pop art
L’arte nella società dei consumi
Nato fra l’Europa e l’America negli anni Cinquanta e Sessanta del 20° secolo, il movimento della pop art rispecchia nelle proprie opere la moderna società dei consumi. Entrando in gara con lo stesso linguaggio aggressivo e impersonale dei mass media, la pop art sperimenta tecniche inedite, si serve di fotografie ritoccate, di collage e assemblages, di sculture in gesso e persino di gesti teatrali per svelare luci e ombre del recente benessere e denunciare lo smarrimento dell’uomo di fronte a una civiltà che impone desideri sempre nuovi e sogni sempre più amplificati
Anche se il termine pop deriva dall’abbreviazione della parola inglese popular «popolare», la pop art non identifica una forma d’arte folcloristica ma un’arte che parla un linguaggio che tutti conoscono: quello dei mass media, della pubblicità, della televisione e del cinema, insomma il linguaggio per immagini tipico della società dei consumi.
La nascita di questa forma d’arte avviene in Inghilterra negli anni Cinquanta, con un dibattito sulla società di massa; negli Stati Uniti la pop art prende forma intorno alla metà dello stesso decennio con le prime ricerche di Robert Rauschenberg e Jasper Johns sul rapporto fra la pittura e gli oggetti.
È negli anni Sessanta, però, che si registrano l’esplosione e la consacrazione di questa forma d’arte a livello internazionale. La pop art gioca con i nuovi idoli creati dai mass media e trasforma in immagini da ammirare oggetti come la lattina di Coca Cola o la zuppa Campbell e i personaggi più celebri del momento, da Marilyn Monroe a John e Jacqueline Kennedy.
In un’epoca in cui tutto è diventato riproducibile e duplicabile grazie alle possibilità offerte dall’industria, l’arte si interroga sul proprio ruolo: gli artisti si chiedono se e come mantenere il carattere esclusivo dell’opera d’arte, o se devono piuttosto conciliare la realtà consumistica con il proprio linguaggio.
Dalle diverse risposte date a questi interrogativi nasce la diversità di stili e di tecniche che contraddistingue la pop art: c’è chi si appropria delle tecniche industriali e ripete le immagini fino all’ossessione, come Andy Warhol; chi riproduce in gesso gli oggetti esaltati dalla pubblicità, come Claes Oldenburg. C’è anche chi attraverso strumenti ancora tradizionali esalta gli stessi contenuti dei mass media, come Johns che dipinge la bandiera americana giocando sull’ambiguità mentale tra l’oggetto e la sua riproduzione: vale più il quadro o il simbolo che vi è rappresentato?
I maggiori rappresentanti della pop art sono Warhol, Oldenburg, George Segal, Johns, Roy Lichtenstein, Tom Wesselmann e James Rosenquist. Così come i soggetti ricorrenti – oltre ai temi patriottici preferiti da Johns – sono quelli imposti dai mass media, anche il linguaggio è quello impersonale tipico della pubblicità e della televisione.
Lichtenstein si richiama al mondo dei fumetti, riproduce delle vignette isolate e colte con un obiettivo ravvicinato al punto da far trapelare il reticolato della stampa. Eppure, persino le emozioni delle donne che piangono diventano distanti e irreali. Segal, invece, costruisce a grandezza naturale delle figure in gesso colte in gesti di vita quotidiana e come immortalate da uno scatto fotografico. Allo stesso modo, ma con una nota ironica in più, Oldenburg riproduce in gesso beni di consumo come hamburger, fette di torta, tubetti di dentifricio ingigantiti, e il tappo della Pepsi, o fa apparire molli e quasi in decomposizione oggetti come la macchina da scrivere e il water. Con effetti simili ai cartelloni pubblicitari Rosenquist associa oggetti concreti ma all’apparenza banali, come forchette e tubetti di dentifricio, a enormi pareti dipinte. Accostando oggetti reali, come le tende, alla tela su cui dipinge grandi nudi di donna colorati, Wesselmann rivela come anche l’erotismo sia un oggetto di consumo.
Il principale interprete dell’arte pop resta però Andy Warhol, che è stato anche un regista cinematografico originale: è riuscito a trasformare l’opera d’arte da oggetto unico in un prodotto in serie, dove la ripetizione dell’immagine rafforza il messaggio, come nel caso della serie sulla sedia elettrica. Quando riproduce sulla tela barattoli di minestra conferma di fatto che il linguaggio della pubblicità è diventato arte e che i gusti sono ormai standardizzati.
In concorrenza con le innovazioni del linguaggio cinematografico e pubblicitario, anche la pop art sperimenta tecniche inedite e si serve di ogni mezzo per fare arte. Senza dimenticare l’insegnamento delle silenziose pitture di Hopper, che mettono in scena l’isolamento e lo spaesamento dell’uomo nelle moderne città, la pop art segue la scia delle provocazioni del dadaismo che per primo ha mescolato arte e realtà.
Sempre più scompare il tradizionale tocco d’artista, la pennellata che caratterizza uno stile, e la tecnica diventa meccanica. Con lo stesso spirito ironico gli artisti pop passano così dalle pennellate di colore acceso ai collage di foto o immagini pubblicitarie di sapore ancora cubista (cubismo), dalle immagini fotografiche di memoria iperrealista (iperrealismo) agli assemblages di oggetti sospesi sulla tela, fino ai cosiddetti happenings o gesti teatrali, in cui l’artista crea l’opera d’arte direttamente davanti agli spettatori, compiendo azioni in parte previste da un copione e in parte lasciate all’improvvisazione.
Riproducendo l’aspetto consumistico della realtà, la pop art ha un tale successo che scade a moda eccentrica e finisce a volte per esaltare involontariamente la cultura che vorrebbe criticare.
Stili diversi, dovuti alla tradizione artistica locale, caratterizzano la pop art in Europa. Non potendo identificare un linguaggio espressivo unico si può piuttosto parlare di uno stesso clima ideologico. Seguendo la scia aperta dal dadaismo, il bulgaro Christo impacchetta oggetti e persino edifici; il francese Arman colleziona in modo quasi ossessivo oggetti quotidiani usati o inutilizzati (come brocche o pennelli) e li rinchiude ammassati in vetrine; lo svizzero Daniel Spoerri crea assemblages assurdi di oggetti prelevati dalla realtà quotidiana o espone gli avanzi dei banchetti. Sono forme diverse che denunciano però la stessa cultura del consumismo.
In Inghilterra i principali interpreti sono Richard Hamilton, David Hockney, Ronald B. Kitaj. Ironico e sofisticato, esperto di design, Hamilton nei suoi collage si concentra sugli interni di case arredate e offre immagini stereotipate del benessere moderno, dove sono immancabili il telefono, il frigorifero, l’aspirapolvere e il televisore. Altrove Hamilton gioca con la tecnica fotografica per cogliere istantanee: come la pubblicità, la sua arte ricorda che nella società del consumo non si può che essere felici. La stessa ironia sofisticata si ritrova anche nei quadri di Hockney, dove dominano l’opulenza e l’ozio delle ville con piscina illuminate dal sole della California. In contrasto con l’immobilità delle opere dei colleghi, i collage caotici e i dipinti colorati di Kitaj esaltano invece il dinamismo della vita moderna.
Lo svedese Öyvind Fahlström nei suoi collage dà vita a un’enciclopedia moderna del futile, rielaborando immagini tagliate dai giornali, fotografie, souvenir che lo spettatore può muovere, e in questo modo pone in evidenza la banalità dell’epoca.
I primi segni della cultura pop in Italia si colgono nelle opere di Mimmo Rotella, che nei suoi manifesti pubblicitari strappati descrive il nuovo volto delle città. Tratto comune agli artisti pop italiani è il confronto con la nostra tradizione artistica: se gli Statunitensi si ispirano a miti nazionali come Marilyn Monroe o Topolino, gli Italiani si richiamano, per esempio, a Michelangelo, Tano Festa elabora immagini tratte dalla Cappella Sistina. Mentre Valerio Adami ed Emilio Tadini inventano un linguaggio pittorico molto colorato e sintetico, Mario Schifano gioca con lo stesso vocabolario degli Americani, le marche Coca Cola o Esso, le stelle e i soli, e ritocca con il pennello fotografie istantanee. Alle sculture in gesso di Segal e Oldenburg rispondono invece le sagome ritagliate in legno di Mario Ceroli.