PROTEZIONISMO
Protezionismo
di Riccardo Faucci
Con il termine 'protezionismo' si intende quel complesso di politiche economiche, doganali o no (le cosiddette barriere non tariffarie), che allo scopo di potenziare o difendere dalla concorrenza estera uno o più settori produttivi, pongono vincoli o limitazioni alla libera circolazione internazionale di merci, di capitali o di manodopera. In questo senso il termine contrapposto è 'liberoscambismo', mentre il termine 'liberismo' ha un'estensione maggiore.Anche se nella storia economica dell'Occidente protezionismo e liberoscambismo si presentano intrecciati fra loro, spesso corrispondendo a momenti diversi dello sviluppo economico dei singoli paesi, è innegabile che per molti secoli il protezionismo è stato la regola e il liberoscambismo l'eccezione. Le guerre hanno spesso favorito il protezionismo, con l'imposizione di dazi alla cui ombra si sviluppano nuove industrie, e che perciò nel dopoguerra non si osa eliminare. Questo fenomeno è stato osservato negli Stati Uniti dopo la guerra del 1812 e dopo la guerra civile, ma anche la depressione del 1873-1896, nel corso della quale una perdurante flessione dei prezzi si congiunse a cospicui ammodernamenti tecnologici, produttivi e finanziari, provocò una politica protezionistica in Germania, Italia e Francia; lo stesso accadde in seguito alla grande crisi del 1929-1933 in Inghilterra (v. Corden, 1968). Nel secondo dopoguerra si è manifestata una netta tendenza verso il libero scambio internazionale, anche se negli ultimi anni si sono accresciute le misure protezionistiche settoriali.
Per molto tempo gli storici hanno distinto fra una prima fase del pensiero mercantilista, in cui fu indicato come obiettivo la crescita dell'afflusso di metalli preziosi (il cosiddetto bullionismo), e una seconda fase, più matura e risalente al 1620 circa, che proponeva il mantenimento di un costante surplus della bilancia commerciale: l'attenzione dei mercantilisti si sarebbe spostata dalla protezione della valuta nazionale contro il deprezzamento del cambio alla protezione di singoli settori produttivi.Tuttavia, come osserva J. Viner, questa distinzione non regge. Il bullionismo non fu mai del tutto ripudiato: i divieti di esportazione di oro e metalli preziosi furono allentati sotto Elisabetta I, ma aumentarono sotto Giacomo I e Carlo I, e soltanto nel 1819 si permise la libera esportazione della moneta inglese e del metallo prezioso in verghe (v. Viner, 1937; tr. it., p. 6). Inoltre il legame fra la bilancia valutaria e quella commerciale era presente fin dal 1381 a un funzionario della Zecca britannica, che scriveva: "Ritengo che la ragione per cui in Inghilterra non arrivi né oro né argento [...] derivi dal fatto che il paese spende troppo in mercanzia di vario genere [...]. Perciò sembrami che l'unico rimedio sia questo: che ogni commerciante che fa venire merci in Inghilterra faccia uscire un quantitativo di prodotti nostrani pari all'ammontare della merce su descritta; e che nessuno porti fuori dal paese oro e argento" (cit. in Viner, 1937; tr. it., p. 8). L'esportazione di merci prodotte nel paese è il modo naturale per favorire l'afflusso di metalli preziosi anche secondo Francesco Bacone, il quale in un rapporto del 1616 al duca di Buckingham dice: "Occorre che l'esportazione ecceda l'importazione; perché allora la bilancia commerciale deve necessariamente essere regolata in moneta o metallo prezioso" (cit. in Viner, 1937; tr. it., p. 10). Mentre l'espressione 'bilancia commerciale' (balance of trade) si trova frequentemente nel corso del XVII secolo, l'espressione 'bilancia commerciale favorevole', indicante un surplus di esportazioni, sembra essere stata usata per la prima volta nel 1767 dal tardomercantilista scozzese sir James Steuart, al quale si deve anche l'espressione 'bilancia dei pagamenti' con riferimento alle partite invisibili, distinta dalla bilancia delle importazioni ed esportazioni (ibid., pp. 12 e 17). I mercantilisti sostenevano anche che l'oro immesso nel paese attraverso una bilancia commerciale favorevole non dovesse essere tesaurizzato, ma investito produttivamente, contribuendo ad abbassare il saggio d'interesse: un'affermazione, questa, apprezzata anche da Keynes (v. Quintieri, 1984, parte I).
La politica doganale mercantilistica conosce diverse fasi. All'inizio, a partire dal XIII secolo, troviamo in tutta l'Europa continentale divieti di esportazione per una lunga serie di materie prime (v. Kulischer, 1928-1929; tr. it., vol. II, pp. 153-156). In Inghilterra si favorisce l'esportazione dei pannilana, vietando l'importazione dei tessuti esteri e proibendo solo in un secondo momento l'esportazione di lana grezza.Al protezionismo industriale corrisponde spesso nei mercantilisti il liberismo agricolo. John Hales, che pubblica nel 1581 A discourse of the common weal of this realm of England - composto però nel 1549 -, afferma che, mentre l'esportazione di grano deve essere concessa perché i produttori cerealicoli possano liberamente arricchire, l'esportazione delle materie prime deve essere proibita perché la loro lavorazione nelle manifatture nazionali fa aumentare l'occupazione (v. Roll, 1938; tr. it., p. 64). Il criterio da seguire è quello di vendere all'estero al più alto prezzo possibile. A chi obietta che, se i prezzi delle merci inglesi aumentano troppo, gli stranieri non compreranno più, Hales risponde che gli stranieri non possono farne a meno - quindi la domanda internazionale di prodotti inglesi è anelastica - perché l'Inghilterra ha ormai conquistato il monopolio mondiale di certi prodotti (v. Dobb, 1946; tr. it., p. 240). Al contrario, l'eccessiva importazione di merci straniere deve essere combattuta perché crea disoccupazione all'interno. Nel 1662 William Petty afferma che è meglio bruciare i prodotti del lavoro che lasciare la gente senza lavoro (v. Heckscher, 1931; tr. it., p. 544). La 'bilancia del lavoro', cioè l'aumento dell'occupazione interna grazie allo stimolo della domanda derivante dal surplus del commercio estero - che, osserva Schumpeter (v., 1954; tr. it., vol. I, p. 426), anticipa il moltiplicatore keynesiano del commercio estero -, sarà teorizzata da James Steuart (v. Dobb, 1946; tr. it., p. 255). I vincoli all'emigrazione di manodopera nazionale qualificata (per esempio, il divieto di espatrio per i tessitori) sono invece giustificati dalla volontà di impedire che all'estero si apprendano le tecniche produttive di cui si intende conservare il monopolio.
Viceversa il commercio interno viene considerato meramente redistributivo: "Con ciò che si consuma nel paese, uno perde soltanto ciò che un altro riceve, e la nazione in complesso non diventa affatto più ricca", scrive Charles Davenant nel suo An essay on the East India trade, 1696 (cit. in Viner, 1937; tr. it., p. 30). Tuttavia il mercantilismo favorisce la formazione di un mercato interno unificato. Nel 1664 Colbert, il più famoso ministro mercantilista, unifica i dazi interni francesi e crea una specie di unione doganale fra le grosses fermes del regno; in Austria, nel 1713, mentre si sostituiscono i vecchi dazi di confine con divieti di importazione, si cerca di abolire i pedaggi interni, finché nel 1775 entra in vigore la tariffa unitaria interna per tutti i territori tedeschi e slavi.
In Toscana, nel 1781, un editto granducale sancisce il superamento della frammentazione in dogane diverse e la formazione di "un unico territorio gabellabile" (v. Becagli, 1983). A Napoli Antonio Genovesi suggerisce di accoppiare il liberismo granario con il protezionismo per lana, seta, cotone, cuoio, che dovrebbero essere lavorati in patria. Il regno - afferma nelle sue Lezioni di commercio, ossia d'economia civile (1766) - dovrebbe dipendere "il minimo possibile" dalle importazioni di manufatti dall'estero (v. Venturi, 1969, p. 626).
Nella Gran Bretagna della metà del Settecento i whigs erano protezionisti, i tories liberoscambisti (v. Schumpeter, 1954; tr. it., vol. I, p. 453). Nel saggio Of commerce, facente parte dei Political discourses, David Hume - politicamente un tory - respinge l'implicita subordinazione mercantilistica dell'agricoltura all'industria e al commercio, ma afferma anche che storicamente il commercio estero "ha preceduto ogni miglioramento delle manifatture interne, e ha dato vita al lusso domestico" (v. Hume, 1752; tr. it., p. 263). Una certa preferenza per il commercio, inteso anche come mezzo per accrescere la potenza nazionale, è quindi presente in questo scritto. Più chiara è la posizione antimercantilistica assunta nel saggio Of money, in cui Hume presenta la celebre spiegazione del riequilibrio automatico della bilancia dei pagamenti attraverso movimenti di afflusso e deflusso di metallo e il conseguente riallineamento dei prezzi interni a quelli internazionali: prima applicazione rigorosa della teoria quantitativa della moneta al commercio internazionale, e confutazione della teoria mercantilista-protezionista della bilancia commerciale in attivo. Un paese non può stabilmente 'mancare di denaro', come paventano i mercantilisti. In Of the balance of trade, infine, Hume ironizza sulle proibizioni alle esportazioni di beni e condanna le politiche volte ad accumulare metalli preziosi nel tesoro pubblico.
Nel IV libro della Wealth of nations, largamente dedicato al "sistema commerciale o mercantile" (l'espressione 'mercantilismo' pare invece sia stata coniata da Mirabeau: v. Coleman, 1969), Adam Smith discute le politiche doganali protezioniste, basandosi anche sull'esperienza acquisita come sovrintendente alle dogane scozzesi. Smith osserva che molti divieti di importazione sono del tutto inutili, in quanto già i costi di trasporto rendono svantaggiosa l'importazione di alcune merci (l'esempio è quello del bestiame vivo: v. Smith, 1776; tr. it., p. 448). Anche a proposito delle proibizioni fatte alle colonie di produrre manufatti in concorrenza con la madrepatria, Smith commenta che si tratta di una misura più odiosa in sé che efficace, perché le colonie non hanno convenienza a produrre tali beni per mancanza dei fattori produttivi adatti (ibid., pp. 574-575).
Tuttavia Smith compie una difesa d'ufficio del Navigation act, voluto da Cromwell nel 1651 e rafforzato da Carlo II nel 1660, che aveva stabilito il monopolio della marina mercantile inglese nel commercio coloniale e in quello di importazione dall'Europa, e aveva vietato in assoluto l'importazione di merci provenienti da paesi che non ne fossero i diretti produttori (disposizione, quest'ultima, diretta a colpire l'attività olandese di trasporto per conto terzi). Smith ammette che tutto ciò "non è favorevole al commercio estero, né alla crescita di prosperità che da esso può derivare"; però, "dato [...] che la difesa è più importante della prosperità, l'Atto di navigazione è forse il più saggio di tutti i regolamenti commerciali dell'Inghilterra" (ibid., p. 453).
Gli effetti economici del Navigation act - che sarà abrogato formalmente soltanto nel 1849 (v. Barbagallo, 1951, p. 279) - sono peraltro controversi: ancora nel 1700 il tonnellaggio totale della marina mercantile inglese era soltanto un quarto di quello olandese (v. Luzzatto, 1955, cap. 5).Smith difende anche le tariffe di rappresaglia o ritorsione (retaliation), applicate alle merci di un paese che pone alti dazi di importazione sulle merci inglesi. Dopo aver osservato che simili guerriglie commerciali hanno condotto a guerre vere e proprie - come quella fra Luigi XIV e l'Olanda -, Smith pacatamente conclude che "ritorsioni di questo genere possono essere una buona politica quando c'è una probabilità che esse ottengano la revoca degli alti dazi e delle proibizioni di cui ci si lamenta [...]. Giudicare se tali ritorsioni produrranno probabilmente questo effetto non spetta forse alla scienza del legislatore, le cui deliberazioni dovrebbero essere guidate da principî generali che sono sempre gli stessi, quanto all'arte di quell'insidioso e astuto animale volgarmente chiamato uomo di Stato o politico, i cui consigli sono diretti dalle mutevoli contingenze" (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 456-457). In altri termini, le politiche doganali aggressive sono ammesse, purché vi sia una ragionevole probabilità di successo.
Smith peraltro condanna le politiche ispirate alla "gelosia commerciale" e al principio dell'"impoverimento del vicino", avverte che dietro la pratica dei rimborsi dei dazi (drawbacks) vi sono molte frodi, e afferma che rispetto ai premi all'esportazione (bounties) sono preferibili le sovvenzioni dirette alla produzione (ibid., p. 507). Smith è buon profeta nel prevedere vita difficile per le idee liberoscambiste. Dopo aver osservato che "attendersi che la libertà commerciale possa mai essere interamente ripristinata in Gran Bretagna è cosa tanto assurda quanto aspettarsi che vi possa mai essere instaurato il regno di Oceana o di Utopia", egli rileva che al mantenimento del protezionismo concorrono "non solo i pregiudizi del pubblico, ma anche, cosa molto più decisiva, l'interesse privato di molti individui" (ibid., p. 460). Le lobbies protezioniste sono in grado di influenzare il parlamento e il governo assai più della disorganizzata opinione pubblica favorevole al libero scambio. Il ragionamento di Smith è stato riformulato in termini più chiari da Pareto, che nel suo Manuale di economia politica (1906) osserva che "una misura protezionistica porta grande beneficio a un ristretto numero di persone, e causa una lieve perdita per un grande numero di consumatori. Questa circostanza rende più facile porre in pratica una misura protezionistica" (cit. in Bhagwati, 1988; tr. it., p. 80).
Come si è detto, Smith fu buon profeta: la Rivoluzione francese e l'Impero napoleonico non sono stati eventi favorevoli al diffondersi del libero scambio. Napoleone aveva un'idea 'amministrativa' dell'economia. "Le arti industriali - diceva nel 1803 - non attendono che il soffio protettore dell'amministrazione per creare prodigi. [...] Quanto non sarebbe dannoso abbandonare alle incertezze o agli sforzi, spesso impotenti, degli individui i grandi destini che possono ripromettersi le fabbriche francesi!" (cit. in Barbagallo, 1951, p. 104). Con i due decreti di Berlino (21 novembre 1806) e Milano (23 novembre 1807) Napoleone cercò di creare un mercato comune europeo, ovviamente chiuso al commercio inglese e incentrato sullo sviluppo delle manifatture della Francia e della Confederazione del Reno - che in effetti ne beneficiarono ampiamente -, ma con sacrificio dei domini francesi periferici, come l'Olanda e l'Italia. Di qui le numerose lamentele dei commercianti e manifatturieri di queste regioni (v. Woolf, 1990; tr. it., pp. 183-191).
Il blocco, che non impedì la crescita delle esportazioni inglesi in Europa e quindi fallì il suo scopo principale (v. Mousnier e Labrousse, 1955; tr. it., p. 427), portò in Italia a una caduta del commercio estero. Le disposizioni imperiali del 1807 vietavano di commerciare le merci inglesi che si trovavano in Italia al momento dell'entrata in vigore del blocco e questo favorì la loro riesportazione di contrabbando, finché un decreto del 1810 ordinò il loro sequestro e la distruzione, mentre il contrabbando fra Svizzera e Regno d'Italia veniva controllato incorporando nel Regno il Canton Ticino. Perfino le derrate provenienti dalla Francia e importate nel Regno d'Italia pagavano due volte, una all'uscita e una all'entrata. Soltanto nel 1813 Gioacchino Murat autorizzò il libero commercio fra il Regno di Napoli e tutte le potenze amiche e neutrali (v. Tarle, 1950, cap. 5). Gli storici però concordano sul fatto che l'innegabile sviluppo industriale francese in età napoleonica fu dovuto, più che al protezionismo, alla diffusione delle conoscenze tecniche e scientifiche, alla disciplina della proprietà e dei contratti (Codice civile), alla fondazione delle grandi écoles (v. Barbagallo, 1951, cap. 7; v. Bergeron, 1972).
Un sostenitore della politica di protezione industriale in Italia è Melchiorre Gioia, che nel suo Nuovo prospetto delle scienze economiche dedica un'ampia parte all'"azione governativa sulla produzione, distribuzione, consumo delle ricchezze", ironizzando sui "filosofi" (Quesnay e Smith soprattutto) che hanno sostenuto il principio della "libertà intera, o abolizione di qualunque vincolo" per il commercio estero (v. Gioia, 1839, vol. V, pp. 190-191). Gioia invece è favorevole alle politiche adottate caso per caso, ricordando mercantilisticamente che "il miglior incoraggiamento che si possa dare all'agricoltura consiste nel promuovere la prosperità delle fabbriche" (ibid., p. 274). Più ancora dell'assoluta protezione doganale, Gioia caldeggia premi, porti franchi, trattati di commercio accompagnati da misure di incoraggiamento alla produzione e da controlli statali sui consumi. Per sfatare il mito del free trade e del laissez-faire che accompagnava di solito l'immagine della potenza economica britannica, l'economista piacentino sottolinea come la maggior parte dei progressi economici dell'isola abbia coinciso con le fasi di più acuto protezionismo.
Dopo il 1815, in Inghilterra, in seguito all'adozione del dazio sul grano, inizia un movimento di pensiero e di opinione pubblica sempre più favorevole alla sua abolizione e all'affermazione del libero scambio. La maggior parte degli economisti classici segue Ricardo, che dimostra come la liberalizzazione del commercio del grano riduca i costi di produzione dei benisalario e favorisca quindi lo sviluppo della manifattura. Soltanto Malthus si attesta sulla difesa del protezionismo cerealicolo in quanto fonte di rendita per i proprietari, la cui spesa in beni di lusso egli vede come antidoto alle crisi di sovrapproduzione. Il ministero liberale di Canning e Huskisson abolisce molte proibizioni e promuove trattati di commercio basati sul principio di reciprocità. Fra il 1822 e il 1825 l'Inghilterra concede inoltre alle colonie una quasi completa libertà di esportazione e importazione con tutti i paesi del mondo, in posizione di parità con la madrepatria (v. Barbagallo, 1951, p. 278). Si apre il grande periodo dell'espansione economica inglese, che appunto per essere avvenuta all'insegna del free trade è stata definita dagli storici come l'era dell'"imperialismo del libero scambio" (v. Gallagher e Robinson, 1953).
Non mancano però vivaci reazioni. Un professore e uomo d'affari tedesco, Friedrich List, svolge un'appassionata propaganda protezionista in Germania e, dal 1825 al 1832, negli Stati Uniti, dove le idee protezioniste erano già state diffuse dal federalista Alexander Hamilton, autore nel 1791 di un Report on manufactures (v. Schumpeter, 1954; tr. it., vol. I, p. 241). La tesi di fondo dell'opera principale di List, Das nationale System der politischen Ökonomie, è che la "scuola dominante" ha fondato un'"economia cosmopolitica", anziché un'autentica "economia politica"; ha tenuto conto soltanto dell'individuo, da una parte, e della collettività umana indifferenziata, dall'altra, trascurando il livello intermedio dei fenomeni economici, quello appunto della nazione. È dubbio che List conoscesse approfonditamente le opere degli economisti criticati: la sua accusa a Smith di aver concentrato la propria attenzione sui "valori di scambio" anziché sulle "forze produttive" (cioè sulle potenzialità economiche di una nazione) è priva di senso (v. List, 1841, cap. 12); inoltre, pur parlando ampiamente dei problemi del commercio internazionale, non menziona mai la teoria ricardiana dei vantaggi comparati. Ma anche se la sua originalità è discutibile - contiene elementi tratti dallo Stato industriale chiuso di Johann Gottlieb Fichte e da altri scrittori romantici (v. G. Mori, Introduzione, in List, 1841; tr. it., pp. XV ss.) - quest'opera canonizza la strategia dei paesi late comers nel XIX secolo.
In Germania le teorie di List contribuirono alla formazione dello Zollverein, unione doganale basata sull'applicazione della tariffa prussiana del 1818, "protettiva moderata" (v. List, 1841; tr. it., p. 123), e comprendente anche Assia, Baviera, Sassonia, Turingia e Württemberg. È difficile stabilire se il grande progresso economico e tecnologico delle regioni tedesche nel trentennio seguente dipenda dallo Zollverein; J. Clapham osserva che "le tariffe degli Stati tedeschi prima del 1834 [anno dello Zollverein] erano impedimenti, ma non impedimenti insuperabili, al commercio. Gli uomini hanno spesso attribuito allo Zollverein risultati economici di cui esso non era veramente la causa, per via del suo immenso significato politico. Post hoc, ergo propter hoc" (v. Clapham, 1921, ed. 1966, p. 97).L'ultimo economista classico, John Stuart Mill, che è anche un classico del liberalismo politico, riconosce che nel caso di "industrie nascenti" (infant industries) una certa protezione è ammissibile. "La superiorità di un paese rispetto a un altro in un ramo di produzione - scrive nei suoi Principles of political economy - spesso nasce soltanto dal fatto di aver cominciato prima. [...] Un paese che [...] debba ancora acquisire capacità ed esperienza, può [...] essere più adatto alla produzione di quei paesi che entrarono prima in quel campo [...] Ma non ci si può attendere che gli individui, a proprio rischio, [...] introducano una nuova manifattura e sostengano l'onere di condurla finché i produttori siano stati istruiti fino al livello di coloro per i quali quei processi produttivi sono tradizionali. Un dazio protettivo, continuando per un periodo ragionevole, potrebbe talvolta essere il metodo meno costoso con il quale la nazione può contribuire a realizzare tale esperimento [...]. Tuttavia ai produttori nazionali non deve essere lasciato sperare che essi continueranno a godere della protezione oltre il periodo necessario per poter ragionevolmente dimostrare quello che sono capaci di fare" (v. Mill, 1848, tr. it., pp. 1203-1204; v. Robbins, 1968, tr. it., p. 129). L'argomento dell'industria nascente è stato accettato dagli economisti ortodossi; Schumpeter arriva ad affermare che la differenza fra Mill e List in tema di politica economica internazionale è soltanto di grado (v. Schumpeter, 1954; tr. it., vol. II, p. 612).
L'era del libero scambio cominciò a declinare in Italia come nel resto d'Europa a partire dagli anni settanta. Dopo l'Unità d'Italia fu estesa al resto del paese la tariffa sarda del 1851, voluta da Cavour. Essendo la tariffa più liberista fra quelle degli antichi Stati, essa provocò la crisi delle industrie meridionali, cresciute al riparo di una protezione quasi proibitiva (v. Pedone, 1969, pp. 242-243). L'inchiesta industriale del 1870-1874, promossa da Scialoja e Luzzatti, fornì un quadro impietoso dell'arretratezza dell'industria italiana (v. Are, 1974, cap. 1). Per questo motivo finì per prevalere una linea interventista di politica economica, dapprima con la Destra (Sella, Minghetti), e dopo il 1876 con la Sinistra (Depretis), che all'inizio sembrava fedele al liberismo.Il fronte filoprotezionista appare variegato. Si va dalle posizioni moderate di Luzzatti, già segretario di Minghetti al Ministero dell'Agricoltura e negoziatore per molti decenni dei trattati commerciali fra l'Italia e gli altri paesi (v. Luzzatti, 1878), a quelle di intransigente protezionismo sia agricolo che industriale di Alessandro Rossi, singolare figura di imprenditore 'listiano' (v. Zalin, 1985), autore di numerosi articoli che esaltavano il sistema americano (v. Rossi, 1877-1878). Si giunge dunque alla tariffa del 1878, più fiscale che protettiva, che sostituisce i dazi ad valorem, facilmente eludibili, con dazi specifici commisurati al peso o alla misura delle merci (Cfr. L. Luzzatti, Prefazione, in Fontana-Russo, 1902). Tale tariffa consente un certo sviluppo della produzione dei filati di cotone e dei tessuti di lana, ma questo non basta ai protezionisti. Il figlio di Rossi, Egisto, dopo aver effettuato un viaggio negli Stati Uniti (v. Rossi, 1884) in Nuove notizie sulla concorrenza agraria transatlantica e la relazione Lampertico getta un grido d'allarme per la maggiore produttività delle terre vergini del West, criticando la Commissione d'inchiesta sulla revisione della tariffa doganale (18841886), della quale appunto Lampertico era stato uno dei relatori, perché non aveva avuto il coraggio di proporre il dazio sull'importazione di grano. Rossi (v., 1886, p. 176) invoca "un'alleanza doganale fra le nazioni del continente per resistere alla fiumana delle importazioni transatlantiche". Con la successiva tariffa del 1887, dichiaratamente protezionista, sono introdotti il dazio sul grano e quello sullo zucchero, e sono protette la siderurgia e, seppure più moderatamente, la nascente industria chimica. Restava insufficientemente protetta l'industria meccanica, come lamentava nel 1891 uno degli industriali più importanti, l'ingegner Giuseppe Colombo (v. Cardini, 1981, cap. 3).
Probabilmente l'Italia era costretta alla scelta protezionista dal fatto che le potenze confinanti, Austria e Francia, si erano già convertite al protezionismo, e anche dal fatto che, mentre il corso forzoso aveva funzionato fino allora da sostegno delle esportazioni, il ritorno alla convertibilità agiva in senso contrario (v. Sombart, 1892; tr. it., p. 266). Tuttavia, secondo A. Gerschenkron (v., 1962; tr. it., pp. 78 ss.), la protezione mancò sostanzialmente i suoi obiettivi, in quanto sostenne settori tecnologicamente arretrati e non fu accompagnata da un sufficiente impegno statale nella costruzione di grandi infrastrutture, né nella creazione di un moderno mercato dei capitali. È più cauto L. Cafagna (v., 1963): indubbiamente la formazione di una prima base industriale data dagli stessi anni, anche se l'impulso fu dato dalle commesse statali più che dalla protezione vera e propria. È comunque difficile stimare gli effetti della tariffa del 1887, in quanto nello stesso anno era scoppiata la decennale guerra doganale con la Francia - occasionata dal fallimento delle trattative per il rinnovo del trattato commerciale del 1881 - che vide crollare il nostro commercio estero (v. Luzzatto, 1968, pp. 173 ss.). Il protezionismo trovò nuovi argomenti intorno al 1910, invocando il dumping (vendere sottocosto all'estero per aprire nuovi mercati per i prodotti nazionali) sul modello tedesco e americano (sul dibattito del tempo v. Inghirami, 1991). A livello politico la scelta protezionista sancì l'alleanza della borghesia industriale del Nord con l'aristocrazia fondiaria del Sud: il famoso 'blocco industriale-agrario' che dominò l'Italia, attraverso regimi diversi, fino al secondo dopoguerra.
Negli Stati Uniti, dove il protezionismo, fatto proprio dai repubblicani (v. Mayo-Smith e Seligman, 1896), aveva raggiunto il suo massimo con la tariffa McKinley del 1890, la nuova tariffa del 1894 ne attutisce le punte estreme, introducendo i dazi ad valorem al posto dei dazi specifici e abolendo il dazio sulla lana. Si comincia infatti a ritenere il protezionismo responsabile della crescita dei monopoli e dell'eccessiva concentrazione industriale (v. Taussig, 1894). Il teorico principale del protezionismo è l'economista Simon N. Patten (v., 1895), sostenitore di un'"economia dell'abbondanza" attraverso il pieno impiego delle risorse nazionali.In Europa, come si è detto, la Francia sceglie il protezionismo con la tariffa Méline del 1892 (v. Arnauné, 1896), mentre in Germania, dopo un primo periodo liberista - culminato nell'esenzione del ferro da dazi, avvenuta nel 1873 - il Reich bismarckiano si converte al protezionismo con la tariffa del 1879. È stato osservato che alla spinta protezionista ha contribuito il movimento operaio tedesco, ostile - a differenza di quello inglese - al libero scambio (v. Lotz, 1896, p. 416). Qui, più che negli altri paesi, si registra un'assoluta convergenza degli interessi dell'agricoltura (i produttori cerealicoli volevano difendersi dal basso prezzo del grano proveniente dagli Stati Uniti) e della grande industria.
Perfino in Inghilterra il timore della concorrenza tedesca e americana spinge alcuni settori industriali - specie nelle Midlands e soprattutto a Birmingham - a promuovere agitazioni per chiedere l'introduzione di retaliatory duties nei confronti dei paesi che discriminavano i prodotti inglesi. L'agitazione conosce due fasi. Nella prima (1879-1881), della quale fu leader W. Farrer Ecroyd, traduttore di List, nascono comitati e associazioni dai nomi trasparenti (National society for the defence of British industries, National and patriotic league for the protection of British interests, National fair trade league, la più duratura). Nella seconda fase (1902-1906) la tematica protezionista si collega organicamente al progetto di uno Zollverein fra madrepatria e Dominion (Canada, Australia, Nuova Zelanda). Il movimento ha un suo riconosciuto leader politico in Joseph Chamberlain, ministro delle Colonie nei gabinetti conservatori-unionisti Salisbury e Balfour (v. i documenti raccolti in Turner, 1971, parte II). Sono suoi sostenitori noti economisti come W. Ashley e W.A.S. Hewins, direttore della London School of Economics (v. Winch, 1969, p. 58; v. anche Coats, 1968). Invece A. Marshall, il più autorevole economista inglese dell'epoca, assume una posizione moderatamente critica nei confronti della riforma delle tariffe, non per ragioni di principio, ma in base alla convinzione che il peso di dazi più alti non si sarebbe scaricato tanto sui produttori stranieri quanto sui consumatori inglesi, date le diverse elasticità della domanda dei beni di importazione e di esportazione (v. Winch, 1969, p. 62). Le elezioni del 1906 vedono la sconfitta dei conservatori-protezionisti e la vittoria dei liberali-liberoscambisti.
Keynes non fu mai un liberista puro. Già nel 1927 - di fronte alla crisi del settore dell'industria inglese del cotone - aveva caldeggiato la nascita di un'associazione dei produttori di filati per contingentare la produzione e assicurare prezzi minimi (v. Harrod, 1951; tr. it., pp. 444-450). Nel 1930, deponendo davanti alla Commissione Macmillan per la finanza e l'industria, affermava che "la virtù del libero scambio è che abbassa i salari monetari e non abbassa i salari reali; mentre non è altrettanto probabile che il protezionismo abbassi i salari monetari, ed è molto più probabile che abbassi i salari reali. Ma la virtù del protezionismo è che funziona, mentre, nelle condizioni presenti, il libero scambio non funziona" (ibid., p. 497). La rigidità dei salari monetari verso il basso rendeva improponibile il wage-cut che gli economisti ortodossi proponevano per risolvere il problema della disoccupazione. Keynes invece sperava che un moderato protezionismo potesse sostenere gli investimenti esteri inglesi, e nel 1931 proponeva invano l'introduzione di un dazio doganale come alternativa alla svalutazione e all'uscita dal Gold standard (v. Keynes, 1931, tr. it., pp. 208-219; v. Harrod, 1951, pp. 500 ss.). Nel 1933 giustificava un moderato protezionismo con il fatto che il crescente peso dei servizi - non commerciabili internazionalmente - rendeva meno gravosa per i consumatori una politica di protezione dei manufatti o delle materie prime, e fissava degli obiettivi di maggiore benessere, di maggiore cultura e civiltà, per i quali l'"internazionalismo economico" basato sul laissez-faire non sembrava appropriato, mettendo tuttavia in guardia dal cadere nell'eccesso opposto del "nazionalismo economico", possibile fonte di "stupidità" (v. Keynes, 1933; tr. it., pp. 338-339).
Mentre le provocazioni keynesiane avevano un'eco soprattutto intellettuale, l'Inghilterra degli anni trenta riprendeva le tematiche della tariff reform campaign di J. Chamberlain. Nell'estate 1932 si tenne la Conferenza economica imperiale di Ottawa, che deliberò l'introduzione di una tariffa doganale protettiva e un regime di preferenza doganale a favore dei Dominion. Vennero anche introdotti controlli sulle esportazioni di capitali (v. Winch, 1969, p. 204), da cui conseguì una caduta del livello del commercio estero, ma anche la riduzione della disoccupazione e lo sviluppo di industrie 'nuove' per il mercato nazionale.
Il clima della grande crisi è favorevole a una drastica restrizione degli scambi internazionali: negli Stati Uniti si approva la tariffa protezionistica Smooth-Hawley (1930) e il Buy American act (1933); in Francia tra il 1929 e il 1933 si adotta una politica di contingentamenti delle importazioni (v. Arndt, 1944); nella Germania nazista il piano Schacht del 1934 vara una politica commerciale basata sul principio di "acquistare per quanto possibile merci soltanto da paesi che comperano merci germaniche" (v. Confederazione fascista degli industriali, 1938, p. 310). Viene da ciò favorito il bilateralismo che la Germania sviluppa nei confronti dei paesi minori dell'Europa centrale per assoggettarne le economie attraverso accordi di clearing fra debiti e crediti reciproci (v. Bettelheim, 1971; tr. it., pp. 183-188).In Italia, fra il 1929 e il 1933, il volume delle esportazioni diminuisce del 25% e quello delle importazioni del 29% (v. Guarneri, 1953, vol. I, p. 241). Il "piano regolatore dell'economia" lanciato da Mussolini nel marzo 1936 - giustificato dalle "inique sanzioni" decretate dalla Società delle Nazioni contro l'Italia per l'aggressione all'Etiopia - rompe definitivamente con il liberismo seguito dal regime negli anni venti e imposta le linee di una politica autarchica di evidente preparazione alla guerra (ibid., vol. II, cap. 12). Si tratta di politiche protezioniste attuate anche per via indiretta, come la disciplina delle 'autorizzazioni agli impianti industriali' che sancisce il controllo statale sull'apertura di nuovi impianti e che funziona da barriera non tariffaria all'entrata di nuove imprese (per un esame critico v. Einaudi, 1941).
Dal punto di vista della teoria, il governatore della Banca Nazionale di Romania, Mihaïl Manoïlesco, si fece banditore di una concezione che doveva soppiantare la dottrina ricardiana dei vantaggi comparati: quella della "superiorità intrinseca qualitativa" di un'industria (v. Manoïlesco, 1929; tr. it., p. 122). Un paese anche piccolo deve proteggere a tempo indefinito la propria industria ogni volta che sia in gioco il vantaggio nazionale. Qualsiasi idea di costo-opportunità è assente in Manoïlesco, la cui carenza di una seria preparazione economica contrasta con la notorietà di cui godette, non a caso soprattutto in Italia.
Dopo il 1945, a differenza che nel primo dopoguerra, la ricostruzione dell'economia mondiale avviene sotto il segno della collaborazione internazionale, attraverso accordi multilaterali e non più bilaterali fra nazioni. La collaborazione avviene all'insegna del libero scambio, sotto la leadership degli Stati Uniti, che pure non avevano tradizioni in questo senso. Nel 1947 viene varato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) allo scopo di ridurre, attraverso la collaborazione multilaterale e negoziati periodici, gli ostacoli tariffari e di eliminare le discriminazioni in materia di commercio internazionale di manufatti (esclusi dunque l'agricoltura e i servizi). Sono ammesse peraltro diverse eccezioni alla norma del libero scambio, soprattutto per venire incontro alle esigenze dell'Impero inglese, e inoltre molti paesi in via di sviluppo non ne fanno parte (v. Krugman e Obstfeld, 1988; tr. it., cap. 9). Negli anni sessanta, con il Kennedy round (1964-1967), si ha una più decisa sterzata liberoscambista, con riduzioni tariffarie medie del 35%. Gli ultimi vent'anni, però, hanno visto un ritorno di fiamma del protezionismo: da una parte vi è stata la costituzione di un cartello sovranazionale come quello dell'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries), che nel 1973 - a seguito della guerra arabo-israeliana e dell'embargo posto dai paesi arabi nei confronti dei paesi che sostenevano Israele - ha tentato di fissare un prezzo monopolistico internazionale del petrolio (ma dal 1986 il fronte OPEC si è incrinato, perché uno dei membri più potenti, l'Arabia Saudita, ha abbassato unilateralmente il prezzo); dall'altra gli Stati Uniti, pur proclamandosi tuttora liberisti e accusando la CEE di protezionismo agricolo, hanno seguito - specie sotto la presidenza Reagan - politiche di sostegno della propria industria, minacciata dalla concorrenza europea e giapponese. Il recentissimo Uruguay round, conclusosi nel 1994, estende i regolamenti GATT al commercio agricolo e si propone di ridurre gradualmente i contingentamenti e le altre misure non tariffarie di protezione (v. Marchionatti, 1995, pp. 320-323).
Dal punto di vista teorico, il punto di partenza per ogni critica del protezionismo resta la dimostrazione, offerta da V. Pareto, che ogni scostamento dall'equilibrio di libera concorrenza - in quanto abbandono della posizione di ottimo paretiano - comporta una distruzione di ricchezza, poiché modifica l'allocazione ottimale dei "coefficienti di fabbricazione" diminuendone la produttività (v. Pareto, 1896-1897; tr. it., vol. II, pp. 107-109 e 249-262). In un semplice diagramma di domanda e offerta si possono visualizzare quattro effetti distinti della fissazione di un dazio che eleva il prezzo al disopra di quello mondiale: a) l'aumento di profitto dei produttori nazionali; b) la perdita di efficienza produttiva (producer's surplus) per effetto dei maggiori costi interni rispetto a quelli internazionali; c) la perdita di benessere dei consumatori (consumer's rent) a causa della riduzione del consumo provocata dall'aumento del prezzo; d) il guadagno per l'erario a causa del dazio. I punti b) e c) rappresentano perdite d'efficienza per la collettività (v. Fischer e altri, 1988, tr. it., pp. 1221 ss.; v. Samuelson e Nordhaus, 1992¹⁴, tr. it., pp. 761 ss.; v. Krugman e Obstfeld, 1988, tr. it., pp. 220 ss.). Un'ulteriore perdita di benessere deriva dai costi delle attività cosiddette di rent-seeking, costi derivanti dallo spostamento di risorse da settori produttivi a settori improduttivi, operato dalle lobbies protezioniste allo scopo di ottenere la protezione (v. Quintieri, 1984, parte II).Un argomento teorico a favore di una limitata protezione poggia sull'ipotesi che un paese economicamente rilevante possa influire sul prezzo del bene importato, e quindi sulle ragioni di scambio internazionali (rapporto fra i prezzi delle esportazioni e quelli delle importazioni). Mentre un dazio proibitivo impedisce completamente l'importazione del bene e quindi si traduce in una diminuzione di benessere rispetto all'ipotesi di libero scambio, un dazio moderatamente protettivo riduce i prezzi delle importazioni (in quanto la domanda del paese che introduce il dazio è una parte rilevante della domanda mondiale) e quindi accresce il benessere nazionale. Corrispondentemente, un dazio sulla merce di esportazione che ne faccia aumentare il prezzo per gli acquirenti stranieri ha come conseguenza un aumento del benessere nazionale (è la politica seguita dall'Arabia Saudita negli anni ottanta tassando il petrolio esportato: v. Krugman e Obstfeld, 1988; tr. it., p. 225). Contro questo argomento - detto della 'tariffa ottimale' - viene sollevata l'obiezione che anche gli altri paesi possono istituire a loro volta, per rappresaglia, tariffe ottimali, con l'effetto di ridurre drasticamente il volume del commercio internazionale.Un altro argomento si fonda sulla teoria del second best. Quando si ha un 'fallimento del mercato' interno, si può intervenire su altri mercati, come appunto quello internazionale, per controbilanciare il cattivo funzionamento del primo. Per esempio, se il mercato del lavoro non è perfettamente flessibile, è possibile ricorrere a sussidi (oppure a contingentamenti delle importazioni) per proteggere i settori interni labour intensive minacciati dalla concorrenza estera.Lo stesso argomento è stato usato per giustificare politiche protezioniste nei paesi in via di sviluppo. Qui è stata osservata la mancanza di mercati finanziari efficienti, in grado di spostare risparmi dal settore agricolo a quello manifatturiero, così da favorire il decollo di quest'ultimo. Data la difficoltà di creare efficienti istituzioni finanziarie basate sulla libera concorrenza, la teoria del second best suggerisce di attirare i capitali garantendo loro alti profitti mediante la protezione. Parimenti è stata rilevata la difficoltà di assegnare 'diritti di proprietà' alle industrie nascenti, per cui queste non verrebbero sufficientemente compensate per i 'benefici intangibili' (in termini di nuove conoscenze o nuovi mercati) da esse stesse prodotti a favore della collettività. La protezione rappresenterebbe ancora una volta un surrogato del first best, consistente nel compenso dei diritti di proprietà. Individuare i settori meritevoli di questo trattamento, e quantitativizzare costi e benefici di queste politiche, è però difficile (ibid., cap. 10). (V. anche Economia internazionale; Liberismo; Mercato; Politica economica e finanziaria).
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di Guido Pescosolido
Il protezionismo si affermò compiutamente in Italia a partire dal 1887, quando fu adottata una tariffa doganale generale che perseguiva finalità di natura spiccatamente protettive e concludeva un iter di revisione della politica economica del governo che si era aperto nel 1878 con l'adozione di una nuova tariffa generale in sostituzione di quella introdotta nel 1861.
Nel 1887 ebbe dunque termine la prima fase liberoscambista della storia economica italiana, che era iniziata al momento della formazione dello Stato unitario, quando era stata estesa repentinamente all'intero territorio nazionale la tariffa adottata dal governo sardo nel 1851, auspice Cavour, ed erano stati sottoscritti una serie di trattati commerciali di impronta ancor più liberista. Fra questi ebbero un'importanza fondamentale quelli stipulati nel 1863 con l'Inghilterra e con la Francia.Prima del 1887 il liberoscambismo era stato solo parzialmente attenuato, ma mai abbandonato. In modo indiretto fu mitigato, a partire dal 1867, dall'introduzione del corso forzoso della cartamoneta, che, specialmente attraverso l'aumento dei cambi, ebbe come effetto secondario un leggero incremento dei prezzi all'importazione con qualche punta del 15-20% nei primi anni e poi di circa il 6% in media fino al 1882 (v. Luzzatto, 1968, pp. 70-71; v. Spinelli e Fratianni, 1991). Di sola attenuazione del regime liberoscambista si deve parlare anche riguardo alla nuova tariffa generale introdotta nel 1878, poiché, pur sostituendo il sistema dei dazi ad valorem, molto imprecisi, con quelli specifici basati sulla quantità delle merci importate e pur istituendo i dazi all'importazione su alcuni principali prodotti manufatti (essenzialmente tessili), essa ebbe un carattere prevalentemente fiscale e la protezione eretta fu del tutto insufficiente a incidere sugli orientamenti economici generali. Peraltro il rinnovo nel 1881 del trattato commerciale con la Francia, di gran lunga il maggior partner commerciale dell'Italia, limitò il già debole carattere protettivo della revisione tariffaria del 1878.
Un effetto parzialmente protettivo ebbero poi, nel corso degli anni ottanta, le misure varate dal governo a favore dell'industria pesante e degli armamenti, nonché la legge Boselli sulla marina mercantile. La svolta decisiva si ebbe comunque solo nel 1887 con un intervento di carattere non più settoriale, ma generale e di assai forte intensità.Sia sulla scelta liberoscambista del 1861 che su quella protezionista del 1887 il dibattito è stato sempre abbastanza vivace.Gli effetti del regime di libero scambio con l'estero sullo sviluppo dell'economia italiana nei primi decenni postunitari sono stati variamente giudicati. Le cause del ritardato decollo dell'industria italiana non sono state ovviamente ricondotte solo ad esso. Nessuno però pone più in dubbio che quella politica fu l'asse portante di una concezione eminentemente agriculturista dello sviluppo economico italiano, secondo la quale, nella divisione internazionale del lavoro, il ruolo che più si confaceva e conveniva all'Italia era quello di paese esportatore di materie prime (zolfo, minerali di ferro), prodotti agricoli (olio, vino, frutta, paste alimentari) e zootecnici (formaggi, carne), semilavorati (fibre tessili, soprattutto seta greggia e, in minor misura, filatoiata) e importatore di prodotti manufatti, in particolare dell'industria pesante e di base.
E infatti l'apertura del mercato italiano alla libera penetrazione di prodotti industriali stranieri, soprattutto franco-inglesi, mise a dura prova, sia pure in modo differenziato da regione a regione, il già gracile sistema manifatturiero della penisola e bloccò almeno per un ventennio qualsiasi possibilità di significativo decollo industriale. Resistettero meglio le manifatture piemontesi e liguri, che nel corso degli anni cinquanta erano già state esposte alla concorrenza straniera. Ma nel resto della penisola la liberalizzazione degli scambi causò una dura selezione dei nuclei industriali meno competitivi e soprattutto delle manifatture a domicilio. In particolare ciò avvenne nel Mezzogiorno, che, assieme ai territori dello Stato pontificio aveva goduto, prima dell'unità, del regime protezionista più rigido dell'intera penisola. Con l'unità, i prodotti delle altre regioni italiane ebbero libero accesso al mercato meridionale e l'adozione della tariffa piemontese comportò dall'oggi al domani una riduzione media di circa l'80% della barriera protettiva a suo tempo eretta dal regime borbonico. Le difficoltà per le produzioni secondarie riguardarono tutti i settori (siderurgico, meccanico, tessile, cartario) e mentre alcuni comparti (cotoniero, cartario), dopo profonde ristrutturazioni tecnico-finanziarie, riuscirono a sopravvivere, altri (laniero, serico, siderurgico) non vi riuscirono e alla fine scomparvero come realtà manifatturiere significative.
Ma ben più dell'infausta vicenda dell'industria centro-meridionale appare rilevante il fatto che durante il primo ventennio postunitario i progressi dell'industria manifatturiera furono ovunque, nella penisola, di scarsa entità. Anche gli indici della produzione industriale più ottimisti segnalano saggi di variazione assai contenuti. Nella partecipazione alla formazione del prodotto lordo privato la quota delle attività secondarie scese dal 20% del 1861 al 17% del 1880. Il rapporto con i paesi guida dello sviluppo industriale europeo peggiorò sensibilmente: nel 1861 l'Italia produceva meno dell'1% del ferro prodotto in Inghilterra e disponeva di meno dell'1% dei fusi cotonieri installati oltremanica; venti anni dopo tale rapporto anziché migliorato risultava ulteriormente peggiorato.
Su questi dati di fatto c'è consenso pressoché unanime. La storiografia si è invece divisa fra chi, come Are, ha ritenuto che si sarebbe potuta adottare subito una strategia protezionista per favorire un'industrializzazione concorrenziale con quella dei paesi guida e che, di conseguenza, il periodo liberista vada considerato come inutilmente perso dal punto di vista dello sviluppo industriale; e chi invece, come Romeo, ha sostenuto che quel periodo non debba considerarsi tale, visti i vantaggi procurati dal liberoscambismo alle esportazioni italiane di prodotti agricoli in una fase di prezzi crescenti durata dagli anni quaranta agli anni settanta del XIX secolo. Il favorevole andamento delle esportazioni agricole, che costituivano allora il grosso dell'intero export italiano, consentì di conseguire una serie di risultati della bilancia commerciale speciale che trova pochissimi riscontri in tutta la successiva storia degli scambi commerciali dell'Italia con l'estero. Ne derivarono stimoli energici all'incremento della produzione agricola, alla formazione di capitali e agli investimenti in infrastrutture, che costituirono i prerequisiti essenziali per lo sviluppo industriale, a prescindere dalle convinzioni e dagli intenti della classe dirigente che ne promosse la realizzazione.
La stessa valutazione dei danni provocati al sistema manifatturiero meridionale assume, in questa corrente storiografica, una connotazione meno drammatica in considerazione delle dimensioni dell'apparato propriamente industriale della penisola al momento dell'unità, che erano assai modeste sia al Nord che al Sud, a fronte della schiacciante superiorità del settore agricolo, che produceva nel 1861 circa il 58% del prodotto lordo privato nazionale e occupava circa il 70% della popolazione attiva. E se il Mezzogiorno accusò la perdita di attività manifatturiere anche di tradizione plurisecolare, come il lanificio, nel contempo guadagnò terreno sul fronte della produzione agricola soprattutto nei settori delle colture specializzate: olio, vino, agrumi, frutta secca, per cui a fronte di un'indubbia accentuazione del carattere agricolo della sua economia, sicuramente in termini di reddito il divario rispetto al Nord, fino al 1887, non aumentò (v. Pescosolido, Alle origini..., 1996, p. 29).
Nel 1861 a sostegno della scelta liberoscambista erano dunque schierati non solo la cultura economica, accademica e non, la maggior parte della rappresentanza parlamentare e la parte più significativa della classe dirigente, ma tutto il mondo agricolo, ossia il grosso dell'economia e delle forze sociali del paese. Di fronte a questo formidabile blocco di idee, interessi e potere la sparuta pattuglia di industriali filoprotezionisti non poté che perdere sistematicamente tutti gli scontri, in parlamento e nel paese, fino a quando non intervennero radicali modifiche nella congiuntura economica internazionale e nella dislocazione interna degli interessi e degli equilibri sociopolitici della penisola. E questo accadde a partire dalla fine degli anni settanta.
L'azione di propaganda dei Luzzatti, dei Rossi e degli autori dell'inchiesta industriale del 1870-1874 contribuì a convincere settori sempre più ampi dell'opinione pubblica e delle forze politiche che erano in realtà assai scarse le possibilità che la crescita delle attività secondarie assumesse, in un quadro di politica doganale liberoscambista, quelle consistenti dimensioni che Cavour aveva pronosticato nel 1861 e che l'aumento del reddito nazionale prodotto da uno sviluppo imperniato in misura predominante, se non esclusiva, sull'agricoltura e sulla commercializzazione dei suoi prodotti, avrebbe avuto dei limiti abbastanza circoscritti e assai difficilmente superabili. Tuttavia, finché la crisi agraria non esplose in tutta la sua virulenza anche in Italia, finché il clima dei rapporti politici internazionali non indusse il governo a rivedere la sua politica di raccoglimento, che rischiava di cristallizzarsi in un pericoloso isolamento, e a considerare la necessità di disporre di una propria autonoma capacità di armamento, finché la crescita delle attività industriali, grazie anche all'applicazione di nuove tecnologie, non assunse dimensioni decisamente più consistenti che in passato, qualunque tentativo di dar corso ad una revisione radicale della politica doganale andò sistematicamente a vuoto.
Le condizioni cominciarono dunque a cambiare in modo significativo solo quando, all'inizio degli anni ottanta, si fecero sentire anche in Italia gli effetti della concorrenza dei grani americani, che, favorita dall'abbassamento dei noli marittimi, aveva già messo in crisi sin dall'inizio degli anni settanta strutture agrarie come quelle francesi e inglesi, ben più competitive di quelle italiane. In Italia gli effetti della concorrenza americana erano stati ritardati in parte dalla debolezza dei collegamenti con i mercati internazionali, in parte dalla già ricordata azione protettiva svolta indirettamente dal corso forzoso, che fu però abolito appunto all'inizio degli anni ottanta. Allora anche in Italia si ebbe una marcata flessione del prezzo di tutti i cereali e in particolare del grano, le cui importazioni ebbero una crescita impressionante, salendo, dopo un ventennio di sostanziale stazionarietà, dalle 230.000 tonnellate del 1883 fino al milione di tonnellate del 1887. I riflessi sui livelli produttivi si fecero ben presto sentire, con una contrazione sensibile delle superfici a coltura e della produzione di frumento, granturco, riso.
A questo cedimento del settore cerealicolo non fecero riscontro altri crolli della stessa dimensione nel campo dell'import-export agricolo, anzi le esportazioni di formaggi, seta, frutta secca, e soprattutto quelle di agrumi e vino, crebbero in misura rilevante, sostenute, queste ultime, da un andamento favorevole dei prezzi, sollecitati dalla diffusione della fillossera in Francia, dove si aprirono varchi un tempo impensabili al vino da taglio siciliano e pugliese. Nel Mezzogiorno l'estensione delle colture specializzate toccò allora vertici, nell'insieme, mai più raggiunti in seguito, con cospicui investimenti di capitali proprio negli anni in cui esplodeva la crisi cerealicola.
La frattura all'interno della possente coalizione di interessi che aveva sostenuto il liberismo non tardò a farsi sentire. Spazi di manovra insperati e assolutamente non pronosticabili un decennio prima si aprirono davanti alle forze filoprotezioniste. I cerealicoltori persero ben presto qualunque interesse al mantenimento del regime di libero scambio, mentre viticultori, agrumicultori, gelsibachicultori si legavano sempre più strettamente ad una condizione doganale che garantisse il libero accesso ai mercati internazionali. La cerealicoltura però, nonostante la perdita di valore della sua produzione lorda vendibile, superata per la prima volta proprio durante gli anni ottanta da quella delle produzioni arboree, continuava ad essere il settore economico di gran lunga più importante del paese per l'enorme mole di interessi in essa coinvolti e la gran massa di forza lavoro che continuava a trovarvi occupazione.
Quando si dice cerealicoltura infatti non ci si riferisce soltanto al latifondo meridionale. La polemica antiprotezionista di fine secolo tese ad enfatizzare la natura parassitaria della coalizione di interessi difesi dalla tariffa del 1887. La presentò per lo più come il frutto perverso di una alleanza delle forze più retrive e conservatrici dell'economia e della società italiana di fine secolo. In realtà essa fu il frutto di un blocco di interessi assai più vasto e vitale, per le sorti dell'intera economia nazionale di quello individuato da Salvemini e poi da Gramsci e di cui sarebbero stati pilastri fondamentali gli industriali parassitari del Nord e i latifondisti assenteisti del Sud.
In realtà di fronte alla concorrenza americana le difficoltà della grande azienda capitalistica dell'Italia settentrionale furono nettamente superiori a quelle dell'economia del latifondo e dei grandi proprietari terrieri meridionali. Mentre nelle zone della compartecipazione la crisi fu in parte attenuata dalla ancora significativa presenza dell'autoconsumo poderale e mentre nell'area del latifondo dell'Italia centromeridionale e insulare il più limitato impiego della manodopera bracciantile e il livello ancora alto dell'autoconsumo ammortizzarono in parte l'impatto della caduta dei prezzi del grano, nel Nord la più alta presenza di popolazione urbana, la maggior estensione del bracciantato e il più elevato livello di mercantilizzazione complessivo dell'economia ponevano i produttori cerealicoli, grandi medi e piccoli, in una posizione di ben più elevata vulnerabilità. Peraltro nel Mezzogiorno la forte espansione delle colture specializzate, a volte in aree di proprietà degli stessi latifondisti, creava una situazione in cui la gerarchia degli interessi e dei settori predominanti dell'economia si veniva sensibilmente modificando a favore dell'agricoltura specializzata della vite, degli agrumi, del mandorlo, a scapito della coltura del latifondo a grano e pascolo e di quelle dell'economia di mera sussistenza del microfondo contadino.Con l'introduzione del dazio sul grano del 1887 si ebbe dunque non solo e non tanto una vittoria dei latifondisti meridionali, i quali furono ovviamente favorevoli al provvedimento, anche come parziale compensazione del varo della perequazione fondiaria avvenuto nel 1886 e al quale erano stati fieramente contrari, quanto e soprattutto quella di proprietari e imprenditori agricoli del Centro-Nord e di un proletariato rurale fortemente interessato alla salvaguardia di una cerealicoltura mercantilizzata nella quale trovava lavoro, nonché della media e piccola proprietà coltivatrice dell'intera penisola e di tutti coloro che in qualche misura, anche al Sud, commerciavano in grano. E fu per questa grande estensione degli interessi colpiti dalla crisi che il protezionismo ebbe partita vinta, e non per l'apporto dei latifondisti meridionali, che predominante, quindi, non fu.Il diverso orientamento delle forze legate alla cerealicoltura nazionale, originato anzitutto da cause esterne (messa a coltura di terre vergini negli Stati Uniti e affermazione della marineria a vapore), anche se fu il più importante, non fu comunque l'unico fattore nella formazione del nuovo blocco protezionista che si venne aggregando durante gli anni di Depretis e che si consolidò durante gli anni dei governi Crispi. Con l'inizio degli anni ottanta si ebbe una svolta nell'intera vita economica del paese. Si realizzò allora per la prima volta un inizio di sviluppo industriale che, variamente valutato, costituì comunque un evento di grande portata ai fini dell'affermazione di una nuova geografia delle interconnessioni tra interessi economici, forze sociali e rappresentanza politica.
I fattori di quel primo esordio industriale furono molteplici. La flessione del prezzo delle materie prime, e segnatamente del carbone, unita alla disponibilità di tecnologie siderurgiche (forni Martin-Siemens) in grado di ridurre drasticamente gli svantaggi di aree che ne erano parzialmente o totalmente prive, giocò a favore dell'avvio di produzioni un tempo proibite per paesi come l'Italia. La costruzione di buona parte della rete ferroviaria nazionale e il potenziamento generale del sistema dei trasporti realizzato durante il primo ventennio di vita unitaria cominciarono a favorire anche le industrie nazionali che nell'ampliamento dei mercati trovavano il più forte incentivo alla realizzazione di maggiori economie di scala. La migliorata situazione delle finanze statali consentì l'abolizione del corso forzoso, che, data la ridotta richiesta di conversione dei biglietti in circolazione, si tradusse in un aumento della liquidità e in una più larga disponibilità creditizia che concorse a creare un clima di grande euforia finanziaria. Euforia che fu poi pagata a caro prezzo negli anni finali del decennio, quando esplose la crisi del settore edilizio e dell'industria pesante, ma che intanto spinse i maggiori istituti di credito a finanziare la grande espansione urbana di città come Roma e Napoli e il decollo di alcuni settori chiave dell'industria collegata alle costruzioni edili. Maturarono, soprattutto nel Nord, nuove forze imprenditoriali di cui la recente letteratura va delineando con precisione caratteristiche e consistenza e che seppero condizionare e sfruttare al meglio i nuovi indirizzi della politica estera statale. Inoltre, in seguito al Congresso di Berlino del 1878, allo scacco di Tunisi del 1881 e all'adesione alla Triplice, l'Italia decise di potenziare la propria autonoma capacità di armamento. Gli incentivi statali, dunque, all'impianto e al rapido potenziamento di stabilimenti siderurgici e meccanici a Terni, Napoli, Venezia e la legge Boselli a favore della marina mercantile del 1885 fecero dello Stato uno dei principali artefici della crescita della domanda di beni industriali, alterando sensibilmente l'atteggiamento tenuto nel precedente ventennio.Il risultato di questo insieme di spinte fu uno sviluppo di dimensioni senza precedenti dell'apparato industriale del triangolo Milano-Torino-Genova. Gli indici della produzione dell'industria manifatturiera, pur discordi nello stimare la rilevanza del fenomeno, evidenziano però tutti un'accelerazione nella crescita della produzione industriale rispetto al ventennio preunitario. Quelli di Fenoaltea e, da ultimo, di Maddison, indicano un tasso medio annuo di crescita dell'8% circa tra il 1879 e il 1887. In particolare crebbe per la prima volta in misura veramente consistente la produzione delle industrie meccaniche, chimiche e metallurgiche, ossia delle industrie di produzione di beni strumentali o di consumo durevoli che erano state ed erano alla base dello sviluppo industriale dei paesi più avanzati. Ma non furono certo irrilevanti i progressi dell'industria del cotone e, soprattutto in alcune realtà regionali e sub-regionali come quella del vicentino, di quella laniera, le quali, in parte favorite dalla tariffa del 1878, cominciarono a contrastare validamente anche nel Mezzogiorno la penetrazione dei prodotti inglesi.
Comparvero allora nel panorama economico italiano e si consolidarono produzioni, nomi, interessi, alleanze che rimasero alla base di gran parte della storia industriale e capitalistica del nostro paese: dalla Edison alla Breda, dalla Terni alla Franco Tosi alla Società delle Ferriere. Cominciò a rinsaldarsi, favorito dalla legge Boselli sulla marina, quell'asse tra siderurgia e cantieristica che costituì uno degli anelli più forti e duraturi del capitalismo industriale italiano fino alla crisi del 1929. A cementarlo fu l'intreccio finanziario che entrambi i settori vennero creando con il sistema bancario, sotto l'ala protettrice dello Stato.
Contro questo intreccio si rivolsero gli strali più acuminati della polemica liberista e meridionalista. Essi indicarono nel protezionismo uno strumento di politica economica volto a difendere non settori produttivi di importanza nazionale, ma forze economiche settoriali, interessi particolari, capaci di influenzare il potere politico mentre erano incapaci di sostenere il confronto sul libero mercato internazionale. E certo, se gli industriali fecero la loro battaglia fino ad avere nel 1887 partita vinta, ottenendo che, assieme al grano, la protezione interessasse i più importanti prodotti dell'industria tessile, alimentare, siderurgica e, sia pure in misura minore, meccanica e chimica, la fecero anzitutto per trarne dei vantaggi per le proprie imprese. Tuttavia non per questo si può ricondurre la svolta del 1887 al prevalere di interessi settoriali minoritari, capaci solo di squilibrare lo sviluppo economico del paese. Essi in realtà erano divenuti nel corso degli anni ottanta maggioritari e il protezionismo appariva, ed è apparso a molta storiografia successiva, l'unica via per salvaguardarli e salvaguardare con essi i superiori interessi economici della nazione in un contesto internazionale in cui, peraltro, la sola Inghilterra si manteneva fedele ai principî del libero scambio.A orientare la maggioranza parlamentare verso il varo di una nuova tariffa generale e la denuncia del trattato commerciale con la Francia da poco rinnovato concorse invece, in misura forse trascurata dal dibattito storiografico, la situazione di estrema precarietà in cui vennero a trovarsi nel giro di pochissimi anni la bilancia commerciale e quella dei pagamenti. Da un lato la flessione del valore di mercato di molti prodotti agricoli esportati (olio, seta, agrumi) e dall'altro l'espansione industriale e la connessa importazione di materie prime e macchinari, nonostante il cedimento dei prezzi del carbone sui mercati internazionali, fecero peggiorare rapidamente il rapporto export-import, che dal 92,2 del 1883 scese al 65,1 del 1885 e al 62,4% del 1887. Il valore delle importazioni, dopo avere oscillato intorno ai 1.200 milioni tra il 1872 e il 1880, salì ai 1.605 milioni del 1887. Ad esso corrispose il più forte deficit sino ad allora mai registrato: 603 milioni, pari al 60% del valore delle esportazioni, le quali toccarono il loro massimo nel 1883 con 1.188 milioni, ma poi non riuscirono ad andare oltre una difesa strenua del limite dei 1.000 milioni (v. ISTAT, 1958, p. 152).
Di fronte a questa situazione non c'erano margini molto ampi né temporali né qualitativi circa la manovra da realizzare. La nuova tariffa istituita con la legge del 14 luglio 1887 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1888 introdusse quindi dazi doganali molto alti sul grano, sullo zucchero, sui prodotti siderurgici, su alcuni prodotti meccanici, sui tessili. La sua natura fu spiccatamente protezionista e dirigista. Una serie di trattati commerciali stipulati negli anni successivi mitigò solo in parte l'asprezza di alcuni dazi, ma il carattere di fondo rimase sostanzialmente inalterato e lo sviluppo economico italiano sino alla liberalizzazione del secondo dopoguerra avvenne, nonostante alcune fasi di relativo e temporaneo allentamento della cintura protettiva, all'interno della cornice protezionista eretta nel 1887.Suo principale artefice fu Luigi Luzzatti. Fu vicepresidente della Commissione d'inchiesta per la revisione della tariffa doganale istituita nel 1883, presidente il senatore Brioschi, e poi relatore per la Commissione della Camera dei deputati che, al di là delle indicazioni della predetta Commissione d'inchiesta, decise il livello e i caratteri definitivi della tariffa. Luzzatti gestì poi, in varie vesti e infine anche come presidente del Consiglio nel 1910-1911, tutta la delicatissima fase della guerra commerciale con la Francia e il rinnovo di tutti i trattati commerciali sin quasi allo scoppio della prima guerra mondiale.
La coalizione di forze che si saldò a sostegno della nuova stagione di politica economica era compatta sull'obiettivo immediato di battere il fronte liberista per arginare il preoccupante deficit della bilancia commerciale, salvare dalla rovina settori importantissimi dell'economia nazionale, difendere e consolidare l'esordio industriale degli anni precedenti. Essa tuttavia recava al proprio interno un potenziale conflitto tra agrari e industriali circa gli effetti al rialzo che il dazio sul grano poteva avere sul prezzo del pane e quindi sul potere di acquisto dei salari. E difatti il dazio sul grano dopo il rilancio della cerealicoltura settentrionale venne ridotto, poi sospeso, poi reintrodotto. Ma soprattutto la componente agraria, allora maggioritaria in parlamento e nel paese, per quanto concorde sulla opportunità di favorire lo sviluppo delle attività industriali, non riteneva certo che l'adozione della nuova tariffa costituisse il primo atto di un cambiamento radicale del modello di sviluppo e di un processo storico che si sarebbe concluso quasi un secolo dopo con la scomparsa della stessa società rurale. Quest'ultimo evento non era preconizzato neppure dagli industriali. Tuttavia gli intenti con cui essi entravano nella coalizione erano ben altrimenti innovativi di quelli degli agrari e, alla lunga, furono quelli che prevalsero.
Contro la tariffa e la politica economica ad essa seguita si espresse a lungo non solo la polemica liberista, ma anche quella meridionalista. Da Pareto a Einaudi, da De Viti De Marco a Giustino Fortunato fu un coro di esecrazione del nuovo indirizzo. Alle argomentazioni dei liberisti si aggiunsero quelle sui gravi danni arrecati all'agricoltura meridionale dalla guerra commerciale con la Francia e sulla riduzione del Mezzogiorno a mercato coloniale dell'industria settentrionale. Più recentemente il Gerschenkron ha ripreso le critiche alla politica protezionista non in una rinnovata linea di ispirazione liberista, ma da un punto di vista più strettamente tecnico. Il protezionismo attuato dallo Stato italiano sarebbe stato errato perché protesse inutilmente l'industria siderurgica, per la quale l'Italia, povera di giacimenti di carbone, non aveva vocazione naturale e soffriva di troppi svantaggi di partenza, mentre non avrebbe protetto abbastanza la meccanica e la chimica per le quali esistevano maggiori possibilità di successo e che invece dovettero sostenere gli alti costi dei prodotti siderurgici nazionali. Il ruolo del protezionismo sarebbe stato quindi di freno anziché di stimolo al decollo dell'industria italiana, che invece trovò il suo fattore decisivo nella banca mista durante l'età giolittiana.Nelle argomentazioni dei meridionalisti c'era molta verità perché essi non negavano che la tariffa del 1887 avesse conseguito i suoi obiettivi, ma denunciavano i sacrifici che quella politica aveva imposto all'economia meridionale e facevano un'analisi del modello di sviluppo dualista dell'economia italiana che conserva a tutt'oggi un notevole grado di validità.In effetti la tariffa conseguì abbastanza tempestivamente gli obiettivi a breve termine che essa si prefiggeva. La riduzione del deficit commerciale fu rapida e consistente. Il disavanzo diminuì di circa il 50% tra il 1887 e il 1888, e, dopo una lieve ripresa nel 18891890, scese ancora negli anni successivi. Sin dal 1891, tenuto conto del saldo delle partite invisibili, vi fu un avanzo della bilancia dei pagamenti che toccò il massimo nel 1905 e scomparve solo nel 1908. Anche tenendo presente che dal 1895 al 1905 il peso delle partite invisibili divenne sempre più cospicuo, non si può non dare atto alla politica commerciale del Luzzatti di essere riuscita sino al 1908 a contenere il deficit del commercio speciale entro dimensioni tali da garantire una stabilità dei cambi e una tenuta della lira che ebbero riflessi largamente positivi sugli investimenti e quindi sulla possibilità di realizzare profonde ed estese trasformazioni dell'apparato produttivo registrate in uno dei periodi di più intenso sviluppo industriale che l'Italia abbia mai conosciuto: secondo l'indice di Fenoaltea +7,9% in media all'anno nel 1896-1908 e +11,1% nel 1902-1908.
Ma anche la cerealicoltura venne salvata dalla imminente rovina e nei due decenni successivi al 1887 riuscì a realizzare ammodernamenti tecnici di notevole portata soprattutto al Nord, ma anche nel Mezzogiorno e in Sicilia.Nonostante dunque la grave crisi dell'industria pesante degli anni 1888-1894, anche gli obiettivi a medio e lungo termine furono raggiunti. Ovviamente vi furono per tutto ciò dei prezzi e quello più immediato e doloroso, soprattutto per il Mezzogiorno, fu la guerra commerciale con la Francia e la conseguente drastica contrazione del volume complessivo degli scambi che passò, in valori correnti, dai 2.607 milioni di lire del 1887 ai 2.067 del 1888. Le esportazioni di vino precipitarono da 3,6 milioni di hl nel 1887 a 1,8 nel 1888 e a 936.000 hl nel 1890. Il valore dell'export si ridusse da 1.002 a 892 milioni di lire. Solo nel 1894 il valore dell'export italiano tornò a superare con 1.027 milioni il livello del 1887 e solo nel 1898 lo stesso risultato fu raggiunto dall'interscambio complessivo.
Tale contrazione avvenne soprattutto a scapito di prodotti meridionali. Nel 1885-1887 il mercato francese aveva assorbito ben il 41% delle esportazioni italiane. Queste erano costituite per lo più da seta settentrionale e vino pugliese e siciliano, nonché da agrumi, olio e altri prodotti meridionali. Tuttavia mentre fu più difficile per gli operatori transalpini reperire seta greggia sostitutiva di quella italiana, per cui cospicue partite di seta continuarono ad arrivare in Francia attraverso la Svizzera, per il vino e anche per l'olio si trovarono dei validi sostituti nei possedimenti francesi del Nordafrica, in Spagna e in altri paesi del Mediterraneo. La media annua delle esportazioni italiane in Francia crollò dal 35% del totale nel decennio 1881-1890 al 13,8 nel 1891-1900 e il colpo fu accusato per lo più dal Mezzogiorno, perché nel frattempo la ricerca di nuovi sbocchi ai prodotti italiani richiese tempi più lunghi del previsto e anche quando tali sbocchi furono trovati le esportazioni di vino meridionale e italiano non tornarono più ai livelli del 1887.I settori produttivi del Mezzogiorno nei quali erano stati effettuati i maggiori investimenti, nei quali erano state realizzate le più vistose trasformazioni colturali e che riuscivano ad esportare in regime di libera concorrenza furono dunque danneggiati in misura notevole da una politica che difendeva il settore più arretrato dell'economia meridionale e le industrie meno competitive del Centro-Nord. Per di più il Mezzogiorno era costretto dal protezionismo doganale ad acquistare dall'industria settentrionale i prodotti manufatti che avrebbe potuto avere a prezzi più bassi dall'industria straniera.
Contro queste argomentazioni è stato osservato che, in realtà, il ridimensionamento delle esportazioni di vino in Francia sarebbe avvenuto ugualmente, poiché la crescita degli anni ottanta era stata facilitata dalla malattia della vite che sarebbe stata, come poi effettivamente avvenne, debellata; è stato ancora osservato che il Mezzogiorno avrebbe compensato con i vantaggi ottenuti sul fronte cerealicolo i prezzi pagati sul fronte delle colture specializzate; per quel che riguarda infine il rapporto dualistico tra Nord e Sud, è stato sostenuto che in realtà il mercato meridionale sarebbe stato scarsamente significativo, se non irrilevante, per l'industria settentrionale.Nessuna di queste osservazioni appare tuttavia ineccepibile. La prima perché comunque per il vino meridionale la perdita di mercato in Francia fu causata dalla guerra commerciale e non dall'uscita dalla malattia. All'indomani del 1887 il vino italiano fu sostituito da altri vini importati e non da una rinnovata produzione di vini francesi che si ebbe solo dopo diversi anni. La seconda perché il grano dava un reddito unitario assai inferiore a quello delle colture arboree e comunque non aveva richiamato, nel Sud, investimenti paragonabili a quelli effettuati per queste ultime. La terza perché contrasta con una mole ingente di riscontri empirici che mostrano come il mercato meridionale sia stato, dopo il 1887, conquistato dai prodotti settentrionali i quali, come avevano fatto i prodotti franco-inglesi nei decenni precedenti, continuarono a disincentivare con la loro presenza lo sviluppo di manifatture meridionali.In realtà quel che non si può sostenere è che la mancata industrializzazione del Mezzogiorno sia stata dovuta alla politica dello Stato italiano, o a questa in modo determinante, anche se appare inoppugnabile che il grosso del divario nel settore industriale e in quello agricolo - a prescindere dai dislivelli di sviluppo civile effettivamente notevoli - tra Nord e Sud si sia formato dopo l'unità e segnatamente tra il 1861 e il 1915 (v. Pescosolido, Alle origini..., 1996; v. Sylos Labini, 1970, pp. 125-130). Chiuso infatti il mercato nazionale entro la cinta protettiva, il Mezzogiorno non ebbe risorse naturali e risorse umane capaci di contrastare l'industrializzazione settentrionale, e questo a prescindere da qualsiasi intervento dello Stato, anche se un trasferimento di capitali da Sud a Nord negli anni immediatamente successivi all'unità c'era stato. Quel che è impossibile disconoscere sono i danni arrecati al Mezzogiorno dalla guerra commerciale con la Francia, causata da una tariffa che tutelava interessi e prospettive di sviluppo eminentemente dell'Italia centro-settentrionale, e soprattutto la funzione che il Sud svolse di mercato importante per l'industria settentrionale, la quale finché era rimasta confinata entro spazi regionali non aveva imboccato nessuna via di recupero rispetto alle posizioni raggiunte dai paesi industrializzati. Cosa che fece solo quando lo Stato favorì la creazione di quel quadro di compatibilità in cui va iscritto, e non certo all'ultimo posto per importanza, il protezionismo. Un mercato, quello meridionale, che rafforzava le sue capacità di acquisto di prodotti manufatti settentrionali, sia attraverso le esportazioni di prodotti agricoli sia attraverso le rimesse dei suoi emigrati, le quali contribuirono sensibilmente all'equilibrio della bilancia dei pagamenti.
D'altro canto parte degli stessi meridionalisti riconosceva (basti pensare a Francesco Saverio Nitti) che, in funzione dell'industrializzazione, non esistevano per l'Italia alternative al protezionismo; e al protezionismo hanno assegnato un ruolo fondamentale anche storici che non hanno ritenuto del tutto convincenti le critiche 'tecniche' del Gerschenkron. A prescindere dalle ragioni di tipo politico e militare che furono determinanti nella decisione di accordare una protezione anche alla siderurgia, è stato infatti rilevato che gli eventi del secondo dopoguerra, e segnatamente gli sviluppi determinati dal piano Sinigaglia, hanno provato che quella protezione era stata concessa ad un settore che alla fine riuscì a confrontarsi positivamente con la concorrenza europea senza il soccorso di barriere protettive. Inoltre è stato sottolineato che appare abbastanza difficile trovare paesi che abbiano sviluppato una potente industria meccanica senza avere alle spalle di questa una adeguata industria siderurgica. Infine gli studi del Confalonieri (v., 1974-1976; v. anche Pescosolido, 1996³, pp. 29-37) hanno ridimensionato notevolmente il ruolo iniziale della banca mista come fattore principale del decollo dell'industrializzazione italiana, con rivalutazione indiretta degli altri fattori, compresa la politica protezionistica.
Gli aggiustamenti successivi della tariffa del 1887 modificarono l'intensità dell'intervento, i suoi obiettivi settoriali, le modalità tecniche della sua attuazione, ma non abbandonarono mai il principio generale che lo sviluppo industriale di un paese second comer potesse avvenire solo se protetto da una preordinata politica di intervento statale.Il carattere decisamente protezionista della politica economica italiana non fu alterato né dal trattato di commercio con l'Austria, entrato in vigore contemporaneamente alla tariffa, né da quello del 1889 con la Svizzera, né dal mantenimento in vigore di quello con la Germania già sottoscritto nel 1883. E neppure i rinnovi di questi tre trattati nel 1891 e 1892 andarono al di là di un lieve temperamento dei dazi tariffari su alcuni prodotti meccanici particolari (apparecchi dinamo-elettrici, strumenti ottici e fisici in cui non predominasse come materiale costitutivo il ferro) in cambio di una facilitazione ai prodotti agricoli italiani penalizzati dalla chiusura del mercato francese.
Tale indirizzo non mutò neppure in seguito alla normalizzazione definitiva dei rapporti con la Francia, sancita dal nuovo trattato del 1898 negoziato direttamente dal Luzzatti, e neppure dopo la fase di rinnovo del 1904-1906 dei trattati con Austria, Svizzera, Germania, che pure sancì assestamenti importanti all'interno del blocco protezionista e aggiustamenti di rilievo delle strategie commerciali con l'estero.Con i nuovi trattati si prendeva infatti atto della nuova ondata di protezionismo agrario promossa dagli Stati europei, della impossibilità per i vini italiani di sostituire gli sbocchi francesi con quelli austriaci, del ridimensionamento complessivo del ruolo della seta e dei vini nella formazione dell'export italiano a favore di altri prodotti agricoli (agrumi, mandorle, frutta secca e fresca) e, soprattutto, a favore di prodotti industriali (cotonieri ma anche meccanici) che per la prima volta proponevano l'Italia come concorrente sui mercati internazionali, eminentemente del Sudamerica e dell'Europa balcanica. I settori dell'industria leggera aprirono una dialettica interna al blocco protezionista che portò ad una perdita di peso dei cerealicoltori e dell'industria pesante, ma la guerra interruppe questo tipo di evoluzione e impose una fase di controllo pressoché completo dei flussi commerciali.
Dalla guerra uscì una situazione interna e internazionale nella quale le spinte al protezionismo avevano assunto una forza enorme e la nuova tariffa generale, emanata dopo lunghe discussioni per decreto legge nel 1921 e definitivamente tradotta in legge solo nel 1925, fu il frutto di tale clima, poiché manteneva in prevalenza il sistema dei dazi specifici e introduceva, rispetto alla vecchia tariffa, inasprimenti che sono stati valutati tra il 64% e il 115% (Repaci). Né i trattati commerciali che furono sottoscritti a parziale attenuazione di queste condizioni (importanti soprattutto quelli con la Francia, la Svizzera, la Germania, l'Austria, la Spagna, l'URSS) incidevano in misura pari a quelli dell'anteguerra, poiché, a differenza di quelli, avevano una breve durata e contemplavano la possibilità di conservare o ripristinare (in caso di situazioni di eccezionale gravità), i divieti adottati durante la guerra.
Nel 1925 fu reintrodotto il dazio sul grano, fu maggiorato quello sullo zucchero, fu estesa la protezione anche alla carta, alla seta, al riso, al bestiame, alla canapa. Ulteriori inasprimenti relativi a tutta una serie di prodotti specifici furono varati tra il 1926 e il 1927 anche per compensare i danni subiti da molti settori in seguito alla riforma monetaria del 1927.
Tuttavia il sistema protezionista, dopo l'esperienza della guerra, cominciò a valorizzare sempre più gli strumenti di intervento diretto sul volume delle importazioni (divieti, contingentamenti, controlli valutari). La strumentazione alternativa a quella daziaria si affermò anche in Italia per far fronte agli effetti della grande crisi e contrastare le conseguenze della caduta dei prezzi mondiali e della svalutazione delle principali monete sulla bilancia commerciale. Essa trionfò poi pienamente con l'attuazione del regime autarchico.
Al sopradazio istituito nella misura del 15% nel 1931 sul valore delle merci importate non incluse in trattamenti di favore dai trattati in vigore, e comunque con eccezione del grano e di altri prodotti agricoli di base, fece seguito una serie di misure volte a favorire nei modi più disparati le produzioni nazionali (obblighi di impiego almeno di una data percentuale di materiali italiani, istituzione di organismi di difesa dei prezzi, ecc.). Gli effetti sulla bilancia commerciale furono consistenti e rapidi: il deficit si dimezzò tra il 1930 e il 1932. Poi tra il 1932 e il 1934 vi fu una nuova ondata di inasprimenti doganali, seguita dall'introduzione nel 1935 della licenza ministeriale per l'importazione di tutte le merci, con conseguente proliferazione di uffici burocratici di controllo e creazione del Ministero degli Scambi e delle Valute.
L'istituzionalizzazione della difesa delle produzioni nazionali, che di fatto sottraeva le misure di politica economica a qualsiasi discussione da parte di forze ed interessi eventualmente danneggiati o scarsamente tutelati, giustificata con la situazione internazionale specie dopo l'introduzione delle sanzioni contro l'Italia a partire dal novembre 1935, approdò, con il programma di autarchia economica, al pieno controllo da parte dello Stato di tutte le operazioni con l'estero. Tale controllo non venne più meno sino al termine del secondo conflitto mondiale, quando iniziò un'inversione di tendenza nei rapporti commerciali con l'estero che consistette nel progressivo smantellamento di tutta la complessa strumentazione di natura protezionista e dirigista che era stata costruita tra le due guerre, ma che nei suoi indirizzi economici di fondo risaliva alla svolta protezionista degli anni ottanta dell'Ottocento.
Dopo i primi, timidi passi effettuati mediante accordi bilaterali con i Paesi Scandinavi, la Francia, la Spagna per smantellare l'intricatissmo sistema di divieti, vincoli e controlli sopravvissuto alla guerra e ritornare ai soli dazi della tariffa del 1921, sia pure accompagnati dal sistema del clearing e dei contingenti, l'Italia aderì agli accordi di Ginevra del 1947 e di Annecy del 1949. Eliminò quindi il diritto di licenza, introdusse dazi ad valorem per una lista di prodotti concordata ad Annecy, varò infine nel 1950 una nuova tariffa generale che sostituiva quella del 1921.
Comunque non si trattava ancora di un abbandono del protezionismo. Si eliminavano gli strumenti di controllo non daziari eretti dopo il 1921, ma restava in vigore, ed in misura anche maggiore che nel 1921, il sistema dei dazi doganali. Nel 1952, nonostante il ritorno al sistema ad valorem, questi incidevano mediamente sulle importazioni per il 24% contro il 16% del 1925, e su alcuni prodotti la percentuale toccava livelli molto elevati: il 27% per il frumento, il 105% per lo zucchero, dal 28 al 50% per vini e liquori, intorno al 20% per filati e tessuti, dal 20 al 45% per automobili e trattori. Il percorso imboccato aveva tuttavia una direzione inequivocabile, anche se non poche erano le resistenze all'interno del mondo imprenditoriale, assai timoroso di confrontarsi sul libero mercato, specialmente europeo, che peraltro appariva l'unico verso il quale era possibile per l'Italia proiettarsi, stante la chiusura delle altre grandi aree, da quella sovietica a quella africana a quella americana, e stante la pressione esercitata dagli Stati Uniti in direzione dell'integrazione economica europea.
Le tappe fondamentali di questo processo sono note: alla fine del 1946 l'Italia fu ammessa a far parte del Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, nel 1949 aderì all'OECE, nel 1950 all'Unione europea dei pagamenti, nel 1951 alla CECA, nel 1957 al Mercato Comune Europeo. I successivi passaggi dell'integrazione europea, con la nodale sottoscrizione dell'"Atto unico europeo" e le successive tappe di avvicinamento alla creazione di una moneta unica, hanno consolidato e completato una strategia di liquidazione definitiva del protezionismo che fu ideata e realizzata nei suoi capisaldi essenziali nel corso degli anni cinquanta. Vi sono stati anche sopravvivenze e ritorni protezionistici di vario ordine e intensità. Tuttavia si è trattato sempre di un protezionismo applicato al commercio con i paesi extracomunitari e di ripartizione di quote di produzione deliberate e regolamentate in sede comunitaria. Della stessa natura sono le politiche di sostegno dei prezzi agricoli adottate da circa quarant'anni e che risultano peraltro del tutto anacronistiche in un contesto sociale come quello odierno dove il peso della popolazione agricola si è enormemente ridotto: si tratta sempre di misure decise e attuate su scala comunitaria, come i dazi sui prodotti agricoli. Il protezionismo su scala nazionale come strumento di garanzia dello sviluppo economico può dirsi per l'Italia del tutto tramontato già a partire dagli anni cinquanta.
Il passaggio definitivo all'economia industriale avvenuto, nel caso italiano, in questo dopoguerra, è stato dunque realizzato nel segno della progressiva liberalizzazione degli scambi su scala europea e in parte anche extraeuropea. Così come le premesse, i prerequisiti dell'industrializzazione furono posti nella fase liberista del 1861-1880, la quale tuttavia non riuscì a dar luogo ad un vero decollo industriale che avvenne solo in un periodo dominato dal protezionismo.
Queste fasi differenziate non vanno tuttavia viste tanto o solo negli elementi di reciproco contrasto da cui esse furono indubbiamente e prevalentemente connotate, ma anche nei nessi di continuità che le legano e che si spiegano alla luce delle ragioni storiche, interne ed internazionali che furono alla radice del loro succedersi. E al riguardo non sarà del tutto inutile ricordare che lo sviluppo industriale del dopoguerra, sicuramente stimolato dal nuovo quadro di compatibilità creato dal regime di liberalizzazione degli scambi su scala europea e in una certa misura ormai mondiale, ha visto l'industria italiana attestarsi per decenni sul pilastro portante delle produzioni tradizionali a lungo protette dalla politica protezionistica sin dalla fine dell'Ottocento (tessili e metalmeccaniche) e su quello degli assetti tecnici, geografici e sociali creatisi nel corso degli anni trenta, senza mai riuscire ad entrare veramente in competizione nei settori della ricerca avanzata (elettronica, meccanica fine), salvo negli ultimi tempi, e ritrovarsi a subire un duro attacco anche nei settori di forza degli anni del miracolo economico: automobili, elettrodomestici, prodotti chimici, prodotti siderurgici. (V. anche Meridionale, questione).
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