Piero della Francesca
Il pittore dell’armonia ideale
Piero della Francesca, vissuto nel 15° secolo, con la sua pittura limpida e rigorosa rivela una conoscenza profonda – espressa anche nei suoi trattati – delle regole matematiche e prospettiche che sono alla base della costruzione di un universo ideale. Tali regole legano in modo armonico le forme fra loro e con lo spazio circostante. La sua concezione figurativa, severa e astratta, ha avuto ampia risonanza anche nella pittura contemporanea
Toscano di nascita (nacque a Borgo San Sepolcro, vicino ad Arezzo, nel 1406 o 1412) e di formazione, Piero della Francesca ha lavorato prevalentemente nelle corti delle città-Stato dell’Italia centrale, come Urbino e Rimini. Il punto di partenza per la sua originalissima visione sono le esperienze artistiche fiorentine del primo Rinascimento.
Giovanissimo, Piero soggiorna a Firenze e nel 1439, a fianco al pittore Domenico Veneziano, dipinge gli affreschi, ora perduti, in S. Egidio. È attratto soprattutto dalle nitide strutture prospettiche e dall’alta luminosità dei colori chiari di questo pittore. Ma osserva anche con attenzione lo stile più austero del Beato Angelico e soprattutto di Masaccio, nonché il rigoroso razionalismo architettonico di Filippo Brunelleschi.
Tra le prime opere che il pittore ha prodotto per la sua città natale, Borgo San Sepolcro, vi è il polittico della Misericordia, smembrato e oggi ricomposto. La scena centrale ha un’impostazione tradizionale: la Madonna, di dimensioni notevolmente maggiori rispetto ai fedeli, col mantello protegge i membri della Confraternita di Borgo inginocchiati attorno a lei. Secondo la tradizione medievale, la Vergine è raffigurata in dimensioni maggiori dei confratelli, come obbligava la gerarchia che distingueva la rappresentazione di personaggi sacri. Anche il fondo oro ripete una consueta soluzione medievale.
A un’analisi più approfondita si nota, però, una visione moderna e architettonica dei volumi: la figura di Maria col suo mantello aperto, come a formare l’abside di una chiesa, accoglie i confratelli, e si identifica simbolicamente con la Chiesa, vista come madre che protegge i figli-fedeli. Anche il fondo oro si carica di effetti spaziali e luministici e viene utilizzato dal pittore come uno schermo per riflettere una luce chiara su tutte le figure. Queste sono costruite secondo una volumetria geometricamente rigorosa, esaltata dallo spazio circostante e dalla stessa luce, e atteggiate in espressioni astratte e severe. La luce, poi, riveste un ruolo fondamentale nelle opere di Piero: non ha una fonte diretta, non incide su punti particolari, è qualcosa di astratto, mentale, che serve a rendere con esattezza e chiarezza le figure, le forme e lo spazio.
Definito dal biografo Giorgio Vasari «maestro raro nelle difficoltà dei corpi regolari, e nell’aritmetica e geometria», Piero applica la prospettiva con straordinaria abilità. La nuova teoria della prospettiva, elaborata da Leon Battista Alberti nel trattato De pictura, è una scoperta di grandissima importanza, che troviamo già applicata nell’affresco dipinto da Piero nel 1451, che rappresenta Sigismondo Pandolfo Malatesta inginocchiato davanti a s. Sigismondo, nel Tempio Malatestiano di Rimini, progettato peraltro dallo stesso Alberti.
È, però, nel Battesimo di Cristo, eseguito nel 1459 circa, che lo stile figurativo di Piero emerge appieno. Qui il pittore instaura tra figure e paesaggio un rapporto basato sul controllo di ogni elemento naturalistico, come l’anatomia appena accennata delle figure, in forme sintetiche che rivelano la loro radice geometrica e sulle relazioni di equilibrio tra figure e spazio.
Alla base di questi rapporti armonici vi sono leggi matematiche come la sezione aurea, ossia il medio proporzionale fra un segmento e una parte di esso. Questa proporzione, considerata perfetta, è rappresentata tramite la formula (a1b): a5a:b. Questa formula indica il rapporto che deve esistere tra le parti a e b che formano il segmento a1b.
La sezione aurea, nota fin dall’antichità, è divulgata nel Rinascimento dal matematico Luca Pacioli che la considerava la «divina proportione». Per Piero è una chiave d’accesso ai segreti della bellezza e della natura, in cui ogni elemento occupa un posto determinato secondo le leggi dei numeri e della geometria. Così facendo, il pittore costruisce uno spazio, simile al vero ma al tempo stesso ideale, regolato dalle figure geometriche e dagli aspetti matematici.
Delle grandi imprese di Piero, oggi resta solamente il ciclo della chiesa di S. Francesco nella città Arezzo. Nel 1452 il pittore fiorentino Bicci di Lorenzo muore, lasciando appena iniziata la Leggenda della vera Croce, affrescate nel coro di S. Francesco: gli subentra Piero, che porta a termine il lavoro (1454-57).
L’opera illustra alcuni episodi tratti dal testo medievale della Legenda aurea scritto da Jacopo da Varazze e rappresenta il punto più alto dell’evoluzione dell’artista. Il racconto pittorico, ridotto all’essenziale, senza mai perdersi in aneddoti o dettagli, assume un tono epico. Lo stile è improntato a un rigoroso equilibrio formale e prospettico con effetti di colorismo luminoso. La scena del Sogno di Costantino, per esempio, è uno studio eccezionale di illuminazione notturna, con suggestivi effetti di luce artificiale, che servirà da modello a Raffaello per l’affresco della Liberazione di s. Pietro dal carcere nelle Stanze Vaticane.
Terminati gli affreschi di Arezzo, Piero si lega alla corte brillante e raffinata di Federico da Montefeltro a Urbino. Qui entra in contatto con Luca Pacioli e diventa un trattatista di matematica e prospettiva. Per i Montefeltro dipinge la Flagellazione, che è una perfetta dimostrazione delle leggi matematiche della prospettiva. L’opera, carica di simboli, allude forse a qualche misterioso evento legato alla casata di Urbino. Alla stessa epoca risalgono anche i ritratti del duca e di sua moglie, la Sacra conversazione, la Madonna di Senigallia e la Natività. Sono opere che riflettono la conoscenza della pittura fiamminga. In esse, infatti, si possono notare un graduale allontanamento dalla tempera a vantaggio della pittura a olio e un maggior realismo nella descrizione dei volti, degli abiti, senza mai abbandonare l’approccio volumetrico e monumentale alle figure caratteristico del suo stile. Questo connubio tra monumentalità e realismo fiammingo ha fatto pensare a una possibile influenza di Antonello da Messina. Piero muore a Borgo nel 1492.
Dal 16° al 19° secolo si ha un curioso declino dell’importanza storica dell’artista, la cui pittura, al confronto con quella di Michelangelo e Raffaello – maestri ineguagliabili – viene considerata arcaica e marginale. Occorre attendere il 20° secolo e la tendenza a rivalutare le forme artistiche definite primitive, perché l’opera di Piero abbia un’esplosione di popolarità.
Inoltre, gli studi di Bernard Berenson, di Adolfo Venturi e soprattutto di Roberto Longhi restituiscono al pittore il posto che merita nella storia dell’arte: uno dei più importanti artefici del Rinascimento italiano. Una delle ragioni di questo recupero sta nel fatto che nell’opera di Piero della Francesca si trovano elementi, come la semplificazione geometrica delle forme e la loro disposizione bilanciata, che saranno di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’arte moderna.
Piero della Francesca ha composto negli ultimi anni della sua vita anche alcuni scritti (Libro d’Abaco, un manuale di matematica pratica per mercanti, e De prospectiva pingendi), che hanno contribuito alla diffusione della sua fama. Nel suo trattato sulla prospettiva, composto tra il 1472 e il 1475, Piero propone una serie di problemi di riduzione prospettica, con cui introduce progressivamente alle tecniche della prospettiva con esercizi pratici. È interessante notare che le leggi della prospettiva sono alla base di alcune delle elaborazioni geometriche che danno oggi vita alla realtà virtuale: in questo senso, dunque, Piero della Francesca, con i suoi universi ideali basati su regole matematiche, che creano l’illusione della tridimensionalità, può esserne considerato un precursore.