Politica economica e finanziaria
di Siro Lombardini
1. Il sistema produttivo e le concezioni liberiste della politica economica.
Al suo nascere - particolarmente con le scuole mercantilistiche e con l'opera di Adam Smith - l'economia aveva intenti operativi, e non era possibile distinguere l'economia politica dalla politica economica. Dallo studio dell'economia si traevano indicazioni per il 'principe': i mercantilisti suggerivano politiche volte ad aumentare la ricchezza nazionale che, per loro, dipendeva dall'avanzo della bilancia commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni); per Smith la scienza economica doveva invece individuare le condizioni nelle quali si realizzava la massima crescita della ricchezza nazionale, il massimo sovrappiù: esse erano essenzialmente individuate nella libera concorrenza. In tale situazione, secondo Smith, i produttori sono indotti a offrire sul mercato le merci richieste dai consumatori e i prezzi sono eguagliati ai costi (i minimi possibili) grazie alla pressione esercitata dalla continua entrata di nuove imprese. La concorrenza spinge gli imprenditori a realizzare anche la massima accumulazione e quindi il massimo sviluppo tecnologico (l'imprenditore che dispone di più capitale può intensificare la divisione del lavoro). Sulla base di queste ipotesi Smith suggeriva al sovrano di togliere ogni ostacolo allo sviluppo della concorrenza (i dazi ad esempio) e di respingere ogni richiesta (dei commercianti in particolare) che potesse, per i privilegi che crea, pregiudicare la libertà commerciale.La concezione liberista si ritrova anche nel pensiero dei neoclassici. Essi però sono interessati non tanto ai meccanismi interni al sistema che ne provocano la crescita, quanto ai meccanismi che assicurano l'impiego ottimale di risorse date, mediante tecnologie pure supposte date, per consentire a ciascun consumatore di massimizzare la sua utilità offrendo le risorse di cui dispone per acquistare i beni di consumo che desidera ottenere. Tali meccanismi sono garantiti dal regime di libera concorrenza che, dunque, è considerato il regime migliore non tanto perché induce la massima crescita, quanto perché assicura che le risorse siano impiegate al meglio per soddisfare le esigenze del consumatore (quest'ultimo è posto al centro del sistema dal momento che con la sua domanda orienta la produzione). Per i classici al centro dell'analisi si pone invece il produttore, il quale attraverso l'accumulazione e l'innovazione induce l'espansione dei consumi: il produttore cerca anche di prevedere le cause (essenzialmente esterne) che fanno evolvere il sistema e ne adatta la struttura in modo da assicurarne la massima efficienza (riferita a un certo momento e intesa come distribuzione ottimale delle risorse tra i possibili usi alternativi).I neoclassici (Walras e Pareto in particolare) ritengono inoltre di poter fare dell'economia una scienza sul modello della fisica. Così mentre i classici parlavano di economia politica, essi parlano di economia pura. L'economista non può quindi spiegare i concreti avvenimenti, che divergono sempre dalle configurazioni teoriche; né può dare suggerimenti di politica economica senza tener conto anche di aspetti estranei alla sua scienza. Perciò si parla di una economia applicata accanto all'economia teorica. In alcuni paesi (particolarmente in Italia) alla disciplina dell'Economia, alla quale si continua ad associare l'aggettivo politica, si viene ad affiancare una diversa disciplina qualificata come Politica economica.
Per i liberisti, sia per quelli che si rifanno all'analisi classica, sia per coloro che accettano le impostazioni neoclassiche, il tema più rilevante della politica economica è la preservazione della concorrenza. Quest'ultima ha trovato, nelle diverse situazioni storico-sociali, applicazione in specifici interventi legislativi. Gli Stati Uniti furono tra i primi paesi ad applicare una legislazione che tutelasse la concorrenza. Al riguardo è da ricordare lo Sherman act, legge varata dal Congresso nel 1890 allo scopo di proibire tutti quei comportamenti delle imprese che, impedendo il libero gioco della concorrenza, producessero situazioni monopolistiche a danno dei consumatori e fossero di ostacolo a nuove iniziative.La legge antitrust nasce negli Stati Uniti in particolari condizioni politico-culturali, quando l'opinione pubblica, scossa dalle audaci strategie di Rockefeller, che era riuscito a creare un quasi monopolio nella produzione e distribuzione del petrolio, chiedeva che si preservasse l'aspetto peculiare della civiltà americana: la libertà di iniziativa per cui ciascun cittadino poteva 'farsi da sé'. Ma questa legislazione subisce nel corso del tempo numerose modifiche (sia per l'evoluzione della struttura economica sia per l'influenza dei poteri lesivi della concorrenza che, di fatto, si vanno costituendo) e ne vengono realizzate applicazioni spesso contrastanti. Roosevelt, con il New Deal, arrivò addirittura ad accantonarla - per un breve periodo - consentendo che si stabilissero accordi tra imprese.Le trasformazioni dell'economia trovano del resto riscontro negli sviluppi teorici e lo stesso concetto di concorrenza si evolve. Con Schumpeter la competizione tra oligopoli (che si fanno concorrenza mediante le innovazioni nelle tecniche e nei prodotti) viene indicata come il regime di mercato più favorevole alla crescita, mentre riacquista interesse nell'analisi teorica il problema dello sviluppo. Inoltre si cominciano a studiare (J. Robinson ed E. Chamberlain) nuove manifestazioni della concorrenza che non si esprime più soltanto attraverso le riduzioni di costo e di prezzo applicate dalle imprese, ma anche attraverso la differenziazione del prodotto e le attività di promozione delle vendite. Dunque il modello neoclassico di concorrenza non può più costituire il riferimento teorico della legge antitrust. In effetti, negli anni cinquanta, alcuni propongono il modello della workable competition, in base al quale ciò che si deve assicurare sono le forme di concorrenza in grado di raggiungere un livello di efficienza che risulti vantaggioso per i consumatori. Il rigore dei modelli neoclassici cede il passo a interpretazioni più realistiche dei meccanismi di mercato.
Nelle legislazioni moderne il riferimento delle leggi antitrust non è il regime (ideale) di concorrenza da preservare, da cui attendere i vantaggi previsti dalla teoria, ma piuttosto alcune fattispecie ben definibili - caratterizzate da comportamenti dannosi qualificati come illeciti in cui gli interessi dei consumatori del bene prodotto risultano danneggiati - da proibire. In effetti la legge inglese del 1948 e le normative adottate dalla Comunità Economica Europea a tutela della concorrenza si limitano a proibire certi specifici comportamenti e abusi.In particolare, la legislazione inglese del 1948 si impernia su tre principî fondamentali: a) individuazione, in linea generale, delle situazioni che sono da considerarsi giuridicamente rilevanti, perché caratterizzate dall'esistenza di strutture monopolistiche dovute alla presenza di una grande impresa o agli accordi esistenti tra imprese; b) costituzione di una Commissione alla quale il Board of trade può affidare l'incarico di effettuare indagini su determinate situazioni di mercato per stabilire se tali situazioni presentino le caratteristiche di concentrazione previste dalle leggi ed eventualmente per determinare, nel caso che le situazioni di mercato rientrino nella fattispecie considerata, se esse siano o meno contrarie al pubblico interesse; c) fissazione di una procedura attraverso la quale si possono realizzare interventi, generalmente sotto la forma di ordini da dare alle imprese, al fine di porre termine a situazioni o pratiche monopolistiche.Altre norme sono state approvate in tema di intese - considerate in genere illecite, tali non essendo quelle che conseguono particolari effetti, ben individuati dalla legge, in modo ragionevole - e di fusioni.
Negli anni sessanta la suddetta Commissione ha concentrato la sua attenzione su quelle situazioni che sono attualmente indicate con il termine di 'posizioni dominanti' e sulle intese o pratiche monopolistiche che non sono registrabili ai termini della legge stessa. Successivamente, con altri provvedimenti si è delineata in Inghilterra una tendenza a mitigare la legislazione antimonopolistica. La legge inglese appare quindi caratterizzata, oltre che dagli ampi poteri discrezionali del Board of trade, comprensibili se si considerano alcune peculiarità dell'ordinamento amministrativo e giuridico anglosassone, da una particolare concezione delle finalità della normativa antimonopolistica, che mira non già a mantenere o a ripristinare la concorrenza, ma a reprimere le pratiche monopolistiche che danneggiano l'interesse pubblico. Quest'ultimo è stato identificato con l'adattamento della produzione alle esigenze del mercato interno e internazionale, con la migliore organizzazione ed efficienza nell'industria, con il più intenso progresso tecnico e con la più elevata produzione. La Commissione, in realtà, ha posto l'accento sulla libertà imprenditoriale come condizione necessaria per garantire l'interesse pubblico e in più occasioni ha osservato che eventuali limitazioni, opportune per stimolare l'esportazione e per altri effetti economici desiderabili, non debbono essere poste in essere per iniziativa delle imprese, ma soltanto attraverso decisioni governative.Dalla fine degli anni ottanta, mentre le nuove teorie neoliberiste mettevano in sordina il dibattito sulle leggi monopolistiche, il governo cercava di assicurare in vario modo forme di protezione alla propria industria. L'affermazione dell'industria tedesca e di quella giapponese ha posto - e soprattutto porrà nei prossimi anni - seri problemi all'industria inglese. Non si può ragionevolmente ritenere che il mercato possa consentire quei processi di ristrutturazione che si rendono necessari. Soprattutto è improbabile che questo possa avvenire in un contesto di politica macroeconomica preoccupata della stabilità piuttosto che dello sviluppo. I temi che si sono presentati alla fine della seconda guerra mondiale si ripresenteranno in termini nuovi e richiederanno nuovi orientamenti di politica industriale.
Le norme della Unione Europea si propongono di tutelare la concorrenza attraverso la proibizione delle intese che hanno come effetto di impedire, restringere e falsare il libero gioco del mercato e attraverso la proibizione dello sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato.
Anche in Italia, in cui vari testi di legge antitrust non sono riusciti a ottenere l'approvazione del parlamento, sono state varate nel settembre 1990 le Norme per la tutela della concorrenza e del mercato in cui sono ripresi, con riferimento al mercato italiano, i divieti delle intese e degli abusi delle posizioni dominanti stabiliti dalla normativa CEE. Per rendere possibile l'applicazione della legge è stata creata una Autorità garante della concorrenza e del mercato. Essa può autorizzare "anche per un periodo limitato, intese o categorie di intese vietate [...] che diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato, anche alla luce della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenza sul piano internazionale".
La legge antimonopolistica non può da sola garantire l'efficace funzionamento dei mercati e una adeguata tutela dei consumatori. La concorrenza deve portare non solo a una riduzione di costi, ma anche al miglioramento del prodotto. Accanto alle grandi imprese occorre favorire un adeguato sviluppo di piccole e medie imprese. La legge antimonopolistica non basta a tutelare gli interessi delle piccole imprese. Soprattutto nelle prime applicazioni dello Sherman act gli interessi dei consumatori (i quali potevano beneficiare delle riduzioni di prezzo che spesso si avevano in seguito alla formazione di grandi unità nel campo della distribuzione in particolare) appaiono in contrasto con la libertà di iniziativa: l'affermazione della grande impresa ostacola infatti l'entrata di nuove imprese, che continua a essere ritenuta condizione necessaria per assicurare efficienza al sistema economico nel suo complesso.
La possibilità di affermazione della piccola impresa dipende molto dal funzionamento del mercato finanziario. Con opportuni istituti messi in atto da privati (Financial Fund e Merchant Banks) o da pubbliche amministrazioni (negli Stati Uniti la Small Business Administration) si può assicurare l'accesso al mercato finanziario e al sistema bancario anche alle piccole e medie imprese. Con la creazione di science park e con varie iniziative tecnico-scientifiche all'interno e all'esterno delle università si possono creare le condizioni perché delle innovazioni tecnologiche si avvantaggino anche le piccole e medie imprese. La messa a disposizione di tutta una serie di servizi e infrastrutture, poi, può facilitare la valorizzazione delle capacità imprenditoriali: un momento essenziale di quella politica dell'offerta (supply-side-economics) di cui parleremo più avanti.
Orientando le infrastrutture in una direzione piuttosto che in un'altra, accelerando lo sviluppo di certi servizi, impostando una strategia di lungo periodo per quanto riguarda la domanda di beni e di servizi della pubblica amministrazione, favorendo forme di riqualificazione della manodopera, lo Stato attua una politica industriale che, se ben impostata e credibile, migliora le prospettive dell'economia a medio e a lungo termine.
L'esigenza di una politica industriale è negata da molti economisti moderni i quali ritengono che lo stesso problema della difesa del regime concorrenziale mediante strumenti legislativi debba essere riconsiderato e ridimensionato. Per essi conta un problema a monte. Il sistema politico deve accettare il mercato e non intralciarne il funzionamento. Questa posizione trova sostegno in alcuni sviluppi teorici. La teoria dei mercati contendibili, esposta in un lavoro di Baumol, Panzar e Willig nel 1982, sostiene che la concorrenza può verificarsi anche in presenza, nel settore, di grandi imprese, grazie alla concorrenza potenziale, che può essere mossa anche da altre grandi imprese le quali operano prevalentemente in altri settori. La politica economica deve quindi semplicemente favorire la libertà d'entrata.
La ripresa, dopo la rivoluzione keynesiana, di alcuni filoni della teoria neoclassica ad opera di Milton Friedman, ha già di fatto accantonato il problema della tutela del mercato concorrenziale affermando che il libero mercato porta, oltre che a un efficiente impiego delle risorse per la produzione dei beni desiderati dai consumatori, anche a uno sviluppo soddisfacente, con un tasso di disoccupazione naturale, tale da riflettere le imperfezioni di funzionamento del sistema e le sue esigenze di flessibilità. Per Friedman quindi il libero mercato è minacciato non tanto dalle politiche delle imprese quanto da quelle dei governi e dei parlamenti. Questo è anche il pensiero di von Hayek.
Il problema che si pone non è dunque il controllo dei mercati al fine di preservare la concorrenza, ma l'estensione dell'area delle attività economiche regolate dai meccanismi di mercato. Potremo meglio comprendere perché e come si sia posto questo problema esaminando alcuni obiettivi del sistema economico e sociale (in particolare la difesa dell'ambiente) che, a parere di molti, esigono interventi pubblici; per i neoliberisti molti di questi interventi possono essere evitati o resi più efficienti con la creazione di alcuni specifici mercati (v. § 6f).
In diversi paesi alcuni prezzi sono controllati dallo Stato, mentre per determinate attività, ad esempio per quella edilizia, vengono posti vincoli alle scelte dei privati. Le ragioni possono essere diverse: contrastare l'utilizzo del potere di mercato che certe imprese hanno e che non può essere contenuto da forme di concorrenza difficili a realizzarsi per ragioni tecniche o istituzionali; tutelare i consumatori; bloccare certi processi inflattivi in attesa che si creino le condizioni, eventualmente attraverso accordi tra le parti sociali, per il ritorno a una normale evoluzione dei prezzi.
La fissazione dei prezzi ad opera di organismi amministrativi solleva tutta una serie di problemi. Un vecchio problema riguarda il criterio con cui fissare il prezzo: deve essere quello marginalistico dell'uguaglianza tra prezzo e costo marginale, per cui occorre continuare a produrre fino a quando l'incremento di costo che comporta un'unità addizionale di prodotto è inferiore al prezzo? A parte le difficoltà tecnico-contabili di misurare il costo marginale (un concetto teorico più che operativo), si deve stabilire se si considera il costo marginale di breve periodo, in cui non sono compresi i costi fissi, o quello di lungo periodo che comprende anche i costi fissi. Sembra che si debba optare per la seconda alternativa. Ma i problemi sorgono proprio non appena si sceglie questa linea. Come valutare gli ammortamenti? Le imprese farmaceutiche giustificano i prezzi elevati soprattutto facendo riferimento all'esigenza di ammortizzare le spese di ricerca in poco tempo, nella previsione (timore?) che altre imprese riescano a immettere sul mercato prodotti simili più efficienti. Se si accetta un simile punto di vista dell'impresa, i prezzi praticati possono apparire senz'altro giustificati.
Quando poi i costi sono decrescenti, il criterio marginalistico non è applicabile (in quanto il prezzo risulterebbe inferiore al costo medio, superiore al costo marginale). Allora le alternative sono diverse: 1) lo Stato può imporre alle imprese di vendere al costo marginale, sussidiandole (è questa la soluzione suggerita da diversi economisti marginalisti); 2) si può consentire all'impresa di fissare dei prezzi che consentano di recuperare i costi variabili e i costi fissi e di assicurare un'equa retribuzione del capitale e un equo compenso per l'attività imprenditoriale. Può allora diventare necessario un controllo dei prezzi.
Per stabilire se in un mercato opera la concorrenza, invece di considerare i prezzi si può valutare il livello del profitto conseguito. In questo caso le difficoltà si moltiplicano, perché le imprese oltre ai profitti normali realizzano profitti addizionali. Di questo fatto si può tener conto stabilendo che i prezzi siano stabiliti in modo che nel medio periodo si realizzi un profitto equo. Un simile criterio non è, però, così ovvio come sembra. Parte dei profitti sono utilizzati dall'impresa per finanziare gli investimenti, soprattutto certi investimenti rischiosi come possono essere quelli nella ricerca petrolifera o anche in particolari ricerche tecnologiche. Se i prezzi sono bassi, è probabile che occorra garantire i finanziamenti della ricerca dall'esterno e quindi possono rendersi necessari, in certi settori, sussidi o contributi dello Stato. L'alternativa vera riguarda allora coloro che debbono pagare il costo per il finanziamento dello sviluppo, poniamo, delle imprese elettriche: si tratta di stabilire se debbano essere gli utenti, coloro che consumano energia, in proporzione dell'energia consumata, o i contribuenti eventualmente chiamati a sostenere il costo dei sussidi concessi alle imprese elettriche dallo Stato in vario modo.
Considerazioni analoghe si possono fare riguardo ai prezzi politici. Spesso lo Stato costringe in modo più o meno surrettizio le imprese che producono certi servizi a cederli a prezzi politici. Questo modo di procedere può essere fonte di inefficienze. L'impresa che non è messa in condizione di quadrare il suo bilancio non è stimolata a migliorare la sua produttività. Non disponendo poi di fonti interne per finanziare il suo sviluppo deve ottenere risorse dall'esterno, sottratte ad altri settori.In Italia il controllo dei prezzi è stato affidato per lungo tempo al Comitato Interministeriale Prezzi (CIP), le cui funzioni (procedere a determinare il prezzo di qualsiasi merce, istituire delle casse di conguaglio per i produttori, requisire scorte eccessive) sono state poi devolute al CIPE; tale esperienza ha confermato le difficoltà che incontra una politica di fissazione dei prezzi.
Per alcuni liberisti (ricordiamo in Italia Einaudi), in determinati casi è opportuno che il controllo di certe attività passi a imprese pubbliche, attraverso nazionalizzazioni o municipalizzazioni. Questo caso si verifica quando si tratta di monopoli naturali o quando il controllo dell'attività svolta in condizione di monopolio appare inefficiente. A questa ragione, pienamente compatibile con le ricordate concezioni liberiste, ne sono state aggiunte altre: alcuni interessi nazionali (per cui certe produzioni militari debbono essere comunque assicurate) e le gravi inefficienze che possono caratterizzare certe situazioni di mercato (per questo, in Inghilterra, anche i conservatori hanno accettato la nazionalizzazione delle miniere di carbone britanniche).
In effetti in molti paesi le nazionalizzazioni hanno rappresentato un momento del processo di sviluppo: alcune iniziative avviate dai privati sono entrate in crisi per mancanza di finanziamenti; per altre, in seguito alla grande crisi, si era reso necessario l'intervento dello Stato; per altre ancora il problema del passaggio alla sfera pubblica si è posto per le particolari situazioni che si sono create in conseguenza della prima e della seconda guerra mondiale.
Negli anni cinquanta gli effetti positivi di questi interventi, cui si sono associati orientamenti di politica economica in senso keynesiano, sono prevalsi su quelli negativi. In seguito, sia per la ripresa della domanda interna nei vari paesi che ha reso possibile una crescita largamente spontanea, sia per il mutare del quadro internazionale che ha accentuato la competitività sui mercati mondiali, gli interventi dello Stato non parvero più necessari; i loro effetti negativi, sempre meno accettabili, parvero giustificare le reazioni liberiste e monetariste (a quest'ultime accenneremo fra poco). Si cominciò a parlare di deregulation, della necessità cioè di eliminare quei vincoli che il sistema pubblico aveva finito per imporre alle attività private.In alcuni settori, invero, lo Stato imprenditore si era rivelato inefficiente. Per questi settori il ritorno al privato - la privatizzazione - si imponeva. Per coloro che accettavano le concezioni liberiste radicali, la privatizzazione doveva coinvolgere tutti i settori in cui operavano imprese pubbliche e ciò per due ragioni. Una, essenzialmente ideologica: il convincimento che la gestione privata è sempre più efficiente di quella pubblica. La seconda ragione era di ordine fiscale: i deficit nel bilancio pubblico persistevano e tendevano ad aggravarsi. Il debito pubblico cresceva, soprattutto in alcuni paesi come l'Italia, in modo impressionante. La privatizzazione avrebbe consentito nuove entrate (di cui si dimenticava spesso il carattere straordinario), avrebbe anche ridotto alcune spese correnti, riducendosi per lo Stato l'esigenza di continuare a finanziare imprese inefficienti.
Alcuni paesi europei hanno potuto sviluppare il loro sistema industriale con politiche protezionistiche. Di fatto non hanno aderito alla convinzione diffusa che la libertà di commercio, consentendo a ciascun paese di sviluppare i settori dove ha un vantaggio relativo (teoria dei costi comparati con cui Ricardo e Mill avevano spiegato come si struttura l'economia mondiale), finisce per avvantaggiare tutti. La tesi del libero scambio tra paesi era stata respinta in Germania anche sulla base di diverse teorie economiche. In verità alle scelte politiche protezionistiche, più che le indicazioni di alcune teorie economiche (che riguardano in particolare le industrie nascenti), hanno concorso interessi specifici. In Italia, alla fine del secolo, i grandi industriali del Nord si sono trovati alleati con gli agrari del Sud nella sollecitazione di politiche protezionistiche volte a proteggere le industrie già affermate, che avevano un maggior potere politico (siderurgia, industria tessile), e le colture tradizionali (grano in particolare). Il criterio dell'industria nascente avrebbe dovuto indurre a proteggere nel nostro paese la meccanica piuttosto che la siderurgia. Anche per l'agricoltura si sarebbe dovuto incoraggiare lo sviluppo di colture a maggiore valore aggiunto.
La politica protezionistica adottata ha avuto effetti in parte sfavorevoli (quelli sulla struttura dei prezzi relativi) e in parte favorevoli (la formazione di un'industria di base abbastanza ampia che ha creato condizioni propizie al processo di industrializzazione).Alle politiche protezionistiche sono ricorsi, negli anni cinquanta, diversi paesi in via di sviluppo. Nel periodo postbellico è stato suggerito che, per questi paesi, prospettive di crescita possono essere appunto create dalla sostituzione della produzione interna alle importazioni dall'estero: l'imposizione di dazi diventa allora opportuna. Un esempio cospicuo è offerto dall'India. Siffatte politiche protezionistiche hanno però, in genere, l'effetto di rafforzare il potere monopolistico delle imprese che producono i beni protetti. A un certo punto - è il caso dell'India - gli effetti negativi del rafforzamento delle posizioni monopolistiche finiscono per prevalere sui possibili effetti positivi. Quando di ciò ci si rende conto, può risultare difficile ribaltare politica, proprio per il potere che hanno conseguito le imprese protette. In alcuni paesi, come per esempio il Brasile, in seguito alle politiche protezionistiche, si sono rafforzati i rapporti tra i proprietari e i dirigenti di queste imprese da un lato e i finanzieri e i burocrati dall'altro.
Nei paesi ex comunisti si è posto il problema di come passare all'economia di mercato dall'economia di comando che era fallita sul piano economico, ancor prima che nei suoi presupposti politici. Purtroppo è prevalsa l'opinione di chi riteneva che con l'instaurarsi di regimi democratici e con l'eliminazione di certi caratteri dell'economia di comando (la fissazione politica dei prezzi in particolare) si sarebbero create le condizioni per lo spontaneo realizzarsi di un'economia di mercato di tipo americano. Questo non è avvenuto. L'economia di mercato sotterranea che già esisteva (e che riguardava servizi e produzioni ad opera di piccole imprese) è venuta alla luce. Un certo impulso allo sviluppo di alcuni mercati (anche mercati finanziari) è venuto da una borghesia interna improvvisata (costituita soprattutto da avventurieri) e da imprese e capitali esteri. Il nucleo forte dell'industria (le industrie connesse con gli armamenti) è rimasto però praticamente inalterato anche nel suo potere politico. La mancata realizzazione di determinate infrastrutture, poi, non ha consentito l'affermazione di un largo mercato interno necessaria per stimolare congrui mutamenti nella struttura dell'agricoltura.
Le esperienze dei paesi ex comunisti mostrano che la nascita di un'economia di mercato è un processo complesso. Per i paesi dell'Est era opportuno avviare una fase di transizione necessaria a creare alcune infrastrutture, a sviluppare certi servizi, finanziari in particolare, a convertire alcune grosse imprese da enti amministrativi in vere aziende produttive, a riportare i prezzi anche dei prodotti offerti da grosse imprese a livelli normali, a creare un sistema fiscale compatibile con l'economia di mercato e capace di correggerne certi difetti. Il passaggio è stato reso più semplice per la Germania dell'Est dall'unificazione politica. I problemi non sono mancati: la transizione è stata caratterizzata da una crisi all'Ovest per il costo della trasformazione dell'economia orientale e all'Est per i cambiamenti nelle relazioni industriali e per i livelli di disoccupazione ai quali non si era certo preparati. Il potenziale produttivo di cui disponeva la Germania dell'Ovest e una politica intelligente che è riuscita a tenere sotto controllo le relazioni sociali ha consentito il rinnovamento quasi completo dell'assetto industriale dell'Est. Ora la Grande Germania ha modificato le prospettive dell'Europa e l'intero assetto dell'economia mondiale.
Per meglio comprendere i problemi che comporta il passaggio dall'economia di comando all'economia di mercato, si deve tener presente che dell'economia di mercato vi sono diversi tipi. A distinguerli sono varie istituzioni, oltre a quelle che in alcuni paesi mirano a tutelare la concorrenza. In Giappone, anche per il particolare contesto culturale, la competizione si associa a forme di collaborazione che tra le grandi imprese si realizzano grazie al ruolo che svolge lo Stato; una certa associazione tra concorrenza e competizione si osserva anche all'interno della grande impresa. Negli Stati Uniti si è cercato di realizzare forme particolari di concorrenza all'interno di grandi imprese (conglomerate).
Una differenza tra le economie di mercato riguarda il ruolo del mercato finanziario. Negli Stati Uniti la possibilità per operatori esterni di acquisire con Offerte Pubbliche di Acquisto (take-over) il controllo di imprese che ritengono di rendere con la loro gestione più efficienti e redditizie stimola l'efficienza nel breve periodo. Non altrettanto si può dire se si considerano le strategie volte a migliorare le prospettive di lungo periodo, particolarmente attraverso certe ristrutturazioni e innovazioni: queste infatti possono comportare minori rendimenti nel breve periodo rispetto ad altri tipi miopi di gestione. La superiorità in certi settori del Giappone è da diversi studiosi spiegata con riferimento al carattere misto, finanziario-industriale, dei grandi complessi per cui non si possono profilare tentativi di take-over.
2. Le politiche monetarie nelle concezioni liberiste della politica economica
Già all'inizio del secolo scorso si era diffuso il convincimento che il mercato non può regolare l'offerta di moneta (che invece dipende anche dalle decisioni delle banche). Lo Stato, poi, deve regolare la quantità della moneta per poter mantenere il paese nel sistema monetario internazionale.
La moneta nazionale ha potere liberatorio (è moneta legale) solo nei confini dello Stato. Occorre quindi un meccanismo che assicuri che i debiti che si contraggono con cittadini di altri paesi siano regolarmente pagati. Questo avveniva automaticamente nel sistema aureo in cui le varie monete erano ancorate all'oro. Dollari e sterline sono acquistati e venduti nel mercato valutario italiano: i loro prezzi (i cambi) risultano dalla domanda, proveniente, principalmente, dagli importatori che debbono pagare i loro fornitori esteri e da coloro che vogliono trasferire capitali all'estero, e dall'offerta che viene, in gran parte, dagli esportatori e dagli stranieri che intendono investire in Italia. Se la parità aurea della lira è 0,001 grammi d'oro e quella della sterlina è un grammo d'oro, il cambio non può allontanarsi di molto da quota 1.000. Infatti inviando un grammo d'oro alla zecca inglese si può ottenere una sterlina. Se una tale operazione costa 20 lire, il cambio non può salire oltre 1.020. Se ciò dovesse verificarsi, non converrebbe acquistare la sterlina sul mercato ma ottenerla trasferendo oro in Inghilterra. Il sistema aureo assicurava così una certa stabilità dei cambi (le cui fluttuazioni dovevano mantenersi entro una certa banda), la stabilità del valore esterno della moneta era ritenuta opportuna per ridurre i rischi che comporta l'effettuare operazioni con l'estero.
Perché il sistema funzioni e assicuri, di riflesso, che tutti i debiti siano pagati occorre che la Banca centrale regoli la quantità di moneta in circolazione secondo precisi criteri. Quando vi è un deficit nella bilancia dei pagamenti, ad esempio perché c'è stato un forte calo delle esportazioni, per cui sono più le sterline domandate che quelle offerte e quindi il cambio sale, si avrà un'uscita di oro che proviene dalle riserve della Banca centrale. Questa deve allora ridurre la circolazione monetaria alzando i tassi di interesse. La riduzione della quantità di moneta in circolazione (che si scambia con la quantità di merci prodotte supposta invariata) produce un calo dei prezzi. Diventa allora conveniente per gli stranieri comperare le nostre merci, mentre per i nostri consumatori diventa meno conveniente acquistare le merci estere che possono essere sostituite con merci nazionali ribassate: questi gli effetti di una riduzione della massa monetaria per i neoclassici. Per Keynes il rialzo del tasso di interesse riduce gli investimenti; la riduzione degli investimenti comporta una riduzione della domanda globale di beni e quindi una riduzione delle importazioni cui si può associare un aumento delle esportazioni. Sia che si accetti la teoria neoclassica, sia quella keynesiana, l'effetto della politica monetaria restrittiva è di riaggiustare i conti con l'estero. L'aumento del tasso di interesse, poi, può indurre gli stranieri ad accrescere gli investimenti in Italia: anche questo effetto concorre a ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti.
Se si hanno cambiamenti strutturali, ad esempio se i sindacati sono riusciti ad ottenere salari troppo elevati per cui diventa difficile esportare all'estero, il governo può essere indotto a svalutare la moneta. Ciò significa che fermi restando i prezzi, poniamo in sterline, dei nostri prodotti, essendo il valore normale della sterlina salito da 1.000 a, poniamo, 1.050, i nostri esportatori possono espandere le loro vendite all'estero. La svalutazione, però, provoca un rincaro dei beni importati che in buona parte - si pensi al petrolio - non possono essere sostituiti con produzioni interne. Se il rincaro dei beni importati, equivalente, quanto a tasso, alla svalutazione, dovesse estendersi a tutti gli altri beni, per la cui produzione direttamente o indirettamente i primi sono impiegati, la svalutazione sarebbe senza effetto. In genere però i salari non crescono allo stesso tasso. Si ha quindi un abbassamento del costo del lavoro: ciò significa, nell'esempio fatto, che si elimina la causa dello squilibrio nei conti con l'estero. Il sistema monetario internazionale si fa così carico del funzionamento corretto delle varie economie.Il sistema aureo è entrato in una crisi definitiva in seguito alla grande depressione. Dopo la seconda guerra mondiale a Bretton Woods si è creato un altro sistema ancorato all'oro particolarmente attraverso il dollaro, che aveva finito per rimpiazzare la sterlina nella formazione della liquidità internazionale, risultante in primo luogo dalle riserve delle banche centrali. Il Fondo Monetario Internazionale opera in modo da assicurare la stabilità dei cambi che il sistema aureo è in grado di produrre 'spontaneamente'.
Anche il sistema di Bretton Woods è entrato in crisi il 15 agosto 1971, quando Nixon ha sospeso la convertibilità del dollaro in oro. Dal regime di cambi fissi si è passati al regime di cambi flessibili. Secondo alcuni economisti (Friedman) il regime di cambi flessibili non richiede l'intervento della Banca centrale (consentendo una maggiore libertà nell'impostazione della politica monetaria). Se c'è uno squilibrio sul mercato valutario per cui, ad esempio, sono più i dollari che si domandano di quelli che si offrono, il cambio si modifica (nel nostro esempio sale) e provoca quei mutamenti della domanda e dell'offerta di valuta che si richiedono per ripristinare l'equilibrio. In realtà un regime di cambi flessibili puro provocherebbe una tale instabilità nei mercati valutari da compromettere il funzionamento del sistema economico mondiale. In effetti, il sistema dei cambi flessibili non funziona mai secondo il modello teorico. La differenza tra i due regimi consiste allora nel fatto che in quello a cambi fissi la Banca centrale deve intervenire quando si manifestano squilibri sui mercati valutari, in quello a cambi flessibili essa può intervenire, essendo libera di lasciare fluttuare il cambio o di stabilizzarlo.
C'è uniformità di pareri fra economisti classici e neoclassici riguardo alla necessità di una politica monetaria finalizzata non solo agli obblighi che derivano dal sistema monetario internazionale, ma anche ad alcuni obiettivi che si pongono alla politica economica: segnatamente la stabilità dei prezzi. Occorre ricordare che, secondo i neoclassici, l'economia pura spiega come si formano i valori relativi e le quantità prodotte e impiegate (dalle imprese e dai consumatori), ma non spiega il livello assoluto dei prezzi, che è spiegato dalla teoria quantitativa della moneta. Un aumento nella quantità di moneta in circolazione (poniamo del 5%), se il livello di produzione, determinato dalle caratteristiche reali dell'economia, resta immutato e se non varia la velocità di circolazione della moneta, provoca un aumento dei prezzi corrispondente (del 5%).
La stabilità dei prezzi è considerata un obiettivo socialmente, prima che economicamente, desiderabile: l'inflazione è una forma di rapina della ricchezza dei cittadini da parte dello Stato, il principale responsabile della crescita della moneta offerta.
Ma tra l'obiettivo della stabilità dei prezzi e quello della stabilità dei cambi si può instaurare un conflitto. Per mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti (stabilizzare cioè il cambio) può essere necessaria una certa fluttuazione dei prezzi interni: non è allora possibile perseguire la stabilità dei prezzi insieme alla stabilità dei cambi.La quantità di moneta (che non è rappresentata solo dalla moneta legale, ma anche da quella bancaria: gli assegni) può aumentare in seguito alle politiche delle banche. Se si afferma un clima di ottimismo, industriali e commercianti possono chiedere denaro in prestito che le banche sono in grado di concedere. Può così avere inizio una fase di espansione: crescono i prezzi, ma cresce anche la produzione. La situazione non può però durare a lungo. Non appena ci si rende conto che l'ottimismo non era del tutto giustificato (in seguito al fallimento di qualche impresa), le banche cercano di 'rientrare' provocando altri fallimenti: si passa dall'espansione alla depressione. È convincimento diffuso che queste fluttuazioni cicliche debbano essere smorzate. Occorre cioè stabilizzare l'economia.
E così i problemi della politica monetaria si complicano. Quali obiettivi deve perseguire la politica monetaria: stabilizzare l'economia, i prezzi o il cambio?
Per i neoclassici se il sistema mondiale funziona efficacemente, se vi è libertà di movimento dei capitali e se le politiche economiche dei vari paesi sono corrette, si dovrebbe mantenere un certo equilibrio che rende i tre obiettivi della politica monetaria compatibili, quanto meno nel medio termine. L'incremento della produttività del lavoro tende a tradursi in un aumento dei salari reali. Se in un paese la produttività del lavoro è più elevata di quella che si ha in un altro, i salari reali saranno nel primo maggiori di quelli che si stabiliscono nel secondo.
3. La concezione keynesiana della politica economica. Il problema dell'occupazione
Per i neoclassici al fine di preservare il regime concorrenziale, oltre a un'efficiente legge antitrust, occorrono comportamenti dello Stato conformi (che rispettano e favoriscono il funzionamento dei meccanismi di mercato); occorre cioè che lo Stato non crei privilegi, ad esempio per le modalità con cui sono assegnati i lavori pubblici. Il mercato lasciato così libero e non distorto basta ad assicurare la piena occupazione. Vale allora la legge di Say: se un'economia, anche per la quantità di lavoro disponibile, è in grado di produrre 100, si creeranno redditi che determineranno una domanda globale - di beni di consumo o di beni di investimento (questi ultimi avranno un valore uguale al risparmio) - per 100. Infatti se del valore della produzione (che diventa reddito per i vari agenti) solo l'80% è consumato, vuol dire che i consumatori offrono risparmio per il 20%. Il tasso di interesse si modificherà in modo da provocare un equivalente ammontare di investimenti. Ciò significa che la domanda globale di beni di consumo e di beni di investimento è uguale al valore della produzione potenziale. Certo, esiste un problema di struttura della produzione (l'80% dei beni debbono essere di consumo, il 20% di investimento): esso è, però, risolto dal meccanismo dei prezzi che si modificano fino a rendere in ogni mercato la domanda uguale all'offerta. Quindi la domanda globale uguaglia l'offerta.
Questa concezione, per la quale l'economia reale non costituisce un problema per la politica economica, difficilmente poteva essere mantenuta dopo la grande crisi del 1929. Keynes propone una concezione alternativa: non è l'offerta che crea la domanda, ma la domanda (per beni di consumo e beni di investimento) che determina l'offerta, vale a dire il livello dalla produzione e quindi quello dell'occupazione. Si può quindi verificare una disoccupazione involontaria che non può essere eliminata con riduzioni dei salari (queste potrebbero addirittura avere effetti perversi).
Alla politica economica si pone quindi un obiettivo, che non ha alcun senso nella concezione neoclassica, ma che acquista una posizione prioritaria in quella keysiana: l'obiettivo della piena occupazione.
Lo Stato ha diversi strumenti con cui può perseguire questo obiettivo, il cui conseguimento nei vari paesi rende assai meno rilevanti gli obiettivi posti alla politica economica e già ricordati. Oltre agli strumenti della politica monetaria si possono adoperare quelli della politica fiscale per elevare il livello di occupazione. La domanda di beni non proviene solo dai privati (che li richiedono a scopo di consumo o di investimento) ma anche dallo Stato: direttamente (domanda di beni e di servizi per lo svolgimento delle sue funzioni) o indirettamente (concessione di sussidi che consentono ai beneficiari di aumentare la loro domanda di beni). Lo Stato può indurre un aumento della domanda privata con una riduzione nelle imposte che accrescono il reddito disponibile delle famiglie o i risparmi delle imprese, che possono così aumentare i loro investimenti.
Prima di Keynes era opinione diffusa che il bilancio dello Stato dovesse essere in pareggio. Allora si doveva evitare che il sovrano prelevasse con le imposte fondi superiori a quelli necessari per sostenere le spese; ora il problema si presenta in termini rovesciati: occorre evitare che i parlamenti decidano spese in deficit con il rischio che, attraverso l'inflazione, siano fraudolentemente sottratte risorse ai cittadini.
Usare la leva fiscale - aumenti della spesa o riduzioni delle entrate - per accrescere la domanda interna e quindi la produzione e l'occupazione, significa provocare un deficit di bilancio. Keynes era però convinto che a periodi in cui la politica di sostegno dell'occupazione richiede deficit di bilancio seguono periodi in cui sono possibili avanzi di bilancio. Il vincolo del pareggio del bilancio, stabilito in molti paesi dalla stessa costituzione, deve essere rispettato nell'impostazione della strategia fiscale di medio termine.
Keynes non butta quindi alle ortiche il principio del pareggio del bilancio: esso deve essere perseguito in un congruo orizzonte temporale, tale da consentire di adeguare nei vari momenti la domanda al reddito potenziale, cioè a quello che può essere prodotto con la quantità di lavoro disponibile. Keynes ritiene che, in prima approssimazione almeno, in presenza di occupazione involontaria un'espansione della domanda indotta dalla politica fiscale non provochi incrementi nei prezzi.In alternativa, invece degli strumenti fiscali si possono usare quelli della politica monetaria. Se le autorità monetarie riducono il tasso di interesse, si ha un aumento degli investimenti e quindi della domanda globale. L'aumento della domanda è superiore all'incremento degli investimenti, secondo il meccanismo del moltiplicatore. Se gli investimenti aumentano di 100, si ha un primo aumento del reddito di 100 che in parte (supponiamo per l'80%) viene speso per beni di consumo; si ha così un secondo aumento del reddito di 80, cui segue un terzo e così via. In complesso il reddito aumenta di 500.
Per Keynes quindi la politica monetaria ha effetti sull'economia reale. Poiché Keynes ha fiducia nei meccanismi di mercato capaci di determinare un'efficiente distribuzione delle risorse tra i vari settori, gli obiettivi della politica economica che interessano l'economia reale si possono individuare mediante modelli macroeconomici. Ciò che importa, quando si ha disoccupazione, è elevare la domanda globale.
La politica economica, come sottolineato, ha anche altri obiettivi da perseguire: quello della stabilità dei prezzi e quello del pareggio del bilancio. Per Keynes il primo non appare rilevante. Processi inflazionistici diventano possibili solo se il sistema tende a portare la domanda al di sopra del reddito potenziale: un'eventualità che egli, condizionato dalle esperienze della grande crisi, sembra ritenere assai poco probabile.
Il problema dell'equilibrio esterno appare invece rilevante soprattutto agli studiosi che hanno elaborato il pensiero di Keynes. La sua teoria è stata formalizzata ed elaborata ad opera di vari autori, in particolare da John Hicks, mediante la nota curva IS - con la quale si esprimono le combinazioni di reddito e tasso di interesse in corrispondenza di ciascuna delle quali si ha equilibrio nel mercato dei beni domandati a scopo di consumo e di investimento - e la curva LM, con la quale si esprimono le combinazioni di reddito e di tasso di interesse cui sono associati altrettanti equilibri nel mercato monetario, dove l'offerta di moneta è fissata dall'autorità monetaria, mentre la domanda dipende dal reddito e dal tasso di interesse essendo motivata dalle esigenze di transizione e da ragioni precauzionali e speculative: l'equilibrio macroeconomico si ha quando il tasso di interesse si è portato al livello in corrispondenza del quale si ha equilibrio sia sul mercato dei beni che su quello monetario. Utilizzando questo modello, si è cercato di individuare quelle combinazioni di politica fiscale e di politica monetaria che possono consentire di raggiungere contemporaneamente l'equilibrio interno (di piena occupazione) e l'equilibrio esterno (il pareggio della bilancia dei pagamenti): se si ha una situazione di sottoccupazione, con un deficit della bilancia dei pagamenti, una politica monetaria restrittiva, attraendo capitali dall'estero, tende a portare la bilancia dei pagamenti in pareggio: con la politica fiscale si può indurre un aumento della domanda interna che consente di impiegare le forze di lavoro disponibili.
I temi della politica monetaria e della politica fiscale, insieme a quelli della politica valutaria (svalutando la lira si possono espandere le esportazioni e ridurre le importazioni), diventano i temi centrali nelle trattazioni di politica economica. Alcune di esse si saldano con le (per non dire si risolvono nelle) trattazioni di macroeconomia keynesiana, in alcuni casi allargate in modo da 'ospitare' anche le teorie monetariste.
Per Keynes se aumenta la quantità di moneta offerta la gente si sbarazza dell'eccesso di moneta rispetto al livello desiderato a scopo di transazione acquistando titoli: salgono allora le quotazioni, il che significa che si riduce il loro rendimento (il tasso di interesse). Questa tesi è respinta da Friedman, che rivaluta la teoria neoclassica della moneta. A un eccesso di moneta finisce per associarsi un eccesso di domanda che non può che provocare un aumento dei prezzi. In verità anche alcuni keynesiani avevano riconosciuto che, pure in condizioni di disoccupazione, se si forza la domanda per elevare il numero di lavoratori impiegati, si provoca un processo inflazionistico. All'operatore pubblico si offre allora un trade off tra maggiore occupazione e maggiore inflazione. Per Friedman questo è un fenomeno transitorio riconducibile alle aspettative che non tengono conto dell'effetto - che alla fine si impone - della crescita dei prezzi.
Friedman ritiene poi che, in ogni caso, gli effetti delle variazioni nella politica monetaria (riduzione dei tassi e aumento della moneta offerta) si manifestano con un certo ritardo, magari proprio quando, essendo cambiata la congiuntura, si dovrebbe operare in senso opposto. La sola politica monetaria razionale è quindi quella di adeguare l'offerta della moneta alle potenzialità di crescita dell'economia. In tal modo i prezzi tendono a restare stabili e aumenta la probabilità di aspettative corrette.Interventi fiscali volti a modificare la congiuntura sono visti con un certo sospetto, soprattutto se si realizzano attraverso aumenti della spesa pubblica che accentuano la presenza dello Stato a scapito dell'efficienza dell'economia e della libertà dei cittadini.
Negli anni cinquanta e sessanta sono state adottate politiche che apparivano in linea con i precetti keynesiani. A ben vedere, però, esse perseguivano, insieme a obiettivi keynesiani, anche altri obiettivi. In alcuni paesi, soprattutto in Inghilterra e nei Paesi Scandinavi, si riteneva che alla politica economica si dovessero porre anche obiettivi sociali. Di fatto le politiche sociali effettivamente realizzate non erano proprio quelle che le nuove teorie del benessere sociale andavano delineando: erano piuttosto il risultato delle pressioni che sul potere politico esercitavano le varie classi e i vari gruppi. Soprattutto in Italia l'espansione crescente della spesa pubblica non è stata il risultato, se non in piccola parte, del tentativo di costruire lo Stato sociale, ma piuttosto l'effetto delle politiche assistenzialistico-clientelari, praticate soprattutto nel Sud, di cui si sono avvantaggiati tutti (lavoratori, disoccupati, imprese, professionisti). Fino agli inizi degli anni ottanta, grazie all'elevata crescita della produttività, gli effetti negativi delle politiche assistenzialistiche sono stati facilmente assorbiti (e rilevanti sono stati gli effetti positivi sulla domanda); successivamente le conseguenze sull'efficienza dell'economia sono diventate molto serie e forti sono state le tensioni sociali.
A questi effetti negativi sulla produttività dell'economia delle politiche più o meno correttamente qualificate come keynesiane hanno finito per reagire vivacemente i monetaristi. Le loro posizioni sono state radicalizzate dai teorici delle aspettative razionali e dai sostenitori della nuova macroeconomia classica. Per costoro non è possibile modificare, con misure di politica monetaria, le caratteristiche fondamentali dell'economia. Il mercato è in grado di realizzare, sia pure con fluttuazioni peraltro irrilevanti, un equilibrio continuo. Gli operatori, che conoscono come funziona il sistema economico, se sono informati tempestivamente delle scelte di politica economica agiscono in modo da contribuire a portare il sistema sulla sua posizione di equilibrio. La migliore politica economica, quindi, è non adottare alcuna politica economica. Il problema che per questi liberisti a oltranza si pone è in un certo senso opposto: occorre rimuovere i vincoli che gli interventi passati hanno prodotto e che riducono la libertà d'iniziativa e quindi frenano la crescita. Le attività che, spesso per scopi sociali malintesi, sono state attribuite allo Stato debbono ritornare ai privati.
Più interessante dello sbocco rappresentato dalla nuova macroeconomia classica è una nuova concezione della politica economica, essa pure di orientamento liberista, quanto meno nella versione americana, che è nota come supply-side-economics. Sia le politiche suggerite da Keynes, sia quella sostenuta da Friedman sono politiche della domanda: per Keynes una domanda che lo Stato deve pilotare per realizzare il reddito potenziale, per Friedman una domanda che il sistema tende spontaneamente a produrre, in grado di mantenere il tasso di disoccupazione al suo livello naturale.
La supply-side-economics, in un certo senso, rovescia l'ottica. Ciò che si può fare è modificare le condizioni che determinano l'offerta. Alcuni economisti americani hanno sostenuto che una politica fiscale appropriata - di riduzione delle imposte - avrebbe indotto una maggiore offerta di lavoro, in quanto ai salari ottenuti sarebbe corrisposto un maggiore reddito disponibile, e incoraggiato l'attività imprenditoriale. Con una tale politica si poteva così influire sull'economia reale: il reddito avrebbe finito per aumentare e con esso anche le entrate fiscali che, malgrado la riduzione delle aliquote, avrebbero potuto risultare superiori a quelle precedenti. Queste aspettative, maturate durante la campagna per l'elezione (la prima) a presidente di Reagan, non si sono, in effetti, realizzate.
L'ottica dell'economia dell'offerta appare però fruttuosa. Vi sono diversi interventi che possono provocare un aumento dell'offerta (nella terminologia keynesiana si può dire che aumenta il reddito disponibile, a parità di manodopera disponibile). Le concezioni pregiudizialmente liberiste non consentono di individuare tutti gli interventi (e segnatamente le modifiche istituzionali) che appaiono giustificati nella nuova ottica. Si tratta, per l'Italia in particolare, di interventi che riguardano i problemi della flessibilità del mercato del lavoro, della qualificazione scolastica e della riqualificazione del lavoro, del mercato delle case (l'imposta del registro e l'INVIM ostacolano acquisti e vendite di case e quindi creano ostacoli alla mobilità territoriale), degli istituti che possono limitare o estendere il ricorso alla borsa (da parte soprattutto delle piccole imprese). I temi dell'economia dell'offerta hanno attirato scarsa attenzione da parte degli studiosi della politica economica anche per l'affermarsi delle teorie delle aspettative razionali e della nuova macroeconomia classica.
4. Nazionalizzazioni e programmazioni
In Italia lo Stato ha finito per acquisire la proprietà di un cospicuo settore del sistema produttivo (industrie e banche), sia per esigenze militari (ricordiamo l'industria siderurgica di Terni), sia per operazioni di salvataggio (la più rilevante è stata quella attuata nel 1933 che portò alla creazione dell'IRI: Istituto di Ricostruzione Industriale). Anche economisti liberali (come Einaudi) riconobbero l'opportunità di porre sotto controllo pubblico quei settori in cui il monopolio non era altrimenti controllabile in modo efficiente. Fu per questa ragione che si varò la statizzazione delle Ferrovie. Negli anni venti venne creata l'AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli) per valorizzare possibili risorse nazionali. Dopo la guerra, alla testa dell'AGIP fu messo Enrico Mattei che riuscì a realizzare, grazie alla scoperta di gas metano in Val Padana e a una intelligente politica di affermazione all'estero, un notevole sviluppo del settore. Per potenziare l'AGIP e associare alle produzioni petrolifere un ventaglio più ampio di attività (particolarmente nel settore chimico) fu creato l'ENI (Ente Nazionale Idrocarburi).
Le attività economiche controllate dallo Stato si trovarono così alle dipendenze di tre enti di gestione: l'IRI, l'ENI e l'EFIM. Quest'ultimo ente era stato creato dopo la guerra per controllare diverse imprese meccaniche che dovevano essere salvate. Nel 1954 venne creato il Ministero delle Partecipazioni Statali per controllare gli enti di gestione e fungere da interfaccia tra il governo e le imprese a partecipazione statale.Nel 1962 si decise di nazionalizzare l'energia elettrica: l'ente che venne creato (ENEL) venne posto alle dipendenze del Ministero dell'Industria. La politica energetica faceva così capo sia al Ministero dell'Industria che a quello delle Partecipazioni Statali.
Il Ministero delle Partecipazioni Statali, segnatamente dopo la morte di Mattei, non assolse i compiti, che molti si aspettavano, di controllo delle imprese pubbliche per stimolarne l'efficienza, e di impostazione di strategie globali. Finì al contrario per favorire nuove connessioni tra la classe politica e il mondo degli affari che, in verità, coinvolgevano non solo quello pubblico, ma anche quello rappresentato dall'industria privata.In Francia, con de Gaulle, si procedette a vaste nazionalizzazioni in settori dell'industria e della finanza: le motivazioni erano in buona parte politiche (penalizzazione delle imprese che avevano collaborato con i Tedeschi). In Inghilterra i governi laburisti nazionalizzarono vari settori, tra cui quello minerario, in cui si rendevano necessarie, per accrescere la produttività, ristrutturazioni che il mercato privato non era in grado di promuovere: questa nazionalizzazione fu accettata anche dai successivi governi conservatori.
La presenza dello Stato nei settori produttivi ha quindi in tutti i paesi ragioni storico-politiche piuttosto che tecnico-economiche. Pur non riuscendo a fornire adeguate spiegazioni dei concreti accadimenti, le motivazioni teoriche con cui si è giustificata la presenza dello Stato nei settori dell'industria e dei servizi rivestono un indubbio interesse per la politica economica.
Una è quella già ricordata: l'esistenza di monopoli naturali. Per questa ragione il servizio postale, quello telefonico e la produzione e distribuzione dell'energia elettrica sono in genere gestiti da imprese pubbliche o, quanto meno, lo sono stati per lungo tempo. Un'altra ragione è la necessità di assicurare uno sviluppo adeguato a certi settori di importanza strategica per il paese (industria siderurgica, delle armi, ecc.). Secondo alcuni studiosi la nazionalizzazione di certi settori è stata vista con favore anche dal mondo industriale poiché con essa si offriva la prospettiva di prezzi bassi per alcuni prodotti (l'energia elettrica ad esempio).
Per meglio comprendere perché alcune imprese sono state create dallo Stato o sono state trasferite al settore pubblico, occorre tuttavia studiare le concrete modalità con cui il processo di industrializzazione ha avuto luogo. In effetti, molte nazionalizzazioni sono state il semplice risultato di operazioni di salvataggio, più o meno apertamente sollecitate dagli stessi gruppi industriali e finanziari.
A proposito dell'intervento dello Stato nell'economia bisogna distinguere tra l'intervento diretto nell'attività produttiva e quello indiretto, che si può avere quando lo Stato condiziona la domanda di servizi - come avviene per i servizi sanitari - o determina direttamente la domanda o gran parte di essa - ad esempio con i programmi di lavori pubblici - in genere con le commesse.La domanda dello Stato presenta alcune caratteristiche peculiari. Essa non si manifesta attraverso acquisti sul mercato, come quelli che può fare un qualsiasi privato, ma si concreta attraverso rapporti diretti che si stabiliscono tra il governo (o la pubblica amministrazione competente) e l'impresa che deve fornire i beni o servizi. Si parla allora di mercati pubblici. La scelta dell'offerente avviene spesso con il sistema dell'asta pubblica, che dovrebbe consentire di scegliere le imprese più efficienti e di assicurare, così, che anche nei mercati pubblici siano preservati certi meccanismi selettivi in grado di indurre risultati simili a quelli che produce il mercato concorrenziale.
Questi risultati non sempre si ottengono, se non altro per i limiti che, per ragioni tecniche, vengono posti alla partecipazione delle imprese e per le difficoltà di configurare delle procedure che consentano di ottenere la migliore produzione o i costi più bassi o una combinazione ottimale di qualità e costo. Il sistema poi, per le possibilità di intesa tra i concorrenti privati e di possibili episodi di corruzione dei funzionari, può produrre risultati perversi.
Quello dell'asta non è il solo sistema con cui lo Stato orienta le produzioni al soddisfacimento della domanda pubblica. In alcuni casi è prevista o consentita la trattativa privata: il che è inevitabile quando la pubblica amministrazione deve seguire da vicino la produzione, le cui caratteristiche essa concorre a determinare, con le sue decisioni, in necessaria collaborazione con l'impresa produttrice.I mercati pubblici, come si è già osservato parlando della politica industriale, possono giocare un ruolo positivo rilevante nella configurazione delle prospettive di sviluppo se i privati sono in grado di prevedere gli acquisti dello Stato sulla base di alcune sue scelte strategiche, quali quelle che negli Stati Uniti sono state elaborate per ragioni soprattutto di politica internazionale. Lo Stato - per meglio conseguire gli obiettivi per i quali è richiedente di certi beni sui mercati pubblici - può favorire la ricerca di cui si avvantaggiano sempre le industrie coinvolte. Lo sviluppo multinazionale di molte imprese americane è stato favorito dall'ampiezza di alcuni mercati pubblici. Il rapido sviluppo di certe produzioni destinate a usi militari ha consentito infatti di sviluppare, con costi pressoché nulli per l'impresa, innovazioni anche in molte produzioni destinate a consumi privati (calcolatori ad esempio), nelle quali quindi è stato facile conseguire posizioni dominanti sui mercati mondiali.
Accanto agli interventi macroeconomici, caratteristici delle politiche keynesiane, e agli interventi settoriali cui abbiamo appena accennato, sono state proposte, negli anni cinquanta, politiche di programmazione in diversi paesi a economia di mercato, segnatamente Francia, Olanda, Italia.
Sulla programmazione o pianificazione si è molto discusso negli anni trenta con riferimento alle esperienze dell'economia sovietica. Barone e, anni dopo, von Mises avevano interpretato la pianificazione come la realizzazione, al centro, di quelle condizioni di efficienza che nell'economia capitalista risultano dalle scelte effettuate in periferia grazie ai meccanismi del mercato. Lange ritiene che meccanismi di mercato possano operare anche in una economia socialista in grado di realizzare le condizioni di efficienza con un maggior grado di libertà. Altri autori (von Hayek in particolare) sostengono che i calcoli necessari per raggiungere situazioni di massima efficienza a livello dell'economia globale sono impossibili da effettuare poiché dovrebbero tener conto delle innumerevoli preferenze dei consumatori. Questa tematica è stata ripresa negli anni settanta (da Kornai in particolare) per esplorare le possibilità di decentramento delle decisioni.In effetti questi dibattiti sulla pianificazione erano pregiudicati dall'ideologia neoclassica, per la quale il compito del mercato è essenzialmente quello di assicurare la massima efficienza nell'impiego di risorse date con riferimento a preferenze assunte anch'esse come date. Il grande sviluppo delle economie capitaliste è però da collegarsi a un altro ruolo del mercato: quello di costituire l'arena per lo sviluppo delle attività imprenditoriali (volte a innovare metodi di produzione e prodotti). L'economia sovietica, a sua volta, non è stata un esempio di economia socialista, ma un particolare regime volto ad accelerare l'accumulazione originaria e lo sviluppo di alcuni settori chiave. L'impossibilità di assicurare, in quel contesto politico-istituzionale, il ruolo del mercato cui si è appena accennato è stato il motivo principale del suo fallimento.
La politica di programmazione che fu tentata nei paesi europei negli anni sessanta non si rapportava né ai modelli teorici discussi da Lange e von Hayek, né alle esperienze sovietiche. Essa si può caratterizzare per contrapposizione, da un lato, alle politiche liberiste (in quanto si considera il mercato come un elemento necessario, ma non sufficiente per raggiungere alcuni obiettivi dell'economia), dall'altro, alle politiche keynesiane (in quanto non vengono perseguiti solo obiettivi globali ma si cerca di provocare cambiamenti strutturali). In effetti ogni strategia di politica economica di medio-lungo termine che preveda politiche infrastrutturali, industriali, sociali (con riguardo allo sviluppo di certi servizi e alle condizioni per assicurare l'accessibilità anche ai non abbienti), che miri a realizzare un complesso di infrastrutture in grado di contribuire al benessere dei cittadini e di migliorare le prospettive dell'economia anche per le maggiori informazioni di cui le imprese si avvantaggiano per la configurazione delle loro strategie di sviluppo, può considerarsi una politica di programmazione. Le politiche adottate negli Stati Uniti - che, come si è visto, hanno creato condizioni particolarmente favorevoli per lo sviluppo di alcuni settori chiave - e le forme di cooperazione tra grandi gruppi e Stato che si sono instaurati in Giappone e che hanno permesso un rapido sviluppo tecnologico soprattutto in alcuni settori, possono considerarsi esempi di programmazione non dichiarata, invero parziale, tuttavia efficace.
Le esperienze di programmazione tentate negli anni cinquanta nei paesi europei si proponevano di raggiungere obiettivi particolari: un'accelerazione della crescita, una riduzione di certi squilibri settoriali e regionali e, in Italia in particolare, un maggiore sviluppo dei servizi sociali. Era convinzione generale che la programmazione comportasse anche alcuni problemi istituzionali: la redazione di un piano preparato dal governo, o da commissioni istituite dal governo, e approvato dal parlamento; si discuteva se il piano dovesse essere considerato un semplice documento di politica economica o assumere il valore di legge da cui derivavano obblighi per i privati e vincoli per le pubbliche amministrazioni. La programmazione doveva per i più essere una programmazione indicativa, risultante da interazioni tra governo e forze sociali (particolarmente grandi gruppi): perciò si parlava anche di programmazione concertata. Non sono mancati studi teoricamente rilevanti sulla programmazione indicativa (ricordiamo quello di Meade).
Gli effetti delle politiche di programmazione effettivamente attuate furono modesti. In Italia si cominciò a parlare di programmazione nel 1954 col Piano Vanoni, che si risolse in uno schema con cui si dimostrava la possibilità, nel contesto che si poteva evincere dagli sviluppi passati, di conseguire un elevato saggio di crescita in grado di ridurre gli squilibri Nord-Sud, riportare a livelli accettabili la disoccupazione, riequilibrare i conti con l'estero.Il cambiamento politico che si ebbe all'inizio degli anni sessanta, con il centrosinistra, si caratterizzò per l'adozione di una politica di programmazione che avrebbe dovuto impegnare governo e parlamento. In effetti i dibattiti che si ebbero nella commissione di esperti appositamente creata e i lavori di ricerca di un istituto affiancato al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica non ebbero alcuna efficacia politica per varie ragioni. Le sinistre erano divise (i comunisti guardavano con diffidenza alla nuova esperienza); i sindacati risentivano di questa situazione; gli industriali, prima ostili, avevano poi accettato la programmazione come giustificazione di una politica dei redditi intesa a ristabilire livelli di profitti adeguati all'esigenza di accumulazione della nostra economia. All'inizio degli anni sessanta, poi, si rese necessaria una politica di stabilizzazione che non era facile conciliare con quella di programmazione anche per i diversi orizzonti temporali entro cui le due politiche dovevano essere concepite.
Al fallimento della programmazione hanno contribuito anche i due orientamenti di pensiero prevalenti: quello degli economisti neokeynesiani, che impostavano la politica in termini essenzialmente macroeconomici e che intendevano, in definitiva, affidare allo Stato una funzione di stimolo della domanda, di rilevanza non solo congiunturale (l'obiettivo centrale essendo quello della piena occupazione); e quello degli economisti riformisti, che concepivano la programmazione come mirante essenzialmente a correggere il grave squilibrio tra la crescita dei consumi privati e lo sviluppo dei servizi sociali in grado di portare a una più equa distribuzione del benessere. Queste due prospettive hanno potuto sintonizzarsi grazie a un comune convincimento: che il problema fondamentale della politica economica fosse essenzialmente quello di modificare, attraverso variazioni negli stanziamenti di bilancio, la struttura della domanda, così da rendere possibile il conseguimento degli obiettivi del piano.
È convinzione diffusa che una distribuzione razionale delle attività economiche sul territorio non si possa ottenere soltanto attraverso i meccanismi del mercato, bensì occorra integrare lo sviluppo delle varie aree con il sistema di infrastrutture che si intende favorire e che, per certi aspetti almeno, deve essere preventivamente promosso da scelte pubbliche: ciò vuol dire realizzare una programmazione territoriale. Quest'ultima dovrebbe essere attuata a diversi livelli: in particolare a livello regionale e a livello comunale, ma in Italia il solo livello che è risultato operativo è quello regionale. Malgrado la legge del 1942 avesse fornito ai comuni gli strumenti atti alla realizzazione di piani comunali e intercomunali potenzialmente in grado di assicurare una valida organizzazione territoriale, in Italia il territorio è stato praticamente saccheggiato dalla speculazione edilizia. Negli anni settanta e ottanta sono state varate a livello regionale norme urbanistiche che non hanno affrontato efficacemente i problemi, in particolare l'interazione tra la programmazione regionale (che si è risolta e si risolve nell'elaborazione di documenti in cui sono accostati i vari obiettivi che coinvolgono il territorio senza una valutazione della loro coerenza e della loro fattibilità) e i vari piani attraverso i quali si organizza e si gestisce il territorio. Problemi di organizzazione del territorio sono stati discussi anche nel contesto della politica per lo sviluppo del Mezzogiorno: politiche che puntavano su sussidi di varia natura si alternavano a politiche volte a creare comprensori in grado di attrarre industrie. Ma la mancanza di coordinamento tra i diversi momenti di queste varie politiche è stata ed è la causa principale del loro sostanziale fallimento.
Il fallimento delle politiche di programmazione era nascosto dallo sviluppo delle politiche assistenzialistiche che, a volte, utilizzavano le prime come paravento. Le politiche assistenzialistiche non solo non hanno portato a una efficace soluzione dei problemi per cui le politiche di programmazione erano state concepite, ma hanno finito per ridurre l'efficienza del sistema economico nel suo complesso.
5. Le reazioni neoliberiste. Deregulation e privatizzazioni
Come abbiamo visto, all'affermarsi delle teorie monetariste si è accompagnata la ripresa delle concezioni liberiste. In effetti negli anni cinquanta e sessanta l'eccessiva estensione dello Stato sociale realizzatasi in alcuni paesi e le politiche assistenzialistiche in altri hanno inciso negativamente sulla produttività del sistema, come abbiamo ricordato. Malgrado gli aumenti nelle imposte, i deficit di bilancio sono andati accumulandosi, provocando una crescita oltre misura del debito pubblico (come è avvenuto nel nostro paese).In questo contesto si sono sviluppate le reazioni liberiste ad opera soprattutto dei ceti medi che, più degli altri, hanno reagito vivacemente alla pressione fiscale cui sono stati soggetti. Si chiedeva di ribaltare le tendenze che si erano manifestate nel passato, prima attraverso l'eliminazione dei vincoli (deregulation), poi con lo smantellamento dello Stato sociale.Tali reazioni hanno trovato espressione in particolare con l'affermazione dei repubblicani negli Stati Uniti (Reagan e Bush) e dei conservatori in Inghilterra (Thatcher).
Le nuove concezioni liberiste sono andate rafforzandosi e diffondendosi. Esse auspicano la realizzazione di uno Stato minimale che si limiti a fornire i servizi pubblici essenziali, come la difesa e l'amministrazione della giustizia, mentre scuola e sanità possono essere gestite da privati. Lo Stato, secondo un suggerimento dello stesso Friedman, può concedere dei sussidi alle famiglie povere così da consentire loro di mandare i figli alle scuole che possono essere create e gestite, con criteri di efficienza, dai privati. Si è cominciato a sostenere che nell'organizzazione della produzione sia di beni sia di servizi debbono contare le preferenze degli individui. Attribuendo allo Stato il compito di produrre e fornire servizi, oltre quelli strettamente legati ai suoi ruoli istituzionali, si finisce invece per affidare a esso scelte che debbono essere il risultato delle decisioni di mercato operate dagli individui. Durante la prima campagna elettorale di Reagan si era affermata anche la peculiare teoria dell'offerta già ricordata: il governo doveva ridurre le aliquote delle imposte sui redditi delle famiglie e sui profitti delle imprese: alla riduzione delle imposte si poteva e si doveva comunque associare una riduzione della spesa. Lo Stato minimale ha bisogno di spendere assai meno dello Stato del benessere che era stato creato nel contesto delle teorie keynesiane e delle concezioni social-riformiste.
Poche teorie furono smentite dai fatti come la teoria appena ricordata. L'amministrazione Reagan ha ridotto le imposte sul reddito, a vantaggio soprattutto dei ceti medi. Più difficile è stato ridurre la spesa: il bilancio federale anziché portarsi al pareggio registrò un continuo aumento del deficit. Ciononostante vi è stata una forte espansione dell'economia, anche per la combinazione di una politica monetaria restrittiva che ha portato a una rivalutazione del dollaro, attraendo capitali, con una politica fiscale piuttosto orientata all'espansione. In Inghilterra il programma dei conservatori (della Thatcher) sembra aver riscosso più successo. Il deficit del bilancio dello Stato è stato eliminato. I risultati però non sono stati incoraggianti. Negli anni 1989-1990, il tasso di inflazione è salito a livelli elevati, superiori a quelli registrati in Italia; mentre il tasso di crescita è stato più elevato nel nostro paese.
Queste esperienze mostrano come la schematizzazione macroeconomica non basti per prevedere i possibili effetti di politiche economiche alternative. Politiche fiscali espansive possono avere effetti diversi a seconda delle politiche 'reali' sottostanti; se esse mirano a migliorare le prospettive dei settori produttivi non si hanno significativi effetti inflazionistici; nel caso opposto il processo inflattivo può essere rilevante.
Sia negli Stati Uniti che in Inghilterra sono state elaborate, con i nuovi orientamenti neoliberisti, proposte di privatizzazione e di deregulation. Si tratta di due orientamenti di politica economica che, anche se di fatto tra loro intrecciati, non debbono essere confusi. Con il termine privatizzazione si intende indicare tutte le misure che riducono il campo delle attività direttamente controllate dallo Stato per aumentare quello delle attività controllate o condizionate dai privati. Con il termine deregulation si intende sottolineare l'esigenza di una riduzione dei compiti dello Stato: una marcia di avvicinamento allo Stato minimale.
Il processo di privatizzazione può risultare da interventi ad hoc dello Stato o anche dal comportamento dei privati. Basti ricordare il crescente ricorso alle cliniche private e a servizi privati sostitutivi di quello postale: di conseguenza molti servizi che prima erano gestiti da amministrazioni o imprese pubbliche sono ora forniti da privati. Sono gli stessi consumatori che reagiscono alle inefficienze dei servizi pubblici rendendo possibile lo sviluppo di attività private che finiscono per sostituirsi a quelle pubbliche.Il processo di privatizzazione può anche consentire ai privati una maggiore partecipazione in imprese che restano sotto il controllo pubblico. In Inghilterra nel 1979 la Thatcher ha trasformato delle Public Corporations in Public Limited Corporations, così da rendere possibile la vendita di una parte delle azioni ai privati. In Italia l'IRI ha messo sul mercato una parte delle azioni che deteneva delle banche di interesse nazionale (Credito Italiano, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma).
Privatizzazione e deregulation possono avere motivazioni ideologiche o pratiche. Le ragioni principali sono le seguenti.
1. Ragioni fiscali. L'estendersi dei compiti dello Stato ha provocato un aumento della spesa al quale non si può associare un congruo aumento delle entrate fiscali, anche per la crescente resistenza dei cittadini ad aumenti del carico fiscale. Con la privatizzazione, come pure con la deregulation, si può rallentare la crescita della spesa. Certe privatizzazioni possono poi provocare entrate straordinarie che consentono di ridurre il deficit dello Stato.
2. Ragioni di efficienza. Non si può affermare che ogni impresa pubblica è inefficiente mentre ogni impresa privata è efficiente. Vi sono inefficienze anche nel settore privato (è con riferimento a inefficienze del genere che dopo la guerra è stata proposta, come si è visto, la nazionalizzazione del settore minerario inglese). Non vi è dubbio però che molte imprese pubbliche presentano inefficienze che potrebbero ridursi se l'impresa passasse al settore privato. Con riferimento a diversi casi si ritiene che la gestione privata possa indurre comportamenti dei sindacati (e dei lavoratori singoli) più favorevoli alla crescita dell'efficienza dell'impresa.
3. Ragioni che attengono alla struttura di potere e alla libera scelta. Sono molti a ritenere che la riduzione della regolamentazione, anche se presenta qualche inconveniente, in relazione alla maggiore difficoltà di conseguire certi obiettivi sociali, comporta vantaggi assai maggiori degli svantaggi. Può aumentare il campo per la libera iniziativa (anche nella produzione di certi servizi ritenuti pubblici si possono realizzare innovazioni che sono tanto più probabili quanto più si lascia libertà di iniziativa) e possono espandersi le stesse possibilità di scelta dei consumatori. A questo riguardo occorre ricordare che spesso si contrappongono due esigenze: quella di garantire un servizio uniforme e controllato e quella di consentire una certa variabilità nell'offerta dei servizi che può facilitarne il miglioramento.
Non bisogna ritenere che la privatizzazione comporti sempre un aumento della concorrenza. Con la vendita di azioni della British Telecom e della British Gas altro non si è fatto, in Inghilterra, che sostituire un monopolio privato a un monopolio pubblico. Questi nuovi indirizzi di privatizzazione e di deregulation hanno quindi effetti non solo sull'efficienza di certe strutture produttive, ma anche sulla distribuzione del potere e, in particolare, sulla distribuzione del reddito. Questi effetti collaterali possono essere considerati indesiderabili, ma accettabili in vista dei vantaggi che si ottengono, o essere considerati essi stessi desiderabili. Di questo sono convinti coloro che ritengono che occorra lasciare spazio all'imprenditorialità e che ciò sia possibile solo riducendo la spesa pubblica e aumentando quella dei property rights.
6. Benessere individuale e benessere sociale nella configurazione della politica economica
Come prima sottolineato, la politica economica è stata inizialmente concepita come una sorta di economia applicata. La distinzione tra analisi del sistema così come è e lo studio dei cambiamenti che a esso si possono apportare - che si era già delineata con J.S. Mill (il quale aveva distinto le leggi relative alla produzione, che sono leggi naturali, da quelle - essenzialmente istituzionali - che regolano la distribuzione dei redditi) - si ripropone con Marshall e Pareto. Le loro posizioni sono diverse. Marshall ritiene che della distribuzione del reddito si possa e si debba occupare anche l'economista in quanto un penny tolto a un ricco e dato a un povero riduce l'utilità del ricco meno di quanto non aumenti l'utilità del povero.
Pareto, al contrario, non ritiene che le 'ofelimità' dei vari individui siano tra loro comparabili. Per Pareto le ofelimità non coincidono con le utilità, in quanto le prime riflettono le preferenze che i consumatori manifestano con le loro scelte sul mercato mentre le seconde concernono valutazioni più ponderate su aspetti oggettivi del benessere di un individuo, di una comunità, della nazione o della umanità. L'economista studia le azioni logiche la cui analisi consente di spiegare gran parte dei fatti oggettivi: deve quindi limitarsi a individuare le strutture dell'economia nelle quali ciascun individuo consegue la massima ofelimità, date le ofelimità ottenute dagli altri individui: allora si raggiunge la 'massima ofelimità per la collettività'. Non si può parlare di massima ofelimità della collettività, in quanto la collettività non è un ente di cui si possa osservare il comportamento (i limiti dello schema concettuale dell'economia costruito a partire dalle azioni logiche sono eliminati da Pareto nel suo trattato di sociologia). Poiché le ofelimità non sono, per Pareto, misurabili (è solo possibile ordinare le combinazioni dei vari beni sulla base di relazioni di preferenza e di indifferenza), il criterio di 'ottimo paretiano', largamente adottato dagli economisti moderni, si può esprimere dicendo che l'efficienza di una economia è massima quando non è possibile migliorare la posizione di un individuo (consentirgli di ottenere una combinazione di beni preferita a quella conseguita) senza dover peggiorare la posizione di altri individui. Di situazioni 'ottime in senso paretiano' esiste una varietà infinita (a n-1 dimensioni se n sono i consumatori). A esse sono associate diverse distribuzioni del benessere. La scelta tra i diversi ottimi è, per Pareto, un problema che non rientra nel campo dell'economia.
Pigou parte dalle posizioni di Marshall per individuare due tappe nella valutazione del benessere economico e dei mutamenti che in esso si verificano. Va ricordato innanzitutto che il benessere economico è solo una parte del benessere globale: precisamente quella parte che può essere misurata con il metro della moneta. La prima tappa è la massimizzazione del reddito nazionale (esso può essere considerato un indice macroeconomico di efficienza che prescinde dalla distribuzione del reddito). Nel definire la seconda tappa, Pigou si ricollega a Marshall: a parità di benessere globale una struttura è preferita a un'altra se nella prima la distribuzione del reddito è meno diseguale. La tassazione del reddito ad aliquote progressive appare quindi giustificata.
Alcuni economisti moderni hanno dimostrato che, date certe condizioni, a ogni equilibrio competitivo del sistema (che si ha quando in tutti i mercati si ha concorrenza perfetta) corrisponde un ottimo paretiano, e viceversa. Dato un ottimo paretiano si può quindi individuare un sistema di prezzi che, associato alla struttura ottima in senso paretiano (definita dalle quantità prodotte e impiegate), configura un equilibrio competitivo. Resta così provata la tesi centrale della concezione neoclassica della politica economica: solo un regime di concorrenza può assicurare il massimo benessere, se il criterio di valutazione è il benessere dei consumatori da massimizzare attraverso l'impiego ottimo delle risorse date.
Abram Bergson negli anni trenta ha cercato di conciliare Marshall con Pareto. Non occorre supporre che le utilità degli individui siano misurabili per poter parlare di 'utilità sociale' (la distinzione operata da Pareto tra utilità e ofelimità non ha avuto successo; solo in lavori recenti sullo sviluppo economico essa fa capolino in alcuni concetti proposti per meglio valutare il benessere di un paese e le sue variazioni). Si può infatti assumere una funzione sociale del benessere, che dipende dalle utilità 'non misurabili' degli individui, per giudicare l'efficienza delle scelte di politica economica. Le implicazioni dei cambiamenti nella distribuzione del reddito possono essere studiate in uno schema più rigoroso come appare essere quello paretiano.
La nozione di funzione sociale del benessere ha consentito due linee di sviluppo delle ricerche di politica economica. La prima ha configurato un campo specifico d'analisi: la comparazione tra diversi sistemi, in particolare la comparazione tra l'economia di mercato e l'economia pianificata (che alcuni hanno potuto identificare con l'economia socialista). A questa linea di sviluppo abbiamo già accennato ricordando in particolare i contributi di Barone, von Mises, Lange e von Hayek.La seconda cerca di utilizzare la nozione di funzione sociale del benessere per valutare gli interventi della politica economica. Essa non ha prodotto risultati rilevanti per lo studio di problemi di politica economica, ma si è occupata sostanzialmente di temi di carattere metodologico. Ricordiamo a questo proposito le analisi teoriche di Frisch e di Tinbergen.
Il ricorso alla nozione di funzione sociale del benessere prospetta un problema che assume ben presto un rilievo che va oltre l'economia. Chi prende in concreto le decisioni che sono riferite allo Stato, di cui la funzione del benessere dovrebbe esprimere le preferenze?
Questa domanda è stata giudicata improponibile da molti economisti che aderiscono all'individualismo metodologico, i quali ritengono cioè che il funzionamento della società si possa comprendere a partire dal comportamento dei singoli individui. La domanda corretta che ci si deve porre diventa allora un'altra: è possibile pervenire a una funzione sociale del benessere a partire dai valori che possono esprimere i singoli individui? I soli soggetti che, in definitiva, decidono sono infatti gli individui.
Un sistema in cui le scelte sono attribuite a un operatore pubblico è un sistema dittatoriale: rilevanti sono allora solo le scelte del dittatore. Il problema è stato affrontato da Arrow in un suo famoso contributo. Alcune ipotesi - le quali appaiono del tutto ragionevoli se si vuole che le scelte collettive risultino da un processo democratico in cui si tengano in debito conto le preferenze di tutti - consentono di stabilire che se le alternative sono due il processo porta a scelte collettive coerenti; se le alternative sono più di due la coerenza delle valutazioni individuali non garantisce quella delle scelte sociali che il processo consente di configurare.In effetti, per porre il problema in modo appropriato, occorre superare i limiti dell'individualismo metodologico. Come è stato dimostrato col cosiddetto dilemma del prigioniero - un esempio di 'gioco', di scelta cioè di una strategia da parte di un agente, il prigioniero, date le scelte (confessare o non confessare) che sono offerte all'altro - vi sono situazioni in cui il comportamento atomistico e indipendente degli agenti non assicura il migliore conseguimento delle stesse finalità individuali: diventa necessaria la cooperazione.
Non sempre però la cooperazione è possibile: in tal caso occorrono istituti e norme che inducano a comportarsi in modo da produrre gli stessi effetti che si otterrebbero con la cooperazione. Vi sono poi beni pubblici e servizi sociali, di cui parleremo fra poco, i cui livelli di produzione non possono risultare dalle scelte operate sul mercato. Occorre quindi far riferimento alla società, più specificatamente a un sistema politico, il quale non può considerarsi un sistema meccanico che produce scelte sociali registrando le preferenze individuali. Esso deve operare in modo da informare, orientare e facilitare la manifestazione delle preferenze individuali, senza pregiudicare la sovranità essenziale dei cittadini, anzi creando le condizioni perché i vincoli siano i più ridotti possibili e la sua efficacia massima. Tra la società e gli individui si stabiliscono interazioni che interessano non solo l'economista ma anche il sociologo.
Nella civiltà dei mass media e dell'informatica diventa centrale il problema dello sviluppo della capacità critica dei cittadini, in mancanza della quale le scelte collettive, lungi dal riflettere le preferenze individuali, sono il risultato della manipolazione delle opinioni e dei sentimenti degli individui ad opera appunto dei mezzi di comunicazione di massa.
Adam Smith aveva già indicato una serie di servizi che debbono essere forniti dalle pubbliche amministrazioni: la difesa del paese, l'amministrazione della giustizia, il mantenimento dell'ordine interno, l'istruzione elementare. In tempi più recenti l'elenco di questi servizi si è ampliato. Si è ritenuto, in molti paesi, che l'assistenza sanitaria debba essere garantita a tutti, quanto meno per certe patologie e in certe condizioni.
Alcuni di questi servizi presentano una peculiarità: sono prodotti per la generalità degli individui e degli enti che di essi potranno beneficiare. Si possono pertanto associare a questi servizi (e in genere a tutta una serie di beni che vengono qualificati come beni pubblici) due caratteristiche: a) la loro produzione presenta il carattere di indivisibilità; quanto meno, essi debbono essere offerti (se del caso congiuntamente) a tutti i potenziali beneficiari; b) dall'uso dei beni pubblici non viene escluso nessuno dei potenziali beneficiari. Questo fatto può essere dovuto a ragioni tecniche (si ripensi all'esempio dei servizi per il mantenimento dell'ordine pubblico) o a ragioni di convenienza economica. L'uso di una strada potrebbe essere precluso a certi individui. In genere, però, ciò non è opportuno. La strada e i servizi connessi costituiscono quindi un bene pubblico.Per alcuni servizi è possibile organizzare la produzione in relazione alla richiesta - più in generale alle esigenze - delle singole persone che ne possono beneficiare. Ciononostante questi servizi sono forniti dallo Stato, o quanto meno è lo Stato che decide quanto di quei servizi deve essere prodotto e assicurato ai singoli individui: la ragione è che, più rilevanti dei vantaggi che da essi ricavano i singoli individui, sono i vantaggi che la loro produzione assicura alla collettività. Che i miei vicini siano sani è certo nel loro interesse; è però anche nel mio interesse, e più precisamente nell'interesse di tutta la comunità, che si avvantaggia delle condizioni di salute di tutti i suoi membri.
Possiamo qualificare come servizi sociali quei servizi (l'istruzione a certi livelli, alcune forme di assistenza sanitaria) che la collettività ritiene opportuno garantire in una certa misura e con certe modalità a tutti i cittadini, pur non presentando la loro produzione carattere di indivisibilità e non dovendo la loro offerta essere per ragioni tecniche assicurata a tutti gli individui (che potrebbero quindi essere singolarmente esclusi dai benefici a questi servizi associati).
Quando si tratta di servizi sociali occorre distinguere il problema della domanda dal problema della produzione. La domanda dei servizi pubblici non può essere il risultato delle scelte che i potenziali utilizzatori possono manifestare sul mercato. Essa risulta da decisioni politiche, e ciò anche perché molti cittadini non sono in grado di valutare correttamente le loro esigenze; potrebbero, ad esempio, sottovalutare i benefici di una più elevata istruzione e di una più solerte cura della loro salute.
I servizi sociali, la cui domanda è così determinata, essenzialmente, dalle decisioni dello Stato, non devono essere necessariamente prodotti da imprese o amministrazioni pubbliche. Cliniche e scuole private possono contribuire alla efficiente produzione dei servizi relativi alla sanità e alla istruzione, rispetto ai programmi stabiliti dallo Stato.In relazione ai beni pubblici si è posto il problema se, con opportuni sondaggi, si possa arrivare a stabilire prezzi che assicurino la massima efficienza del sistema produttivo volto a soddisfare sia le preferenze manifestate sul mercato sia quelle rilevate in altri modi. Quando si tratta di beni che si acquistano sul mercato, i consumatori debbono rivelare le loro vere preferenze: se non lo fanno i beni non saranno prodotti in sintonia con le loro esigenze. La situazione è diversa quando si tratta di un bene pubblico, dal cui uso, ricordiamolo, nessun cittadino può essere escluso. Perché il consumatore dovrebbe rivelare le sue vere preferenze? Non ha egli convenienza a far credere che non è poi tanto interessato al bene pubblico così da ottenere che il prezzo che per il bene pubblico egli deve pagare sia più basso? A indicare questo prevedibile atteggiamento del consumatore, interessato a che il bene pubblico sia prodotto senza che egli debba sostenere un costo, si usa, nella letteratura anglosassone, il termine di free rider. Se tutti si comportano come free riders, il bene pubblico non viene prodotto, o, nel migliore dei casi, viene prodotto in misura assai inferiore a quella che assicura la realizzazione di una situazione ottima in senso paretiano. Peraltro l'applicazione della nozione di ottimo paretiano non sempre appare appropriata. Si è infatti osservato che molti servizi sono trattati come servizi sociali appunto perché i cittadini sono insufficientemente informati e non sono, comunque, in grado di valutare correttamente le loro esigenze relativamente a tali servizi (di istruzione e di sanità in particolare).
Nella teoria dell'equilibrio generale si assume in genere che tutti gli effetti negativi che discendono dalle scelte di ogni individuo si traducano in costi per chi ha effettuato la scelta. Analogamente si suppone che tutti i benefici che le scelte individuali producono diano luogo a ricavi di cui beneficiano gli agenti che le hanno effettuate. Queste condizioni sono necessarie perché il meccanismo concorrenziale possa portare a una situazione ottima in senso paretiano. Solo se esse sono soddisfatte ogni agente, cercando di ridurre i costi e di aumentare i ricavi, opera in modo da ridurre tutti gli effetti negativi per la collettività e di aumentare tutti quelli positivi.Vi sono, però, delle situazioni in cui i vantaggi che un'alternativa comporta non si traducono tutti in ricavi per chi può, o meno, adottare quell'alternativa. Un esempio classico: i vantaggi che un apicoltore ottiene per il fatto che un floricoltore si stabilisce nelle sue vicinanze; questi vantaggi non si traducono in ricavi per il floricoltore che con le sue scelte li provoca. Vi sono, al contrario, delle situazioni in cui con le sue decisioni un agente provoca dei danni ad altri, senza alcun riflesso sui suoi costi. Un esempio: il danno derivante agli agricoltori dagli inquinamenti delle acque di un fiume, da essi utilizzate, provocati dalle industrie che vi scaricano i rifiuti delle loro lavorazioni.
Gli effetti positivi (negativi) che seguono a certe decisioni di un agente e che non si traducono in incrementi dei suoi ricavi (costi) si usano indicare con il termine di economie esterne (diseconomie esterne). In entrambi i casi si parla di esternalità. In presenza di esternalità, il criterio del profitto non assicura - neppure se i mercati sono di concorrenza perfetta - il conseguimento di stati ottimi in senso paretiano.
Alcune decisioni di politica economica possono creare economie esterne a favore di particolari agenti. Ad esempio la costruzione di una ferrovia può favorire la valorizzazione delle zone agricole che vengono efficientemente collegate con le aree urbane. L'insediamento in una determinata area di certe attività industriali può renderla più attraente per l'insediamento di altre. La localizzazione di industrie tessili che impiegano prevalentemente manodopera femminile può contribuire a migliorare il mercato del lavoro e rendere più conveniente l'insediamento di altre attività industriali che impiegano manodopera in prevalenza maschile.
Quando è la localizzazione di certe attività o l'esecuzione di certe opere pubbliche (infrastrutture) a creare nell'area interessata vantaggi per altre imprese, si parla di economie di localizzazione. L'insediamento di certi servizi, soprattutto, può favorire lo sviluppo economico di una regione. Oggi difficilmente una regione può registrare una sostenuta crescita industriale se non ospita anche attività culturali. In certe aree sottosviluppate, per favorire lo sviluppo industriale, sono state create particolari strutture di ricerca. A favorire lo sviluppo economico può contribuire l'insediamento di attività ricreative che rende la zona attraente anche per le famiglie dei dirigenti delle imprese e dei tecnici.
Di alcune economie (o diseconomie) esterne possono beneficiare (o risentire) anche i consumatori. L'insediamento di certe attività industriali in un'area può renderla meno gradevole per le persone che vi stabiliscono la loro residenza. Di contro la conservazione del paesaggio, che certi interventi delle pubbliche amministrazioni possono assicurare, può aumentare il benessere delle popolazioni dell'area interessata, divenuta più salubre e più attraente.
L'ambiente è il principale input del turismo. Mari e monti sono stati però, in genere, considerati come risorse naturali permanenti. Le frane che si verificano con preoccupante frequenza sulle nostre montagne e il crescente inquinamento dei nostri mari rendono ormai chiaro a tutti che si tratta di beni da tutelare.L'organizzazione del territorio, in particolare la pianificazione urbanistica, assume quindi un rilievo primario anche per la preservazione dell'ambiente.Per avvicinare il risultato delle scelte individuali all'ottimo quale si configura se si tiene conto anche delle esternalità, si può procedere a individuare congrue imposte o sussidi. Supponiamo che un'impresa abbia due alternative di localizzazione: stabilirsi nella regione A o in un'altra regione B. Il suo profitto è di 100 se si localizza in B e di 95 se si localizza in A. Evidentemente per l'impresa non sarà conveniente localizzarsi in A. Supponiamo ora che la localizzazione in B non crei alcuna economia o diseconomia esterna, mentre la localizzazione in A crei un beneficio netto per la collettività, che si può stimare, in termini monetari, in 10. Evidentemente dal punto di vista della collettività sarebbe preferibile la localizzazione dell'impresa in A. Se si assicura un sussidio superiore a 5 e inferiore a 10 all'impresa che si stabilisce in A, possiamo ottenere l'ottimo sociale, e cioè la massima efficienza del sistema quando si considerano anche le esternalità, attraverso le decisioni degli individui orientate da un opportuno sistema di imposte e sussidi. Per determinarlo però occorre valutare i possibili assetti alternativi: questo è il compito della programmazione, intesa come strategia, della quale abbiamo già parlato.
Il problema della preservazione dell'ambiente è andato assumendo crescente importanza. Esso non interessa solo la politica economica interna dei vari Stati: la sua soluzione esige decisioni a livello internazionale. I processi di inquinamento possono compromettere l'ambiente inteso come l'insieme delle condizioni naturali che concorrono a configurare lo spazio in cui vivono gli uomini. L'ambiente deve essere considerato un bene pubblico che interessa, oltre alle generazioni presenti, anche quelle future. Il problema che è stato posto con la nozione di funzione sociale del benessere diventa allora assai più complesso.
Diverse sono le caratteristiche economicamente rilevanti dell'ambiente: 1) la salubrità, cioè gli effetti che l'ambiente ha sulla salute degli uomini che vi vivono; 2) l'utilità diretta per gli individui: ad esempio, la bellezza del paesaggio; 3) la produttività, più precisamente quelle proprietà che contribuiscono alla produttività dei fattori impiegati nell'area: ad esempio la produttività dell'acqua per la pesca e per l'irrigazione dei terreni, tale produttività diminuendo con l'inquinamento; 4) la stabilità, la capacità cioè dell'ambiente di conservare le sue proprietà positive per un tempo sufficientemente lungo.
L'attività produttiva ha effetti di ritorno sull'ambiente. Alcuni di questi effetti sono positivi: si pensi alla bonifica dei terreni paludosi. Altri - certi effetti di alcune tecnologie applicate in agricoltura e i processi di inquinamento, in particolare - sono negativi. Dei primi si tiene in genere conto nella contabilità nazionale. Se in un anno vengono fatte delle opere di bonifica, il prodotto interno lordo, che misura l'incremento della ricchezza nazionale che si è verificato in quell'anno, risulta aumentato del loro valore. Degli effetti negativi non si tiene conto: tali effetti, però, hanno ormai raggiunto livelli tali da non poter più essere ignorati.I problemi che si pongono in relazione ai processi di inquinamento sono quindi di due ordini: 1) si tratta, sul piano teorico, di individuare un sistema di interventi fiscali che, in presenza dei processi di inquinamento che hanno effetti sulla produttività delle diverse imprese e sull'utilità dei vari consumatori (poiché certi effetti dell'inquinamento entrano come argomenti negativi nelle funzioni di utilità), inducano i diversi agenti a prendere delle decisioni capaci di portare a un ottimo in senso paretiano; 2) si devono quindi considerare le possibilità concrete di adottare i vari tipi di interventi e i loro effetti nelle concrete situazioni di mercato che non sono caratterizzate dai meccanismi concorrenziali, così come vengono concepiti quando si tratta degli ottimi paretiani (teorema della corrispondenza).
In molti paesi sono stati stabiliti degli standard che impongono limiti all'inquinamento. Agli standard possono essere associati divieti specifici per i vari agenti. Si può, ad esempio, stabilire che nessuna impresa deve immettere sostanze inquinanti in un fiume oltre un certo quantitativo, determinato in modo che, tenendo conto del numero delle imprese, non si provochi il superamento dello standard stabilito. Un tale procedimento presenta però degli inconvenienti. Possono nuove imprese entrare nel settore, con riferimento al quale sono stati decisi gli interventi antinquinamento? E se la risposta è affermativa, come è ragionevole che sia, debbono i vincoli per le varie imprese essere rivisti? E come?
Il problema si complica ulteriormente se si tiene conto del fatto che alcune delle imprese possono, più facilmente di altre, realizzare tecniche o modificare i prodotti in modo da ridurre l'inquinamento. Occorre pensare quindi a qualche sistema che avvantaggi queste imprese. Un sistema che è stato proposto e che ha avuto qualche applicazione è quello detto dei diritti di inquinamento, che sarebbe meglio indicare con il termine di concessioni di inquinamento. Diritti simili esistono già per l'uso del terreno a scopo edificatorio. Si tratta di diritti trasferibili: chi ha ottenuto la concessione all'utilizzo a scopo edificatorio di un certo terreno, lo può trasferire, vendendo il terreno, ad altri. I diritti di inquinamento sono, essi pure, trasferibili. I loro prezzi dovrebbero essere portati, dalla concorrenza, a quei livelli che conciliano l'obiettivo del conseguimento degli standard con quello di una efficiente struttura della produzione, quale appare quando si considerano anche i costi delle infrastrutture e delle attività che le varie imprese debbono porre in essere per contenere in misura congrua l'inquinamento, nonché le riduzioni che si debbono apportare a certe produzioni e a certi consumi. Questo sistema di gestire il processo di contenimento dell'inquinamento si inquadra in quella concezione dei property rights a cui abbiamo già accennato.
7. Individuo, Stato e mercati
Alcuni autori (segnatamente Buchanan e Tullock) hanno cercato di integrare in un unico sistema logico mercato e democrazia. Entrambi possono considerarsi il risultato di scelte degli individui. La costituzione dello Stato deve infatti ritenersi fondata su una specie di contratto sociale. Questa considerazione ha dato avvio a un filone di ricerche che mira a individuare criteri per valutare le scelte pubbliche.In effetti, il sistema economico esige un contesto istituzionale che risulta da scelte politiche. Così, anche per il funzionamento di un regime concorrenziale è necessario che si accetti una serie di norme, prima fra tutte il rispetto dei contratti. I vari agenti debbono accettare la moneta legale che solo lo Stato può creare.
Dobbiamo quindi assumere che, preliminarmente al funzionamento del mercato, si siano avuti alcuni interventi politici mirati a creare e mantenere il contesto necessario perché la concorrenza possa produrre i frutti desiderati. Se la sola legge in vigore fosse quella della giungla, il mercato non potrebbe funzionare. Mercato e sistema politico democratico sono stati considerati complementari. Vi sono del resto due sistemi per aggregare le preferenze degli individui. Il primo è prodotto dal mercato, che registra tutte le singole preferenze dando a esse un peso grazie al quale si arriva alla scelta riferibile al sistema. Il peso che, nel determinare la scelta collettiva, ha la preferenza di un singolo individuo è dato dalla quantità che del bene trattato sul mercato egli è disposto a domandare o a offrire. Il secondo è prodotto dal sistema politico (democratico): alla scelta globale si arriva grazie alla regola maggioritaria. Ogni sistema economico-politico è, peraltro, caratterizzato dal ruolo svolto dalla classe politica.
Oltre ai servizi pubblici (come prima sottolineato, lo stesso Smith riteneva essere compito dello Stato assicurarli in congrue quantità e modalità) vi sono varie decisioni prese dal sistema politico che hanno avuto effetti rilevanti sul sistema economico. Ai processi di nazionalizzazione abbiamo già accennato. In genere queste decisioni non sono state prese con riferimento a una qualche funzione sociale del benessere, ma sotto l'influenza di interessi specifici. Il ruolo delle lobbies è chiaramente riconosciuto da diversi economisti americani.
Anche il sistema di assicurazioni sociali oggi in discussione ha sempre risposto a vari interessi. Le assicurazioni sociali garantivano al lavoratore un certo benessere anche in presenza di eventi negativi (come malattie o disoccupazione, in genere ritenuta temporanea) e all'impresa la possibilità di recuperare, con il ritorno della congiuntura favorevole, lavoratori che, grazie ai sussidi, avevano potuto conservare, sia pure con un ridotto livello di benessere, la loro qualificazione. Gli assegni familiari consentivano poi di mantenere il salario a livello contenuto (tale da permettere alle famiglie non numerose di vivere con un certo decoro mentre quelle numerose potevano conseguirlo in virtù degli assegni familiari). Le assicurazioni sociali si sono sviluppate già all'inizio del secolo per accordi tra le parti sociali, segnatamente in Germania.
In Italia un efficace sistema di assicurazioni sociali è stato invece realizzato negli anni trenta.Nel dopoguerra, in Inghilterra, con l'avvento dei laburisti al potere è stato impostato da Beveridge il piano noto con il suo nome che doveva assicurare tutti i cittadini 'dalla culla alla bara'. In Italia, nel 1978, è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale, peraltro con tempi, modalità e forme che non ne assicuravano l'efficace funzionamento. Inoltre, con la concessione della pensione sociale (dal 1986, sostituita dall''assegno sociale') si realizzava anche da noi un'altra premessa di quello che si considera lo Stato sociale.
Il problema dei rapporti tra Stato ed economia deve essere quindi affrontato utilizzando le indicazioni che vengono dagli studi teorici relativi alle scelte pubbliche, ma considerando anche il gioco complesso che si instaura tra gruppi, industriali e finanziari, categorie produttive e sindacati.
In effetti gli interventi dello Stato difficilmente hanno corrisposto alle indicazioni teoriche circa le politiche di stabilizzazione e di piena occupazione. Sono state piuttosto motivate: a) dall'esigenza politica di favorire certi strati o certi settori (in particolare il settore agricolo, perché contadini e agricoltori rappresentano una minoranza elettorale compatta, il cui atteggiamento può essere decisivo ai fini dell'affermazione elettorale dell'uno o dell'altro schieramento); b) dalle esigenze di certi gruppi con un notevole potere economico-politico che potevano contare sulla convergenza di settori del sindacato; c) dalle esigenze della politica internazionale (particolarmente rilevanti per gli Stati Uniti). Sul piano teorico della politica economica il problema centrale è ora quello di meglio configurare i compiti dello Stato, che non possono ridursi - e in effetti in nessun paese si sono ridotti - a quelli dello Stato minimale, ma non possono neppure essere quelli dello Stato del benessere, che, specie in certi paesi, come l'Italia, è stato soprattutto uno Stato assistenziale-clientelare.
Lo Stato può e deve avere un ruolo fondamentale nel creare le condizioni favorevoli allo sviluppo economico. A tale possibilità abbiamo accennato considerando il ruolo che le commesse pubbliche e le varie facilitazioni volte a favorire la ricerca hanno avuto in diversi paesi, segnatamente negli Stati Uniti. Si pone dunque un problema che prima di essere economico è politico: debbono queste scelte di strategia di politica economica essere prese in modo quasi surrettizio, sotto la pressione di interessi specifici, o debbono, attraverso opportuni istituti e mediante chiare procedure, essere prese da organismi responsabili che siano in grado di valutare le possibili alternative?
In effetti in Giappone, dove, anche per il particolare contesto socioculturale, si è stabilita nel mondo industriale, tra le imprese e all'interno di ciascuna grande impresa (e complesso industriale), una fruttuosa combinazione di competizione e di collaborazione, la domanda che ci siamo posti ha avuto di fatto una risposta positiva.
La nuova definizione dei compiti dello Stato solleva problemi di privatizzazione e di deregulation (processi in parte già avviati), che non possono essere impostati e risolti in termini ideologici. Anche se il passaggio di attività dal settore pubblico a quello privato appare opportuno, non è detto che il governo riesca a trasferire, a condizioni accettabili, le imprese che non ritiene di mantenere nel settore pubblico. In ogni caso vi saranno imprese che resteranno nel settore pubblico. Inoltre si rende necessario riorganizzare molti servizi pubblici in modo che essi possano funzionare con criteri imprenditoriali. In Italia si è cominciato a discutere sin dal 1990 in merito alla realizzazione di strutture imprenditoriali nel settore sanitario.
Per quanto riguarda il rapporto tra lo Stato e l'economia si pongono quindi tre ordini di problemi: 1) la definizione dei compiti che deve perseguire lo Stato (per esempio, come prima sottolineato, quale debba essere il suo ruolo nella politica ecologica); 2) la individuazione delle attività che è conveniente passare al settore privato e le iniziative di liberalizzazione (privatizzazione e deregulation); 3) l'individuazione di istituti e di procedure atte ad assicurare una efficiente gestione dei servizi pubblici e delle imprese che lo Stato continua a controllare (con riferimento a questa esigenza si può parlare di re-regulation).
8. Ciclo e sviluppo
Abbiamo accennato alla stabilità dell'economia (segnatamente dei prezzi), considerata uno degli obiettivi (per molti quello fondamentale) della politica monetaria e fiscale. Questo obiettivo si giustifica, per diversi economisti, in relazione all'andamento ciclico dell'economia: particolarmente rilevante è il ciclo che copre circa un decennio. Alcuni hanno sottolineato i fattori reali che portano a eccessivi investimenti e quindi a un'espansione dell'economia che non può essere mantenuta nel tempo, per cui a una fase di espansione segue una fase di depressione (oggi si preferisce parlare di recessione). Altri ritengono più rilevanti i fattori finanziari. Il gioco di questi fattori è strettamente associato - come ha mostrato Minsky -al mutare degli 'umori' degli operatori. I teorici delle aspettative razionali ritengono che la dinamica dei prezzi, la quale governa quella delle produzioni, sia determinata dalle decisioni degli operatori informati: questi ultimi sono in grado di prevedere i risultati delle loro scelte. Le esperienze concrete non confortano questa convinzione. In effetti molti operatori mirano a conseguire guadagni con attività speculative: una possibilità, questa, che si associa all'asimmetria di informazione e al peso che sulla dinamica di alcuni prezzi (cambi e tassi di interesse) hanno le scelte dei grandi speculatori.
Di fronte alla prospettiva di fluttuazioni cicliche si rilevano tre atteggiamenti: quello di coloro che ritengono che la politica economica non debba interferire con il processo orientato allo sviluppo indotto da fattori (le innovazioni tecniche in particolare) che rendono inevitabili le fluttuazioni (Schumpeter); quello dei sostenitori di politiche anticicliche (gli economisti che - come von Hayek - ritengono che le fluttuazioni siano provocate da politiche monetarie espansive - la riduzione dei tassi provocando eccessi di investimenti - e insistono sulle politiche monetarie mentre altri, che si rifanno alle teorie keynesiane già ricordate, ritengono che si debba studiare una combinazione appropriata di politiche monetarie, fiscali e valutarie); quello dei monetaristi (Friedman), i quali, asserendo che vi sia uno sviluppo naturale che le forze di mercato sono in grado di realizzare, suggeriscono un solo obiettivo alla politica monetaria: adeguare la quantità di moneta alle prospettive di crescita.Sia le teorie classiche del ciclo sia quelle più recenti, emerse dagli sviluppi delle teorie delle aspettative razionali, non sono in grado di spiegare gli andamenti che si registrano per le singole economie nazionali e per quella mondiale, e ciò per varie ragioni:
A. Le attività speculative grazie ai nuovi strumenti finanziari (i derivati) possono raggiungere livelli elevatissimi, indipendenti dalle dimensioni delle attività reali. È vero che in genere speculazioni in una direzione tendono a compensarsi con speculazioni in opposta direzione; vi sono però speculatori che non sono coperti. Fino a quando le autorità monetarie, al profilarsi di crisi finanziarie, sono disposte e sono in grado di immettere sufficiente liquidità, crolli come quello verificatosi nel 1929 a Wall Street, possono essere scongiurati. Il pericolo di un grande crollo non deve però essere sottovalutato. Poiché le speculazioni tendono a essere orientate più da segnali politici che dagli andamenti dell'economia reale, diventa difficile spiegare le fluttuazioni sulla base delle variabili classiche (tassi, investimenti, fluttuazioni nei redditi e nei consumi).
B. I tassi di sviluppo variano nei diversi paesi, anche per il fatto che, grazie alle politiche economiche adottate e ai movimenti dei capitali (segnatamente a breve), è possibile mantenere a lungo squilibri sia nei conti con l'estero che nel bilancio dello Stato.
C. La ripresa economica, in molti casi (si pensi a quelle che si ebbero negli Stati Uniti con l'avvento alla presidenza di Reagan e di Clinton), è indotta più da cambiamenti politici che da specifiche misure di politica economica (le riduzioni nei tassi di interesse con cui si era cercato di far riprendere l'economia americana nei primi anni novanta sono diventate efficaci quando l'avvento di Clinton ha modificato le aspettative). A loro volta alcune recessioni (come quella verificatasi in Messico) hanno all'origine vicende sostanzialmente di carattere politico (la caduta dei prezzi del petrolio nei primi anni ottanta).
Mentre in alcuni paesi si sono manifestati circoli virtuosi che hanno favorito la crescita (i più alti tassi di crescita della produttività hanno consentito rivalutazioni della moneta che non hanno avuto effetti negativi sulle esportazioni, ma hanno consentito di mantenere basso il tasso di crescita dei prezzi e quindi evitato il verificarsi di tensioni sociali), in altri si sono avuti circoli viziosi con caratteristiche largamente speculari ai primi. Le reazioni di politica economica in questi paesi lungi dal migliorare la situazione, hanno finito per peggiorarla. Anche per la filosofia che predomina nel Fondo Monetario Internazionale e nell'accademia, per cui quando si verificano disavanzi nei conti pubblici la ricetta è il contenimento della domanda, i circoli viziosi hanno finito, in certi paesi come l'Italia, per cronicizzarsi (le riprese sono state vigorose ma brevi). Stenta a farsi strada l'idea che la sola politica in grado di avvicinare i paesi in difficoltà a quelli in grado di sperimentare prolungati periodi di crescita è quella associata all'economia dell'offerta di cui abbiamo già parlato.
Per avviare un processo di sviluppo nei paesi del Terzo Mondo occorre affrontare problemi in parte diversi. Il sistema socioculturale e le condizioni politiche rendono difficili i mutamenti istituzionali volti fra l'altro a rendere possibili politiche economiche efficienti ed efficienti meccanismi di mercato, adeguati investimenti nella formazione del capitale umano e in alcune grandi infrastrutture e appropriati inserimenti nel sistema economico mondiale.Nell'analisi dei problemi dello sviluppo l'accento viene da molti posto sulle relazioni tra distribuzione del reddito e accumulazione. Il problema è in genere affrontato in schemi sostanzialmente statici.
In verità, per questi paesi il problema più serio è come aumentare l'efficienza del lavoro nei settori privati e della pubblica amministrazione. Le modifiche nella distribuzione del reddito che appaiono necessarie per assicurare una congrua accumulazione sono in molti casi praticamente impossibili a realizzarsi. Solo se si verifica una adeguata crescita della produttività (inizialmente soprattutto con una migliore valorizzazione delle risorse agricole, peraltro resa difficile dalle politiche protezionistiche messe in atto dai paesi industrializzati) è pensabile poter avviare un congruo processo di accumulazione. Per questi paesi si presenta poi il problema del modello di sviluppo. Uno sviluppo che comportasse una crescita dei consumi rappresentati prevalentemente dai beni durevoli che si sono diffusi negli Stati Uniti negli anni venti e trenta potrebbe rendere il problema ecologico drammatico. Anche per quanto riguarda il modello di economia di mercato è auspicabile che non ci si limiti a riproporre, in contesti tanto diversi, quello occidentale.
(V. anche Benessere, Stato del; Economia; Economia e politica agraria; Economia e politica del lavoro; Economia e politica industriale; Economia pubblica; Finanza pubblica; Fisco e sistemi fiscali; Liberismo; Moneta; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Pianificazione e programmazione; Protezionismo; Sicurezza sociale).
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