Poverta
di Irma Adelman, Nicola Negri
Economia di Irma Adelman
La povertà è uno stato di indigenza assoluta o relativa, e include oltre che aspetti materiali anche dimensioni non materiali e intergenerazionali. Obiettivo delle politiche contro la povertà dovrebbe essere quello di consentire l'autorealizzazione di tutti i membri della società, anche dei più poveri.L'indigenza materiale consiste in un livello di reddito troppo basso per permettere la soddisfazione di bisogni fondamentali in termini di mercato. La povertà però non è solo uno stato di privazione materiale, ma consiste anche in una inadeguata disponibilità di beni e servizi di ordine sociale, politico e culturale. Uno degli obiettivi fondamentali delle politiche nazionali contro la povertà dovrebbe essere quello di aiutare i poveri a raggiungere un livello di vita soddisfacente, nonché di creare le condizioni, economiche e di altro tipo, che consentano a essi e ai loro figli di avere eguale accesso alle opportunità.
La riduzione della povertà pertanto richiede non solo un'adeguata crescita economica, ma anche un cambiamento istituzionale e il raggiungimento di una maggiore eguaglianza sociale, economica e politica.Le migliori misure comparate dell'incidenza della povertà nei diversi paesi sono quelle contenute nei rapporti elaborati dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, in cui a un indice di sviluppo viene associato un profilo di povertà. L'indice di sviluppo include tre componenti fondamentali per la realizzazione del potenziale umano: la longevità, il livello di istruzione e il reddito (v. UNDP, 1990); tale indice descrive le medie nazionali. Il profilo di povertà (v. UNDP, 1992) contiene indicatori degli aspetti distributivi dell'indice di sviluppo: la percentuale della popolazione che non ha accesso ai servizi sanitari, all'acqua potabile o agli impianti igienico-sanitari; la percentuale di bambini malnutriti, di quelli che non raggiungono il quinto anno di età e di quelli che non assolvono l'obbligo scolastico; la percentuale di analfabetismo tra la popolazione adulta maschile e femminile; la percentuale della popolazione al di sotto della soglia di povertà. I rapporti del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite del 1992 includono anche un indice di libertà, che incorpora le principali dimensioni politiche che ostacolano la piena realizzazione dell'uomo.
I poveri sono una categoria eterogenea, la cui composizione cambia sistematicamente con lo sviluppo economico e nel corso del tempo. Una prima distinzione fondamentale all'interno di tale categoria è quella tra individui inabili e abili al lavoro. Il primo gruppo comprende gli infermi, gli anziani, i minori orfani o che vivono in famiglie povere, gli handicappati; il secondo comprende gli adulti idonei al lavoro disoccupati e sottoccupati. Una seconda distinzione è quella tra i 'poveri cronici', ossia coloro che sono praticamente privi di mezzi di sostentamento e di capacità fisiche e mentali, e i 'poveri temporanei', ossia quanti sono potenzialmente produttivi ma temporaneamente disoccupati o sottoccupati a seguito di una domanda insufficiente per i servizi da essi offerti sul mercato, di discriminazioni nel lavoro, o dell'impossibilità di trovare un'occupazione per impedimenti di ordine familiare, geografico o economico.
Si possono operare distinzioni anche lungo linee demografiche: gruppi etnici, donne che mantengono la famiglia senza il supporto del coniuge, anziani soli, orfani, ecc. Infine, i poveri possono essere distinti in base alla collocazione territoriale: regionale, urbana/rurale, poveri senza fissa dimora, ecc.Le varie categorie di poveri possono richiedere politiche sociali diverse. Le iniziative dirette a favorire l'occupazione, ad esempio, non potranno andare a beneficio degli inabili al lavoro. Inoltre, gli interessi delle diverse categorie di poveri possono entrare in conflitto. Ad esempio, un aumento dei prezzi dei principali prodotti alimentari può beneficiare i poveri delle aree rurali, ma danneggia quelli delle aree urbane. La formulazione di un programma coerente per la riduzione della povertà richiede pertanto che il fenomeno venga considerato nelle sue molteplici dimensioni; gli interventi dovranno essere anch'essi multidimensionali.In tutti i paesi esiste una certa quota di poveri inabili al lavoro. Nei paesi in via di sviluppo la maggioranza dei poveri abili al lavoro è costituita dai sottoccupati che svolgono attività dequalificate, nei paesi sviluppati è costituita dai disoccupati.
Nei paesi in via di sviluppo la povertà è un fenomeno prevalentemente rurale. In genere, oltre l'80% della popolazione più povera compresa tra il primo e il quarto decile è attiva nel settore agricolo; coloro che sono privi o quasi di terra sono i più poveri tra i poveri. Nelle aree urbane la maggioranza dei poveri è costituita dai lavoratori non qualificati nel settore informale dei servizi; ma anche costoro, in generale, sono più ricchi dei poveri delle aree rurali.Nei paesi sviluppati la grande maggioranza dei poveri risiede nelle aree urbane. La popolazione povera si divide in due grandi gruppi: da un lato gli inabili al lavoro per infermità, per mancanza di capacità fisiche e mentali, per abuso di sostanze tossiche, per età e per status demografico (in particolare donne capofamiglia divorziate o non sposate); dall'altro quanti si trovano disoccupati a causa di una fase di recessione del ciclo economico, o per ragioni di ordine tecnologico/strutturale. Nei paesi avanzati che hanno una consistente popolazione di immigrati, i poveri che svolgono lavori dequalificati e scarsamente retribuiti costituiscono una quota rilevante del totale della popolazione povera.
La dinamica della povertà dipende dai mutamenti nella distribuzione del reddito e dal tasso di crescita del reddito nazionale. Se la percentuale del reddito globale percepita dai poveri diminuisce più rapidamente di quanto non aumenti il reddito nazionale, la povertà assoluta aumenta; in caso contrario diminuisce. Il modo in cui cambia la distribuzione del reddito con lo sviluppo economico è quindi un fattore importante nell'andamento della povertà.
Kuznets (v., 1966) ha rilevato che, storicamente, la prima fase della crescita economica produsse una crescente ineguaglianza economica, mentre a partire dal 1930 nei paesi sviluppati il grado di sperequazione nella distribuzione del reddito è andato diminuendo. Partendo da questi dati, Kuznets ha quindi formulato l'ipotesi generale secondo la quale nella fase iniziale dello sviluppo economico il grado di sperequazione nella distribuzione del reddito aumenta, per poi declinare nelle fasi successive (ipotesi della curva a U).Per verificare tale ipotesi nella realtà attuale dei paesi in via di sviluppo Adelman e Morris (v., 1973) applicarono l'analisi della varianza a una serie di dati relativi alla distribuzione del reddito per quintili in 44 paesi arretrati, arrivando alla conclusione che: 1) la quota di reddito percepita dal 60% più povero della popolazione continua a diminuire, dapprima rapidamente e poi più lentamente, per una fase considerevolmente lunga del processo di sviluppo; 2) nella fase di crescita rappresentata dal terzo più avanzato dei paesi in via di sviluppo, il verificarsi o meno di un aumento della quota di reddito percepita dalla popolazione più povera dipende dalle politiche adottate. La relazione tra i diversi paesi è rappresentata da una curva che può assumere la forma di una U (con una diminuzione finale dell'ineguaglianza), o di una J (in questo caso l'ineguaglianza rimane inalterata anche a livelli di sviluppo avanzati).All'analisi di Adelman e Morris fecero seguito alcuni studi comparati - basati sul metodo della regressione - sul rapporto ineguaglianza/sviluppo in diversi paesi, facendo riferimento a dati più precisi sebbene sempre eterogenei; tali studi confermarono in genere l'ipotesi della curva a U. Anand e Kanbur (v., 1993) dimostrarono che la collocazione del minimo della U varia a seconda della composizione del campione e della forma specifica della funzione. Tale variazione si verificherà se la relazione sottostante è a forma di U oppure di J in determinati paesi, a seconda delle politiche adottate. Papanek e Kyn (v., 1986), al contrario, sostennero che si tratta di una relazione stabile, non influenzata dall'inclusione di ulteriori variabili esplicative relative alle diverse politiche scelte.
Il declino iniziale della quota di reddito percepita dai poveri è inevitabile e deriva dall'introduzione di una piccola isola ad alto reddito in un vasto mare a basso reddito. Inizialmente, pertanto, il divario di reddito medio tra i vari settori aumenta.Nelle prime fasi dello sviluppo si espande anche l'ineguaglianza economica all'interno di uno stesso settore. Tipicamente, nel settore agricolo all'inizio si ha un incremento del grado di sperequazione, che può essere evitato aumentando la produttività delle piccole aziende, attuando una riforma agraria mirata alla redistribuzione della terra (in termini di accesso o di proprietà) e infine favorendo l'occupazione non agricola nelle aree rurali.
Anche all'interno del settore urbano la crescita economica ha effetti sperequativi. Il processo di industrializzazione si basa nella fase iniziale sulla sostituzione delle importazioni, con un'accumulazione di capitale altamente sussidiata e la costituzione tollerata di oligopoli. Questo tipo di industrializzazione porta a uno sviluppo dualistico all'interno dell'area urbana e a una crescente ineguaglianza del reddito relativo.Nelle fasi successive dello sviluppo economico l'ineguaglianza è soggetta a due tendenze divergenti: da un lato aumenta la quota della popolazione attiva nel moderno settore ad alto reddito, e ciò comporta una riduzione dell'ineguaglianza; dall'altro continua a crescere il divario tra i settori ad alto reddito e quelli a basso reddito, e ciò determina un aumento dell'ineguaglianza. Nelle fasi centrali tuttavia si ha una diminuzione dell'ineguaglianza, dovuta all'aumento della quota della popolazione che rientra nelle categorie a medio reddito.
Nello stadio finale dello sviluppo economico non vi è alcuna tendenza automatica a una riduzione della sperequazione. In Brasile, ad esempio, la transizione non ha comportato una diminuzione dell'ineguaglianza economica (seguendo un andamento a forma di J), mentre ciò si è verificato in Corea, a Taiwan e in Giappone (dove si ha invece una curva a U). La diminuzione dell'ineguaglianza dipende dalla misura in cui le politiche adottate riducono il divario di reddito medio tra i vari settori, diminuiscono la dispersione di reddito all'interno del settore moderno e incrementano in quest'ultimo la velocità relativa di assorbimento di manodopera.Affinché si realizzi una convergenza tra i redditi delle aree rurali e quelli delle aree urbane è necessario che il tasso di crescita dei primi sia superiore a quello dei secondi; a tal fine occorre aumentare la produttività agricola. Per ridurre l'ineguaglianza all'interno delle aree urbane occorre favorire la crescita dei settori ad alta intensità di lavoro e privilegiare gli investimenti in risorse umane, ampliando l'accesso all'istruzione.
Tali politiche contribuiscono a un aumento dei salari nel settore non agricolo e hanno un effetto perequativo sui redditi delle aree urbane. Infine, per espandere l'assorbimento di lavoro nei settori avanzati occorre liberare risorse dall'agricoltura aumentando la produttività agricola. Le differenti politiche adottate spiegano la diversa situazione di Taiwan e della Corea da un lato, e del Brasile e della Turchia dall'altro.
Le tendenze dell'ineguaglianza economica tra il 1960 e il 1980 (v. Adelman, 1985), hanno confermato l'ipotesi della curva a J. Il processo di crescita nei paesi in via di sviluppo non socialisti ha prodotto maggiori disparità di reddito all'interno dei paesi a basso reddito esportatori di petrolio. Per contro, si è registrata una notevole diminuzione della concentrazione del reddito nei paesi a medio reddito non esportatori di petrolio. L'ineguaglianza di reddito tra i paesi in via di sviluppo è anch'essa aumentata, poiché quelli a medio reddito hanno avuto una crescita economica molto più rapida di quelli più poveri non socialisti, e la dispersione nei tassi di crescita tra i paesi esportatori di petrolio è anch'essa aumentata.
Per il mondo in via di sviluppo nel suo complesso, nel ventennio 1960-1980 si è registrato un aumento dell'ineguaglianza tra i vari paesi e all'interno di uno stesso paese, e quest'ultima ha contribuito in modo decisivo all'incremento complessivo dell'ineguaglianza. Per ridurre la povertà nei paesi in via di sviluppo occorre pertanto accelerare il loro tasso di crescita e nello stesso tempo favorire modelli di crescita interna che abbiano effetti più egualitari.
Nonostante l'incremento dell'ineguaglianza complessiva, nell'insieme dei paesi in via di sviluppo si è verificato un considerevole progresso nella riduzione della quota della popolazione che vive in condizioni di povertà. Tra gli anni sessanta e gli anni ottanta la percentuale della popolazione mondiale in condizioni di povertà assoluta si è ridotta di un terzo.
Gli atteggiamenti nei confronti della povertà e il tipo di politiche adottate per combatterla sono influenzati dai modelli etici prevalenti in una società, in particolare dall'etica delle élites dominanti e, nelle società industrializzate, della classe media.Le politiche sociali degli ultimi due secoli sono state condizionate da cinque diversi orientamenti etici, che ora illustreremo.
L'etica utilitaristica ha permeato la scienza economica sin dal XIX secolo (v. Bentham, 1789; v. Mill, 1861; v. Edgeworth, 1881; v. Sidgwick, 1874). In base all'assunto di fondo dell'utilitarismo classico, sono eque quelle politiche che massimizzano l'utilità sociale intesa come somma o media aritmetica delle utilità individuali. Per Bentham una società è giusta quando assicura la massima felicità al maggior numero di individui. Il calcolo dell'utilità è alla base dell'analisi costi-benefici. Esso presuppone l'esistenza di una misura cardinale dell'utilità e la possibilità di comparazioni interpersonali. Il grande pregio dell'utilitarismo è quello di fornire un criterio razionale per valutare i meriti relativi di diversi programmi e politiche. L'utilitarismo nella sua versione classica, tuttavia, ammette in via di principio qualsivoglia violazione dei diritti umani, posto che il risultato finale sia un maggior benessere totale della società. Il principio di compensazione, in base al quale chi è avvantaggiato deve provvedere a compensare chi è svantaggiato, evita questo fondamentale difetto della teoria, a patto che tale compensazione sia possibile e venga effettivamente attuata. Un altro modo per evitare questa difficoltà dell'utilitarismo classico è quello di applicarne i principî non già alle azioni individuali bensì alle regole generali che le governano (per una discussione su questo argomento v. Harsanyi, 1976; v. Sen, 1987).
Quando la dottrina utilitaristica è associata alla teoria dell'utilità marginale decrescente del reddito, introdotta da Cournot (v., 1838), si ha una concezione etica moderatamente egualitaria, secondo la quale un dato incremento del reddito di un individuo povero deve essere preferito a un eguale incremento del reddito di un individuo ricco, posto che la loro produttività e le loro preferenze relative tra beni e tempo libero siano eguali. L'utilitarismo quindi fornisce un argomento razionale in favore di un moderato ruolo redistributivo dello Stato e di politiche come quella dell'imposta progressiva sul reddito, senza peraltro affermare che una distribuzione egualitaria del reddito sia moralmente preferibile.
L'esponente più influente dell'etica contrattualistica moderna è John Rawls (v., 1971). Nella teoria di Rawls, è una società giusta quella le cui regole sono liberamente concordate in uno stato originario dai potenziali partecipanti, posto che essi sottoscrivano tale accordo sotto un 'velo di ignoranza' per quanto riguarda la particolare posizione che ognuno di loro occuperà in tale società. Nonostante affermi il contrario, Rawls presuppone un'avversione al rischio alla base della scelta delle regole che governeranno le opportunità individuali. Gli individui avversi al rischio valuteranno le politiche e le istituzioni sociali in base al principio del 'massiminimo', secondo il quale sono giustificate quelle politiche e quelle istituzioni sociali che massimizzano il benessere dei membri più poveri della società (senza l'ipotesi di avversione al rischio, i soggetti che scelgono sotto un 'velo di ignoranza' effettuerebbero le loro valutazioni in base al criterio del benessere atteso. In questo caso la posizione contrattualistica verrebbe a coincidere con quella utilitaristica: v. Harsanyi, 1977).
Rawls propende quindi per uno Stato fortemente redistributivo: sono accettabili solo quelle diseguaglianze che risultano necessarie per accrescere nel lungo periodo le opportunità dei più svantaggiati.Nozick (v., 1974) ha sviluppato una teoria storica del titolo valido (entitlement theory), secondo la quale è giusta una distribuzione della ricchezza cui si perviene a partire da una equa distribuzione iniziale derivante da un libero accordo sui termini di uno scambio equo. Non si tratta di una dottrina egualitaria, in quanto vengono considerate giustificate tutte le ineguaglianze che si sviluppano a partire da una distribuzione iniziale egualitaria in conseguenza delle capacità e delle preferenze sociali degli individui. Ciò porta a una concezione minimale dello Stato, che non deve avere alcuna funzione redistributiva ma limitarsi a garantire i diritti di libertà e di proprietà individuali (di fatto, Nozick considera la tassazione redistributiva un furto), nonché a una teoria storica della giustizia economica basata sul concetto di produttività marginale.
Tutte le religioni sono favorevoli a una qualche forma di redistribuzione dai ricchi ai poveri, ma con significative differenze quanto alle modalità (pubbliche o private), all'estensione, al titolo giuridico (privilegio versus diritti) e alle condizioni di erogazione dei trasferimenti (per una discussione in proposito v. Boulding, 1970; v. Lebacqz, 1986; v. Block e Hexham, 1986).Nell'etica sociale cattolica la dignità della persona, realizzata in comunione con i propri simili, costituisce il criterio fondamentale per giudicare tutti gli aspetti della vita economica. Una società giusta deve garantire a tutti i suoi membri un livello minimale di partecipazione alla vita della comunità, e poiché i poveri in generale risultano esclusi da tale partecipazione, ciò che le politiche sociali fanno per essi costituisce la prova cruciale della loro equità. L'etica cristiana di conseguenza è favorevole a uno Stato redistributivo, all'eliminazione delle discriminazioni e all'attuazione di programmi assistenziali.L'etica sociale protestante è più rigida di quella cattolica. Pur affermando anch'essa il principio cristiano della carità, secondo il quale i ricchi devono considerare i propri beni come un fondo fiduciario da usare a beneficio dei meno fortunati, l'etica protestante considera nondimeno la povertà come frutto del 'peccato' (intemperanza, dissipatezza, imprevidenza, pigrizia, ecc.). Per eliminare la povertà come condizione sociale è necessario pertanto riformare l'individuo (non la società).
Di conseguenza, l'etica protestante è favorevole alla beneficenza privata e ai programmi sia privati che pubblici mirati a rieducare i poveri affinché diventino 'virtuosi': laboriosi, sobri, rispettosi della legge, ecc. Si tratta di un'etica che inculca valori atti a promuovere la crescita economica capitalistica. Gli attuali dibattiti sulla riforma del Welfare State negli Stati Uniti hanno salde radici nell'etica protestante.Il giudaismo è una religione delle azioni e dei rapporti interpersonali (più che degli atteggiamenti). Secondo la concezione ebraica della giustizia sociale, la comunità deve provvedere alla sussistenza di tutti i suoi membri, sicché i diritti di proprietà dei poveri limitano quelli dei ricchi (ad esempio la Torah proibisce di mietere completamente i campi e di raccogliere i frutti caduti dagli alberi; i poveri hanno diritti di proprietà esclusivi sul raccolto residuo). La carità è concepita in termini di diritti dei poveri sulla proprietà dei ricchi, piuttosto che come benevolenza da parte di questi ultimi. Il giudaismo quindi è intrinsecamente favorevole a uno Stato redistributivo.
L'islamismo considera sacri i diritti di proprietà privata, ma incoraggia anche la carità privata, coltiva un'etica del lavoro e impone trasferimenti nell'ambito della famiglia estesa, del vicinato e della comunità nel suo complesso sotto forma di una tassa sulla ricchezza destinata a opere di beneficenza, originariamente amministrata dallo Stato.
Le politiche sociali sono influenzate anche da valori di ordine strumentale. Jefferson (v., 1900), ad esempio, affermò la preferibilità di una società in cui non vi siano eccessive ineguaglianze, poiché queste hanno effetti negativi a livello politico e sociale, ostacolando ad esempio i processi decisionali nella sfera pubblica e in quella privata. Inoltre la presenza di eccessive ineguaglianze comporta una concentrazione del potere e il perseguimento di interessi ristretti, può portare al conflitto sociale e in casi estremi alla guerra civile. Ciò vale in particolare nel caso in cui le ineguaglianze seguano linee di divisione etniche, religiose o territoriali. Ne sono un esempio, in tempi recenti, la sanguinosa guerra civile in Nigeria, la secessione del Bangladesh dal Pakistan e l'insurrezione dei contadini nello Stato messicano di Chiapas.
L'idea che la società debba farsi carico di coloro che a causa delle condizioni di salute, dell'età e dello status demografico non sono in grado di lavorare è sempre esistita. Le forme e i meccanismi dell'assistenza ai poveri naturalmente sono stati assai diversi nel corso delle varie epoche storiche.Il problema centrale delle politiche sociali, specialmente a partire dal XVI secolo, è stato quello dell'assistenza economica ai poveri abili al lavoro e potenzialmente produttivi. I cambiamenti intervenuti nel corso dei secoli nelle politiche sociali hanno rispecchiato i valori etici di volta in volta dominanti, i mutamenti strutturali nei modelli di attività economica, i rapporti di potere, le concezioni etiche delle élites e - ultime ma non meno importanti - le teorie economiche. I principali cambiamenti intervenuti in questi ambiti hanno determinato di riflesso un mutamento nelle politiche sociali. Nel corso del tempo quindi lo status giuridico dei poveri adulti e abili al lavoro, la natura delle loro rivendicazioni verso gli altri cittadini e la società e le istituzioni assistenziali hanno subito significative trasformazioni.
Le politiche assistenziali medievali non facevano distinzioni tra abili e inabili al lavoro. La loro motivazione di fondo era il desiderio di rispettare i principî religiosi della carità, e le leggi in materia di assistenza ai poveri erano una branca del diritto canonico. Scopo di tali leggi era quello di rafforzare l'ordinamento politico ed economico feudale e di scongiurare la minaccia rappresentata per la società da una popolazione inattiva e svincolata da qualunque rapporto di dipendenza. Ad esempio i servi, che spesso vivevano in condizioni prossime alla mera sussistenza, non erano liberi di lasciare la tenuta signorile in cui erano nati. Il bisogno non era considerato un crimine, ci si preoccupava di fornire assistenza legale ai poveri e la carità era considerata un dovere nei confronti di questi ultimi - idea rafforzata da quella di 'legge naturale', in base alla quale la proprietà era in ultima istanza comune, nel senso che andava condivisa in tempi di penuria. L'elemosina non era solo un atto di misericordia, ma anche un atto di giustizia.
L'assistenza ai poveri era a base locale e variava a seconda della prosperità della parrocchia; era responsabilità del vescovo nutrire e proteggere i poveri della sua parrocchia, e destinare alla loro assistenza una determinata quota dei proventi della diocesi. Gli ospizi - che comprendevano istituzioni diverse quali colonie per lebbrosi, orfanotrofi e asili per anziani e per invalidi - avevano anch'essi un ruolo importante nell'assistenza ai poveri. Si potrebbe affermare che la popolazione povera era assistita meglio nel XIII secolo di quanto non lo sia stata in qualsiasi altra epoca successiva (v. Tierney, 1959).
Nel tardo Medioevo la legislazione sui poveri assunse un'impronta più laica. Con lo sviluppo dei mercati e dell'artigianato, e con l'internazionalizzazione del commercio e dell'agricoltura la manodopera salariata divenne la categoria predominante e la povertà assunse i caratteri di un fenomeno ciclico. Nel XIV secolo la 'morte nera' causò una carenza di manodopera nelle campagne, alla quale si cercò di ovviare con la promulgazione di leggi estremamente severe contro il vagabondaggio. Ciononostante la mobilità dei lavoratori aumentò, e con essa aumentarono le ribellioni dei contadini e gli scontri tra le classi sociali.L'approccio moderno al problema della povertà ebbe inizio con il declino dello Stato feudale, nel XVI secolo (v. Mencher, 1967).
Con la nascita del mondo commerciale e laico postfeudale si affermarono nuove ideologie religiose, sociali ed economiche. Nell'epoca del mercantilismo, tra il XVI e il XVII secolo, lo Stato si considerava in certa misura responsabile delle condizioni sociali che causavano la povertà degli individui abili al lavoro e interveniva per correggerle. Le politiche sociali mercantiliste mettevano l'accento sul lavoro, sulle misure occupazionali e sulla produttività. La teoria del valore-lavoro originariamente sviluppata da Petty (v., 1690) rafforzò la tendenza ad attribuire al lavoro un ruolo di fondamentale importanza.Secondo le concezioni mercantiliste, la povertà degli individui idonei al lavoro era dovuta principalmente alle scarse opportunità occupazionali; di conseguenza, furono introdotte severe sanzioni per vincolare i lavoratori al posto di lavoro. Era compito della parrocchia far sì che tutti i suoi membri avessero un'occupazione, e a questo scopo vennero introdotti uffici di collocamento, quote di occupazione e sussidi salariali finanziati attraverso fondi pubblici. Ma queste politiche del pieno impiego risultarono efficaci solo in parte; quando fallivano, i poveri idonei al lavoro erano assistiti dalla parrocchia e usufruivano delle stesse prestazioni assistenziali fornite agli inabili.Il XVIII secolo fu un'epoca di transizione per quanto riguarda le politiche sociali.
In Inghilterra il Settecento vide l'inizio della produzione su larga scala nell'industria e nell'agricoltura, l'espansione delle enclosures, lo sviluppo del sistema di fabbrica e la nascita del proletariato. Nonostante l'innalzamento dello standard di vita nella prima metà del secolo, le condizioni delle classi lavoratrici si fecero più dure e aumentò la differenziazione tra le classi. Le politiche sociali dell'età mercantilista non vennero abbandonate, ma il XVIII secolo fu contrassegnato dal conflitto ideologico tra una rinnovata corrente umanitaria, la filosofia del laissez faire imperniata sul concetto di responsabilità individuale, le filosofie tories della noblesse oblige e della mutua responsabilità tra le classi, e le teorie dei riformatori sociali che cercavano di riequilibrare il potere economico, sociale e politico in favore delle classi più povere.Nel XIX secolo il liberismo divenne l'ideologia dominante e i suoi principî vennero incorporati nel Poor law reform act del 1834, in cui la povertà era considerata una conseguenza delle deficienze morali dei poveri anziché il frutto di circostanze sociali ed economiche. L'Act di conseguenza attribuiva a quanti fossero idonei al lavoro la piena responsabilità della propria sicurezza; quanti pur essendo in grado di lavorare non avevano un impiego erano equiparati a criminali. La responsabilità sociale si estendeva solo agli inabili, e le case di lavoro divennero il principale strumento delle politiche contro la povertà.
La prima metà del Novecento sperimentò due guerre mondiali e la 'grande depressione'. La fine del primo conflitto mondiale segnò l'abbandono del liberismo e un maggior intervento dello Stato nell'economia e nell'assistenza. L'idea che l'indigenza costituisca una deficienza sociale e non già individuale fu rafforzata dalla 'grande depressione' degli anni trenta, che determinò una massiccia disoccupazione tra il ceto medio. Tale idea fu corroborata dalla rivoluzione keynesiana nella teoria economica, che individuava le cause della disoccupazione in una disfunzione del sistema economico e proponeva una serie di misure atte a prevenirla. La piena occupazione e l'eliminazione della povertà divennero i principali obiettivi della politica nazionale; nasceva così il Welfare State.
La povertà cominciò a essere considerata una malattia sociale curabile. I programmi di riqualificazione professionale assistiti dallo Stato vennero considerati il principale strumento per ridurre la dipendenza dalla pubblica assistenza e per interrompere la trasmissione intergenerazionale della povertà. Tre sono i principali obiettivi, tra loro collegati, delle politiche anti-povertà del Welfare State: prevenire la formazione di redditi bassi e instabili, ridurre il numero dei poveri e potenzialmente tali, e alleviare la povertà. I programmi di crescita economica e le misure anticicliche divennero i pilastri della politica macroeconomica nazionale. Vennero introdotti l'assicurazione contro la disoccupazione, la previdenza sociale per gli anziani, l'assicurazione contro le malattie e gli infortuni, i programmi di garanzia del reddito per i bisognosi e i programmi di formazione professionale per aumentare le opportunità occupazionali dei poveri abili al lavoro.
Attualmente la rinascita del liberismo e le preoccupazioni per la lievitazione del deficit pubblico hanno fatto sì che questi programmi assistenziali siano messi in discussione in tutto il mondo sviluppato; essi, si afferma, comporterebbero costi non più sostenibili e non sarebbero particolarmente efficaci per ridurre l'estensione e le dinamiche di trasmissione della povertà. Si profila pertanto una revisione radicale delle politiche del Welfare State.Dopo questo breve excursus storico, dedicheremo i successivi capitoli della nostra trattazione a una descrizione normativa delle misure mirate alla riduzione e all'alleviamento della povertà.
Fondamentalmente, tutti i programmi di politica sociale di breve periodo comportano trasferimenti, sotto forma di prestazioni in moneta (integrazioni e sussidi salariali) e in natura (comprendenti l'insieme dei beni e servizi pubblici - alloggi, assistenza sanitaria, istruzione, generi alimentari - offerti gratuitamente o sottocosto ai percettori di bassi livelli di reddito).Nel breve periodo non vi è molta differenza tra le misure assistenziali destinate agli inabili al lavoro e quelle destinate ai disoccupati. Entrambe richiedono la creazione di una efficace 'rete di sicurezza' per garantire uno standard minimo di vita.Le politiche sociali di lungo periodo sono rivolte principalmente ai percettori di bassi livelli di reddito e ai disoccupati potenzialmente attivi. Obiettivo di tali politiche di lungo periodo è quello di ridurre la popolazione che vive in condizioni di povertà e la sua dipendenza dall'assistenza pubblica.Punto di partenza dei programmi contro la povertà è la constatazione del fatto che il reddito dei poveri attivi e potenzialmente tali consiste nel valore dei servizi dei beni da essi posseduti che vengono venduti sul mercato, più i trasferimenti.
Sostanzialmente, il problema della povertà nel lungo periodo è un problema di beni insufficienti e di scarsa qualità, di un basso volume di vendite di tali beni e di prezzi di vendita troppo bassi. Per essere efficaci i programmi di lungo periodo per combattere la povertà devono pertanto conseguire uno o più d'uno dei seguenti obiettivi: 1) aumentare la quantità e la qualità dei beni posseduti dai poveri; 2) incrementarne il prezzo di vendita e/o 3) aumentare il volume delle vendite (v. Adelman, 1986).
La quantità dei beni posseduti dai poveri può essere aumentata facendo ricorso a: 1) politiche redistributive (ad esempio, riforme agrarie); 2) istituzioni che garantiscano ai poveri un accesso preferenziale alle opportunità di accumulazione di risorse (ad esempio attraverso programmi di qualificazione o riqualificazione professionale e programmi antidiscriminatori nell'istruzione formale); 3) investimenti diretti.
La principale risorsa posseduta dai poveri è il lavoro non qualificato; tale risorsa può essere aumentata tramite investimenti in programmi di istruzione e di qualificazione professionale, e la sua produttività può essere accresciuta aumentando la quantità di risorse complementari.
Un modo per aumentare il prezzo dei servizi dei principali beni posseduti dai poveri è quello di aumentarne la produttività. A questo scopo possono essere adottate le seguenti misure: 1) migliorare la qualità dei beni posseduti dai poveri (investimenti in capitale umano); 2) aumentare le opportunità di accesso a risorse complementari le cui produttività sono interrelate e introdurre cambiamenti tecnici che migliorano la produttività (ad esempio, nel settore agricolo, attraverso innovazioni che consentono lo sfruttamento intensivo della terra).
1. Investimenti in capitale umano. - Per accrescere la produttività del lavoro non qualificato sono necessari investimenti in capitale umano.Gli investimenti nell'istruzione dei poveri, attraverso campagne di alfabetizzazione degli adulti e il potenziamento delle strutture scolastiche, contribuiscono a diffondere il possesso di capitale umano. Tali investimenti qualificano i poveri per lavori più produttivi e diminuiscono il grado di sperequazione nei redditi da salario; nel contempo contribuiscono a incrementare la migrazione interregionale e rurale-urbana, consentendo quindi ai poveri l'accesso a opportunità di lavoro a reddito più elevato e migliorando i termini di scambio nel settore agricolo. La diffusione dell'istruzione elementare tra la popolazione femminile inoltre contribuisce a ridurre la crescita demografica.
Nei paesi sviluppati si può migliorare la salute dei poveri mediante programmi di investimenti nel campo medico-sanitario (cliniche, personale medico, impianti igienico-sanitari e di acqua potabile, centri per alcolizzati e tossicodipendenti, programmi di addestramento alla preparazione del cibo e alle norme igieniche elementari, assicurazione contro le malattie a carico dello Stato).
Gli investimenti nella salute contribuiscono a migliorare la produttività in quanto incrementano l'efficacia di altri investimenti destinati a questo scopo. Una salute e una nutrizione migliori aumentano i livelli di frequenza scolastica e di apprendimento sia nella scuola che nei corsi di formazione professionale; una salute migliore aumenta altresì la capacità del fisico di trasformare gli apporti nutrizionali in spese caloriche, riducendo quindi in misura significativa gli effetti della malnutrizione.
Gli investimenti diretti sono utili non solo come strumenti per incrementare la produttività, ma anche in se stessi, in quanto forniscono ai poveri il minimo di beni e servizi necessari per consentire loro l'accesso alle opportunità.
2. Risorse complementari e incremento della produttività agricola. - La povertà nelle aree rurali è dovuta in larga misura alla scarsa quantità di terra che i poveri possono coltivare col proprio lavoro, cui si associa una scarsa domanda di manodopera salariata da parte dei grossi coltivatori. Le misure di incremento della produttività più efficaci per aumentare i redditi dei poveri nelle campagne sono costituite pertanto da programmi di redistribuzione della terra e da investimenti in innovazioni tecnologiche, che aumentano la produttività delle terre coltivate dai poveri e incrementano in misura significativa la domanda di manodopera salariata da parte dei grandi coltivatori. Gli investimenti in impianti di irrigazione e di drenaggio, ad esempio, determinano un migliore controllo dell'acqua e permettono raccolti multipli. I miglioramenti delle sementi ottenuti con la cosiddetta 'rivoluzione verde' possono triplicare i raccolti per acro e richiedono metodi di coltivazione a intensità considerevolmente più alta di lavoro.Per rendere più efficaci questi investimenti e queste innovazioni tecnologiche occorre però rendere accessibili ai poveri una serie di risorse complementari. Ad esempio, anche quando (come accade con l'impiego di sementi selezionate) la maggiore produttività consentita dalle nuove tecnologie è indipendente dalle dimensioni dei campi, i poveri non sono in grado di trarre vantaggio da tali tecnologie per mancanza di accesso all'acqua, alle sementi selezionate, al credito per acquistare fertilizzanti e al know-how tecnologico.Tra le risorse complementari che possono ridurre la povertà nelle aree urbane figurano la concessione di credito, l'informazione sulle opportunità di impiego, i programmi di finanziamento alle piccole imprese riservati ai soggetti svantaggiati e i programmi di addestramento per l'acquisizione di capacità imprenditoriali e di gestione dei capitali.
I salari dei poveri possono essere aumentati non solo incrementando la produttività del loro lavoro, ma anche aumentando i prezzi di vendita dei beni da loro prodotti. Nei paesi in via di sviluppo un aumento dei prezzi dei beni venduti dagli agricoltori rispetto ai prezzi di quelli acquistati aumenta il valore del prodotto marginale della manodopera sia familiare che salariata nelle aree rurali. Ciò va a beneficio sia degli agricoltori che dei poveri senza terra - anche se questi ultimi sono acquirenti netti dei prodotti agricoli - in quanto determina un aumento della domanda di manodopera salariata.
Gli effetti del mutamento strutturale e tecnologico sulla popolazione povera dipendono dall'attuazione di riforme istituzionali nei mercati dei prodotti e dei fattori produttivi. Rendere il funzionamento dei mercati del lavoro maggiormente conforme al modello neoclassico in generale si traduce in un vantaggio per i poveri, in quanto la segmentazione dei mercati può evitare che si verifichino situazioni di squilibrio, con una diffusione della disoccupazione in alcune regioni e settori e una contemporanea carenza di lavoro in altri. Analogamente, l'eliminazione di rigidità socialmente indotte, come ad esempio le discriminazioni basate sul sesso o sulla razza, aumentando la flessibilità dei lavoratori poveri e fornendo loro capitali e informazione, può metterli in condizione di controbilanciare gli effetti negativi di una contrazione della domanda di manodopera in determinati settori o regioni con le tendenze espansive in altri. Le riforme dei mercati del lavoro mireranno quindi a incrementare la mobilità settoriale e regionale dei lavoratori, consentendo ai poveri un migliore accesso ai mercati per la vendita della loro risorsa principale, ossia il lavoro.
Riforme dei mercati del lavoro e del credito. - Alcuni studi condotti sui paesi in via di sviluppo indicano l'esistenza di una interconnessione tra i mercati del lavoro e i mercati del credito nelle aree rurali; ciò dà luogo a un tasso dei salari inferiore a quello di equilibrio in un mercato privo di distorsioni (v. Bardhan, 1980). Le riforme istituzionali mirate a frazionare i mercati del lavoro rendendo accessibili agli agricoltori in termini ragionevoli le fonti di credito per la produzione e il consumo appaiono quindi uno strumento essenziale per consentire ai poveri di usufruire delle opportunità occupazionali create dalla crescita economica e dal mutamento strutturale. La creazione di mercati del credito per i percettori di bassi livelli di reddito potrebbe dimostrarsi un importante mezzo per ottenere un aumento dei salari.
Nei paesi sviluppati le agenzie di reclutamento per gli immigrati creano spesso una nuova classe di manodopera a contratto e incamerano la maggior parte dei salari dei lavoratori. Si rende quindi necessario creare mercati del lavoro per gli immigrati in cui questi non vengano sfruttati.Riforme agrarie. - Le riforme agrarie che diffondono la piccola proprietà, fissano un tetto ai fitti e rafforzano il legame tra le scelte del coltivatore e il suo reddito netto sono essenziali per ridurre la povertà nelle aree rurali. Le riforme della terra attuate nell'Est asiatico negli anni cinquanta, ad esempio, hanno incrementato la produttività agricola, hanno permesso un'accelerazione della crescita economica evitando un aumento concomitante del grado di sperequazione nella distribuzione del reddito, hanno favorito la stabilità politica nelle campagne e hanno prodotto alti indici di risparmio rurale. Questi programmi di redistribuzione della terra ai contadini, integrati con appropriate misure collaterali di tipo infrastrutturale, istituzionale e finanziario, hanno aumentato in misura significativa sia l'efficienza economica che l'equità. 6e. Politiche macroeconomiche e strategie di sviluppo.Le politiche macroeconomiche agiscono sulla domanda di manodopera non qualificata, sul tasso salariale e sui prezzi dei beni acquistati e prodotti dai percettori di bassi livelli di reddito. Le politiche macroeconomiche antinflazionistiche in genere avvantaggiano i poveri, mentre le politiche di aggiustamento tendono a danneggiarli sia direttamente, sia attraverso misure di contenimento dei salari. Le politiche dei tassi di cambio influenzano i prezzi relativi dei beni prodotti e venduti dai percettori di bassi livelli di reddito; quelle attuate negli anni novanta hanno avuto ripercussioni particolarmente negative sulle categorie meno abbienti.
Le strategie di sviluppo regolano la velocità di assorbimento di manodopera nel settore moderno, il divario di reddito tra quest'ultimo e i settori tradizionali, e le sperequazioni all'interno dei singoli settori.
Strategie mirate a creare domanda di lavoro. - Particolarmente efficaci nella lotta alla povertà sono le strategie di sviluppo che incrementano la domanda di manodopera non qualificata stimolando la rapida crescita dei settori altamente produttivi ad alta intensità di lavoro, associate a istituzioni mirate ad accrescere la mobilità dei lavoratori e a favorire l'accesso dei meno abbienti alle opportunità occupazionali. Tali strategie possono aumentare sia la quantità di lavoro venduta dai poveri sia il loro salario medio reale. Il raggiungimento di quest'ultimo obiettivo - l'aumento dei livelli salariali - dipende dalla velocità con cui il surplus di manodopera viene assorbito, e dall'adozione o meno da parte dei governi di misure di contenimento dei salari.I settori a maggiore intensità di lavoro nelle economie in via di sviluppo sono l'agricoltura, l'industria leggera e alcuni tipi di servizi, in particolare l'edilizia. Non si tratta però necessariamente di settori altamente produttivi. In generale, nei paesi in via di sviluppo l'industria ad alta intensità di lavoro è un settore (relativamente) ad alta produttività, laddove l'agricoltura e i servizi sono a bassa produttività. Le politiche atte a promuovere la crescita dei settori altamente produttivi e ad alta intensità di lavoro pertanto differiranno a seconda dei settori.
Le strategie che puntano sulla crescita dell'occupazione nell'industria devono porsi come obiettivo principale la creazione di domanda per i prodotti delle industrie ad alta intensità di lavoro. Nei paesi di piccole dimensioni ciò implica che lo sviluppo dovrà essere orientato verso i mercati di esportazione; in questo caso si privilegeranno quindi la crescita guidata dalle esportazioni e l'adozione di politiche commerciali liberistiche. Nei paesi di maggiori dimensioni, invece, l'industrializzazione può essere orientata verso il mercato interno, soprattutto quando non esistano eccessive sperequazioni nella distribuzione del reddito. Per contro, le strategie che puntano sullo sviluppo dell'agricoltura o del terziario non mireranno tanto ad aumentare la domanda, quanto piuttosto a incrementare la produttività del lavoro. Esistono poche tecnologie per aumentare la produttività del settore dei servizi ad alta intensità di lavoro, né vi sono paesi in via di sviluppo in cui il terziario sia stato un settore guida.
Le strategie più efficaci sono pertanto quelle che puntano: 1) sulla crescita orientata verso le esportazioni dell'industria ad alta intensità di lavoro; 2) sull'industrializzazione guidata dallo sviluppo agricolo in un regime di politica commerciale orientata verso le esportazioni. Quest'ultimo tipo di strategia richiede l'introduzione di innovazioni tecnologiche che aumentino la produttività nel settore agricolo e una trasformazione strutturale del commercio dei prodotti agricoli che comporti una diminuzione sia delle esportazioni che delle importazioni (v. Mellor, 1976; v. Singer, 1979; v. Adelman, 1984). L'incremento dei redditi nel settore agricolo aumenta la domanda dei beni salariali industriali, con effetti significativi sulle importazioni. Il tipo di strategia in questione sarebbe quindi ostacolato dall'adozione di politiche che pongono restrizioni al volume degli scambi.
La scelta tra i due tipi di strategie appena illustrate dipende da due fattori: 1) l'ampiezza degli effetti dei moltiplicatori diretto e indiretto dell'occupazione derivante dalla scelta di espandere, rispettivamente, le industrie ad alta intensità di lavoro e il settore agricolo; 2) i costi e la fattibilità, rispettivamente, dell'ingresso nei mercati di esportazione e dell'espansione della produttività agricola.Le simulazioni dei due tipi di strategia effettuate da alcuni studiosi in un modello matematico della Corea del Sud (v. Adelman, 1984) e in un modello globale, multiregionale (v. Adelman e altri, 1989), indicano che entrambi riescono a conseguire alti tassi di crescita e una rapida riduzione della povertà, e dimostrano inoltre che nelle fasi di contrazione della domanda mondiale di esportazioni industriali ad alta intensità di lavoro la strategia che punta sullo sviluppo agricolo ottiene livelli più bassi di povertà e ineguaglianza, un indice di crescita globale più elevato, una maggiore industrializzazione e una migliore bilancia dei pagamenti.
Entrambe le strategie richiedono determinati prerequisiti sia istituzionali che distributivi. La strategia basata sulla crescita dell'industria ad alta intensità di lavoro richiede un'espansione dell'istruzione e un abbassamento delle barriere di accesso alle opportunità occupazionali per i percettori di bassi livelli di reddito. La strategia imperniata sulla crescita nel settore agricolo richiede condizioni per la proprietà fondiaria sufficientemente favorevoli da incentivare i piccoli coltivatori a migliorare la produttività e da consentire loro l'accesso alle necessarie risorse complementari, in particolare al credito e all'acqua.Entrambe le strategie hanno anche delle ripercussioni sulla politica dei prezzi. Quella che punta sulle esportazioni richiede una liberalizzazione degli scambi e l'adozione di una politica dei prezzi che non discrimini le esportazioni con tassi di cambio sopravvalutati e tariffe. La strategia che punta sullo sviluppo agricolo richiede una politica dei prezzi che consenta agli agricoltori di usufruire almeno in parte dei benefici derivanti dai miglioramenti della produttività agricola, e implica quindi una politica dei prezzi dei prodotti agricoli che ripartisca i vantaggi dell'accresciuta produttività tra la popolazione rurale e quella urbana. Infine, sia l'una che l'altra strategia sono destinate a fallire se non si ottiene una rapida crescita della produttività nel settore guida.
Questa rassegna normativa delle politiche mirate alla riduzione della povertà suggerisce una serie di conclusioni.In primo luogo, esistono effettivamente efficaci strategie, politiche e programmi di lotta alla povertà.In secondo luogo, le politiche contro la povertà richiedono l'adozione di 'pacchetti' di programmi e strategie multidimensionali, reciprocamente coerenti e che si rafforzino a vicenda. Gli approcci più efficaci sono quelli che associano programmi di redistribuzione delle risorse, riforme istituzionali che favoriscono per i meno abbienti l'accesso alle opportunità occupazionali e alle risorse che aumentano la produttività dei loro beni (terra e lavoro), e infine strategie di sviluppo che determinano un rapido incremento della domanda di manodopera non qualificata.In terzo luogo, le politiche contro la povertà non sono di un unico tipo. La scelta tra i programmi per la riduzione della povertà implica una scelta tra obiettivi e strumenti diversi. Gli strumenti dovranno essere scelti tenendo conto delle condizioni iniziali, delle risorse di base, delle dimensioni, della distribuzione dei beni, delle strutture istituzionali e della configurazione sociopolitica di ogni singolo paese, nonché delle condizioni e dei trends esterni.In quarto luogo, è importante l'ordine in cui vengono attuati i differenti interventi. Le misure redistributive e i cambiamenti istituzionali mirati a favorire per i poveri l'accesso a occupazioni altamente produttive devono avere la precedenza sulle strategie di sviluppo. In questo modo non vi sarà alcun trade-off tra promozione della crescita e riduzione della povertà, poiché la stessa strategia di sviluppo risulta ottimale per entrambi gli obiettivi.Infine, le strategie per alleviare la povertà non sono compatibili con ogni tipo di crescita economica. Se è vero che ogni strategia efficace presuppone la crescita economica, questa deve presentare determinate caratteristiche. Come abbiamo visto, due sono le strategie di sviluppo più promettenti: quella che punta sulla crescita orientata alle esportazioni del settore industriale ad alta intensità di lavoro, e quella che punta sull'industrializzazione guidata dallo sviluppo agricolo.
Per migliorare la situazione dei poveri non basta la definizione tecnica di un programma di interventi, ma occorre anche un impegno politico per l'attuazione di tali programmi.Tra le diverse tecniche che si possono utilizzare al fine di creare un sostegno politico per i programmi contro la povertà (v. Streeten, 1995), particolarmente efficaci si rivelano le seguenti: strutturare programmi e politiche in modo che creino interessi comuni tra i poveri e i ricchi (ad esempio mantenere alti i prezzi dei prodotti agricoli, favorendo gli interessi di tutti i gruppi rurali, o congegnare i sussidi in modo che possano beneficiarne anche le categorie più abbienti); sfruttare i conflitti di interesse tra le élites dominanti (ad esempio tra le élites urbane e quelle rurali, tra importatori ed esportatori); conferire maggiori poteri ai poveri, o incrementare la loro partecipazione politica; creare dei gruppi di pressione in favore dei poveri tra altre categorie della popolazione (studenti, intellettuali, gruppi professionali attivi nel settore dei servizi per gli indigenti); infine, promuovere forme di pressione e di sostegno a livello internazionale.Sia nei regimi democratici che nelle autocrazie le politiche sociali non dipendono solo dalle pressioni politiche in favore dei poveri, ma anche dall'orientamento politico del governo. I regimi militari insediatisi nell'America Latina negli anni settanta e all'inizio degli ottanta privilegiarono gli interessi delle élites, e di conseguenza i costi dell'assestamento economico ricaddero principalmente sui poveri e sulla classe lavoratrice. Nei paesi comunisti, per contro, i poveri ebbero un trattamento relativamente migliore a spese delle classi medio-alte.
(V. anche Distribuzione della ricchezza e del reddito; Fame; Politica economica e finanziaria; Produttività; Reddito; Sottosviluppo; Sviluppo economico).
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Sociologia e politica di Nicola Negri
1. Metodi di analisi della povertà
Dalla fine dell'Ottocento fino ai primi decenni del dopoguerra, per misurare la quantità di poveri presenti nei diversi paesi si è fatto riferimento a una definizione di povertà in termini assoluti, che privilegiava il problema della sussistenza fisica (v. Rowentree, 1901; v. Rowentree e Lavers, 1951). Questo approccio (subsistence approach) definisce povero chi è privo delle risorse indispensabili alla sopravvivenza. Il livello di reddito al di sotto del quale diventa impossibile procurarsi queste risorse definisce una linea o soglia assoluta di povertà. Ancora negli anni novanta le statistiche ufficiali di alcuni paesi (ad esempio, gli Stati Uniti, il Canada, il Sudafrica, l'India, la Malesia) fanno riferimento a una simile soglia. Tuttavia le critiche al subsistence approach sono da lungo tempo consolidate (v. Pagani, 1960). Il suo difetto sarebbe di non considerare che le condizioni di povertà sono relative a quelle medie di vita di un paese (v. Sarpellon, 1982). Tenendo conto di questa obiezione, negli anni ottanta la prima commissione della Comunità Europea per la lotta contro la povertà ha deciso di utilizzare l'International standard of poverty line quale termine di riferimento per misurare la diffusione e l'intensità del fenomeno in Europa. Secondo tale indicatore è povera una famiglia di due persone il cui reddito (o spesa per i consumi) non supera il reddito medio (o spesa media) pro capite del paese in cui vive. A partire da questa soglia di povertà vengono poi calcolate le soglie per i nuclei con un diverso numero di componenti, attraverso scale di equivalenza. Le scale tengono conto delle economie che una famiglia può realizzare in funzione delle sue dimensioni.
Le statistiche che fanno riferimento alle soglie di povertà così definite costituiscono, oggi, la base per le comparazioni internazionali e intertemporali nella Unione Europea. Tuttavia esse non consentono ancora di raggiungere una soddisfacente conoscenza del fenomeno, delle sue cause e delle sue conseguenze. Limitandosi a considerare le diseguaglianze in termini di reddito monetario non si tiene infatti conto delle effettive condizioni di vita dei poveri e dei loro bisogni materiali (v. Townsend, 1993, pp. 35 e 43-46). Paradossalmente, secondo le statistiche basate sull'International standard of poverty line, la povertà di un paese potrebbe diminuire perché i redditi dei non poveri, per esempio a causa di una crisi economica, sono mediamente meno elevati, non già perché le condizioni di vita dei poveri sono migliorate. Inoltre le analisi in termini esclusivamente monetari rischiano di trascurare il ruolo giocato dai fattori non economici nei processi di impoverimento. Non si spiegano, così, i meccanismi che distribuiscono i rischi di povertà in modo diverso fra uomini e donne e bambini, oppure a seconda della regione, dell'etnia o della religione di appartenenza. In particolare, nelle analisi dei problemi dei paesi in via di sviluppo, si trascurano i fattori di tipo ambientale, istituzionale e culturale che determinano condizioni di vita insostenibili per quote molto ampie della popolazione (v. Myrdal, 1970, pp. 10-19).
In anni recenti sono stati messi a punto schemi analitici che cercano di superare i limiti delle impostazioni fin qui considerate. Vengono proposti indici in grado di misurare il tenore di vita complessivo dei poveri (dalla efficienza fisica alla stima di sé, alla libertà). Si studia come variano le relazioni fra reddito, risorse e tenore di vita, nello spazio e nel tempo, in funzione delle caratteristiche degli individui, dei loro nuclei familiari, dei gruppi sociali di cui fanno parte, delle aree in cui vivono, dei diritti di cui possono fruire. Le teorie che procedono in questa direzione non concordano certo su tutti i punti. In alcune l'accento è messo sul carattere relativo della povertà. È il caso ad esempio della teoria della "deprivazione relativa" sviluppata da Peter Townsend a partire dalla fine degli anni settanta (v. Townsend, 1979 e 1993). Secondo questa teoria, una persona (o una famiglia o un gruppo) è povera quando le sue risorse sono talmente al di sotto di quelle della media, che essa è di fatto esclusa dai comuni modelli di vita, dalle abitudini e dalle attività della società in cui vive (ibid., p. 31; v. Sarpellon, 1982, pp. 65-67).
Altre teorie propongono invece una sintesi fra le definizioni della povertà in termini relativi e quelle in termini assoluti. Il problema della relatività riguarderebbe le risorse che sono necessarie per conseguire un certo tenore di vita. La soglia del tenore di vita al di sotto della quale si cade nella povertà dovrebbe invece essere definita secondo criteri assoluti. Da questo punto di vista - come afferma Amartya Sen - nell'idea di povertà resta "un nucleo assolutista irriducibile" (v. Sen, 1984; tr. it., p. 150).
Malgrado le divergenze teoriche entrambe le impostazioni permettono di acquisire notevoli risultati nella ricerca empirica (v. ad esempio Townsend, 1993, pp. 56-78; v. Sen, 1984, tr. it., pp. 165-186). Eppure esse stentano a radicarsi nelle istituzioni che, a livello nazionale e internazionale, si occupano di definire e applicare le politiche contro la povertà. È vero che le impostazioni in questione richiedono un forte impegno nella produzione di adeguate basi di dati. Tuttavia, nei capitoli successivi, si vedrà come le resistenze che esse incontrano dipendono anche dal fatto che in Occidente il persistere del problema della povertà comporta gravi tensioni a livello politico-istituzionale. In nazioni in cui si è ormai consolidato un esteso riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali riemergono dilemmi che per lungo tempo hanno caratterizzato un atteggiamento difensivo e di paura nei confronti dei poveri. Di fronte a questi dilemmi resta forte l'inclinazione a semplificare i problemi, ad analizzarne solo le componenti economiche, disconoscendo le componenti sociali. E tale tendenza condiziona oggi anche il modo di affrontare la povertà nei paesi in via di sviluppo.
2. L'atteggiamento difensivo nei confronti dei poveri
Già nel 1908 Georg Simmel rilevava come l'atteggiamento difensivo nei confronti dei poveri fosse maturato lentamente, come reazione alle conseguenze non volute del modello di carità, poco discriminante, tipico della società cristiana medievale (v. Mollat, 1978). In effetti, i moventi che regolavano la carità nel Medioevo (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, pp. 264-269) non erano stati sufficienti per affrontare la crescita del pauperismo, cioè di una massa di proletari poveri e di folle di mendicanti professionisti (v. Geremek, 1970). E il pauperismo, questa "vendetta dell'elemosina" (v. Simmel, 1908; tr. it., p. 396), aveva trasformato il problema dei poveri in un problema di ordine pubblico. La povertà non si configurava più come una occasione di ascesi (v. Weber, 1922; tr. it., vol. IV, p. 284). Piuttosto essa veniva percepita come un male: un rischio che rendeva fragile la società nel suo complesso. Le masse di poveri, seppure appetibili in quanto fornivano manodopera a buon mercato, suscitavano paura (v. Geremek, 1970, p. 202). Perciò i poveri vengono aiutati non più per fare delle "buone azioni", ma per evitare che essi si trasformino in nemici attivi della società in cui vivono, per attenuare quindi i possibili effetti eversivi delle estreme differenze sociali (v. Simmel, 1908; tr. it., p. 398).
Simmel nota come l'atteggiamento difensivo conferisca al povero un "ruolo" particolare che lo colloca proprio sul confine della società (ibid., p. 404, p. 424, passim). Il povero, in quanto oggetto di assistenza, è incluso nella società, che lo soccorre proprio perché lo riconosce, malgré soi, come una sua parte: il suo punto vulnerabile. E come membro della società egli è un cittadino dello Stato (ibid., p. 401). Tuttavia il povero, per il fatto di essere assistito, subisce un processo di declassamento. L'obbligo di aiutarlo insorge proprio in quanto egli non fa parte di nessuna delle cerchie sociali definite dalla divisione sociale del lavoro e costituisce, anzi, una minaccia potenziale per esse; solo il fatto di non avere nessuna qualifica funzionale rilevante per la società lo rende, invece, rilevante per l'assistenza. In assenza di questo presupposto il povero non è povero: ovvero è un povero invisibile. Ne consegue che egli appartiene alla società solo come corpus vile: oggetto privo di diritto, materia da formare (ibid., pp. 401 e 420). È stata tale concezione ad aggravare il problema dei poveri vergognosi: infatti, un soggetto già benestante (nobile, mercante), che si fosse trovato in una posizione di bisogno, avrebbe definitivamente perso il decoro con il ricorso all'assistenza pubblica (v. Woolf, 1986; tr. it., p. 12).
Il declassamento del povero è, dunque, un presupposto dell'obbligo dell'assistenza. Simmel sottolinea come questa impostazione comporti nei fatti un paradosso: dopo il XVI secolo, l'assistenza sembrerebbe venire prima della povertà. In effetti il povero diventa tale, nel senso sociale del termine, solo quando viene soccorso: è l'accettazione del soccorso che "costituisce la prova evidente che egli è formalmente declassato". Perciò, scrive Simmel, il povero "come categoria sociologica non nasce da una determinata misura di mancanza e di privazione". Piuttosto, la cerchia dei poveri viene costituita "dall'atteggiamento collettivo che la società nel suo insieme assume di fronte ad essa" (v. Simmel, 1908; tr. it., pp. 423-424). Nel linguaggio della sociologia moderna, si potrebbe parlare di costruzione sociale della povertà. Infatti, seguendo il ragionamento di Simmel, nell'ambito di un atteggiamento difensivo verso i bisognosi non sarebbe possibile conferire alla povertà uno stato ontologico indipendente dall'attività umana che l'ha prodotta. La povertà si configurerebbe, piuttosto, come il risultato di una specifica interazione di carattere difensivo fra i bisognosi e l'insieme degli altri membri della società. Simmel mostra le ragioni profonde per le quali questa interazione deve restare chiusa entro rigidi confini formali. In primo luogo, essendo l'obiettivo dell'assistenza costituito dalle opportunità di conservazione dello status quo, essa non deve comportare dei rischi economici per la società nel suo complesso. Non deve, quindi, gravare sulla collettività con costi esorbitanti. I vincoli alla crescita dei costi dell'assistenza non sono, tuttavia, solo quelli esogeni imposti dal bilancio dello Stato. Esistono anche vincoli endogeni, connessi alla natura stessa della funzione dell'assistenza, orientata alla difesa della società nel suo complesso (ibid., pp. 409-414). Per questa sua natura la funzione assistenziale deve configurarsi come un processo unitario che coinvolge tutti, anche se viene svolto da funzionari stipendiati.
Secondo Simmel tale esigenza richiede che l'assistenza non oltrepassi uno standard minimo e "oggettivo" di prestazioni. In quanto processo unitario, l'assistenza deve infatti avere un contenuto accettato universalmente e, pertanto, riguardare soltanto le esigenze che ciascun membro della società riconosce come necessarie: dunque, solo le esigenze generali di sopravvivenza comuni a tutta la popolazione. Simmel mostra come questo principio implichi la riduzione dell'assistenza al minimo (ibid., p. 413). Solo limitandosi a garantire uno standard generale e perciò minimo, l'assistenza conserva un carattere oggettivo. Azioni mirate a un "innalzamento positivo" del bisogno, oltre il livello minimo generale della sussistenza, dovrebbero invece tenere conto sia di caratteristiche soggettive del disagiato (difficili da definire in modo univoco), sia degli apprezzamenti personali di chi aiuta. Emerge qui, come nota Simmel, l'"antica correlazione gnoseologica tra generalità e oggettività".
3. Il controllo dei poveri validi
L'atteggiamento difensivo verso i poveri ha implicato, quindi, un bisogno sistemico di esclusione. In quanto rigorosamente al servizio della società in generale, l'assistenza doveva innalzarsi al di sopra di ogni punto di vista soggettivo (v. Simmel, 1908; tr. it., p. 415). Doveva perciò rifiutare l'aiuto quando non era funzionale alla struttura sociale e badare anzi che la stessa beneficenza privata, dando troppo, non comportasse effetti perversi. E questo rifiuto doveva prescindere sia da ogni compassione personale, sia da ogni considerazione su conseguenze pur spiacevoli, ma irrilevanti dal punto di vista astratto della società in generale (ibid., p. 397).Questa necessità sistemica di esclusione portava a consolidare l'antichissima separazione fra poveri meritevoli e poveri non meritevoli: una distinzione di cui si trovano tracce già nella Bibbia e nel codice giustinianeo, e che era già applicata nei fatti nel periodo della carità medievale. Con essa il bisognoso per cause naturali, fisiologicamente dipendente dall'elemosina e dal rapporto con il donante, veniva distinto dall'individuo valido ma povero per motivi di disoccupazione (v. Lis e Soly, 1979, tr. it., p. 39; v. Woolf, 1986, tr. it., p. 22).
La valutazione di merito andava a scapito di questa seconda figura. E nei suoi confronti si richiedeva che l'aiuto venisse socialmente controllato e svolgesse anche funzioni di disciplinamento.Tuttavia, rispetto alla fase medievale, a partire dal XVI secolo la penalizzazione dei 'poveri validi' e le istanze di disciplinamento facevano più radicale riferimento al rischio morale connesso alle azioni dell'assistenza pubblica e della beneficenza privata. In altri termini, il problema centrale era quello di evitare il rischio che entrambe le azioni incentivassero il rifiuto del lavoro. Se l'assistenza, nell'affrontare la povertà delle masse di disoccupati, non si fosse fatta carico di questi problemi sarebbe venuta meno alla sua funzione: anziché soddisfare il diritto della società di essere protetta dal problema dei poveri, avrebbe contribuito a trasformare le masse di poors (lavoratori poveri) in masse di paupers (indigenti dipendenti dall'assistenza), gravando di costi inutili la società. Rientrava quindi negli obblighi istituzionali dell'assistenza considerare il moral hazard intrinseco agli interventi di aiuto e cercare di diminuirlo con adeguate politiche.
Fra queste, le più efficaci parvero essere quelle della reclusione e del lavoro obbligatorio. Entrambe le politiche erano rivolte in primo luogo ai poveri non meritevoli. Tuttavia esse coinvolgevano anche figure più meritevoli (orfani, figli di poveri, spose abbandonate con figli, vedove, malati, inabili), per le quali si ritenevano necessari periodi più o meno lunghi di protezione e/o di riabilitazione, prima del loro eventuale reinserimento nella società (v. Woolf, 1986; tr. it., p. 31). La storia dell'assistenza in Europa illustra il grande sforzo compiuto dagli Stati, soprattutto a partire dal Seicento fino agli inizi dell'Ottocento, per attuare queste politiche attraverso il coinvolgimento dei governi locali, della chiesa, delle parrocchie e delle fondazioni volontarie private, laiche e religiose. Una prova di questo sforzo è fornita dalle workhouses e poorhouses inglesi, dai colossali ospedali dei poveri e dai dépôts de mendicité nell'Europa continentale. In queste strutture 'pluri-uso', a metà strada fra l'ospedale, la caserma e la prigione, si cercò di applicare un modello di intervento repressivo-riabilitativo (e che fosse anche economicamente utile) in grado di sfruttare le virtù del lavoro forzato. Eppure, proprio questa forma di lavoro costituì il punto debole dell'intera impalcatura istituzionale, eretta all'insegna di un atteggiamento difensivo nei confronti dei poveri. Alla fine del XVII secolo molte illusioni sulla portata della politica del lavoro obbligatorio erano cadute: prevaleva in tutta l'Europa lo scetticismo sulla sua capacità di avviare alla redenzione morale. Più semplicemente, il lavoro forzato veniva considerato un efficace strumento di correzione punitiva (v. Woolf, 1986; tr. it., p. 35).
Nel corso del XVIII secolo anche questa concezione venne messa in discussione. Da molte parti l'obbligo del lavoro veniva denunciato come causa di distorsioni del mercato del lavoro e occasione di concorrenza sleale. Tuttavia i fallimenti del lavoro obbligatorio continuarono a essere per lungo tempo ricondotti a una questione di non corretta amministrazione dell'assistenza. Il problema restava quello di trovare i giusti metodi per attenuare le conseguenze negative del pauperismo sulla società (v. Polanyi, 1944; tr. it., p. 116), senza esporre a moral hazard l'assistenza obbligatoria. L'idea che tali fallimenti fossero un sintomo di profondi cambiamenti della società era presente a pochi. Già nel 1516, in Inghilterra, Tommaso Moro aveva messo in luce il nesso fra pauperismo, destinazione delle terre ai pascoli e sviluppo della manifattura laniera: "Le pecore - egli scriveva -, queste miti creature, alle quali basta solitamente così poco cibo, stanno diventando talmente voraci e aggressive, a quel che ho appreso, da divorare perfino gli uomini". Tuttavia, alla maggioranza dei riformisti dell'assistenza del XVII e XVIII secolo le implicazioni del problema posto da Moro non erano affatto chiare. Né erano chiare le relazioni fra povertà e sviluppo dei commerci internazionali (v. Polanyi, 1944; tr. it., pp. 110-121). La confusione su questi punti era diffusa nell'Europa continentale, dove i processi di trasformazione della società si sviluppavano con lentezza a seguito di una maggiore capacità di resistenza dei contadini ai processi di rifeudalizzazione forzata e di esproprio. Il percorso che conduce dalle Poor laws e dall'Act of settlement dei primi anni del Seicento alla Speenhamland law del 1795 dimostra che i nessi fra povertà e cambiamenti dell'economia erano poco percepiti anche in Inghilterra, dove il processo di trasformazione era più accelerato e dirompente (v. Moore, 1966; tr. it., pp. 46-51).
Le esperienze negative che i riformisti inglesi cumularono lungo questo percorso non sono indifferenti. Prima essi subirono gli effetti perversi delle politiche rigidamente improntate al modello segregativo e del lavoro obbligatorio: congelamento della disoccupazione, inchiodata nelle poorhouses dai divieti della mobilità. Seguirono poi i fallimenti della Speenhamland law. Con essa i riformisti inglesi sperimentarono gli effetti perversi del tentativo di compensare la liberalizzazione del mercato del lavoro con una politica assistenziale di integrazione dei salari sino a una soglia di reddito minimo familiare: caduta della produttività, dipendenza generalizzata della popolazione dai sussidi dell'assistenza. Eppure, occorsero decenni prima che i fallimenti di queste riforme non venissero più letti come un esclusivo problema di assistenza, bensì riconosciuti come una conseguenza dei nuovi assetti della produzione dei beni e del mercato del lavoro. E infatti solo nel 1834, con le nuove Poor laws, venne abrogata la Speenhamland law, riconoscendo che "o si sarebbero dovute demolire le macchine come avevano tentato di fare i luddisti, o si doveva creare un regolare mercato del lavoro" (v. Polanyi, 1944; tr. it., p. 104).
4. Esclusi ma cittadini
La scoperta del rapporto fra fallimenti dell'assistenza ed economia di mercato ha avuto notevoli conseguenze. Infatti viene messa in discussione la teoria della assistenza obbligatoria e i suoi correlati descritti da Simmel. Si affermano invece le varianti pessimistiche del pensiero liberale fondate sulle opere di Herbert Spencer o di Thomas Robert Malthus. Queste impostazioni, come è noto, ribadivano l'esigenza di periodiche selezioni operate dal mercato, capaci di ristabilire l'equilibrio fra risorse e popolazione, a scapito dei gruppi più poveri. A loro dire le crisi, che compromettevano la possibilità di sopravvivenza degli strati più indigenti, costituivano una sorta di 'esclusione funzionale' che giovava all'economia di una nazione nel suo complesso (v. Gazier, 1996, p. 44). Simili tesi si diffondono con tappe diverse nei vari paesi europei. In generale, comunque, la nuova prospettiva rafforza il bisogno sistemico di esclusione, così come la distinzione fra povero meritevole e non meritevole. Un sintomo di questa radicalizzazione sono, in Inghilterra, i severi e umilianti test per l'ammissione nelle workhouses e le "atrocità burocratiche" che seguono immediatamente l'abrogazione della Speenhamland law (v. Polanyi, 1944; tr. it., p. 106). In seguito, l'assistenza in quanto tale si configura come disfunzionale dal punto di vista dei meccanismi di autoregolazione dell'economia. Piuttosto, è la soppressione di ogni forma di garanzia del 'diritto alla vita' dei poveri a costituire il mezzo più efficace per la difesa dell'equilibrio della società nel suo complesso e, come si dirà meglio fra poco, della libertà dei cittadini. Le conseguenze per i poveri - meritevoli o non meritevoli oppure vergognosi che fossero - provocate da questo passaggio furono durissime (ibid., pp. 105-111). E profonde furono anche le implicazioni sul piano simbolico dell'atteggiamento nei loro confronti.
Alcune osservazioni di Michel Foucault permettono di metterle a fuoco. I suoi scritti illustrano infatti come, attraverso le grandi riforme dell'assistenza del XVII e XVIII secolo, lo Stato - a differenza dell'antico sovrano - non si configura più come il padrone della vita e della morte. Il potere, al contrario, si prende "in carico la vita" di ciascun membro della popolazione (v. Foucault, 1990, p. 164). Pertanto la morte cessa di essere una manifestazione del potere e ne diventa piuttosto il confine. In questa prospettiva diventa però difficile legittimare qualsiasi forma di "messa a morte" da parte dello Stato, anche se sollecitata dalla necessità e anche se indiretta. Moltiplicare il rischio di morte, attraverso l'emarginazione politica e sociale, è un'azione che contrasta con l'obbligo dello Stato di farsi carico della vita (ibid., p. 167). Dal punto di vista proposto da Foucault, il ruolo marginale - dentro la società ma fuori dalle cerchie sociali - che, secondo Simmel, l'assistenza conferiva al povero dopo il Cinquecento, si configurerebbe come un (precario) tentativo di evitare questo problema di legittimazione. E ciò vale anche per le politiche del lavoro obbligatorio e della reclusione.
Seguendo Foucault, si potrebbe dire che tutte queste forme hanno cercato di soddisfare i bisogni sistemici di esclusione, impliciti in un atteggiamento difensivo nei confronti dei poveri, evitando però di affrontare il problema della legittimazione dei confini del potere dello Stato. Il fatto che si trattasse di eludere un problema di legittimazione spiega anche l'accanimento, durato per secoli, in questi tentativi. Nondimeno, il passaggio operato nel XIX secolo alle teorie malthusiane dell'esclusione funzionale rende la questione della legittimazione inevitabile. Occorre infatti prendere atto che la difesa della società comporta necessariamente l'indiretta "messa a morte" dei poveri. In proposito Foucault suggerisce che, nell'ambito di una concezione che attribuisce al potere il compito di difendere la vita dei cittadini, la legittimazione dell'esclusione può avvenire solo attraverso una sorta di razzismo evoluzionista (ibid., p. 167). Quest'ultimo consente infatti di stabilire fra la vita e la morte una relazione positiva, fondata biologicamente.
Nella logica razzista la morte della cattiva razza renderà la vita "più sana e pura". Simmetricamente, dal punto di vista delle teorie dell'esclusione funzionale, lo Stato, ritraendosi dall'assistenza e lasciando libero il gioco del mercato e delle dinamiche demografiche, non solo difende lo status quo del borghese, ma applica il principio della libertà del cittadino, anche quando costui è un poor. Il problema della legittimazione del potere sovrano viene così risolto attraverso un paradosso. L'esclusione del povero dall'assistenza diventa, infatti, l'altra faccia dell'estensione universale dei diritti che costituiscono la cittadinanza civile: dei diritti riconosciuti dalla Rivoluzione francese al cittadino-sovrano (e non più suddito) contro le ingerenze dello Stato (v. Macpherson, 1985). Gli stessi meccanismi di autoregolazione del mercato richiedono che la libertà in negativo, la "libertà dallo Stato", sia estesa al cittadino-lavoratore; e, prima di tutto, alle sue possibilità di movimento e di scelta dell'occupazione. Tuttavia, questa estensione va a scapito della protezione contro i rischi di povertà e di disoccupazione. Anche il povero deve accettare di essere un libero cittadino. Le leggi di mercato rendono il confine della società strutturalmente impraticabile. Delle due l'una: o si riesce con le proprie forze a stare dentro la società, o si è emarginati in quanto dannosi per essa. In tal modo chi non è in grado di sostenersi da solo dovrebbe rassegnarsi a vivere di beneficenza privata e a correre il pericolo di cadere fuori dalla popolazione e forse dalla vita: della morte nell'abbandono (v. Polanyi, 1944; tr. it., pp. 106-107). Viene così progressivamente meno l'obbligo del lavoro; ma in parallelo tende a indebolirsi anche il diritto alla vita e l'obbligo dell'assistenza da parte dello Stato. Né si accoglie con decisione il riconoscimento in positivo del diritto al lavoro che pure, durante la Rivoluzione francese, era stato sancito dalla carta dei diritti dell'uomo.
A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, nei diversi paesi europei le lotte per tale diritto, come per la protezione contro i sempre più evidenti rischi della sottoccupazione e disoccupazione (v. Rowentree, 1901; v. Booth, 1903; v. Jahoda e altri, 1933), diventano piuttosto il fulcro delle politiche portate avanti dai partiti e dai movimenti operai. E queste politiche assorbono anche le richieste per i diritti sociali intesi come diritti al consumo. La questione dei poveri finisce così per essere inserita in uno schema etico fortemente polarizzato: deregolazione versus protezione. Secondo tale schema, da un lato si colloca il principio dell'autoregolazione della società attraverso il mercato e il riconoscimento dei diritti civili del cittadino. Dall'altro lato, contro i rischi del mercato, si consolidano la solidarietà delle classi lavoratrici, le istanze di autoprotezione della popolazione e le rivendicazioni per i diritti sociali. Versus i diritti civili, questi incominciano a svilupparsi nella forma ibrida della cittadinanza industriale: cioè, di un sistema di cittadinanza secondario fondato sull'istituzione del sindacalismo (v. Polanyi, 1944, tr. it., p. 107; v. Marshall, 1963, tr. it., p. 37).
5. Lotta alla povertà e regolazione keynesiana
Questo scenario muta radicalmente nel corso dei primi trent'anni dell'ultimo dopoguerra, i cosiddetti "trenta gloriosi". In quegli anni, nelle società industrializzate ha infatti goduto di progressivo credito la tesi che la povertà fosse un problema residuale (v. Galbraith, 1958; tr. it., pp. 367-380). Si riteneva che le persistenti situazioni di povertà episodiche (case poverty) o zonali (insular poverty) dovessero essere imputate alla presenza di gruppi con particolari caratteristiche culturali e comportamentali. Queste ultime erano spesso considerate come la manifestazione di esigenze di difesa e di adattamento, in condizioni di marginalità e miseria (v. Lewis, 1970; tr. it., p. 94). In quegli anni, la tesi che la povertà fosse diventata un problema residuale e di natura culturale incominciava a trovare consensi anche in Europa. La convergenza di molti dati sullo stato dell'economia nelle diverse nazioni era tale da incoraggiare l'ottimismo.
Emblematico era considerato a riguardo il caso dell'Italia. Negli anni sessanta in questo paese, ancora povero dieci anni prima, si registrava infatti una triplicazione del reddito pro capite a lire costanti. Queste tendenze rendevano fondata la speranza che anche le aree più deboli del vecchio continente si avviassero verso la quasi-opulenza. Si dava così per scontato che il modello keynesiano di regolazione economica fosse in grado di perseguire insieme obiettivi di piena occupazione e di crescita economica. Sulla base di quel modello la relazione fra disoccupazione e povertà poteva essere capovolta. La prima non si configurava più quale causa della seconda, ma come suo effetto: era la persistenza residuale dei casi particolari di povertà che spiegava le situazioni di cronica disoccupazione. Gli assetti di economia mista, che conferivano un ruolo centrale al settore pubblico e alla regolazione politica concertata e centralizzata, sembravano saldissimi e in grado di promuovere condizioni di benessere generalizzato.
Contro le concezioni "sacrificali" dello sviluppo (v. Berger, 1974; tr. it., p. 8) di ispirazione malthusiana le tendenze degli anni cinquanta-settanta dimostravano che la crescita economica non aveva più bisogno di capri espiatori. Se non si era ancora verificato l'avvento dell'era della eguaglianza e della fratellanza universale, l'andamento dei dati empirici dimostrava che l'aumento della produttività era in grado di risolvere il problema della ineguaglianza. Tale aumento avrebbe preso il posto della redistribuzione della ricchezza e impedito, nel futuro, il formarsi di nuovi casi di povertà. E fondata sembrava anche la fiducia che l'integrazione sociale fosse non solo compatibile con lo sviluppo economico ma, perfino, in grado di promuoverlo. L'efficienza produttiva poteva essere concepita come un "sottoprodotto dello sforzo diretto a eliminare la miseria" (v. Galbraith, 1958; tr. it., p. 378). Varie forme democratiche e universalistiche di Stato sociale andavano instaurando delle relazioni sinergiche con l'economia. Ed esse sembravano confermare l'ipotesi, formulata da Durkheim alla fine del XIX secolo, che per "assicurare il libero spiegamento di tutte le forze utili" sarebbe stato necessario "introdurre un'equità sempre maggiore nei rapporti sociali" (v. Durkheim, 1893; tr. it., p. 376).In questo nuovo clima, sia fra le élites che a livello di massa, veniva meno l'atteggiamento difensivo nei confronti della povertà, che dal XVI secolo aveva condizionato e limitato gli interventi a favore dei poveri. Per i non poveri la povertà non costituiva più una ragione di fastidio ma di vergogna (v. Galbraith, 1958; tr. it., p. 379).
Agli atteggiamenti di difesa venivano contrapposti atteggiamenti aperti nei confronti di tutti i soggetti bisognosi. Si rivendicava così la possibilità di azioni positive contro le discriminazioni di classe, di genere, razziali. Si criticavano i pregiudizi contro le persone 'diverse', i devianti (v. Becker, 1963 e 1970), i malati mentali (v. Goffman, 1961; v. Basaglia, 1968). Nuovi modelli mostravano che questi ultimi erano in realtà il prodotto di processi sociali. In primo piano veniva perciò messo il diritto di tutti i cittadini a essere protetti contro i rischi di emarginazione o marginalità, attraverso lo sviluppo dei dispositivi della previdenza e della sicurezza sociale. Si sviluppavano così i moderni apparati dello Stato sociale e si espandeva il riconoscimento dei 'diritti dell'uomo', fra i quali quelli sociali occupavano una posizione cruciale (v. Bobbio, 1990).Tuttavia i "trenta gloriosi" hanno costituito una sorta di intermezzo, interrotto dalla crisi degli stessi assetti keynesiani e delle varie forme di Stato sociale.
6. La riscoperta della povertà
Alla fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta, l'idea che la povertà fosse un fenomeno residuale è messa in crisi dall'evidenza dei fatti. Non solo nei paesi in via di sviluppo la povertà continua a coinvolgere talvolta più del 50% della popolazione (v. Myrdal, 1968; v. Townsend, 1993, pp. 8-9). Le analisi, seppure basate su indicatori imperfetti, mettono in evidenza la presenza, anche nei paesi ricchi come la Francia e la Germania, di uno zoccolo duro della popolazione il cui reddito si colloca sotto la soglia della povertà. Inoltre, i dati mostrano che la povertà economica non solo persiste nel tempo, ma che cambia fisionomia. Ne sono colpiti nuovi tipi di soggetti: per esempio, le madri separate e i loro figli, gli anziani soli, i giovani che non riescono a entrare nel mercato del lavoro, gli adolescenti che cadono nell'abuso di sostanze stupefacenti, gli immigrati extracomunitari. D'altro canto, le analisi più approfondite suggeriscono l'esistenza di nuovi stati di deprivazione, causa di gravi crisi delle persone e delle loro famiglie, indipendenti dalla carenza di risorse economiche.
Per segnalare questi fenomeni si incomincia a parlare di "nuove povertà" (v. Garonna, 1984) e "nuovi rischi di povertà" (v. Saraceno, 1990). Soprattutto, le analisi mettono in evidenza il carattere cumulativo e multidimensionale dell'impoverimento (v. Miller e Roby, 1970). Si intuisce progressivamente la presenza di una fitta rete di disagi di varia natura. Soggetti diversi per sesso, età, capacità di inserimento nel lavoro e di accesso ai servizi, possono restare impigliati con probabilità diverse in uno o più punti di essa. Successivamente, sempre con probabilità diverse, essi possono essere catturati da altri punti della rete. In questo modo si generano i "circoli viziosi" della povertà (v. Hurry, 1926) e si snodano i percorsi che portano i soggetti alla deriva, collocandoli 'ai bordi' o 'a fianco' della società. La povertà si configura così come una 'carriera' discendente che comporta la progressiva 'disqualificazione sociale'. Nel corso del suo sviluppo, i soggetti diventano più fragili, dipendenti e perdono i loro legami sociali; cadono quindi in uno stato di "disaffiliazione" per la mancanza di integrazione nell'economia e nella società (v. Goffman, 1961, tr. it., p. 153; v. Paugam, 1991; v. Castel, 1991, pp. 138-139).
La rete dei disagi che rende più fragile la società si forma nell'intersezione fra dinamiche economiche e demografiche, trasformazioni dei cicli di vita delle persone e delle famiglie, cambiamenti degli stili di vita e dei consumi individuali, difficoltà delle politiche sociali a regolare questi mutamenti. L'analisi dei modi attraverso cui oggi si genera e si riproduce la povertà economica, interagendo con altri disagi, permette in parte di dare conto dell'incastro fra tali processi.In proposito va prima di tutto ricordato che nelle aree a basso sviluppo, come il Mezzogiorno italiano, continua a sussistere un'elevata correlazione fra la povertà e la disoccupazione, i cui tassi restano a due cifre. In queste aree la povertà risulta anche correlata alle diffuse situazioni di sottoccupazione e sottoremunerazione (v. Pugliese, 1993). Nelle zone più ricche molte situazioni di disoccupazione e sottoccupazione si collocano invece fuori dalla povertà (v. Accornero e Carmignani, 1986, p. 34). Tuttavia, anche in queste zone, a seguito dell'inasprirsi della concorrenza internazionale e delle trasformazioni tecnologiche, la situazione del mercato del lavoro è diventata più difficile, rendendo precaria la situazione per un numero crescente di individui e famiglie. Le conseguenze di questa precarietà sono particolarmente gravi soprattutto in paesi come gli Stati Uniti, in cui i livelli di copertura contro i rischi della vita garantiti dallo Stato sono bassi e, in alcuni casi, totalmente assenti. Nondimeno, anche nelle nazioni europee caratterizzate da un più ampio sviluppo dello Stato sociale, gli effetti della precarietà vengono accusati dai settori più deboli dell'offerta di lavoro.In tutti i paesi industrializzati, sia la riorganizzazione delle attività manifatturiere, sia l'espansione dei servizi e in particolare di quelli alle persone, fanno crescere la massa dei 'cattivi lavori' nel settore secondario del mercato duale del lavoro.
Si tratta di lavori che offrono scarse possibilità di formazione e addestramento, utili per l'inserimento lavorativo, e che espongono i lavoratori a frequenti cadute nella disoccupazione. Inoltre, data la loro bassa produttività, non consentono di percepire salari adeguati. Sono gli addetti a questo settore del mercato del lavoro a essere più esposti a rischi di povertà (v. Gordon, 1972). E può anche succedere che le strategie che essi intraprendono per fronteggiare la povertà (lavoro nero, uso della disoccupazione come titolo di accesso ai sussidi pubblici) li tengano prigionieri in essa. In assenza di adeguate politiche, occupazioni poco qualificate, precarie e sottoremunerate, disoccupazione, dipendenza dai sussidi possono configurarsi come tappe di una 'carriera' che rende questi soggetti sempre meno 'capaci' di raggiungere un posto garantito e, perfino, di restare ancorati al mercato del lavoro ufficiale. Essi rischiano così la segregazione nelle aree sociali a più basso livello di inclusione (v. Paci, 1992, pp. 189-190) e, perciò, più vulnerabili.Il vecchio problema del pauperismo sembrerebbe dunque riaffiorare con un volto nuovo: contrariamente alle illusioni dei primi decenni del dopoguerra, stati di cronica disoccupazione e sottoccupazione non sarebbero solo una manifestazione del persistere di aree residuali di povertà.
Si discute, invece, se una particolare conformazione del mercato del lavoro non tenda a sviluppare una underclass di 'poveri validi', costituita da disoccupati cronici assistiti e lavoratori precari sottoremunerati (v. Myrdal, 1963; v. Townsend, 1979).I rischi connessi alla segmentazione del mercato del lavoro possono essere ulteriormente aggravati da altre due circostanze. In primo luogo, interviene l'intensificazione dell'immigrazione di lavoratori non europei poco qualificati. Per gli 'extracomunitari' i cattivi lavori del settore secondario rappresentano l'unica possibilità di occupazione, a parte il reclutamento più o meno volontario nelle attività illegali (v. Piore, 1979). Di conseguenza, la segmentazione economica del mercato del lavoro potrebbe trasformarsi anche in una segmentazione di tipo etnico.
In secondo luogo, interviene la tendenza degli occupati nel settore primario del mercato del lavoro a trasferirsi in aree in grado di offrire, a prezzi accessibili, condizioni abitative e di vita di migliore qualità. A questa tendenza corrisponde quella speculare dello strato dei lavoratori più deboli e dei disoccupati, a concentrarsi nelle aree più deprivate delle grandi città. In tal modo, la segregazione sul mercato del lavoro potrebbe coincidere con la segregazione spaziale, diffondendo in tutti i paesi industrializzati - seppure con forme molto diverse - alcuni dei problemi di emarginazione sociale propri dei ghetti (v. Wirth, 1928). L'isolamento territoriale delle famiglie dei lavoratori poveri e dei disoccupati può rendere particolarmente vulnerabile anche la posizione dei loro figli. Infatti, le interazioni che si sviluppano nelle reti sociali dei quartieri deprivati possono, con maggiori probabilità, inserire i figli dei 'poveri validi' in carriere che li 'confermano' come devianti e che diminuiscono la loro capacità di inserimento economico. Abbandono precoce della scuola, scarsa capacità di formulare piani di vita, affiliazione a piccole bande, mitizzazione di modelli di consumo costosi, esposizione al rischio di tossicodipendenza, sono alcune tappe di queste carriere.
Il problema degli 'adolescenti a rischio', che abitano in zone deprivate, mostra che oggi la povertà economica si riproduce non solo attraverso circuiti che partono dalla sottoccupazione e dalla disoccupazione. Esistono anche circuiti che vanno nella direzione contraria: dalla povertà alla disoccupazione. Come si è visto, la povertà dei genitori, associata a un'inadeguata socialità, si può trasformare in una scarsa capacità dei figli di integrarsi socialmente attraverso il lavoro. E questa incapacità può pregiudicare le loro possibilità di uscita dalla povertà economica. Attraverso tali circuiti la povertà economica riesce dunque a riprodursi e a trasferirsi da una generazione all'altra.Oltre alla povertà economica, altri tipi di disagi possono rendere vulnerabile la posizione dei soggetti, sempre dal punto di vista economico (anche se non solo). Si tratta di altri tipi di cosiddette 'povertà settoriali', che non riguardano esclusivamente la mancanza di un reddito adeguato. Esse incidono in modo trasversale e pervasivo su tutte le classi sociali, ad eccezione di quelle costituite dai quintili più ricchi della popolazione, sempre in grado di compensare qualsiasi tipo di carenza (v. Garonna, 1984). Queste povertà coinvolgono prevalentemente gli aspetti relazionali della vita e possono rendere più o meno vulnerabili le persone, a seconda del sesso e della fase del corso della vita che stanno attraversando (v. Saraceno, 1990).
Fra queste condizioni di vulnerabilità possiamo ricordare quelle connesse alla diffusione di comportamenti quali il consumo di stupefacenti e l'abuso di alcol, causa del precipitare in situazioni di povertà estrema, di totale sradicamento sociale, di morte precoce. Nei paesi occidentali più modernizzati e ricchi, anche il consumismo può dare origine a comportamenti a rischio. Fra gli strati economicamente meno agiati, gli incentivi simbolici al consumo possono provocare cadute nella povertà economica, ottundendo la capacità di gestione del bilancio familiare, spingendo all'indebitamento, facendo trascurare le esigenze di copertura assicurativa. D'altro canto, spiazzamenti economici delle famiglie possono essere provocati da tentativi falliti di diventare proprietari di casa.I fattori di vulnerabilità economica pervasivi e trasversali non sono però sempre la conseguenza della diffusione di comportamenti individuali decisamente irrazionali o anomali. In molti casi essi sono connessi a trasformazioni della società in sé positive o comunque espressione di scelte razionali. Paradossalmente, in assenza di servizi e strutture adeguate e accessibili, perfino l'allungamento della vita, congiunto a una minore fertilità, può essere causa della diffusione di situazioni di povertà.
L'allungamento della vita - soprattutto delle donne che in genere sopravvivono ai loro partners - può approdare all'isolamento relazionale degli anziani soli, con risorse economiche insufficienti per conservare la libertà di movimento e le possibilità di comunicazione. L'invecchiamento della popolazione costituisce un rischio di spiazzamento economico anche per le homemaker - di nuovo donne - sovraccaricate da compiti di cura familiare degli anziani. Infatti il sovraccarico di lavoro domestico può impedire loro di inserirsi sul mercato del lavoro e di raggiungere un'autonomia economica personale. Senza l'accesso ad adeguati servizi, questa incapacità può essere causata anche dall'elevato numero di figli. La mancanza di autonomia economica delle homemaker può diventare un fattore cruciale di spiazzamento, quando il nucleo familiare per qualche ragione si disgrega. E la possibilità è tanto più elevata, quanto più le norme che regolano i divorzi e le separazioni, tutelando i diritti dei componenti economicamente più deboli del nucleo, non vengono rispettate (v. Barbagli, 1990). Spesso, è attraverso simili meccanismi che si riproducono famiglie monogenitore in difficoltà e la povertà si diffonde fra le donne e i minori. Le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro degli addetti al lavoro familiare possono però costituire un rischio di povertà anche quando i nuclei familiari restano intatti. Esse possono impedire che all'interno del nucleo si raggiunga un equilibrio fra membri attivi sul mercato e membri dipendenti. Si riproducono così casi di famiglie numerose che dipendono dal reddito insufficiente di un solo lavoratore.
7. La povertà nell'età dei diritti
I processi di impoverimento che riemergono in Europa, a partire dalla fine degli anni settanta, hanno dunque una struttura complessa. Ed è altrettanto complesso il quadro istituzionale entro cui le politiche di lotta contro la povertà devono trovare la loro legittimazione.Dalla fine degli anni settanta, questo quadro è influenzato dalla percezione della crisi delle varie forme di Stato sociale. Soprattutto gli aspetti fiscali di tale crisi non permettono più di sottovalutare il problema del costo dell'applicazione dei diritti sociali che si sono stratificati nei decenni precedenti. È sempre più evidente che la difesa della componente sociale della cittadinanza (v. Macpherson, 1985; v. Barbalet, 1988) dipende da condizioni macroeconomiche, dalla capacità contributiva e dalla estensione della base fiscale di un paese. Questo carattere condizionato dei diritti sociali costringe a un atteggiamento responsabile verso le conseguenze economiche e sociali della loro implementazione. Così, non sembra più possibile eludere alcune spinose questioni tipiche della concezione difensiva dell'assistenza. In primo luogo risulta inevitabile il contenimento delle spese assistenziali entro confini compatibili con il bilancio pubblico. Al fine della protezione dei poveri, questo vincolo impone chiarezza sulla differenza fra bisogni oggettivi ed essenziali, anche se relativi al contesto in cui i poveri vivono, e il senso di privazione relativa prodotto dalle ineguaglianze sociali (v. Runciman, 1966). Altrettanto cruciale è il controllo del moral hazard a cui sono esposte le prestazioni dei servizi sociali. Occorre infatti evitare che gruppi di 'falsi poveri' approfittino dei benefici dell'assistenza.
Di fronte a questi problemi la riflessione sulla povertà risente tuttavia del silenzio sulle vicende dell'assistenza obbligatoria nel corso dei 'trenta gloriosi'. In una prospettiva di lungo periodo, i problemi dell'atteggiamento difensivo sembrano riaffiorare come una sindrome dalla quale l'Occidente non è mai riuscito veramente a liberarsi e che tuttavia cerca di rimuovere. La sensazione è che vi siano pochi strumenti per affrontare il problema dei confini sistemici dell'assistenza. Piuttosto, questo si consuma nei cortocircuiti cognitivi ed emotivi degli operatori sociali: nel cosiddetto burn-out. In questo quadro insorgono anche le tendenze a ridurre la complessità dei problemi, di cui si è parlato nel primo capitolo, che ostacolano, a loro volta, l'applicazione di strumenti metodologici adeguati per definire le dimensioni materiali della povertà.Eppure dagli stessi modelli di cittadinanza che si sono affermati nel dopoguerra emergono spinte per oltrepassare questa situazione. Conta, in primo luogo, la diffusa consapevolezza che il fine dei diritti sociali dovrebbe essere quello di garantire a tutti i cittadini i mezzi (risorse, capacità, possibilità di associazione e di affiliazione) necessari all'esercizio dei diritti civili e politici (v. Barbalet, 1988; tr. it., pp. 105-106). Talcott Parsons ribadiva questo fine sottolineando che la componente sociale dei diritti concerne "le risorse e le capacità" per realizzare "i diritti derivati dai valori sociali" (v. Parsons, 1967, p. 431). E la sua tesi collima con quella di Marshall secondo la quale tale componente comprende il diritto a "vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società" (v. Marshall, 1963; tr. it., p. 9).
Questa prospettiva porta a mettere l'accento sul diritto della persona di realizzarsi (materialmente e spiritualmente) partecipando alle libertà del cittadino. Vengono quindi valorizzate le concezioni della giustizia che, come quella di John Rawls, privilegiano il principio della tolleranza (v. Sen, 1992; tr. it., pp. 110-115). Certamente anche le impostazioni orientate a garantire l'esercizio della cittadinanza avvertono l'esigenza di ancorare le prestazioni sociali a standard oggettivi. Questi sono contrapposti alla discrezionalità, in quanto automatica garanzia del diritto alle prestazioni. Le impostazioni in questione sono anche sensibili al moral hazard. Anzi, si propongono piani di intervento attivo che prevengano la formazione di stati di dipendenza dall'assistenza. Tuttavia non sembrano più riproponibili le soluzioni a questi problemi emerse nell'ambito dell'atteggiamento difensivo verso i poveri. In primo luogo, il quadro istituzionale entrerebbe in conflitto con i tentativi di discriminare in modo aprioristico i poveri in base al loro merito o demerito (v. Katz, 1989). Il compito degli interventi sociali è quello di integrare tutti i cittadini poveri nell'esercizio del diritto alla libertà civile e politica. Perciò a partire dagli anni settanta la lotta contro la povertà diventa sempre più lotta contro l'esclusione (v. Lenoir, 1974): lotta contro l'esclusione dai diritti sociali a favore dell'inclusione universale nella cittadinanza civile e politica. In secondo luogo, cade quella correlazione gnoseologica tra generalità e oggettività che secondo Simmel costituiva uno dei fondamenti dell'assistenza dopo il Cinquecento. La definzione di uno standard generale garantito per diritto non può infatti essere affidata alla convergenza dei giudizi su ciò che è essenziale, espressi da ciascun membro in basi ai suoi valori personali. Se tra i fini ultimi della protezione sociale, nelle società occidentali, c'è lo status del cittadino, allora occorre considerare che l'effettivo raggiungimento (o mantenimento) di tale status non dipende soltanto dal possesso di risorse primarie, ma dipende anche dalle capacità personali di usarle. Lo standard generale che è giusto garantire deve quindi fare riferimento ai risultati in termini di capacità.
Ne consegue che la lotta contro la povertà e l'esclusione non può ignorare le differenze fra le persone. C'è il problema (non facile) di tenere conto delle circostanze oggettive e soggettive che condizionano la "capacita di funzionare" - come la chiama Sen - di ciascun individuo. Perciò il paniere minimo essenziale è tendenzialmente quello che è stato accertato come "adeguato" per ciascun assistito a generare un accettabile livello di capacità (v. Sen, 1992; tr. it., pp. 63-84, 117, 151-163). Diventa così più difficile sostenere che "la povertà, come la bellezza, si trova nell'occhio dello spettatore" (v. Sen, 1982; tr. it., p. 422). Piuttosto, l'applicazione delle garanzie riconosciute dai diritti sociali rinvia alla individuazione di procedure di analisi e indicatori capaci di fornire descrizioni veritiere dei funzionamenti degli individui, dei meccanismi che li regolano e dell'impatto degli aiuti su tali meccanismi.
(V. anche Assistenza sociale; Disoccupazione; Politiche pubbliche).
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