Povertà
(App. V, iv, p. 226)
Il concetto di povertà
La p. è un concetto allo stesso tempo intuitivo e ambiguo. Esso dipende dalla società cui si fa riferimento, ma anche dal punto di vista di chi è interessato alla sua definizione ed, eventualmente, alla sua misura. In origine il concetto di p. è stato probabilmente associato alla preoccupazione di definire la distribuzione della ricchezza; ma, al contrario delle più raffinate misure distributive, esso si è imposto come una nozione intuitiva indipendente dall'esistenza di grandi diseguaglianze sociali. Più precisamente, il concetto di p. è legato all'idea che è necessario raggiungere un livello minimo di reddito (o di altri diritti di uso o consumo dei beni) per poter vivere normalmente, ossia per non soffrire conseguenze inabilitanti sul piano fisico, o essere oggetto di ostracismo da parte degli altri membri della società.
Questa idea è ben presente in uno dei padri dell'economia moderna, A. Smith, il quale sosteneva che "oggi, nella maggior parte dell'Europa, un dignitoso lavoratore a giornata avrebbe vergogna se non potesse permettersi di apparire in pubblico con una camicia di lino". Tale argomentazione, se accettata come base definitoria della p., ha due implicazioni importanti. In primo luogo, un individuo povero prova vergogna perché non può permettersi lo standard di vita il cui simbolo è la camicia di lino; questo standard è dunque assoluto e indipendente da quello che possono permettersi gli altri. In secondo luogo, non importa di quanto il povero cada al disotto dello standard. Anche se non potesse comprare la camicia di lino perché gli manca una piccolissima somma di denaro, egli proverebbe ugualmente vergogna. Il cadere in p. è quindi identificato con un sentimento assoluto di fallimento individuale.
Quanto abbiamo detto suggerisce che la nozione di p. corrisponde a una condizione sociale che gli individui percepiscono sotto forma di sentimenti personali, quali vergogna, senso di colpa o di scarso valore di sé, depressione e, in casi estremi, disperazione. Ciò ha però come conseguenza una notevole variazione del concetto di povertà. Secondo M. Rahnema (1992), per es., si può dire, paradossalmente, che esistano tanti poveri e tante percezioni della p. quanti sono gli esseri umani.
Il ruolo della p. nell'organizzazione della società è anch'esso problematico. Secondo alcuni (per es. Sahlins 1972), la p. è una conseguenza del progresso e dello sviluppo economico. L'economia primitiva, infatti, sottosviluppata dal punto di vista produttivo, non fu un'economia di miseria, ma di abbondanza per i singoli, in quanto capace di soddisfare i bisogni fondamentali di ciascuno. Le civiltà americane precolombiane, per es., seppero impedire la p. mediante sistemi egualitari e ingegnosi di gestione delle risorse naturali disponibili (Corm 1994).
Il concetto di p. è dunque legato a quello di uno standard sociale, che stabilisce il limite al di sotto del quale un individuo è considerato povero. Come lo standard di p. sia stabilito è una questione che può essere vista sotto l'aspetto sia dell'economia positiva, sia di quella normativa. L'emergere di uno standard sociale è parte di un complesso processo di sviluppo delle strutture d'azione sociale, attraverso la determinazione di obiettivi comuni, di costruzione istituzionale e di disegno normativo. Come tale, esso può essere messo in relazione all'idea di giustizia sociale sviluppata da J. Rawls (1971, 1996; Cooter 1989) e dalla sua scuola di pensiero. La concezione di Rawls si basa, com'è noto, sull'esperimento mentale secondo cui, chiamati a scegliere la forma di società che essi preferiscono, 'dietro un velo di incertezza' sulla loro collocazione sociale, gli individui razionali sceglierebbero la società in cui i meno privilegiati (ossia i poveri) stanno meglio. Quest'esperimento può essere interpretato come un modo per spiegare l'emergere di uno standard di p., e la disponibilità, da parte di coloro che si percepiscono come 'non poveri', a contribuire per coloro che sono sotto lo standard.
Da un punto di vista normativo, d'altra parte, lo standard sociale può essere definito con riferimento a una domanda molto generale. Come sarebbe possibile, per es., definire un livello di p. e un programma di eliminazione della p. stessa che siano mutuamente coerenti? Se si adotta il criterio di Rawls di massimizzare il reddito dei poveri, si può ottenere la soluzione di questo problema imponendo la condizione che il reddito post transfer di coloro che subiscono il peso del trasferimento stesso sia non minore del reddito di coloro che ricevono il trasferimento. Se il costo del trasferimento è pari a zero, la risposta è che il limite superiore della classe della linea di p. con le caratteristiche desiderate è rappresentato dal reddito medio pro capite della popolazione (Scandizzo 1998).
Il ruolo della p. come stimolo al progresso economico è altresì importante per comprendere la posizione dei poveri nelle economie in via di sviluppo. Secondo A. Tévoédjré (1978), per es., la p. può costituire la base della ricchezza di un popolo, in quanto capace di generare un benessere fondato sulla realtà dei bisogni da soddisfare, e, quindi, sulla capacità di autosviluppo. J.K. Galbraith (1979), al contrario, vede la p. come una trappola, frutto almeno in parte della manipolazione dei ricchi. 'L'equilibrio di povertà', secondo questa teoria, è la conseguenza del fatto che i ricchi tendono ad accrescere le proprie ricchezze, mentre i poveri tendono ad adattarsi a uno stato di livello inferiore, in cui vengono meno le motivazioni e i mezzi perché essi possano affrancarsi da condizioni di privazione e di dipendenza. La differenza sostanziale tra i paesi divenuti ricchi e i paesi rimasti poveri è dunque da ravvisare nella capacità dei poveri di reagire contro la p., mentre l'accettazione della propria p. determina un equilibrio d'adattamento che tende a perpetuarla. Al di là della razionalità di un simile atteggiamento accomodante da parte dei poveri, resta l'intollerabilità dell'accettazione della p.: lottare contro questa condizione, secondo Galbraith, significa combattere la rassegnazione e l'accettazione di condizioni disumane di vita. In questa prospettiva, l'istruzione diventa strumento essenziale di rivincita della dignità umana contro il fatalismo che, dagli albori della storia, ci accompagna nel riflettere sulla povertà. Il senso mistico e interiore della p. rappresenta un ulteriore punto di vista che si sovrappone a quello etico, cui però fornisce un fondamento assoluto. La prospettiva cristiana, in particolare, capovolge il problema, identificando nella p., che pure rimane un simbolo d'ingiustizia sociale, una beatitudine, la prima beatitudine. I poveri sono beati perché godono del favore di Dio. A differenza dell'argomento di Rawls, basato sulla disponibilità nei confronti dei poveri a causa del rischio di diventare povero, l'amore evangelico per la p. è espressione della sete di giustizia: esso è quindi testimonianza ed empatia. Farsi povero è una scelta di condivisione, perché amare è con-dividere, è farsi prossimo e di quel prossimo assumere la condizione. La p. come caratteristica dei paesi, oltre che degli individui, è un concetto relativamente nuovo, che si afferma agli inizi degli anni Settanta, con l'avvento di R. McNamara alla guida della Banca mondiale. Già consigliere di J.F. Kennedy e poi capo del Pentagono, McNamara incarnava una nuova nozione di progresso, che vedeva la 'guerra alla p.' come fenomeno globale necessario per realizzare la trasformazione progressiva delle società tradizionali e la loro integrazione nell'economia mondiale. Tale trasformazione doveva avvenire, però, anzitutto eliminando la p. assoluta, intesa come livello di vita inferiore al minimo dignitoso. Lavorando in questa prospettiva, la Banca mondiale identificò la necessità di indirizzare gli aiuti allo sviluppo direttamente ai gruppi sociali di reddito più basso, soprattutto nelle vaste zone rurali dei paesi meno sviluppati, e concentrò le proprie risorse sull'agricoltura in base a un'identificazione tra p. e masse rurali e alla necessità di combattere la bassa produttività dei piccoli agricoltori per eliminare la penuria di cibo.
Negli stessi anni Settanta andava maturando la consapevolezza che il reddito pro capite non riusciva a indicare efficacemente lo standard di vita delle popolazioni, specialmente se non pienamente integrate nell'economia monetaria, o affette da forti ineguaglianze distributive. A metà degli anni Settanta, dopo un dibattito fecondo che aveva coinvolto studiosi e policy makers, era ormai acquisito che la penuria di cibo fosse il frutto della p. 'modernizzata' e che, per perseguire lo sviluppo, si dovesse assicurare nello stesso tempo la soddisfazione dei bisogni di base e la crescita economica. Già all'inizio degli anni Settanta le istituzioni internazionali - ossia, oltre alla Banca mondiale e alle Banche regionali di sviluppo, le Agenzie delle Nazioni Unite - avevano portato avanti la tesi che si dovesse porre attenzione alla distribuzione del reddito oltre che alla crescita, e che in ogni caso fosse possibile seguire percorsi virtuosi che combinassero crescita e miglioramenti distributivi. La politica dei bisogni di base (ILO 1976) andava però oltre la preoccupazione di assicurare uno sviluppo equilibrato. Veniva di nuovo richiamata l'attenzione sulla necessità di mirare ai poveri, piuttosto che alle classi medie, intervenendo però direttamente sui consumi dei beni di base privati e sociali. Amartya Sen sviluppava successivamente (Sen 1981) l'approccio degli entitlements, in base al quale si ritiene che il problema della p. sia legato non alla mera disponibilità delle risorse da parte di un paese, ma alla capacità di accesso alle risorse da parte degli individui. Individuo povero è colui che non dispone di sufficiente 'comando' sulle risorse disponibili e non ha né le possibilità né le capacità di trasformare i beni capitali in acquisizione di beni alimentari essenziali. Il problema della p. è quindi, anzitutto, un problema di distribuzione dei diritti degli individui di partecipare alla produzione e al consumo dei beni della società in cui vivono.
A partire dagli anni Novanta, l'UNDP (United Nations Development Program) recupera e ripropone questo programma sul piano internazionale con un'analisi volta a dimostrare come lo sviluppo sociale sia spesso correlato al progresso economico, in una relazione che non è però né universale né lineare. A partire dagli anni Ottanta, in realtà, il tema della p., pur essendo continuamente rilanciato dalle istituzioni internazionali, non appare più con l'urgenza con cui era stato proposto nei quindici anni precedenti. La preoccupazione che la crescita possa essere associata con effetti distributivi perversi viene sopravanzata dalla necessità di riequilibrare il quadro macroeconomico dissestato di molti paesi in via di sviluppo. La crescita economica stessa sembra rallentare e lo sviluppo economico delle aree depresse, specialmente dell'Africa, sembra sempre più elusivo.
Più che sulla categoria 'povertà' pura e semplice, le politiche economiche nazionali mettono l'accento sulla creazione di istituzioni, servizi e infrastrutture sociali di base, sugli interventi nei meccanismi di produzione e di scambio, di manovra della pressione fiscale e di forme di previdenza e di assistenza sociale (come il diritto a sussidi di disoccupazione, a integrazioni di reddito, a forme di pensione) mirate a orientare la domanda potenziale (dei poveri) verso l'offerta di bisogni fondamentali, superando resistenze - l'equilibrio di povertà di cui parlava Galbraith -, pigrizie e incapacità.
Questa componente della domanda di bisogni fondamentali acquista quindi rilievo, definendo un profilo multidimensionale della p. in cui la componente economica di reddito, consumi, occupazione e degli altri bisogni fondamentali (livello d'istruzione, salute, condizioni abitative, ambientali, di accesso ai servizi, qualità del lavoro, e ancora libertà, diritti, relazioni sociali e uso del tempo libero) si sposa con quella antropologica e sociale, definendo non una serie di p. parziali (tante p. per quanti sono i fattori che le determinano) ma una 'condizione complessiva di vita', sintesi di tutti i bisogni diversamente insoddisfatti. Povero è colui che ha una pluralità di situazioni di scarsità, tra loro correlate, che trovano in se stesse le ragioni della propria persistenza e, a volte, del proprio peggioramento.
La dimensione sociale della p. è messa in rilievo dall'insegnamento pastorale della Chiesa cattolica che, cento anni dopo le critiche della Rerum Novarum di Leone xiii alle degenerazioni del capitalismo occidentale, torna a misurarsi con i temi della p. internazionale, diffondendo, a pochi anni di distanza l'una dall'altra, due encicliche di Giovanni Paolo ii, la Sollicitudo Rei Socialis (1987) e la Centesimus Annus (1990). Le disuguaglianze di reddito e la miseria del Terzo Mondo sono oggetto di una critica radicale che è anche una sconfessione dei sistemi capitalistici non temperati dalla sollecitudine sociale.
La povertà nei Paesi in via di sviluppo
La riduzione della p. su scala mondiale è la sfida principale per l'umanità. Nel corso degli ultimi anni è emerso un pieno consenso, rispetto a quest'affermazione, da parte di tutte le istituzioni internazionali (Banca mondiale, UNDP, OCSE), i governi, le ONG (Organizzazioni non governative) e le comunità locali. A partire dagli anni Cinquanta - dice il Rapporto 1997 dell'UNDP - sono stati fatti fondamentali passi avanti in direzione della riduzione della p. a livello mondiale, che è diminuita più velocemente di quanto non sia avvenuto nei cinque decenni precedenti, e gran parte della popolazione mondiale ha beneficiato dei miglioramenti nelle opportunità economiche e nel benessere umano. Per i Paesi in via di sviluppo (PVS), nell'arco di trent'anni questi benefici sono stati in grado di colmare una distanza pari a quella ricoperta dai paesi industrializzati nel corso di un secolo: il tasso di mortalità infantile è stato dimezzato, il tasso di denutrizione è diminuito di un terzo, la percentuale di bambini non scolarizzati è stata dimezzata, la percentuale di famiglie rurali senza accesso all'acqua è diminuita di due terzi.
In tutti i continenti si sono realizzati tali miglioramenti, ma in modo diseguale, accompagnati da alcuni peggioramenti: 1,3 miliardi di persone vivono con meno di un dollaro al giorno, quasi 1 miliardo in Asia del Sud e dell'Est, mentre in Africa subsahariana vi è il più alto tasso di crescita della povertà (tab. 1); 4,3 miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno; circa 160 milioni di bambini sono denutriti, 110 milioni non vanno a scuola. Dal 1992, in Russia la percentuale dei bambini di età inferiore ai 6 anni che vivono al di sotto della soglia di p. è passata dal 40 al 62%, l'incidenza della denutrizione cronica dal 9 al 14%.
I conflitti armati presenti in molte regioni e la crisi economica aggravano il fenomeno della p. di massa. La spesa militare globale nel 1995 ammontava a circa 800 miliardi di dollari. Nel 1995, la spesa militare dell'Asia meridionale corrispondeva a 15 miliardi di dollari, più della cifra annuale necessaria per fornire cibo e assistenza sanitaria di base a tutto il mondo; la spesa militare dell'Africa subsahariana è stata di 8 miliardi di dollari, equivalenti al costo annuale stimato per fornire accesso universale all'acqua potabile e alle infrastrutture igieniche in tutti i PVS. Sono analfabete più di 800 milioni di persone, di cui i due terzi sono donne; oltre 1,2 miliardi di persone non hanno ancora accesso all'acqua potabile; quasi 800 milioni di persone non hanno accesso ai servizi sanitari; oltre il 93% dei 23 milioni di persone contagiate da HIV vive nei PVS; 840 milioni di persone soffrono la fame; un terzo della popolazione che vive nei paesi meno avanzati ha una speranza di vita inferiore ai 40 anni; 17 milioni di persone all'anno muoiono per infezioni curabili (per alcuni di questi dati v. tab. 2).
La Banca mondiale ha lanciato con il World development report del 1990, e rinnovato con il documento del 1996, una strategia di lotta alla p. incentrata su tre principi basilari:
1) Crescita economica diffusa, ovvero: a) creare il contesto più adeguato, basato su attività ad alta intensità di lavoro e su incrementi occupazionali, produttivi e salariali; b) garantire l'accesso di tutti ai beni essenziali, anzitutto terra e credito; c) aumentare la produttività dei poveri, incoraggiando investimenti nell'istruzione primaria, nella sanità, nella formazione commerciale e nell'assistenza tecnica all'agricoltura. La formazione, riqualificazione e sviluppo tecnologico del tessuto delle piccole imprese vengono individuati come elementi cruciali per la lotta alla p.; d) orientare i mercati a favore dei poveri, eliminando regolamentazioni inutili e più dannose per i gruppi più deboli, come la tassazione sul rilascio di licenze per le piccole imprese; e) eliminare ogni discriminazione contro i più poveri, in particolare promuovendo le garanzie di pari opportunità alle donne, in materia di formazione, promozione sul lavoro, accesso al credito e alla terra.
2) Sviluppo del capitale umano, ovvero: a) promuovere lo sviluppo infantile, con progetti nel campo della salute, nutrizione e cure della prima infanzia; b) promuovere l'istruzione elementare, condizione prima per l'emancipazione dallo stato di p., con progetti per aumentare il numero di iscritti nelle scuole e migliorare l'insegnamento; c) promuovere l'istruzione delle bambine e delle ragazze (condizione prima per aumentare la produttività economica), migliorare la tutela dell'ambiente, ridurre i tassi di crescita demografica. Entro il 2010 garantire il completamento della scuola primaria da parte di tutti i bambini e uguale proporzione tra ragazzi e ragazze nella scuola secondaria.
3) Creazione di reti di sicurezza (safety-net) per i gruppi più vulnerabili (malati, anziani, invalidi, popolazioni delle regioni marginali), ovvero promuovere la creazione di impieghi temporanei per la manodopera non qualificata, attraverso l'esecuzione di lavori pubblici e la creazione di fondi sociali.
Considerando la p. non solo come mancanza del necessario per il benessere materiale, ma come negazione delle opportunità di scelta che consentano uno standard dignitoso di vita, l'UNDP ha introdotto nel 1997 l'Indice di povertà umana (IPU). Esso misura il livello di privazione nello sviluppo umano in termini di: a) percentuale della popolazione con una speranza di vita inferiore ai 40 anni; b) percentuale degli adulti analfabeti e dei bambini che non completano le elementari; c) percentuale della popolazione senza accesso ai servizi di base e proporzione di bambini sottopeso; d) numero di rifugiati e di persone colpite da disastri; e) percentuale di foreste e boschi sul territorio; f) reddito, misurato sia in termini di PIL reale pro capite del quintile più povero e di quello più ricco, sia in termini di popolazione che vive con meno di 1 dollaro al giorno e di quella sotto la soglia di povertà. Secondo quest'indice, sette paesi (Niger, Sierra Leone, Burkina Faso, Etiopia, Mali, Cambogia e Mozambico) hanno oltre la metà della popolazione (il 66%, nel caso del Niger) che soffre la povertà. Tra i 78 paesi per i quali è stato calcolato l'IPU, Trinidad e Tobago, Cuba, Chile, Singapore e Costa Rica presentano invece i risultati migliori, nel senso che la p. è stata ridotta a meno del 10% dell'intera popolazione.
Rispetto a questo drammatico quadro, l'UNDP, con il Rapporto sullo sviluppo umano pubblicato nel 1997, che affronta specificamente il tema della p. mondiale, propone una strategia di riduzione della p. articolata in sei punti: 1) aumento del potere dei cittadini, perché partecipino ai momenti decisionali, rafforzando processi di autonomia economica, condizione prima dello sviluppo sostenibile; 2) uguaglianza di genere, per conseguire una reale acquisizione di potere da parte delle donne; 3) crescita economica sostenuta e favorevole ai poveri, assegnando la priorità all'obiettivo occupazionale, alla riduzione delle disuguaglianze, accelerando il processo di crescita nei paesi meno avanzati, incoraggiando il progresso tecnico, tutelando l'ambiente nelle aree periferiche e più vulnerabili, appoggiando l'agricoltura di piccola scala; 4) governo dell'economia globalizzata, sostenendo il principio dell'equità mondiale e rafforzando il sistema istituzionale a livello mondiale (il sistema delle Nazione Unite, anzitutto); 5) rafforzamento dello Stato, quale promotore delle condizioni di mercato libero più favorevoli ai poveri, integrando il settore pubblico e quello privato, creando responsabilità e trasparenza; 6) azioni politiche decise a livello internazionale sul tema del debito estero, degli aiuti allo sviluppo, del protezionismo agricolo, della prevenzione e risoluzione dei conflitti.
Il Comitato per lo sviluppo dell'OCSE, il DAC (Development Assistance Committee), ha fissato nel 1996 le linee guida per la cooperazione internazionale allo sviluppo del prossimo decennio, pubblicando l'importante lavoro Reshaping the 21st Century. Ad esso fanno ora riferimento tutti i documenti programmatici degli organismi internazionali e nazionali di cooperazione allo sviluppo. Attraverso questo documento, i paesi membri del DAC hanno identificato la riduzione della p. come scopo primario della strategia di cooperazione internazionale e hanno fissato un numero preciso di obiettivi: a) riduzione del 50% del numero di persone che vivono in p. estrema entro il 2025; b) istruzione primaria universale in tutti i paesi entro il 2015; c) programmi di empowerment delle donne ed eliminazione delle disparità nell'istruzione entro il 2005; d) riduzione dei due terzi del tasso di mortalità infantile neonatale e riduzione dei tre quarti della mortalità materna entro il 2015; e) accesso ai servizi di salute riproduttiva entro il 2015; f) adozione delle strategie per uno sviluppo sostenibile in tutti i paesi entro il 2000.
La povertà in Italia
Il processo di globalizzazione dell'economia, anzitutto finanziaria, fa sì che oggi, al pari delle opportunità, i principali problemi assumano una dimensione planetaria. I fenomeni del mondo contemporaneo hanno sempre più una portata globale, internazionale. Pur con evidenti differenze in termini assoluti, la p. e l'esclusione sociale interessano i paesi industrializzati non meno che quelli in via di sviluppo. La categoria geografica (Nord-Sud del mondo) è sempre meno adeguata a catturare e circoscrivere i fenomeni.
Il fenomeno della p. in Italia è di grande importanza e di crescente complessità. A fronte di una p. assoluta e relativa certamente non inferiore alla media dei paesi dell'Unione Europea, secondo i dati dell'UE del 1997 l'Italia spende per lo stato sociale complessivamente di meno (25,8% del PIL rispetto al 28,5%). L'unica voce in cui l'Italia supera la media comunitaria è quella delle pensioni (15,4% rispetto all'11,9%). Per tutte le altre voci, la spesa italiana è più contenuta: sanità 5,4% (rispetto a una media UE del 6,5%), pensioni d'invalidità, infortuni ecc. 2,2% (contro il 2,4%), aiuti alla disoccupazione 0,5% (contro l'1,9%), formazione e orientamento zero (contro lo 0,3%), politica della casa zero (contro lo 0,5%), famiglia 0,8% (contro lo 1,8%), maternità 0,1% (contro lo 0,3%).
La p. in Italia, come in Europa, si presenta oggi direttamente correlata alle trasformazioni della struttura produttiva e del sistema sociale che hanno caratterizzato l'ultimo decennio. A fronte di una riorganizzazione progressiva del mondo industriale intorno alle linee postfordiste dell'impresa e dell'instabilità sempre maggiore del lavoro, emerge una realtà complessa del disagio individuale e di gruppo: le disuguaglianze dei redditi e dei consumi; l'articolazione delle situazioni di emarginazione nel territorio, nelle grandi città e nelle campagne; l'aggravarsi della mancata soddisfazione di taluni bisogni fondamentali come la casa, la salute, l'occupazione, l'istruzione; le disparità intergenerazionali; le nuove forme di p. in rapporto alla cultura e all'accesso alle nuove tecnologie. Il nuovo profilo della p. è caratterizzato da almeno quattro fattori principali, che corrispondono ad altrettante dimensioni della vita umana.
Il primo fattore si riferisce alla sopravvivenza, ed emerge nei casi di p. estrema (persone senza fissa dimora, nomadi, immigrati irregolari, portatori di handicap mentali senza casa). È un indicatore della p. più profonda (cioè della maggiore distanza media dalla soglia di p.), più immediatamente grave e comune a quella dei paesi meno avanzati.
Il secondo fattore riguarda la carenza di reddito. Si riferisce a una dimensione della p. che può essere misurata attraverso le tradizionali variabili economiche (reddito pro capite, tasso di disoccupazione, e altri indicatori diretti o indiretti di carenza di reddito) .
Il terzo fattore è riferito al livello delle conoscenze, ossia agli esclusi dal mondo della comunicazione e dell'informazione. Fa riferimento a variabili 'recenti', che riflettono le trasformazioni dell'era della globalizzazione e che indicano una vulnerabilità potenziale maggiore allo stato di p. relativa, implicando uno svantaggio comparato (livello di alfabetizzazione, conoscenza delle lingue, uso del PC, spese per viaggi internazionali, soggiorni all'estero).
Il quarto fattore connota specificamente l'impoverimento della qualità della vita che nasce dall'abbondanza di beni materiali e dai modelli di vita imposti dalla società postindustriale (misurato da indicatori quali: numero di suicidi, spese farmaceutiche, spese per psicofarmaci, decessi per tumore, traffico, indice sintetico dell'ecosistema urbano, prezzo medio al m2 per appartamento, tempi della burocrazia, numero di omicidi volontari, numero di furti d'auto, numero di furti in appartamento, numero di truffe denunciate, numero di borseggi, bilancio delle forze di polizia, ricorso a vigilantes privati, numero di lotterie a premi, numero di palestre, numero di quotidiani sportivi, numero di ore trascorse davanti alla televisione).
A causa delle difficoltà insite nei concetti non direttamente economici dei fattori di p., le indagini ufficiali sulla p. in Italia postulano una sostanziale identità tra benessere e livello di reddito o 'capacità' di spesa delle famiglie, mentre gli approcci teorici più innovativi interpretano, come detto, la p. non in termini di solo reddito o ricchezza, ma in un'ottica più ampia, in termini di qualità di vita. Secondo i dati presentati nel 1998 dal sesto rapporto della Commissione sulla povertà e l'emarginazione, istituita nel gennaio 1984, nel 1997 le famiglie povere erano 2.245.000, ovvero 167.000 in più rispetto al 1996 (v. tab. 3). Il numero delle famiglie povere in Italia è dunque in aumento. L'indagine della Commissione è stata compiuta su 20.120.000 famiglie residenti in Italia, prendendo a riferimento la povertà relativa e la povertà assoluta.
L'ISTAT calcola lo standard di vita attraverso i consumi delle famiglie, che rappresentano un indicatore migliore del reddito perché sono una funzione diretta della componente permanente di reddito. Essi tengono conto del possibile utilizzo di risparmi accumulati, dell'accesso al credito, del valore dell'autoconsumo e dei redditi di fonte non ufficiale. I consumi si riferiscono all'intero nucleo familiare, ipotizzando che la ripartizione all'interno del nucleo sia equa e senza discriminazioni. Sono considerate povere quelle famiglie i cui consumi pro capite sono equivalenti a meno della metà del consumo pro capite nazionale. Nel 1997, la linea di p., definita in base all'International Standard of Poverty Line (ISPL), è stata fissata a 1.233.829 lire mensili per una famiglia di due membri. Per ottenere le soglie per famiglie di diversa grandezza si utilizza la 'scala di equivalenza', che corregge la spesa per consumi in base al numero dei componenti, rendendola 'equivalente' a quella della famiglia tipo di due componenti.
Rispetto al 1996, l'incidenza della p., vale a dire il rapporto tra il numero di famiglie povere e il totale delle famiglie residenti, è risultata pari all'11,2%, aumentando di quasi un punto percentuale rispetto al 10,3 del 1996. L'aumento si è concentrato nelle regioni del Mezzogiorno: sono più povere le famiglie che vivono al Sud, sono più poveri i nuclei numerosi - ma anche le famiglie composte da una sola persona - e sono più povere le famiglie con reddito di lavoro dipendente. In questa ripartizione, l'incidenza della p. ha raggiunto il 23,5% tra le famiglie e il 26% tra gli individui.
In totale, in Italia 2.245.000 famiglie hanno avuto una spesa per consumi inferiore alla soglia di p.; il numero complessivo di persone in condizioni di p. ammonta a 6.907.000 individui, pari al 12,2% della popolazione italiana. Le famiglie più a rischio sono quelle numerose (composte da cinque o più persone), quelle mononucleari, quelle dove il capofamiglia ha un'età maggiore di 65 o minore di 35 anni (tab. 4) e quelle in cui il reddito viene da un lavoratore dipendente (9,7% nel 1997; 8,4 nel 1996). Sono invece meno povere le famiglie rette da lavoro autonomo (5,9% nel 1997; 6,2 nel 1996) e quelle rette da un pensionato (10,5% nel 1997; 11,5 nel 1996). Le categorie particolarmente a rischio restano i minori e gli anziani, con un'incidenza di p. rispettivamente del 15 e del 14% (tab. 5). Sempre a titolo comparativo, negli Stati Uniti le due categorie a rischio presentano un'incidenza rispettivamente del 25 e del 20%.
Considerando l'ampiezza familiare, si rileva che, mentre la dimensione media delle famiglie italiane è pari a 2,8 componenti, nelle famiglie povere essa risulta di 3,2. In particolare, l'incidenza di p. più elevata (24,1%) si osserva per le famiglie di 5 o più componenti, le quali costituiscono un decimo del totale delle famiglie e un quarto di quelle povere. Al contrario, le famiglie di quattro membri sono le 'meno disagiate' (tab. 4).
La p. diminuisce all'aumentare del grado di istruzione della persona di riferimento: le famiglie con persona di riferimento avente al massimo la licenza elementare costituiscono oltre il 60% delle famiglie povere pur essendo soltanto il 40% del totale. Per le famiglie con persona di riferimento in possesso di licenza media superiore o laurea, l'incidenza di p. si presenta ridotta al Nord (0,9%), sale al 2,1 nel Centro e raggiunge il 9% nel Mezzogiorno. All'incirca una famiglia su tre con a capo una persona in cerca d'occupazione è povera; in totale, circa 170.000 famiglie. Si conferma così lo stretto legame tra p. e mancanza di occupazione, evidenziato anche dalle statistiche per numero di occupati e di percettori.
La povertà assoluta in Italia
Il confronto degli indicatori di p. relativa sia in termini temporali che geografici è complesso, proprio perché l'analisi di p. tramite ISPL rimanda a una misura relativa, in base alla quale la condizione di p. (di consumo) viene definita rispetto a uno standard di consumo medio della popolazione, e quindi è una misura correlata alla distribuzione della spesa per consumi che, a sua volta, dipende dal ciclo economico e dal livello dei prezzi.
Sono stati quindi predisposti altri indicatori basati su una misura assoluta che implica la definizione del paniere essenziale di beni e servizi per una famiglia (basic needs), il cui valore monetario rappresenta la soglia di povertà. Il valore del paniere viene aggiornato negli anni per tener conto delle variazioni dei prezzi dei beni e servizi e dei gusti, rendendolo così indipendente dalla variazione della distribuzione dei consumi e dall'andamento dell'economia. La definizione dei beni che assicurano lo standard di vita 'socialmente accettabile' è il principale problema da affrontare.
Il paniere adottato in Italia incorpora una componente alimentare, una componente 'abitazione' e una componente relativa alle quote di ammortamento per i tre principali beni durevoli (il televisore a colori, il frigorifero e la lavatrice). Per le spese per vestiario e calzature, per la cura della persona, per cultura e attività ricreative, per trasporti, per altre spese per la casa e altro (compresa la spesa per abbonamento radio-TV), difficilmente valutabili, viene definita una quota forfettaria (spesa residuale). Restano escluse le spese per sanità e istruzione, assumendo l'ipotesi (nel rapporto riconosciuta 'pesante') che, per le famiglie indigenti, tali spese siano a completo carico delle strutture di governo nazionale o locale. L'insieme delle tre componenti e della spesa residuale incorporate nel paniere, tradotto nella corrispondente definizione monetaria, costituisce il riferimento standard in termini di spesa per consumi idoneo a garantire un'alimentazione adeguata, un alloggio decoroso e il soddisfacimento degli altri bisogni essenziali delle famiglie italiane. Si è inoltre calcolato il valore del paniere per ampiezza della famiglia: la spesa alimentare e quella per l'abitazione rappresentano la parte più consistente del paniere, costituendo insieme circa l'80% della spesa totale.
In generale, la linea di p. assoluta ha valori più bassi rispetto a quella relativa. Nel 1997, per una famiglia di 2 componenti, a una soglia relativa di 1.233.829 lire mensili, corrisponde una soglia assoluta pari a 994.273 lire mensili. La differenza tra i valori delle due linee di p. si riduce al crescere del numero di componenti della famiglia (tab. 6).
Nel 1997, le famiglie al di sotto della linea di p. assoluta erano circa 1.504.000, pari a un'incidenza del 7,5% (tab. 7), e corrispondevano a circa 5.007.000 individui (8,9%). Sul piano territoriale, emerge un'incidenza di p. più elevata per le regioni del Mezzogiorno dove, nel 1997, circa 1.163.000 famiglie, pari al 17,5% (tab. 7), risultavano povere (il 77% del totale delle famiglie povere italiane).
I profili familiari a maggiore rischio di p. risultano sostanzialmente omogenei a quelli ottenuti tramite un'analisi di p. relativa. Se però l'analisi relativa mostra un andamento crescente dell'incidenza di p., la stabilità di quella ottenuta tramite la linea di p. assoluta conferma l'importanza della componente congiunturale in un'analisi di p. di tipo relativo. Aumentando il livello medio dei consumi in termini reali, l'aumento della p. relativa implica un peggioramento delle condizioni di vita dei poveri solo se accompagnato da un aumento della p. assoluta. La stabilità di quest'ultima evidenzia invece come l'aumento dell'incidenza di p. relativa tra il 1996 e il 1997 non vada interpretato come peggioramento delle condizioni medie di vita dei poveri in termini reali (tab. 8).
Le povertà estreme in Italia
Ai livelli più bassi della stratificazione sociale si pone una fascia di persone escluse dalle risorse che consentono il soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Si tratta delle forme di p. estrema, o miseria, che comprendono le persone senza fissa dimora, gli immigrati clandestini, i nomadi, i malati di mente. Alla grave insufficienza di risorse economiche si accompagnano, in questi casi, la mancanza di salute, lavoro, famiglia, conoscenze, casa, relazioni sociali, sicurezze. La persona è collocata ai margini di una società che nei suoi riguardi è animata prevalentemente da sentimenti di ostilità, paura, disagio, laddove spesso le istituzioni non arrivano o arrivano in maniera insoddisfacente, e dove invece riveste un ruolo primario il mondo dell'associazionismo e del volontariato. Si tratta di una fascia eterogenea di emarginazione sociale, non facilmente quantificabile, dal momento che alle statistiche ufficiali sfuggono gli individui non iscritti all'anagrafe o difficilmente raggiungibili attraverso le rilevazioni.
Un'indagine campionaria svolta dalla Commissione governativa sulla povertà ha stimato che le persone senza fissa dimora in Italia ammonterebbero a circa 60.000; sarebbero 400.000 gli immigrati clandestini, 76.000 i nomadi, 79.000 i malati di mente. Il 25% delle persone senza fissa dimora non utilizza mai i servizi sanitari; il 45,7% ha un'età compresa tra i 25 e i 35 anni; il 75% è di sesso maschile; il 20,8% ha un diploma di scuola media superiore (il 4,1% ha una laurea); il 25% non conta su alcuna forma di sostegno economico; beneficenza e accattonaggio sono le fonti di reddito principali. Molti muoiono prima del compimento dei sessanta anni. I fattori più frequenti che portano a questa forma di marginalizzazione sono legati alla storia familiare delle persone: nel 30,9% dei casi alla morte di un genitore; nel 30,6% alla mancanza di comunicazione all'interno della famiglia; nel 20,5% alla rottura traumatica della famiglia; nel 21,7% all'espulsione dalla famiglia per comportamenti devianti; nel 9,6% all'abbandono della famiglia in età evolutiva; nel 6,5% a una maternità senza matrimonio; nel 6,3% all'essere figli di persona senza fissa dimora. Si aggiungono problemi di delusioni affettive (37,2%), alcolismo (27,6%) e droga (14,1%). Il 30,4% degli intervistati ha dichiarato di non voler rientrare nella società; il 32,4% considera normale o positiva la propria condizione; il 28,5% dorme dove capita; il 56,6% rifiuta ogni tipo di lavoro.
Gli immigrati irregolari, o clandestini, sono disoccupati od occupati nel lavoro illegale (sottopagato, privo di tutela previdenziale e assicurativa), trovano alloggio in dormitori e ostelli, oppure in vecchi locali sovraffollati, senza servizi e con affitti elevati. Le stime denunciano che il 32% degli immigrati vive in un alloggio privo di servizi igienici; il 33% in una casa malsana. Solo gli immigrati in possesso di un regolare permesso di soggiorno hanno diritto alle prestazioni dei servizi socio-sanitari.
Un'indagine dell'Opera nomadi mostra che i nomadi in Italia, prevalentemente Rom, hanno una speranza di vita media che non supera i 40 anni; il 34,7% è affetto da malattie alle vie respiratorie e il 9,2% all'apparato digerente. Per i nomadi, come già per gli immigrati, il diritto di usufruire dei servizi socio-sanitari è subordinato alla residenza, accordata solo a coloro che dimostrano di avere una fonte di sostentamento: si genera e perpetua così un circolo vizioso di povertà-malattia. Nel 1997 l'ISTAT ha rinnovato l'indagine sui consumi delle famiglie. Conseguentemente si è avuta una rottura della serie storica dei dati sulla povertà. I dati più recenti basati sulla nuova metodologia riguardano solo il 1997 e 1998. Secondo l'ISTAT le famiglie povere nel 1998 ammontavano a 2.588.000 (11,8% del totale), con una lieve riduzione rispetto ai valori ricalcolati per l'anno precedente.
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