Pellegrino Rossi
Nelle sue memorie Albert de Broglie (1821-1901), diplomatico, presidente del Consiglio e liberale francese, dice di aver avuto la fortuna, nella sua carriera, di osservare da vicino uomini eminenti come François-Pierre-Guillaume Guizot, Marie-Joseph-Louis-Adolphe Thiers, Charles de Montalembert, Frédéric-Alfred-Pierre de Falloux, e, al di fuori del suo Paese, William Ewart Gladstone e Benjamin Disraëli. Eppure, senza far torto a questi nomi illustri, nota come Pellegrino Rossi sia stato il solo ad avergli lasciato l’impressione di ciò che poteva essere un grande uomo, ovvero la perfetta combinazione di intelligenza e di volontà. Per tre volte Rossi ha infatti dovuto costruire il suo destino «partendo dal gradino più basso per arrivare alla sommità» (J.V.A. de Broglie, Mémoires du duc de Broglie, 1° vol., 1938, p. 118).
Pellegrino Luigi Edoardo Rossi nasce a Carrara, nei Ducati estensi, il 3 luglio 1787. Nel 1820 lo ritroviamo cittadino del cantone di Ginevra, nel 1834 diventa suddito francese, il 15 novembre 1848 viene assassinato a Roma mentre ricopre la carica di ministro del governo costituzionale del papa. Dentro queste coordinate europee si snodano le ῾vite᾿ di un italiano che ha saputo essere uno studioso polivalente e poligrafo, giurista di vaglia, economista, uomo politico, parlamentare e ministro, diplomatico.
Proveniente da una famiglia di proprietari terrieri, studia dapprima al Collegio civico di Correggio, intraprende successivamente gli studi giuridici a Pisa (1803-04) e si laurea a Bologna (1806) dove, dal 1811, esercita l’avvocatura con ottimi risultati. Insegna istituzioni civili presso il liceo S. Lucia, poi tra il 1814 e l’aprile 1815 è professore di procedura civile e diritto e procedura penale nell’Alma Mater. Il 3 aprile 1815 viene nominato dal re di Napoli Gioacchino Murat commissario generale civile per il Dipartimento del Reno, Rubicone, Basso Po e Pineta.
L’esito sfortunato della campagna murattiana spingerà Rossi prima a Napoli e poi verso la Francia meridionale e, infine, a Ginevra. La scelta di stabilirsi nella città-Stato non è casuale, poiché il giovane avvocato aveva già stretto relazioni con alcune famiglie ginevrine, dopo una visita compiuta nel 1813. Nel luglio del 1815 diffonde a Ginevra un’Autodifesa nella quale ricostruisce le fasi del suo coinvolgimento nell’impresa dell’ex generale napoleonico, volendo mostrare la sua assoluta buona fede e il carattere moderato delle sue idee politiche (Autodifesa. Risposta alle imputazioni diffuse contro di lui dopo la fuga da Bologna, scritta a Genthod in data del 14 luglio 1815, Ginevra, Bibliothèque Publique Universitaire, Gh 977 Réserve).
A Ginevra Rossi non tarda a farsi apprezzare per il suo talento. Primo professore cattolico nell’Accademia di Calvino (1819), nel 1820 diventa citoyen e sposa Jeanne-Charlotte Melly. I suoi corsi universitari suscitano ammirazione e della sua oratoria efficace e lucida potrà ben presto dare saggio come deputato nel Consiglio rappresentativo della città. Diventa così una figura di primo piano della cultura giuridica e politica ginevrina. Inviato, come deputato del cantone di Ginevra, alla Dieta federale del 1832 e del 1833, è autore del Rapporto sul progetto di Atto federale del dicembre 1832. Incaricato di una missione diplomatica a Parigi, lascia infine Ginevra e la Svizzera nel 1833 per andare a risiedere nella capitale francese dove, nel frattempo, è stato chiamato al Collège de France per ricoprire la cattedra di economia politica.
Sin dal periodo ginevrino Rossi ha modo di frequentare i 'dottrinari' francesi, da Guizot (1787-1874) a Victor de Broglie (1785-1870): il suo arrivo in Francia è legato essenzialmente al loro progetto 'politico'. Altri onori seguiranno: primo titolare della cattedra di diritto costituzionale alla Sorbona (1834), membro dell'Institut (1836, succede a un grande 'sopravvissuto', Emmanuel-Joseph Sieyès), naturalizzato nel 1838, conte e pari di Francia (1839), consulente diplomatico, infine ambasciatore a Roma presso la Santa Sede (1845-1848). Dopo la Rivoluzione del 1848, destituito dal nuovo governo, ritorna ῾italiano᾿, suddito di Pio IX. Eletto deputato a Carrara, rifiuta il seggio per diventare nello Stato pontificio, dal 15 settembre, ministro dell’Interno con l’interim alle Finanze nel governo presieduto dal cardinale Giovanni Soglia. Rossi viene assassinato a Roma il 15 novembre 1848, mentre si accinge ad aprire la sessione parlamentare.
Nei primi anni Venti comincia a emergere il Rossi giurista, specialmente attento alle questioni metodologiche che animavano in quel frangente la scienza giuridica europea. Quattro profili vanno subito esplicitati. Il primo è che il giurista avrà sempre come naturale terreno di elezione la frontiera politica-diritto, il punto di intersezione tra il giureconsulto espertissimo e brillante e il savant de la politique posto di fronte al governo della società. Il secondo è la costante fedeltà del giurista alla dottrina del liberalismo moderato e realista. Il terzo è che quasi tutte le opere giuridiche di Rossi nascono dall’insegnamento, dalla cattedra: così per i saggi metodologici dei primi anni Venti, per il corso di diritto penale, successivamente per quelli di economia politica e di diritto costituzionale. Il quarto profilo è che sa cogliere molto bene lo Zeitgeist, sa interpretare il 'momento'.
Lo dimostra fondando, con Simonde de Sismondi (1773-1842), Étienne Dumont (1759-1829), e l’avvocato Louis Meynier, le «Annales de législation et de jurisprudence». Rivista dalla vita breve (terminerà nel 1823) ma davvero europea. Le «Annales» diedero grande rilievo alla Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter di Friedrich Carl von Savigny, ma non mancarono commenti ai Traités de législation civile et pénale di Jeremy Bentham o interventi di Dumont e di Sismondi.
Nei densissimi saggi su L’étude du droit e Sur les principes dirigeans, Rossi presenta e sviluppa quella che può essere considerata la più organica e lucida teoria del canone eclettico, alla ricerca di una difficile conciliazione tra lo storicismo romantico, la scuola filosofica o analitica e il pensiero liberal-moderato. La domanda è: quale metodo per fondare una vera giurisprudenza nazionale? La codification del legislatore postilluminista o una scienza fondata su una lingua del diritto, ricca, esatta, popolare? Rossi esclude ogni prospettiva giusnaturalistica che pretenda di 'separare' l’uomo dalla società. La risposta è legata alla divisa della rivista: «Nous cultivons la science; nous ne servons aucun parti».
Occorre allora un metodo scientifico, razionale ma composito. Prese a sé stanti le singole scuole non vanno esenti da limiti ed eccessi, combinate assieme potranno invece offrire le risposte che servono. Il giurista italiano cerca di mostrare come sia possibile utilizzare al meglio, specie nell’insegnamento, la storia (non necessariamente nel senso della scuola storica ma à la manière de Montesquieu), il metodo esegetico combinato a quello dogmatico, l’analisi più che la sintesi, lo studio storico-dogmatico per cogliere i principi sino alle ultime radici e per comprendere le istituzioni e le leggi esistenti. Questi scritti sono collegati, come detto, ai primi corsi liberi che Rossi tiene nell’Accademia ginevrina dal 1819. Sono il diritto e la storia delle istituzioni di Roma a suscitare il suo interesse. È attraverso i corsi che Rossi fa conoscere meglio Savigny e Barthold Georg Niebuhr. E questa sua riflessione è destinata a trovare ascolto in Italia (Lacchè 2001, pp. 61-77; Lacchè 2010, pp. 153-228), in Germania (a cominciare dallo stesso Savigny), in Francia presso i 'dottrinari'. In una lunga e preziosa lettera indirizzata a Savigny (Marburg, Universitätsbibliothek, Nachlaß Savigny, Ms. 925/1519, 27 sett. 1828), Rossi ci fornisce molte informazioni utili, a cominciare dalla sua intenzione di scrivere una storia del diritto romano.
A questa idea non darà seguito, mentre sarà il suo Traité de droit pénal a conquistargli una fama europea. Ancora una volta è da notare il legame con la cattedra. Basta seguire i corsi universitari per cogliere l’evoluzione del suo pensiero, le linee di politica criminale, le proposte e le soluzioni tecniche. Dal 1819 al 1832 si succedono gli insegnamenti di diritto, legislazione penale e istruzione criminale. A Ginevra, professeur de droit romain, Rossi aveva avuto la possibilità di proseguire e perfezionare gli studi in un ambiente particolarmente favorevole. Se Rossi è, a ben vedere, il penalista di un solo libro, è anche vero che si tratta di un libro tra i più letti e meditati della penalistica ottocentesca, quale che sia il giudizio datone.
Che cosa ne fa, dunque, un point de repère? Sono molti i profili da considerare. Anzitutto la dimensione 'civile' del penale (M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Storia del diritto penale e della giustizia, 1° vol., 2009, pp. 495 e segg.) utile a fondare una teoria del governo. Questo 'tipo' di penalista ha una formazione complessa e sviluppa una scienza giuridica integrata capace di cogliere i rapporti tra le istituzioni politiche, il sistema punitivo e la società. Nella prefazione al Trattato, Rossi ricorda come nel mezzo dell’Europa più civilizzata esistono Stati che applicano ancora la tortura e difendono a spada tratta la procedura segreta. Bisogna allora estendere il grado di civilisation di cui, benché ancora insufficiente, si deve comunque essere fieri.
L’intento dell’autore è di porre i ῾prolegomeni᾿ di un’opera che dovrà poi essere ulteriormente sviluppata. Rossi riprende un tema strategico, ovvero la necessità di partire dai principi (generali, fondamentali, dirigenti) da cui far derivare le leggi e la giustizia criminale. In un secondo tempo sarà possibile coglierne il dato applicativo, dai delitti speciali all’organizzazione giudiziaria alla procedura.
La dimensione teoretica può suscitare diffidenza, ma non si possono ignorare i principi generali se si vuole costruire una scienza. Il Trattato presenta una struttura sobria, netta: dopo l’introduzione sul sistema penale, il primo libro ne analizza le basi, ovvero il diritto di punire, il secondo tratta del delitto, il terzo il problema della pena in generale, il quarto e ultimo la legge penale. Rossi rimane fedele all’impostazione ῾eclettica᾿ che aveva esposto nei primi anni Venti. Ritroviamo la sua vocazione naturale alla mediazione scientifica, in grado di considerare, discutere e ῾personalizzare᾿ un fronte variegato di proposte: il progetto beccariano, l’utilitarismo benthamiano, la filosofia kantiana, lo storicismo savignyano. Rossi non può non subire la ῾pressione᾿ della scuola di Bentham così ben rappresentata nella Ginevra dei liberali anglofili. Non può non sentirsi la presenza culturale e politica di Dumont traduttore e massimo divulgatore di Bentham in Europa.
L’opera di Rossi non ha un carattere ῾nazionale᾿, non consiste in un commento esegetico a un qualche codice o a una determinata legislazione. Il suo piano sta a un livello ῾superiore᾿, ma egli è tutto meno che un teorico avulso dai contesti, a cominciare da quello ginevrino. E qui Dumont è il ῾legislatore᾿ penale par excellence, a lui si devono i progetti degli anni Venti per riformare l’architettura del sistema penale. Proprio negli anni in cui scrive il Traité, Rossi entra a far parte della Commissione che, di fatto, dal 1817, stava portando avanti il lavoro riformatore sulla base degli input di Dumont. Rossi dunque è parte integrante di questo processo riformatore che negli anni Trenta e Quaranta raggiungerà risultati significativi.
Egli fonda quindi un'articolata politica criminale intesa come scienza e come arte volta a incivilire il penale e con esso la società. La codificazione del ῾tutto᾿ è rischiosa, è sinonimo di rigidità, ed è pertanto preferibile la via delle leggi parziali, successive e integrate. La sua idea dei principi lascia al giudice uno spazio che gli illuministi e i rivoluzionari avevano inteso ridurre fortemente. Il legislatore, a sua volta, deve essere guidato dalle scienze ausiliarie, dalla storia, dalle statistiche giudiziarie.
Il Traité era nato anche dal rapporto di Rossi con i dottrinari. La dedica all’amico Victor de Broglie lo testimonia. Tra gli editori francesi troviamo quel Mesnier che pubblicava la Revue française di Guizot. Ed è Charles de Remusat a recensire sulla stessa rivista (novembre 1829, pp. 119-35) il Trattato ricollegandolo alla filosofia ῾spiritualista᾿. «Nous le regardons comme le livre le plus original et le plus vrai qui nous soit connu sur la matière». Ma ciò che i dottrinari apprezzano viene invece discusso in negativo da altri. Si pensi alle dure critiche coeve di un criminalista illustre come Giovanni Carmignani (1768-1847) o del giovane e ῾sfrontato᾿ Francesco Forti che, nell’Antologia del Vieusseux (aprile 1830, 37° vol., pp. 25-59, 38° vol., pp. 4-19), respingeva, in nome della «verità delle cose», sia l’idea, cara a Rossi, di un penale ῾politico᾿, sia la dimensione ῾spiritualista᾿ che rinviava al «senso comune» e alla «coscienza del genere umano», confondendo morale e giustizia.
Quando nel 1833 Rossi lascia Ginevra per Parigi si porta dietro il ῾fallimento᾿ del cosiddetto Patto Rossi, ovvero del progetto di riforma ῾federale᾿ della Confederazione elvetica intrapresa nel 1832. In quel frangente Rossi si conquista una forte visibilità, tanto da far associare il suo nome al progetto di Atto federale. In virtù di questa esperienza nel 1833 viene inviato a Parigi dal governo confederale al fine di negoziare il ritorno in Francia di un gruppo di esuli polacchi che avevano ῾invaso᾿ il cantone di Berna. Rossi si trova a discuterne con un vecchio amico, il duca Victor de Broglie divenuto ministro degli esteri di Luigi Filippo. Ora i dottrinari sono al potere e l’antico sodalizio si rinsalda. Giunge così l’offerta di candidarsi al Collège de France sulla cattedra di economia politica resa vacante dalla morte di Jean-Baptiste Say.
Rossi ha lasciato la Svizzera inseguito da un carico di illazioni e di critiche, le stesse che lo accolgono in Francia, tanto è rapida la sua ascesa. Ciò che cambia è il contesto, dalle repubbliche alla grande monarchia. Rossi non si troverà però a fare cose nuove e diverse rispetto agli anni passati in Svizzera, sono invece le coordinate e i paradigmi concettuali che mutano. Nel 1834 Guizot, ministro dell’Istruzione, gli affida la cattedra di diritto costituzionale istituita, per la prima volta, alla Sorbona. Questa cattedra nasceva in un clima ῾militante᾿. Si legge nel Rapport au Roi di Guizot:
L'oggetto e la forma dell'insegnamento del diritto costituzionale sono determinati dal suo stesso titolo; è l'esposizione della Carta e delle garanzie individuali così come delle istituzioni politiche che essa consacra [...] Un tale insegnamento, al contempo vasto e puntuale, fondato sul diritto pubblico nazionale e sulla lezione della storia, suscettibile di ampliarsi per mezzo di comparazioni e di analogie straniere, deve sostituire agli errori dell'ignoranza e alla temerarietà delle nozioni superficiali conoscenze forti e positive (Rapport au Roi sul la création d'une chaire de droit constitutionnel, 22 agosto 1834).
Ancora una volta le opere di Rossi sono strettamente legate alla cattedra. Ciò vale tanto per il Cours d’économie politique che per il Cours de droit constitutionnel. Rossi, già durante gli anni Venti, aveva affrontanto il problema del metodo e della funzione del diritto pubblico, con specifico riferimento al dato costituzionale. D’altra parte, non bisogna neppure dimenticare che il ῾diritto costituzionale᾿ nei primi anni Trenta dell’Ottocento compie i suoi primi passi; si tenta di ricollocare i principi ῾forti᾿ del diritto pubblico postrivoluzionario nell’alveo della cultura e della prassi del liberalismo politico.
Rossi non solo è il primo a insegnare nella capitale francese il diritto costituzionale, ma è soprattutto tra i primi a dover elaborare e sistemare un insieme eterogeneo di materiali, di fonti, di principi. Storia, filosofia, diritto positivo e pensiero politico si intrecciano fra di loro, non sempre integrandosi armonicamente, ma rivelando tuttavia ancora una volta la particolare accentuazione politica e sociale che l’autore assegna a un diritto in via di consolidamento e concepito lato sensu come ambito istituzionale del diritto pubblico interno diretto a regolare l’organizzazione complessiva dello Stato e delle sue articolazioni.
Rossi aveva la possibilità – come del resto Guizot suggeriva – di ricomporre quel grande insieme di dottrine, di prassi e di tradizioni costituzionali (a cominciare da quella più o meno mitologica legata allo speciale esperimento britannico) che, ῾reificate᾿ dopo il 1814, potevano riconoscersi nella Charte e nelle sue istituzioni politiche di ispirazione liberale. Non ha torto Émile Boutmy quando dice che per lungo tempo «il libro di Rossi è all’incirca la sola opera di diritto costituzionale che abbia il carattere di un traité» (Etudes de droit constitutionnel. France, Angleterre, Etats-Unis, Paris 1885, p. 85). Nel corso rossiano sembra possibile leggere almeno due ῾livelli᾿: l’uno programmatico ed enfatizzato, di evidente matrice orleanista, e forse meno originale; l’altro più ῾nascosto᾿ e più autonomo rispetto all’architettura politico-ideologica della trattazione.
D’altra parte, è sufficiente andare oltre lo schermo ῾dottrinario᾿ che definisce i confini del corso, per ritrovare un’autonomia e una nettezza di giudizio cui l’ipoteca ideologica non fa certo velo. Le lezioni che delineano l’organizzazione del potere politico, nel quadro di una monarchia rappresentativa, non si limitano certo a un mero tratteggio esegetico della Charte: le pagine sulle prerogative dei deputati, sul bicameralismo, sugli istituti parlamentari, sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura rivelano giudizi e idee che si collegano alle più importanti tradizioni del liberalismo politico. I diversi profili storici e comparativi, con continui riferimenti all’Inghilterra, agli Stati Uniti e alla Svizzera, rivelano una rara capacità di costruzione razionale e un vasto respiro culturale. Metodo storico e metodo razionale-sistematico si completano e si integrano a vicenda per ricercare, alla fine, il senso complessivo di un’esperienza: «Saisir les principes, leur portée et leurs points d’intersection avec exactitude, c’est là le secret, c’est la science en toutes choses» (P. Rossi, Cours de droit constitutionnel, 2° vol., 1867, p. 7).
Lo Stato è per Rossi «une loi naturelle de l’humanité», mezzo essenziale di sviluppo e di perfezionamento. Il «liberalisme par l’État» è punto essenziale della concezione rossiana che è fondamentalmente anticontrattualista e anti-individualista. Lo Stato ha una funzione dinamica, concettualmente ῾forte᾿: non ridistribuisce arbitrariamente, ma apre «une large carrière d’activité à l’homme», protegge i suoi sforzi, senza per questo escludere la possibilità di interventi ῾promozionali᾿ dove l’eguaglianza civile è animata dal sentimento di fraternità (Cours de droit constitutionnel, 1° vol., 1866, p. 256).
Prendendo in considerazione la teoria del potere neutro di Benjamin Constant, Rossi rivela la piena consapevolezza del ruolo complesso e fondamentale della corona nella logica della monarchia costituzionale. Il potere regio, garante dell’intersezione tra eguaglianza civile e unità nazionale, non essendo estraneo ad alcuno dei tre poteri dello Stato è lo strumento indispensabile per dare equilibrio e unità al sistema politico. Rossi mostra qui di aver ben compreso la lezione di Constant sull’equilibrio dei poteri, ovvero sul problema teorico e pratico più importante nella riflessione costituzionalistica lungo tutto l’Ottocento. I poteri, indipendenti, distinti, non vivono né agiscono isolatamente, ma sono tenuti insieme dal monarca che modera e conserva, garantendo un’azione e un controllo reciproco.
Non va dimenticato che il corso costituzionale di Rossi raccoglie 105 lezioni stenografate da un allievo, un’opera quindi che l’autore non ha potuto revisionare. È però un’opera influente che contribuì a consolidare la cultura costituzionale di stampo liberale, al di là dei profili esegetici e della dimensione contingente (la Charte del 1830 e la monarchia orleanista).
Nel 1836 Rossi presentò all’Accademia delle scienze morali e politiche una memoria nella quale mostrava, come sempre, l’innata capacità di leggere il ῾momento᾿, in questo caso il problema dell’invecchiamento del code civil napoleonico rispetto a un ῾diritto dell’economia᾿ che si era sviluppato al di fuori del ῾monumento᾿ legislativo. Bisognava ora, attraverso la legislazione speciale, ristabilire l’armonia tra il diritto civile del codice e la dimensione economica della ricchezza mobiliare (Lacchè 1995, pp. 282-89).
Nel 1838 il giovane Cavour, frequentatore della capitale francese, aveva visto in Rossi un grande italiano che avrebbe potuto giocare un ruolo immenso nei destini del suo Paese natale. Invece, «L’homme le plus spirituel de l’Italie, le génie le plus flexible de l’époque, l’esprit le plus pratique de l’univers, peut-être» (Lettere edite e inedite di Camillo Cavour, raccolte e illustrate da L. Chiala, 1° vol., 1883, p. 14) aveva privilegiato le proprie ambizioni. Quel ruolo appartenne, come sappiamo, a Cavour e non a Rossi. Il giurista italiano salì con coraggio le scale del Palazzo della Cancelleria apostolica andando incontro alla morte per mano dei radicali romani, nell’impresa disperata di ῾costituzionalizzare᾿ lo Stato del papa-re.
Tavole della scienza criminale fatica di un licenziato in legge nell'Università di Bologna, Macerata 1816.
L’étude du droit dans ses rapports avec la civilisation et l’état actuel de cette science, «Annales de législation et de jurisprudence», 1820, 1, pp. 1-69, 357-428.
Sur les principes dirigeans, «Annales de législation et de jurisprudence», 1821, 2, pp. 170-93.
Traité de droit penal, Paris 1829.
Mélanges d’économie politique, de politique, d’histoire et de philosophie, Paris 1857.
Cours de droit constitutionnel professé à la Faculté de droit de Paris, recueilli par M.A. Porée, précédé d’une introduction par M.C. Boncompagni, Paris 1866-1867.
Lettere di un dilettante di politica sulla Germania, la Francia e l’Italia, in C.A. Biggini, Il pensiero politico di Pellegrino Rossi di fronte ai problemi del Risorgimento italiano, Roma 1937.
Per la Patria comune. Rapporto della Commissione della Dieta ai ventidue Cantoni sul progetto d’Atto federale da essa deliberato a Lucerna il 15 dicembre 1832, a cura e con introduzione di L. Lacchè, Manduria-Bari 1997.
Cours d’histoire suisse (1831-1832), éd. A. Dufour, Bâle-Genève-Munich 2000.
Des libertés et des peines, Actes du Colloque Pellegrino Rossi, Genève 1979, Genève 1980.
A. Dufour, Histoire et constitution. Pellegrino Rossi et Alexis de Tocqueville face aux institutions politiques de la Suisse, in Présence et actualité de la constitution dans l'ordre juridique, Bâle-Francfort-sur-le-Main 1991, pp. 431-75.
A. Dufour, Un ῾mémoire inofficiel᾿ peu connu de Pellegrino Rossi sur la situation politique intérieure de la Suisse au début de la régénération, in Festscrhift für Claudio Soliva zum 65. Geburstag, hrsg. C. Schott, E. Petrig Schuler, Zürich 1994, pp. 81-107.
L. Lacchè, L’espropriazione per pubblica utilità. Amministratori e proprietari nella Francia dell’Ottocento, Milano 1995.
A. Dufour, Hommage à Pellegrino Rossi (1787-1848). Genevois et Suisse à vocation européenne, Bâle 1998.
L. Lacchè, ῾All’antica sua patria᾿. Pellegrino Rossi e Simonde de Sismondi: relazioni intellettuali fra Ginevra e la Toscana, in Sismondi e la civiltà toscana, a cura di F. Sofia, Firenze 2001, pp. 51-91.
Un liberale europeo: Pellegrino Rossi (1787-1848), a cura di L. Lacchè, Milano 2001 (in partic. L. Lacchè, Tra politica e diritto, ovvero Rossi e la Monarchia di Luglio, pp. 70-108).
A. Dufour, Genève et la science juridique européenne du début du XIXème siècle: la fonction médiatrice des Annales de Législation (1820-1823), in Wechselseitige Beeinflussungen und Rezeptionen von Recht und Philosophie in Deutschland und Frankreich/Influences et réceptions mutuelles du droit et de la philosophie en France et en Allemagne, hrsg. J.F. Kervégan, H. Mohnhaupt, Frankfurt a.M. 2001, pp. 287-331.
A. Dufour, Droits de l'homme, droit naturel et droit public dans la pensée de Pellegrino Rossi, in Aux confins du droit. Essais en l'honneur du Professeur Charles-Albert Morand, éd A. Auer, J.-D. Delley, M. Hottelier, G. Malinverni, Bâle-Genève-Munich 2001, pp. 193-206.
L. Lacchè, La libertà che guida il popolo. Le tre Gloriose giornate del luglio 1830 e le “Chartes” nel costituzionalismo francese, Bologna 2002.
E. Gilardeau, Une affiliation européenne à l’Ecole doctrinaire: Le Svod et les Annales genevoises, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2003, 32, pp. 291-351.
L. Lacchè, Il canone eclettico. Alla ricerca di uno strato profondo della cultura giuridica italiana dell’Ottocento, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2010, 39, pp. 153-228.