1547, non aveva più nulla dell’originale maestosità pensata da Michelangelo e risultava il frutto di un doloroso ripiego. La collocazione del monumento fu spostata nella chiesa di S. Pietro in Vincoli; non più monumento libero sui quattro lati, la tomba divenne un’architettura a parete, decorata con sole 6 sculture, tra le quali la celebre statua del Mosè.
Nel maggio del 1508 iniziavano nel frattempo i lavori della volta della Cappella Sistina in Vaticano, avviati dall’artista nell’incertezza di riuscire in un’impresa pittorica tanto impegnativa.
In quattro anni Michelangelo dipinse, prima con l’aiuto di collaboratori e poi, dal 1509, completamente solo, una grandiosa composizione costituita da una finta architettura entro la quale sono disposti gli antenati di Cristo, i Profeti, le Sibille e i Nudi. Delimitati da fasce trasversali, i nove riquadri centrali della volta racchiudono altrettante storie della Genesi: la separazione della luce dalle tenebre, la creazione degli astri e delle piante, la separazione della Terra dalle acque, la creazione di Adamo, la creazione di Eva, il peccato originale, il sacrificio di Noè, il diluvio universale e l’ebbrezza di Noè.
L’intero complesso si ricollega alle figurazioni delle pareti affrescate più di vent’anni prima da Botticelli, Perugino e altri pittori con storie del Vecchio e del Nuovo Testamento. Stilisticamente, invece, le scene di Michelangelo non trovano precedenti e nella loro eroica imponenza, tutta basata sulla rappresentazione della figura umana, come nei loro colori violenti e innaturali rompono la serena armonia delle pitture rinascimentali delle pareti e introducono il tema di un drammatico conflitto che troverà le note più alte nel successivo Giudizio universale.
Alla morte di Giulio II, nel 1513 viene eletto come successore Leone X de’ Medici; il papa in un primo tempo pensa di affidare a Michelangelo il progetto della facciata della chiesa di S. Lorenzo a Firenze.
Nel 1520, abbandonata l’idea, all’artista viene affidato il compito di eseguire per la stessa chiesa la Sagrestia Nuova, destinata ad accogliere i sepolcri di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, e di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, chiamati i due Capitani. Invece di ideare uno spazio in cui poi collocare i due monumenti funebri, Michelangelo creò un insieme inscindibile di architettura e scultura rinnovando profondamente la tradizione delle cappelle nobiliari rinascimentali. Le due pareti su cui sono collocati i monumenti possiedono un’architettura ambigua che le rende più simili a due facciate esterne; all’interno delle due nicchie centrali siedono le statue dei due Capitani, ritratti come due imperatori antichi. Al di sotto i due sarcofagi non sono accompagnati come di solito dai ritratti dei defunti giacenti ma da quattro possenti nudi: le personificazioni del Giorno, della Notte, del Crepuscolo e dell’Aurora.
Il progetto della cappella, rimasto incompiuto, prevedeva anche quattro statue di fiumi e, ai lati di Giuliano, una figura della Terra piangente per la morte del duca e una del Cielo ridente per il suo arrivo, mentre non sappiamo cosa fosse previsto ai fianchi di Lorenzo. La personalissima interpretazione data da Michelangelo delle due tombe ha spinto gli studiosi a indagare sul significato delle figure a partire dalle due statue dei Capitani, raffigurati in atteggiamento maestoso di comando l’uno (Giuliano) e in posa riflessiva e malinconica l’altro (Lorenzo). Secondo l’interpretazione più diffusa l’intera cappella sarebbe stata ideata da Michelangelo basandosi sui principi della filosofia neoplatonica, una dottrina molto diffusa a Firenze nel Rinascimento che considerava l’uomo come l’unione di materia e spirito e come riflesso dell’intero sistema dell’Universo.
Nel 1533 il papa Clemente VII decise di modificare l’assetto della Cappella Sistina e incaricò il Buonarroti di affrescare l’intera parete dietro all’altare con un’immagine del Giudizio universale. Il papa morì poco dopo e i lavori ebbero inizio sotto il suo successore Paolo III. Fu un avvio molto contrastato poiché Michelangelo, rifiutandosi di eseguire l’affresco a olio come era stato consigliato dal suo collega Sebastiano del Piombo, temporeggiò.
Finalmente nel 1536 furono allestiti i ponteggi e in cinque anni l’intera parete venne decorata a buon fresco. L’imponente visione del Giudizio finale, quale si presentò agli occhi degli osservatori, dovette essere di impatto travolgente. Michelangelo aveva liberamente interpretato il cruciale evento facendo ricorso alla sua abituale straordinaria capacità inventiva e innovativa. Riducendo al minimo gli attributi tradizionalmente assegnati ai santi, a Cristo e alla Vergine, l’artista aveva risolto la narrazione del giorno del Giudizio in un’unica manifestazione apocalittica, rappresentando la dannazione dei peccatori e la salvazione dei beati in un vero e proprio gorgo di energia messo in moto dal gesto potente e terribile del Cristo, ritratto come fosse un dio greco. L’energia quasi magnetica del divino innalza i corpi dei salvati sulla sinistra e trascina in basso, verso la barca infernale del mostruoso Caronte, i dannati sulla destra. In alto gli angeli sorreggono gli strumenti della Passione avvinghiandosi a essi come atleti.
Con il Giudizio Michelangelo aveva trovato forme efficacissime per esprimere la propria spiritualità profondissima e personale, ma proprio su questo aspetto del suo capolavoro giunsero ben presto critiche feroci e, infine, vere e proprie censure. Dal momento dell’inizio dei lavori infatti, i tempi erano profondamente mutati, la crisi protestante si era acutizzata sollecitando una reazione della Chiesa che non tardò a manifestarsi con il Concilio di Trento (1545). Le posizioni molto severe assunte allora dalla Chiesa anche a riguardo delle immagini si concentrarono proprio sul Giudizio di Michelangelo che cominciò a essere ritenuto poco conveniente perché non pienamente rispettoso delle Sacre Scritture, e scandaloso per la presenza di tutti quei corpi nudi all’interno di una cappella.
A seguito di furiose polemiche, nelle quali si era giunti a chiedere la distruzione dell’affresco, fu deciso di intervenire con ritocchi per coprire le nudità e alcune pose considerate indecenti; l’incarico venne dato nel 1564 al pittore Daniele da Volterra, un allievo del Buonarroti da allora soprannominato il Braghettone. Michelangelo non fece in tempo a soffrire per l’offesa arrecata ai suoi dipinti, perché morì poco prima, il 18 febbraio del 1564.
Se si eccettuano i due affreschi della Cappella Paolina in Vaticano, raffiguranti la Crocifissione di s. Pietro e la Conversione di s. Paolo, conclusiva testimonianza del percorso pittorico dell’artista, l’ultima parte della vita di Michelangelo fu in gran parte dedicata all’architettura.
Paolo III affidò numerosi incarichi al Buonarroti, tra i quali i più importanti furono il completamento del Palazzo Farnese, la sistemazione della piazza del Campidoglio e la cupola di S. Pietro. Per il Campidoglio Michelangelo ideò una sistemazione degli edifici laterali sbieca con al centro un disegno ovale. L’insieme venne decorato con simboliche statue antiche – tra le quali il celebre Marco Aurelio – e risultò di grandissimo effetto scenografico.
La cupola di S. Pietro risolse brillantemente il problema dell’unità del complesso della basilica, che era stato compromesso dai numerosi interventi effettuati dai vari architetti. Inventando una cupola leggera e slanciata, l’artista riequilibrò in altezza lo sviluppo della pianta in avanti; in questo modo la cupola diveniva il fulcro di tutto il complesso della basilica, producendo un equilibrio architettonico che, purtroppo, i successivi interventi seicenteschi avrebbero modificato.
Tra le opere degli ultimi anni un posto particolare occupano la Pietà del Museo del Duomo di Firenze e la Pietà Rondanini, compiuta nel 1559, vero e proprio testamento dell’artista. I due gruppi scultorei, lasciati non finiti, sono immagini di straordinaria forza emotiva di quel rapporto strettissimo tra arte, religiosità e vita che Michelangelo aveva saputo rendere nei suoi capolavori con una potenza senza eguali, un’identificazione sofferta che costituisce l’essenza della poetica degli ultimi anni dell’artista.