Pellegrino Rossi
La fama di Pellegrino Rossi è legata soprattutto alla sua attività politica e ai suoi studi giuridici. Tuttavia egli fu anche un economista, considerato dai suoi contemporanei tra i maggiori studiosi della disciplina, anche se il suo pensiero economico è oggi generalmente trascurato.
Pur se le tappe principali della sua carriera politica e intellettuale si svolsero fuori dall’Italia, i legami di questo personaggio di statura europea con il Paese di origine rimasero forti. Dal punto di vista del pensiero economico, Rossi risentì dell’influenza degli economisti italiani a lui precedenti, come è stato notato nel più completo studio finora pubblicato sul tema, quello di László Ledermann (Pellegrino Rossi. L’homme et l’économiste, 1787-1848, 1929).
Rossi nacque a Carrara (allora nel ducato di Modena, Reggio, Massa e Carrara) il 3 luglio 1787. Iniziò gli studi universitari di diritto a Pisa, per poi laurearsi presso l’Università di Bologna. Segretario della Corte reale di Bologna, lasciò questo incarico per dedicarsi alla professione di avvocato. Nel 1814 fu nominato alla cattedra di procedura civile dell’Università di Bologna da Gioacchino Murat, re di Napoli. Nell’aprile del 1815 venne designato da Murat commissario civile per le provincie del Reno, del Rubicone e del Basso Po. In seguito alla sconfitta di Murat a Tolentino (maggio 1815), prese la via dell’esilio e, dopo un breve soggiorno a Milano, si trasferì a Ginevra. Nel 1818 vi tenne un corso libero di giurisprudenza applicata al diritto romano, e nel 1819 fu chiamato a insegnare diritto romano e legislazione penale presso l’Accademia.
Divenuto nel 1820 cittadino svizzero, fu eletto deputato al Consiglio rappresentativo di Ginevra. In questa città fondò gli «Annales de législation et de jurisprudence», poi «Annales de législation et économie politique», cui collaborò, con articoli di economia politica, Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi. Nel 1820 si sposò con Jeanne-Charlotte Melly.
Nel 1831 ebbe dalla Dieta federale svizzera l’incarico di redigere il progetto della nuova Costituzione nazionale che doveva sostituire quella del 1815. Il progetto, chiamato patto Rossi, si proponeva di conciliare la sovranità dei cantoni e quella dello Stato federale. Tuttavia fu respinto per l’opposizione dei cantoni, gelosi della loro indipendenza.
Nel 1833 Rossi si trasferì a Parigi, assegnato alla cattedra di economia politica al Collège de France, dove fu successore di Jean-Baptiste Say. Nel 1834 fu naturalizzato francese e nominato professore di diritto costituzionale alla Sorbona. Divenne una figura politica importante anche nella Francia di re Luigi Filippo, come collaboratore di François-Pierre-Guillaume Guizot. Nel 1838 divenne pari di Francia. Ambasciatore straordinario nel 1845, fu poi ambasciatore effettivo presso la Santa Sede, nel momento in cui moriva papa Gregorio XVI e veniva eletto al soglio pontificio Pio IX. Con l’avvento della Seconda repubblica in Francia (febbraio 1848), perse sia la carica di ambasciatore sia la cattedra alla Sorbona.
Restò a Roma, dove sembrava aprirsi per lui un’altra brillante carriera politica. Divenne nel 1848 ministro dell’Interno e della Polizia, assunse l’interim delle Finanze e poi fu nominato primo ministro. Il suo programma liberale moderato lo rese inviso sia alla Curia e ai conservatori sia ai rivoluzionari. Fu assassinato all’apertura della Camera, il 15 novembre 1848.
Senza dubbio l’attività di economista di Rossi rappresentò una parte non preponderante dei suoi molteplici impegni. I suoi scritti di economia sono in parte raccolti nel volume Mélanges d’économie politique, d’histoire et de philosophie (1857). Tuttavia la sua opera più sistematica è il Cours d’économie politique, che si compone di quattro volumi, di cui i primi due furono pubblicati nel 1840-1841, mentre il terzo e il quarto furono pubblicati postumi nel 1851 e nel 1854. I quattro volumi riprendono le lezioni tenute da Rossi al Collège de France a partire dal 1833. Il Cours fu tradotto in italiano nel 1855 (in Biblioteca dell’economista, serie I, 9° vol.), insieme ad altri suoi scritti economici.
Il giudizio di molti commentatori sembra concorde nell’affermare che come economista Rossi non fu originale. Così, Francesco Ferrara, che pure ne ammira la figura, nella lunga prefazione al citato volume della Biblioteca dell’economista afferma che
Rossi non ha aggiunto la menoma cosa di nuovo alla scienza, ed è forse il solo, fra gli scrittori di maggior fama, il cui nome non rimanga attaccato a qualche speciale dottrina, foss’anco un errore ingegnoso (Prefazione a Biblioteca dell’economista, cit., p. LXXXIII).
Karl Marx, a proposito della critica di Rossi alla distinzione di Adam Smith tra lavoro produttivo e improduttivo, nota nel 1861 che egli non fa che ripetere, «con espressioni differenti, ciò che dice Garnier» (1905-1910; trad. it., 1° vol., 1954, p. 373).
Anche Luigi Cossa, pur chiamando «splendide» le lezioni di Rossi tenute a Parigi, tuttavia nota che esse non erano originali, «volgarizzando le dottrine di Smith, di Malthus, di Ricardo, di Senior» (18782, p. 245).
Infine Joseph A. Schumpeter parla di Rossi con ammirazione, affermando che i fallimenti nelle sue numerose attività rivelarono maggiori capacità dei successi di molti altri; tuttavia, dopo aver elencato i vasti campi di interesse del Cours, nota che esso
meritò il successo avuto a suo tempo, ma non merita di essere ulteriormente citato in una storia dell’analisi. Tutti i vasti orizzonti culturali, tutte le intuizioni pratiche che quest’opera rivela non alterano il fatto che si tratta di un ricardismo diluito con una piccola aggiunta di Say (1954; trad. it., 2° vol., 1990, p. 618 nota 2).
Un giudizio in parte diverso viene invece da Augusto Graziani, nella sua Storia critica della teoria del valore in Italia del 1889. Secondo Graziani, per quanto riguarda la teoria del valore, Rossi
con lucidità pari all’acume, svolge questa teorica ed anche soltanto per tale discettazione merita un posto assai distinto nella storia della scienza economica. Il Rossi è dai più riguardato come uno scudiero dei classici economisti, ma in questo importante argomento procede da maestro e sa pure in vari punti discostarsi dai concetti di coloro che segue nell’indirizzo fondamentale della disciplina (1889, p. 89).
Rossi si sforzò di coordinare fra loro gli elementi della teoria oggettiva anglosassone del costo di produzione con gli elementi soggettivi riguardanti l’utilità, prevalenti nella tradizione francese e in quella italiana del Settecento.
Una delle tesi di Rossi maggiormente criticata da Ferrara riguarda l’impostazione metodologica che deve seguire l’economia politica. Rossi riprende a questo proposito le tesi di Richard Whately (1787-1863, filosofo, teologo ed economista di Oxford, poi vescovo di Dublino) in Introductory lectures of political economy (1831, 18322). Secondo Ledermann (1929, p. 271), Rossi rielabora anche le posizioni del suo professore di economia all’università di Bologna, Luigi Valeriani (1758-1828).
Per Rossi, l’economia razionale è la scienza della ricchezza che parte da pochi dati generali e si sviluppa deducendo da queste premesse le sue leggi. Le premesse devono essere universali, e di conseguenza sono universali anche le leggi, ma queste ultime non hanno natura empirica, poiché sono formulate astraendo dalle determinazioni di tempo, di luogo e di nazionalità. Ne deriva che, quando analizziamo i fenomeni economici quali si manifestano realmente, le leggi dell’economia pura appariranno insufficienti a studiarli (Cours d’économie politique, cit.; trad. it. 1855, p. 24).
L’economia applicata, differentemente dall’economia razionale, ha il compito di prendere in considerazione le circostanze dalle quali sono causate le numerose deviazioni dalla regola teorica. Le conclusioni dell’economia applicata non contraddicono la legge teorica, che nel suo campo di applicazione resta vera; tuttavia il fenomeno reale, oltre che dalle cause fondamentali considerate dall’economia razionale, è influenzato da una serie di cause particolari, determinate dal contesto in cui si verifica il fenomeno.
Il liberismo, per es., pur razionalmente fondato dal punto di vista dell’economia pura, può essere sconsigliabile dal punto di vista dell’economia applicata proprio per la presenza di cause perturbatrici che la teoria astratta non può prendere in considerazione. A proposito dello slogan dei fisocratici, ‘lasciate fare, lasciate passare’, Rossi nota che
è perfettamente vero che se circostanze particolari non venissero mai a modificare la questione, la libertà dell’industria e del commercio sarebbe il mezzo più sicuro di produrre la maggior ricchezza possibile; ma succedono circostanze di tempo e di spazio, bisogni dipendenti dalla nazionalità, che possono modificare nella pratica l’applicazione della regola. È una ragione codesta per mettere in dubbio le deduzioni della scienza in quanto sono deduzioni scientifiche? No certamente (p. 16).
Economia pura ed economia applicata hanno il medesimo oggetto, ma la prima lo studia in modo generale, la seconda in modo speciale. Un’impostazione metodologica simile era stata sostenuta da Rossi anche nel campo del diritto, quando cercò di conciliare la concezione analitico-razionalista e quella storicista, Jeremy Bentham e Friedrich Karl von Savigny (cfr. L. Lacché, «All’antica sua patria». Pellegrino Rossi e Simonde de Sismondi: relazioni intellettuali fra Ginevra e la Toscana, in Sismondi e la civiltà toscana, Atti del Convegno internazionale di studi, Pescia 2000, a cura di F. Sofia, 2001, pp. 70-77).
Infine, secondo Rossi, anche la politica e la morale intervengono nelle questioni sociali. Lo scopo dell’economia, lo studio della ricchezza e il benessere che ne deriva possono entrare in contraddizione con il benessere politico e morale. Se anche l’economia mostrasse, ragiona Rossi per assurdo, che la ricchezza cresce facendo lavorare quindici ore al giorno i bambini, «la morale direbbe che ciò non è lecito; la politica pur essa ci direbbe che tal cosa è nociva allo Stato, e che svigorisce le forze della nazione»; quando il precetto dell’economia
è contrario ad uno scopo più elevato che non la produzione della ricchezza, non bisogna applicarlo. Ciò prova forse che l’economia politica è falsa? No; ciò prova che voi confondete quello che deve essere separato (Cours, cit.; trad. it. 1855, p. 17).
Si capisce come la visione metodologica di Rossi possa avere suscitato la reazione di Ferrara. La sua critica a Rossi economista deriva proprio dalla differente concezione metodologica. Nella realtà, secondo Ferrara, non possono verificarsi eccezioni alla legge teorica. Quando la teoria incontra eccezioni, le sue premesse non sono sufficientemente generali, cioè la sua validità è limitata.
Effettivamente Rossi cercò di applicare il suo metodo nello svolgimento del suo Cours, per quanto riguarda sia la teoria del valore sia quella della distribuzione. In parte collegato alla sua distinzione tra economia razionale ed economia applicata, vi è pure l’uso ripetuto di quella che più tardi si sarebbe chiamata, con Alfred Marshall, la clausola del coeteris paribus. Rossi è molto attento nel mostrare come ciascuna causa che influisce su un fenomeno economico agisce supponendo che tutto il resto resti costante.
Per Rossi, l’oggetto della scienza economica deve essere determinato: non si tratta di una scienza generale della società, ma di una scienza che investiga la ricchezza, o meglio, «lo studio della lotta delle forze umane, sia intellettuali, sia fisiche, colla materia per dominarla, trasformarla, adattarla ai bisogni dell’uomo» (p. 14). L’economia politica si compone di due parti, lo studio della produzione e lo studio della distribuzione. Rispetto ai manuali contemporanei, Rossi ritiene che il capitolo del consumo rientri in realtà nelle due parti precedentemente individuate. Ciò che viene chiamato consumo produttivo non è che l’impiego del capitale e rientra quindi nello studio della produzione, mentre ciò che viene chiamato consumo improduttivo rientra nella distribuzione della ricchezza.
Come abbiamo visto, Rossi è generalmente considerato un seguace delle teorie classiche anglosassoni. Tuttavia è evidente, nella sua esposizione della teoria del valore, la volontà di ricomprendere all’interno di un’impostazione utilitaristica la teoria classica del costo di produzione come caso particolare della legge della domanda e dell’offerta. Secondo Rossi, infatti, il valore d’uso non è solamente un prerequisito del valore di scambio. Il valore, in economia politica, si riferisce a una cosa utile: «il valore non è altro che l’utile nella sua relazione speciale con la soddisfazione dei nostri bisogni» (p. 22).
L’utilità di un bene per qualsiasi soggetto può essere diretta o indiretta. È diretta quando l’oggetto utile soddisfa i bisogni di chi lo possiede attraverso il suo consumo. È indiretta quando le cose sono per chi le possiede un mezzo per procurarsi attraverso lo scambio altri beni che possano soddisfare meglio i suoi bisogni.
Da questa esposizione si vede che Rossi non ha una concezione oggettiva del valore: il valore, in quanto relazione tra un oggetto e i nostri bisogni, è essenzialmente variabile, poiché i bisogni sono diversi e variano con le circostanze. In questo quadro il valore di scambio non è che una forma del valore d’uso, che si realizza quando si attribuisce un valore d’uso maggiore alla cosa domandata rispetto a quella offerta. Secondo Rossi, mentre il valore d’uso persiste finché esiste una relazione tra gli oggetti e i bisogni, il valore di scambio non esiste che nel momento in cui si realizza lo scambio stesso.
È veramente notevole che il valore di scambio determinato dalla teoria abbia per Rossi carattere solo probabilistico: esso è un valore «probabile o congetturale», e diviene «reale, conosciuto e determinato» solo al momento in cui lo scambio si realizza. Secondo Rossi, non tenere conto del valore d’uso e concentrarsi unicamente sul valore di scambio preclude all’analisi economica la possibilità di studiare argomenti essenziali.
Si può considerare, per es., la variazione della quantità domandata e del prezzo dei beni di lusso in anni di penuria in cui il prezzo delle cose di prima necessità cresce. In questo caso, la domanda dei beni di lusso diminuisce e decresce il loro prezzo. Infatti
i bisogni di prima necessità, che dipendono immediatamente dalla conservazione dell’uomo, prevalgono sempre sui bisogni di fantasia, sulle cose di puro diletto. La spiegazione definitiva del fatto si trova nella gradazione dei nostri bisogni, e, in conseguenza, dei diversi valori d’uso che ne sono l’espressione (p. 27).
Il passo è notevole, perché non solo si fa riferimento alla gradazione dei bisogni, ma anche a un effetto reddito che si realizza quando il prezzo delle cose di prima necessità, di cui si ipotizza in sostanza una domanda rigida, cresce sulla domanda dei beni di lusso, di cui invece si ipotizza una domanda elastica sia rispetto al prezzo sia rispetto al reddito. L’effetto reddito prevale sull’effetto sostituzione per i beni di lusso.
Dal concetto di utilità, Rossi risale poi al concetto di domanda e offerta. Egli aveva ben chiari almeno i principi sulla base dei quali si possono costruire le schede della domanda e dell’offerta. Tuttavia non arriva a scrivere le schede della domanda e dell’offerta e a disegnarne le relative curve.
A proposito del capitale, Rossi attribuisce una notevole importanza al capitale umano:
Il capitale è dunque una forza produttiva, la quale è essa medesima prodotta. Ciò posto, si potrà dire che, se i talenti naturali sono paragonabili alla terra, i talenti acquisiti, il lavoro delle forze umane che l’educazione ha formate, è un capitale (p. 88).
Rossi però avverte che parlare del capitale umano non può essere pretesto per assimilare l’uomo a una macchina. Inoltre, ciò che realmente si capitalizza non sono le spese per il sostentamento della persona che studia invece di lavorare. In realtà, per Rossi, si capitalizza il reddito che si sarebbe ottenuto lavorando subito e a cui si rinuncia per acquisire le maggiori capacità produttive attraverso l’istruzione.
Egli ritiene molto importante l’istruzione, il cui compito è sia di aumentare le capacità produttive della forza lavoro, sia di elevare la condizione culturale e morale della popolazione. L’autore aderisce alla teoria della popolazione di Thomas R. Malthus, sia pure interpretata non in modo meccanico, ma come il risultato di tendenze probabili che possono essere modificate dal comportamento consapevole. In questo senso, l’istruzione pubblica ha il duplice scopo di concorrere all’aumento delle capacità produttive (e al reddito dei lavoratori) e di stimolare un comportamento che limiti la crescita della popolazione. Per questo, anche facendo eccezione al principio della libertà di scelta dei singoli, l’istruzione pubblica, almeno fino a un certo grado, può o deve essere obbligatoria per tutti.
In relazione alla teoria della popolazione, il futuro primo ministro di Pio IX è così convinto della necessità di limitare il tasso di accrescimento della popolazione ai fini dell’aumento del benessere sociale, che non esita a criticare alcuni comportamenti della Chiesa cattolica. Rossi nota che l’aumento eccessivo della popolazione è causato dalle abitudini delle classi più povere. I sacerdoti spingono i giovani di queste classi a contrarre matrimoni precoci, cui segue una numerosa prole. Il loro intento è quello di evitare un comportamento morale e sessuale discutibile, ma, si chiede Rossi, «tra due mali non si debb’egli scegliere il minore?» (p. 152). La morale e la religione devono in questo caso accordarsi con la politica e l’economia. Il danno dei comportamenti scorretti dei giovani è meno grave rispetto ai problemi delle famiglie numerose in cui genitori non possono sostenere le spese e le cure necessarie alla crescita sana dei figli.
Per Rossi, i soggetti che concorrono alla distribuzione del prodotto sono quattro: i lavoratori, i capitalisti, i proprietari degli elementi naturali «monopolizzati» e lo Stato. Anche lo Stato, secondo l’autore, è infatti un fattore di produzione, sia pure indiretto. Senza la presenza dello Stato la produzione sarebbe assai minore rispetto a quella altrimenti possibile. Lo Stato garantisce la sicurezza e la difesa, ma anche le infrastrutture necessarie all’attività economica, e può svolgere attività economiche più dirette, come per es., con l’istruzione pubblica, che ha il compito di creare «capitale umano». Di conseguenza, anche la materia delle imposte deve essere studiata come parte dell’analisi della distribuzione del reddito.
L’impostazione ricardiana emerge già dal modo in cui Rossi affronta il problema della distribuzione in termini di divisione di un prodotto dato tra i diversi soggetti:
Quando si è in quattro a dividersi una cosa, e che ciascuno vi rechi un certo diritto, siccome la cosa da dividere è sempre la stessa, qualunque siano i diritti corrispettivi dei partecipanti, accade necessariamente che quanto più si attribuisca all’uno, tanto meno rimanga per gli altri (p. 378).
Il vero problema è stabilire i rapporti tra salari e profitti. Rossi aderisce alla teoria della rendita differenziale di David Ricardo, per cui nello studio della distribuzione si può astrarre dalla rendita. Rispetto a Ricardo, Rossi precisa (come d’altra parte avevano già fatto diversi economisti) che persino i terreni meno fertili possono fruttare una rendita, perché bisogna tener conto anche del margine intensivo, cioè della differente produttività di successivi capitali impiegati nella stessa terra. Si può astrarre dallo studio delle imposte, almeno nelle prime fasi dell’elaborazione della teoria della distribuzione. Restano dunque i salari e i profitti. Di conseguenza, la determinazione di uno di questi due redditi comporta necessariamente anche la determinazione dell’altro reddito come residuo.
I capitalisti e i lavoratori sono dei compartecipanti di una medesima cosa, dei compartecipanti al medesimo prodotto, e quando si arriva a determinare quale è la parte afferente agli uni, si determina implicitamente la parte afferente agli altri, perché gli uni non possono avere se non quello che non pigliano gli altri (p. 461).
Tanto i salari quanto i profitti sono riconducibili al lavoro svolto: i primi compensano il lavoro presente, i secondi il lavoro passato accumulato. Riprendendo in questo senso Nassau W. Senior, anche dal punto di vista morale i salari e i profitti sono accomunati dal fatto di compensare un sacrificio, sia esso il sacrificio di lavorare o quello di astenersi dal consumare il risultato del lavoro passato. Di conseguenza,
l’uno e l’altro risultano da una determinazione di quella previdenza per la quale l’uomo si astiene dal piacere, dal godimento attuale, per aumentare i suoi mezzi di piacere o di sussistenza per l’avvenire (pp. 461-62)
Secondo Rossi, i salari sono determinati dalla popolazione, da cui dipende l’offerta di lavoro, dal capitale esistente, da cui dipende la domanda di lavoro, e dal prezzo delle derrate di prima necessità. L’analisi dei salari è una delle materie in cui Rossi utilizza maggiormente la clausola del coeteris paribus, studiando come ciascun singolo fattore influisce sul salario con le sue variazioni, fermi restando gli altri. In questo senso, per es., Rossi nota che «a parità di ogni altra cosa», una crescita del prezzo dei beni di prima necessità comporta una diminuzione dei salari reali (p. 420).
Nella presa di distanza di Rossi dalle analisi degli economisti anglosassoni, ha un rilievo centrale la sua concezione della retribuzione del lavoro. Riprendendo la sua distinzione tra economia razionale ed economia applicata e la sua definizione del salario come reddito e non come anticipazione di capitale, Rossi infatti afferma che a ben vedere il salario non è la forma naturale della retribuzione del lavoro, ma una forma particolare che questa retribuzione assume in seguito alla circostanza delle economie moderne per la quale i lavoratori non sono in grado di risparmiare un fondo di consumo sufficiente a mantenerli per la durata del processo produttivo.
Secondo il corso naturale delle cose, studiato dall’economia razionale, i lavoratori e i possessori del capitale si dovrebbero associare tra loro per ottenere un prodotto da dividere tra i membri di questa società. La retribuzione del lavoro, così come quella del capitale, deriva da un contratto di società tra tutti i soggetti coinvolti. A questa situazione naturale si sovrappone però una situazione che deriva dalle circostanze speciali dello sviluppo economico. I lavoratori non sono in grado di risparmiare i «fondi di consumazione», e questa circostanza trasforma il rapporto tra lavoratori e capitalisti. I lavoratori rinunciano alla loro quota di prodotto finale in cambio delle anticipazioni dei beni salario per il periodo richiesto dal processo produttivo.
In questo senso, per Rossi, il rapporto di lavoro salariato «è un fatto aggiunto al corso naturale delle cose il quale trasforma il contratto di società in un contratto di vendita, che sostituisce ad una partecipazione una speculazione» (p. 353). La distribuzione del reddito nelle economie in cui prevale il rapporto di lavoro salariato è distorta a favore dei possessori del capitale. Solo quando i lavoratori potranno concorrere direttamente alla divisione del prodotto la loro condizione sarà veramente libera.
Per questa ragione, la concezione che le anticipazioni dei salari facciano parte del capitale è respinta da Rossi: è un’idea che proviene da un passato in cui ancora prevaleva la schiavitù. È solo in queste condizioni, infatti, che i lavoratori potevano essere considerati al pari di una macchina, «vale a dire una parte del capitale».
Rossi sottolinea che nel caso del lavoro le concezioni dell’economia non possono essere separate da quelle della morale: l’uomo deve essere sempre considerato un fine e non un mezzo, anche dalla scienza economica. D’altra parte, la stessa scienza economica è lo studio di come le società umane producono la ricchezza e la distribuiscono tra i propri membri. Se quindi, nelle economie moderne, il lavoratore
vive del suo reddito, della retribuzione del suo lavoro, come volete voi che la stessa cosa figuri due volte nel fenomeno della produzione, nel calcolo delle forze produttive, una volta come retribuzione del lavoro e una seconda volta come capitale? (pp. 244-45).
Rossi, pur non essendo un teorico dell’economia originale, seppe discutere in modo penetrante le questioni di economia politica del suo tempo. Dal confronto tra le diverse posizioni e tesi, e tra i diversi contesti, deriva il carattere non banale del suo contributo e la capacità di illuminare di una luce personale le problematiche che erano al centro del dibattito contemporaneo e, in qualche caso, anche di indicare le vie per sviluppi futuri.
Si ricordano qui solo le opere di contenuto economico:
Cours d’économie politique, 4 voll., Paris 1840-1854 (trad. it. 1855 in Biblioteca dell’economista, I s., 9° vol.).
Mélanges d’économie politique, d’histoire et de philosophie, 2 voll., Paris 1857, che raccolgono diversi scritti. Sono stati tradotti in italiano, in Biblioteca dell’economista, I s., 9° vol., Torino 1855: Del metodo in economia politica. Della natura e definizione del lavoro, Osservazioni sul diritto civile francese, considerato nei suoi rapporti collo stato economico della società e Introduzione alla storia delle dottrine economiche.
F. Ferrara, Prefazione a Biblioteca dell’economista, I s., 9° vol., Torino 1855.
L. Cossa, Guida allo studio dell’economia politica, Milano 18782, p. 245.
A. Graziani, Storia critica della teoria del valore in Italia, Milano 1889, pp. 89-91.
K. Marx, Theorien über den Mehrwert (1861-1863), 3 voll., Stuttgart 1905-1910 (trad. it. Storia delle teorie economiche, 3 voll., Torino 1954-1958).
L. Ledermann, Pellegrino Rossi. L’homme et l’économiste, 1787-1848, Paris 1929.
J.A. Schumpeter, History of economic analysis, ed. E. Boody Schumpter, New York-London 1954 (trad. it. in 3 voll., Torino 1990).
W.E. Rappard, Économistes genevois du XIXe siècle, Genève 1966, pp. 355-88.