Rappresentanza
Quello della rappresentanza è certamente un tema centrale nella storia delle liberaldemocrazie moderne. Tant'è vero che, quando uno degli autori classici di questa tradizione come Benjamin Constant ha voluto contrapporre la "libertà dei moderni" a quella "degli antichi", il governo rappresentativo gli è apparso come uno degli elementi fondamentali di questa distinzione (v. Constant, 1819). E per denotare queste esperienze politiche si usano correntemente termini quali representative government (v. Mill, 1861), democrazia rappresentativa (v. Sartori, 1968), sistemi rappresentativi. È altrettanto indubbio che in questo contesto, quando si parla di rappresentanza, si fa riferimento a ben precise istituzioni e procedure. In primo luogo si tratta delle assemblee parlamentari formate per via elettiva, ma in alcuni sistemi, quali quelli presidenziali o semipresidenziali, si deve aggiungere la carica del capo dello Stato eletto a suffragio popolare, che riunisce in sé anche le funzioni di capo dell'esecutivo.
Se è vero dunque che si possono caratterizzare le moderne forme democratiche di reggimento politico proprio in forza della centralità di questo aspetto specifico e pertanto la qualificazione 'rappresentativa' appare rilevante per distinguerle rispetto a esperienze politiche sia del passato (i governi assoluti in primo luogo, ma anche la democrazia degli antichi fondata sulla partecipazione diretta) che del presente (come i regimi autoritari e totalitari), i problemi che immediatamente si aprono sono non pochi. Da un lato ci sono naturalmente i problemi interni alla stessa esperienza moderna della rappresentanza. Che cosa sta veramente a significare il concetto di rappresentanza? Che la rappresentanza implichi un rapporto tra rappresentante/i e rappresentato/i è abbastanza evidente; ma non pochi sono gli interrogativi che sorgono appena si comincia a indagare sulle premesse, la natura e le modalità di svolgimento di questo rapporto. E altrettanto vale se si sposta l'attenzione sui due poli del rapporto rappresentativo: chi o che cosa viene rappresentato (individui, gruppi, interessi, opinioni, la comunità politica nel suo complesso o sue sottodivisioni)? e chi o che cosa è il soggetto che rappresenta (i singoli parlamentari, i partiti e aggregazioni di vario tipo o il parlamento nel suo complesso)? D'altra parte, se allarghiamo lo sguardo oltre i confini di questa esperienza politica, certamente assai rilevante ma anche delimitata nel tempo e nello spazio, troviamo che il concetto di rappresentanza ricorre anche in contesti molto diversi da quello al quale abbiamo fatto riferimento. Si pone quindi il problema di capire meglio come la rappresentanza politica moderna, se così la vogliamo per semplicità chiamare, si leghi a questi altri fenomeni rappresentativi e alle tematizzazioni relative. Esistono nessi significativi oppure si tratta di fenomeni e concetti tra loro incommensurabili? Possiamo parlare di un genus rappresentativo più ampio all'interno del quale esistono sottospecie diverse delle quali appunto la rappresentanza moderna - per quanto importante - non sarebbe che una? E tra queste sottospecie esiste un rapporto evolutivo oppure il collegamento è dato da sovrapposizioni parziali, come possono suggerire alcune analisi che individuando diverse sfaccettature del concetto di rappresentanza suggeriscono la possibilità di combinazioni multiple (v. Pitkin, 1967)? Oppure dobbiamo rassegnarci ad ammettere che la stessa parola viene utilizzata per denotare realtà politiche senza relazioni tra loro?Per tentare di dare una risposta a questi interrogativi conviene partire da una ricognizione a largo raggio dell'utilizzazione del concetto di rappresentanza. È facile allora accorgersi che questo termine evoca alcuni tra i temi principali che attraversano la realtà e la riflessione politica della civiltà occidentale. Sono in gioco tanto l''invenzione' delle forme concrete dell'organizzazione politica che la riflessione sul significato e sulle giustificazioni dell'agire politico. Si tratta inoltre di un tema che viaggia attraverso un arco temporale molto esteso, con fasi di evidenza, di declino, ma anche con ritorni nell'ambito di contesti per molti aspetti profondamente cambiati. Abbastanza comprensibilmente si tratta di un concetto soggetto a notevoli "stiramenti del significato" (v. Sartori, 1970) e quindi anche ricco di ambiguità, polisensi, contraddizioni. Non è da stupirsi quindi se si sia cercato di qualificarlo in vario modo per esempio distinguendo tra rappresentanza moderna e medievale (v. Sartori, 1968), tra rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi (v. Duso, 1988; v. Scalone, 1996), tra rappresentanza pubblicistica e rappresentanza privatistica, tra rappresentanza democratica e non democratica. Oppure si sia fatto ricorso a termini diversificati come quando si propone di distinguere tra rappresentazione e rappresentanza (v. Duso, 1988), tra Repräsentation e Vertretung (v. Leibholz, 1929; v. Schmitt, 1928).
Occorre notare anche che, a differenza di altri termini che nella sfera dell'esperienza politica trovano il loro ambito esclusivo (o assolutamente predominante) di applicazione, la parola rappresentanza e tutta la terminologia collegata hanno una utilizzazione che si estende ben oltre quella sfera. Pur con alcune variazioni tra le diverse aree linguistiche europee, si possono citare gli ambiti del diritto (nelle sue diverse branche, da quella privatistica a quella processuale, a quella internazionale), delle arti figurative (pittura, ecc.), dello spettacolo (teatrale, ecc.), ma anche della teologia (cristiana). E si dovrebbe ricordare che il termine 'rappresentativo' ricorre anche in alcuni linguaggi scientifici, come quello statistico (campione rappresentativo).
Di particolare (anche se non esclusiva) rilevanza per la messa a fuoco del concetto politico di rappresentanza è stata certamente l'esperienza giuridica. Le ragioni di questa rilevanza stanno nel fatto che la prassi e il linguaggio giuridico per la loro natura stessa definiscono con precisione e attenzione ai dettagli i rapporti tra soggetti. Le situazioni nelle quali un soggetto non può o non vuole agire direttamente e un altro soggetto agisce al posto suo e tutti i problemi che ne derivano in ordine ai poteri, doveri e responsabilità dei due soggetti e agli effetti delle azioni del secondo hanno notevole importanza nella sfera del diritto non appena la vita sociale ed economica acquista un certo grado di complicazione. La sfera del diritto ha quindi potuto fornire strumenti concettuali molto elaborati per descrivere e interpretare relazioni sociali alle quali, con una interpretazione più o meno estensiva, si può applicare l'etichetta di rappresentanza. I poteri, i doveri e la legittimazione del rappresentante, i poteri del rappresentato, la natura del vincolo tra i due soggetti sono tutti aspetti sui quali la dottrina giuridica si è soffermata a lungo. E l'esperienza politica vi ha attinto ampiamente quando ha dovuto affrontare i problemi cruciali dei rapporti tra governanti e governati. Naturalmente sulla trasferibilità dell'esperienza giuridica a un tema altamente politico come quello qui in discussione possono essere sollevati dei dubbi, e infatti così è stato. La elaborazione giuridica in materia di rappresentanza si è sviluppata prevalentemente (anche se non esclusivamente) con riferimento alla sfera privatistica, mentre la rappresentanza politica ha a che fare con la sfera del pubblico, dello statale. Per quegli orientamenti culturali che hanno sottolineato l'incommensurabilità tra queste due sfere sarebbe inevitabilmente incolmabile anche il fossato tra rappresentanza giuridica e rappresentanza politica (v. Leibholz, 1929; v. Duso, 1988). Le due esperienze non potrebbero che essere radicalmente diverse (v. Bluntschli, 1885; v. Schmitt, 1928). Questa posizione tuttavia mostra oggi ampiamente i suoi limiti. La contrapposizione tra Stato e società alla quale essa si collega appare tutt'altro che scontata e più di carattere normativo che empirico-descrittiva; essa inoltre è da ritenere legata a una fase storica e a una prospettiva culturale nell'ambito delle quali lo Stato sembrava poter e dover assurgere a una dignità (anche etica) assolutamente sovraordinata rispetto a quella delle altre realtà sociali. In realtà i confini tra Stato e società, tra pubblico e privato appaiono oggi assai più incerti e confusi, e sembra quindi anche meno incommensurabile lo iato (cfr. Bluntschli, cit. in Schmitt, 1928; tr. it., p. 276) tra rappresentanza giusprivatistica e giuspubblicistica e in generale tra rappresentanza giuridica e politica. E d'altra parte non è stato così anche per lunghi periodi della storia europea?
Detto questo non si possono certo dimenticare le peculiarità dell'esperienza politica. La dimensione collettiva o ancor più comunitaria, il problema dell'identità e unità della polity sono tutti aspetti di primaria importanza quando si entra nella sfera della politicità. Non è un caso quindi che vi giochi un ruolo di tutto rilievo la dimensione simbolica. Per 'costruire' identità e unità della comunità, oltre ai ben calibrati strumenti normativi offerti dal diritto, sono necessari i simboli e le potenti emozioni che questi ultimi sono capaci di generare. Si comprende perciò che, quando si entra in questa dimensione e nei problemi della sua interpretazione, il linguaggio della politica tenda ad attingere anche ad altre esperienze che sono più vicine a quelle esigenze. Altre accezioni del concetto di rappresentanza, come quelle di raffigurazione, evocazione simbolica, rappresentazione acquistano rilievo in questa prospettiva. E gli scambi si fanno più intensi con i linguaggi della teologia, delle arti figurative e di quella drammatica.
Dall'epoca classica alla fase preassolutistica.Per dar conto di tutta la complessità della problematica della rappresentanza occorre seguire una duplice linea di indagine che esamini da un lato le vicende del concetto e delle riflessioni che intorno al suo significato sono state compiute, dall'altro lo sviluppo delle forme politiche concrete che alle idee di rappresentanza si sono ispirate. Questa esplorazione richiede di analizzare, seppure per sommi capi, una lunga vicenda che sta alle spalle della rappresentanza moderna e di vagliare in che misura questo passato sia preterito o invece abbia fornito materiali che sono stati riutilizzati in epoca moderna e contemporanea. Più che una ricostruzione strettamente etimologica della vicenda della parola, interessa quindi delineare lo sviluppo storico di un concetto. In proposito c'è subito da segnalare un problema. Se guardiamo all'indietro partendo dalla gamma di significati che oggi connettiamo alla parola rappresentanza scopriamo che non tutti in passato sono stati 'coperti' da questa parola, bensì da altre terminologie. Viceversa significati connessi in passato al termine rappresentanza possono ormai essersi perduti o comunque distaccati da quella parola.Le origini della parola e i primi sviluppi concettuali ci riportano al mondo romano. Nella lingua latina il senso più antico della parola repraesentare sembra essere stato quello di impersonare o raffigurare. Si riferiva, per esempio, al rendere visibile, presente un'astrazione attraverso un oggetto o un'immagine. Il termine rappresentare non era invece utilizzato nel mondo romano classico nel senso giuridico dell'agire al posto di qualcuno. Anzi si discute addirittura se nel diritto romano la sostanza stessa di questo concetto sia esistita. Una dottrina consolidata lo ha negato richiamandosi al divieto di agere alterius nomine, cioè di stipulare contratti a nome e per conto di un terzo (dunque di rappresentarlo), divieto richiamato esplicitamente tra le regulae iuris antiqui del Digesto. In realtà, letture più attente di quella realtà giuridica ritengono che una simile regola, quand'anche sia stata originariamente vigente, debba aver ceduto il posto nella prassi a usi diversi, come d'altronde ci si può attendere sulla base delle esigenze di una vita economica divenuta vieppiù complessa (v. Quadrato, 1987). La possibilità di acquistare attraverso altra persona, che dunque agiva al posto dell'interessato, venne nei fatti riconosciuta ed estesamente utilizzata. Lo sviluppo della figura del procurator si iscriveva in questa linea. E, d'altra parte, esisteva una consolidata concettualizzazione circa il ruolo, che noi chiameremmo 'rappresentativo', dell'avvocato in giudizio. Le espressioni in uso in questo campo (intervenire e respondere) sono in origine diverse dalla nostra terminologia, tuttavia con il tempo il termine repraesentare verrà esteso a questo significato. Rappresentare acquisterà dunque il significato di agire, stare in giudizio al posto di qualcuno.
Se dal mondo romano ci spostiamo in avanti a quello cristiano e medievale troviamo significativi e plurimi sviluppi nell'utilizzazione del concetto di rappresentanza. Molto rilevante è il filone teologico: qui il termine ricorre con frequenza in connessione con le complesse controversie interpretative sul rapporto tra il sacrificio eucaristico della messa e quello del Cristo. In questo campo si possono segnalare ad esempio le formulazioni di Tommaso d'Aquino, che avranno un'ampia eco e saranno poi riprese dal Concilio di Trento. Nella messa viene 'rappresentata' la passione del Signore. Rappresentare qui significa rinnovare, render presente ciò che è successo in un altro momento storico. Il termine viene dunque utilizzato per denotare una relazione tra due eventi. Sul significato di questa relazione (pura rievocazione e raffigurazione o invece assai più pregnante rinnovazione dell'evento originario) si sono, come è noto, combattute per secoli in Europa le più aspre battaglie teologiche. Ma nella Chiesa medievale il termine 'rappresentare' veniva utilizzato anche frequentemente per descrivere la relazione tra il papa e Cristo e tra i vescovi e gli apostoli (v. Pitkin, 1967, pp. 241-242). Il papa e i vescovi raffigurano (stanno al posto di) Cristo e gli apostoli.
Altrettanto interessante è tutta l'elaborazione che sul tema della personalità giuridica avviene nel periodo medievale tanto in campo ecclesiastico che civile. Il concetto di rappresentanza, attraverso la costruzione mentale della persona repraesentata, è utilizzato per interpretare una qualsivoglia collettività (una città, un popolo, la Chiesa stessa) come una entità unitaria, cioè come una persona in senso figurato. In questo modo diventa concepibile attribuire all'ente collettivo i poteri giuridici degli individui. E, d'altra parte, si comincia a parlare dei magistrati di una comunità come dei rappresentanti della comunità stessa, nel senso che essi 'impersonano' la comunità (v. Hofmann, 1974, pp. 132 ss.).Ma, accanto a queste concettualizzazioni nelle quali spicca l'aspetto figurativo-simbolico ed è in gioco essenzialmente la questione dell'identità del rappresentante e del rappresentato, nel linguaggio giuridico medievale la terminologia rappresentativa ricorre anche quando si vogliono affrontare problemi che hanno a che fare con il compimento di atti giuridici per interposta persona e con l'imputazione degli effetti di questi. Sul piano privatistico Bartolo da Sassoferrato afferma che il "procurator repraesentat personam domini" e che i diritti derivanti dall'atto compiuto dal procuratore vengono in questo modo immediatamente acquisiti dal terzo, il dominus (Commentaria. Tomus quintus, in primam digesti novi partem, 1590). Rappresentare, in analogia a quanto vale in sede processuale, significa dunque sostituire e 'rendere presente' qualcuno come soggetto di diritto. In collegamento con questo discorso si sviluppa una importante elaborazione concettuale che riguarda la rappresentanza di entità impersonali (corporatio, universitas, civitas) in una sfera che spazia quasi senza soluzione di continuità tra diritto privato e pubblico. Si veda ad esempio la frase di Alberico da Rosate: "magistratus repraesentat civitatem quem regit" (v. Hofmann, 1974, p. 162 n.). Interessante è qui il paragone con il tutore e il pupillo: come il minore incapace di agire viene sostituito dal tutore, lo stesso vale per una civitas e i suoi amministratori ("administratoribus equiparantur tutores"). Rappresentanti sono coloro che hanno l'autorità di agire al posto di chi non può agire (come appunto una corporatio, una collettività di cittadini). In questo spirito Marsilio da Padova, quando nel Defensor pacis discute il potere di fare leggi, propone una commissione i cui membri sarebbero appunto "vicem et auctoritatem universitatis civium repraesentantes" (v. Hofmann, 1974, p. 209).
In questa elaborazione il concetto di rappresentanza implica spesso, accanto all'attribuzione dell'autorità di agire al posto di qualcuno, una vera e propria identificazione tra i due termini della relazione, l'organo rappresentante e il rappresentato. Bartolo per esempio sostiene a più riprese che il consiglio elettivo di una città rappresenta (cioè corrisponde al) l'intero popolo o, ancor più icasticamente, che "consilium repraesentat mentem populi". Questo elemento acquista una rilevanza particolare nella riflessione medievale sul principio di maggioranza. Poiché nella dottrina relativa alle corporazioni e in specie in quella canonistica vale il principio che le decisioni valgono se approvate con il consenso di tutti, si ammette che la maggioranza assoluta o qualificata possa decidere per il tutto proprio in quanto si sostiene che la maggioranza o sanior pars 'rappresenta' la totalità (v. Hofmann, 1974, p. 224). Quando la maggioranza opera è dunque come se agisse la totalità dei componenti. Allo stesso modo nell'ambito dell'elezione imperiale si afferma nel XIV secolo l'idea che gli elettori possono decidere a maggioranza proprio in quanto rappresentano (nella logica corporativa) l'Impero interpretato come universitas. Si riconosce che il collegio degli elettori rappresenta l'intero corpo dei principi e del popolo soggetti all'Impero e agisce al loro posto in quel determinato contesto storico (cfr. Lupold von Bebenburg, De iuribus regni et imperii Romanorum, 1340).
In questa prospettiva il concetto di rappresentanza non implica necessariamente un mandato conferito dal rappresentato al rappresentante. Il rapporto è interpretato piuttosto, in un'ottica organicistica, come quello tra il capo e il corpo; dove la parte sta per l'intero. Anche in tutta la discussione sull'autorità del papa e del concilio nella Chiesa (da Ockham a Nicola Cusano) è più o meno questo il senso nel quale si dice che il papa e i concili rappresentano la Chiesa.Il concetto di rappresentanza viene usato anche per fondare il rango e la dignità di coloro che occupano determinate cariche. In ambito ecclesiastico per affermare il rango del papa e dei cardinali si dice che il papa "repraesentat personam Christi" e i cardinali sono "repraesentantes personas sanctorum apostolorum" (v. Hofmann, 1974, p. 169). In ambito secolare lo stesso discorso vale per gli inviati diplomatici e per lo status e gli onori a essi dovuti. La dignità degli ambasciatori viene fatta derivare dal fatto che essi rappresentano la dignità di colui (il sovrano) che li ha inviati. In qualche modo anche qui è in gioco un rapporto di identificazione simbolica tra i due termini del rapporto.Come si è visto, seppur per sommi capi, ci troviamo di fronte a un'ampia elaborazione del concetto di rappresentanza che spazia attraverso ambiti molto vari della vita associata. I problemi cruciali che sono in gioco sono quello di come si possa render presente qualcosa o qualcuno che non è presente, quello della personalità giuridica di un ente collettivo e la questione dell'autorità ad agire in nome di un ente collettivo da parte dei suoi magistrati. Prevalgono dunque problemi di identità e di impersonazione da un lato, di autorizzazione dall'altro.
Se dunque il concetto di rappresentanza nasce e si sviluppa con un ambito di applicazione che va ben al di là della sfera delle istituzioni parlamentari e delle relative procedure elettive alla quale associamo oggi prevalentemente la rappresentanza politica, dobbiamo d'altro canto ricordare che in gran parte dei paesi europei, proprio a partire dall'epoca medievale, si sviluppano significativi esempi di assemblee parlamentari. E se queste in molti casi moriranno o deperiranno in coincidenza con l'avvento dell'epoca assolutistica, in altri casi invece (Inghilterra, Paesi Bassi, Svezia) riusciranno a giungere sino alle soglie degli ordinamenti parlamentari moderni, mettendo in luce come la discontinuità tra parlamentarismo moderno e premoderno non abbia nulla di scontato e necessario ma sia in realtà solo una delle possibili linee di sviluppo della storia politica europea (v. Rokkan, 1970). Occorre dunque vedere in che misura il parlamentarismo premoderno si colleghi alle concezioni rappresentative che si sono citate.La configurazione istituzionale dei parlamenti premoderni mostra immediatamente l'importanza cruciale che vi ha il problema della 'raffigurazione' del corpo sociale, come strumento per rendere presente e partecipe alle decisioni la comunità politica nel suo complesso. La generalizzata articolazione dei parlamenti medievali in una pluralità di corpi (anche se poi con una notevole varietà da paese a paese nelle forme specifiche) è un segno chiarissimo dell'esigenza preminente di riflettere nell'istituzione la multiformità di articolazioni della società premoderna. Clero, nobiltà, gentry delle contee, ceti borghesi delle città libere, ecc., si rispecchiano nei parlamenti attraverso rappresentanti che ne condividono l'identità sociale. Questo punto è confermato con altrettanta chiarezza dalle riflessioni condotte dai contemporanei su queste istituzioni. Se, per esempio, consideriamo l'ambito inglese, che certo ha alle spalle una delle esperienze parlamentari tra le più significative e continue, troviamo frequenti spunti di riflessione che interpretano appunto il parlamento come il luogo dove l'intera comunità nazionale (la communitas regni Angliae) è resa presente. Il parlamento nella sua multiforme composizione, che vede presenti tutti gli ordini della società, 'rappresenta' l'intera nazione in quanto, secondo l'espressione dell'autore elisabettiano Richard Hooker, costituisce appunto "the body of the whole realm". Con la presenza in persona dei magnati (i lords) o per procura del resto della popolazione (i commons) il parlamento consente che tutti siano parte delle decisioni (cfr. Thomas Smith, De Republica Anglorum, 1583). Dunque rappresentare significa prima di tutto 'rendere presente', permettendo così di realizzare quel consenso di tutti che nell'ottica tradizionale preassolutistica vale a legittimare le decisioni. In questo senso è il parlamento nel suo insieme che sta per il corpo politico nel suo insieme.
Accanto all'interpretazione del parlamento nella sua globalità c'è però da soffermarsi anche su un ulteriore aspetto, cioè la realtà dei rapporti tra i membri delle 'camere basse' e le singole comunità che i primi, usando la terminologia odierna, rappresentano. Questo rapporto, soprattutto nell'epoca più antica, assume un significato ed è interpretato in un senso che si avvicina molto a quello del nesso tra la parte e il suo avvocato nella realtà processuale. I deputati sono visti come procuratori e avvocati delle comunità, come coloro che agiscono al loro posto. In quanto tali i rappresentanti delle comunità locali (città, boroughs e shires) contribuiscono ad assicurare che le decisioni prese in parlamento abbiano pieno valore e vincolino ognuno proprio perché ognuno è reso presente là dove si è deciso. Proprio in vista di questa funzione nei decreti di convocazione dei commons inglesi era in genere inserita la clausola della plena potestas: i rappresentanti dovevano poter impegnare alle loro decisioni chi li aveva inviati (v. Edwards, 1934).Solo in tempi relativamente recenti la parola rappresentanza viene utilizzata in Inghilterra per distinguere tra i lords che sono presenti 'in persona' nel parlamento e i commons che sono presenti invece 'per rappresentanza' (cfr. Edward Coke, Institutes of the laws of England, 1628-1644). E la parola 'rappresentante' per indicare il singolo parlamentare appare grosso modo verso la metà del 1600. Ne deriverà piano piano la tendenza a contrapporre i commons come il corpo rappresentativo di tutto il paese (e non più di una sola componente) ai lords che sono invece solo particular persons (v. Pitkin, 1967, pp. 248-249). In queste notazioni si possono vedere riflessi i primi passi di un cammino che farà progressivamente prevalere il significato processuale della rappresentanza centrato sul ruolo delle elezioni rispetto alle visioni organicistiche del passato. In altre esperienze parlamentari del continente, come per esempio nell'area germanica, questa trasformazione incontra invece ostacoli maggiori. Mentre in Inghilterra già in epoca elisabettiana sembrava del tutto scontato che ciascuno - o in persona o attraverso rappresentanti - fosse presente nel parlamento, in Germania invece questo sentimento non appare così chiaro: i componenti delle diete provinciali (Landstaende) si sentono rappresentanti del paese in forza dei loro diritti signorili. Più che agenti e rappresentanti della popolazione 'sono' essi il popolo.
Dal ruolo che le istituzioni parlamentari hanno come fattore di limitazione del potere del monarca deriva un ulteriore significato dell'attributo rappresentativo. Coniugandosi con il termine governo per formare l'espressione 'governo rappresentativo' esso viene a definire una forma di reggimento politico moderato, limitato in contrapposizione al governo dispotico. Non a caso questo significato viene precisandosi proprio nella fase storica nella quale l'ascesa delle monarchie assolute prospetta l'emergere di concentrazioni di potere quali in passato non si erano conosciute se non saltuariamente. In particolare questo punto di vista ricorre con frequenza nel pensiero dei monarcomachi tra la fine del Cinquecento e il Seicento.
In relazione a questa fase storica merita di essere ricordata la figura di Altusio che, nella sua analisi delle costituzioni dello Stato e della Chiesa (Politica methodice digesta atque exemplis sacris et profanis illustrata, 1603), utilizza ampiamente il concetto di rappresentanza ricorrendo a tutta la varietà dei suoi significati. Da un lato si rifà infatti alle concettualizzazioni di matrice corporativa secondo le quali le magistrature rappresentano (nel senso che 'agiscono per') la comunità e ne raffigurano l'identità. Con riferimento alla Chiesa egli parla del presbiterium come di un collegio che rappresenta tutta la Chiesa in quanto ne è quasi una epitome o compendium (quindi rappresentanza come rispecchiamento della realtà rappresentata). Ma più interessante ancora è la trattazione che riguarda l'ordo secularis. In proposito Altusio facendo riferimento alle assemblee dei tre stati sottolinea come i rappresentanti siano delegati ciascuno dal proprio stato con un mandato e istruzioni per curare gli interessi particolari di quell'ordine. I delegati dovranno poi rendere ragione 'a casa propria' di ciò che hanno fatto. Infine ciascun ordine esprimerà un solo voto e il collegio dopo aver deliberato deciderà a maggioranza. Molti sono i punti interessanti toccati. In primo luogo troviamo chiaramente formulati l'idea di un mandato vincolante, al quale i deputati sono sottoposti, e il principio della responsabilità dei delegati nei confronti dei rappresentanti. Tuttavia si precisa anche che questo mandato non dovrebbe escludere uno spazio deliberativo per l'assemblea e quindi margini di autonomia per i rappresentanti. Ma come ci si deve aspettare in una società basata su ceti invece che su individui la maggioranza per decidere sarà determinata da un voto 'per ordine' e non 'per testa'. Infine ci si deve ricordare che nella visione di Altusio la rappresentanza non è esaurita dagli 'stati' e dai loro organi assembleari; secondo un modello prettamente dualistico essa è esercitata anche dai governanti (re, imperatori, ecc.) in quanto reggitori dello Stato nella sua unità. La duplice rappresentanza acquista dunque valore anche come strumento di controllo reciproco (v. Hofmann, 1974, pp. 358 ss.).
Un tentativo di bilancio della fase premoderna della rappresentanza dovrebbe dunque evidenziare come all'ampia elaborazione teorica del concetto di rappresentanza corrisponda anche un significativo sviluppo di istituzioni parlamentari alle quali si applicano i diversi significati di quel concetto. Ma, come hanno messo in luce molti studiosi, il parlamentarismo e la rappresentanza premoderna non sono riducibili a un unico modello standardizzato (v. Hintze, 1930; v. Cam, 1953; v. Koenigsberger, 1977). Accanto ad alcuni elementi di fondo che accomunano le diverse forme ce ne sono altri che invece ne evidenziano le differenze. Per esempio, l'elemento del mandato imperativo sul quale spesso si è concentrata l'attenzione per caratterizzare la rappresentanza premoderna rispetto a quella moderna non sembra essere stato affatto così tipico. Accanto a casi, come le Province Unite dei Paesi Bassi, nei quali il mandato imperativo pare essere stato effettivamente la norma, ce ne sono altri, come l'Inghilterra, nei quali invece i parlamentari godevano di una ben più ampia libertà rispetto alle loro comunità locali (v. Koenigsberger, 1977, p. 68). E anche riguardo alla preminenza della base cetuale occorre prestare attenzione all'esistenza di variazioni. Mentre, soprattutto sul continente, questo elemento tende in genere a caratterizzare fortemente la rappresentanza parlamentare, è stato messo in luce come in Inghilterra (v. Cam, 1953), ma forse anche nella Francia del Quattrocento (v. Major, 1960), la dimensione territoriale non fosse così chiaramente subordinata rispetto a esso. Ciò che meglio distingue la rappresentanza premoderna da quella moderna è, sul fronte dei rappresentati, la mancanza di una cittadinanza sufficientemente unificata e omogenea alla quale far riferimento, mentre sul fronte dei rappresentanti vanno menzionati il grado inferiore di stabilità e continuità istituzionale dell'organo rappresentativo e la minore certezza delle procedure che legano rappresentati e rappresentanti. La necessità di un'elezione dei rappresentanti non è così scontata come apparirebbe oggi. I rappresentanti possono essere tali anche in forza degli uffici che esercitano, del loro prestigio, di meccanismi di cooptazione e, non ultimo, per eredità.
La fase assolutistica che investe la storia europea tra Seicento e Settecento (anche se non con lo stesso impatto in tutti i paesi) presenta un'importanza non piccola per la nostra questione. Da un lato essa introduce con tutta evidenza una cesura: nella maggioranza dei paesi europei le vecchie forme di rappresentanza parlamentare sviluppatesi nei secoli precedenti saranno schiacciate o svuotate al punto che il cammino della rappresentanza non potrà successivamente riprendere che su basi assai diverse dal passato. D'altro canto anche in questa fase il concetto di rappresentanza non viene del tutto abbandonato nelle teorizzazioni del nuovo modello di governo; anzi, riceve nuovi sviluppi di non trascurabile importanza. Sul piano dei fatti l'affermarsi dell'assolutismo regio significa indubbiamente la sconfitta delle istituzioni parlamentari, che così chiaramente esprimevano il particolarismo e pluralismo del corpo politico dell'epoca precedente, a vantaggio di un potere monarchico e 'statale' centralistico e tendenzialmente sovraordinato a ogni altro. Sul piano teorico esso significa anche un'estesa rielaborazione dei concetti politici, in particolare per quello che riguarda natura, legittimazione e significato del potere del sovrano, ma anche i suoi rapporti con il paese. In questa prospettiva i vari significati della parola rappresentanza che abbiamo incontrato in epoche precedenti subiscono una profonda trasformazione.Come si è visto, era abbastanza comune nella fase preassolutistica interpretare il ruolo dei titolari delle cariche pubbliche e anche del re, in quanto sommo magistrato, come il ruolo di chi è autorizzato ad agire al posto della comunità, il cui potere è quindi delimitato da questa funzione. Inoltre dominava l'idea che per raffigurare il corpo politico nella sua interezza e per esprimerne il consenso fosse necessaria la presenza congiunta del sovrano e di organismi parlamentari di rappresentanza delle diverse componenti del paese secondo la formula del king in parliament. Con l'affermazione pratica e teorica dell'assolutismo prevale invece nettamente quella dottrina monarchica, peraltro già presente da tempo ma prima incapace di affermarsi completamente, secondo la quale il sovrano e lui soltanto rappresenta/impersona il corpo intero della nazione e riunisce nella sua persona la maestà della nazione. "Le souverain represente sa nation [...] réunit en sa personne toute la majesté qui appartient au corps entier de la nation", nota un autore di questo periodo come Emmerich de Vattel (Le droit des gens ou principes de la loi naturelle, 1758, vol. I, cap. 4). In questa prospettiva si afferma il principio che il sovrano è superiore non solo ai singoli componenti del popolo ma anche al popolo nel suo insieme, contraddicendo quelle dottrine precedenti per le quali valeva il primo punto ma non il secondo. E il divario rispetto al popolo diventa ancora più netto quando si afferma che i re sono i rappresentanti sì, ma della maestà divina, e sono deputati dalla Provvidenza a eseguirne i disegni (cfr. J.B. Bossuet, Politique tirée des propres paroles de l'Ecriture Sainte, 1709, vol. III).
Il distacco dai modelli preassolutistici si accresce con lo svilupparsi dell'idea della personalità dello Stato. In questa visione il popolo reale perde sempre più ogni sua identità autonoma - che invece era presente nel vecchio schema antropomorfico corpus-caput, nel quale al popolo in quanto corpus restava pur sempre una sua realtà specifica (v. Hofmann, 1974, p. 381) - e si riduce a null'altro che a essere il substrato dello Stato.È interessante notare che il grande teorico dell'assolutismo, Hobbes, utilizza esplicitamente la nozione di rappresentanza per connotare il rapporto tra sovrano e popolo. Nel Leviatano, sulla base di un'estesa discussione del concetto di persona (naturale e artificiale) e dell'autorità ad agire al posto di un'altra persona, egli interpreta la rappresentanza come l'agire, autorizzato, al posto di un'altra persona. La rappresentanza (e l'autorità) politica nascono in forza del contratto originale che autorizza un sovrano o un'assemblea a compiere tutte le azioni che sono necessarie per assicurare la convivenza pacifica. Per Hobbes il rappresentante ha certamente dei doveri, relativi alla cura del benessere dei rappresentati, però a essi non corrisponde un potere dei rappresentati di far valere delle pretese nei confronti del sovrano. La rappresentanza si esaurisce quindi nel rapporto di autorizzazione (v. Pitkin, 1967, pp. 34-37) e non comporta un rapporto di responsabilità. La ragione fondamentale di questa assoluta asimmetria del rapporto rappresentativo affonda nella visione hobbesiana secondo la quale l'unità del popolo si realizza solo attraverso colui (singolo o assemblea) che rappresenta. L'unità del popolo non è già presente nei rappresentati, che sono moltitudine informe, ma è prodotta dal rappresentante (Leviatano, 1651, cap. 16). Si arriva quindi a dire che solo nel rappresentante il rappresentato veramente esiste: rex est populus. La rappresentanza acquista pertanto in questa prospettiva un significato del tutto particolare. È la rappresentanza (per Hobbes realizzata per eccellenza dal monarca) che costituisce il corpo politico, la civitas. Ma se è così, il rapporto tra rappresentante e rappresentato è del tutto squilibrato a favore del primo e tra rappresentato e suddito non appare esserci contraddizione.
È certo un po' paradossale (rispetto alle forme politiche del passato e anche a quelle che verranno dopo) notare che il concetto di rappresentanza viene utilizzato per legittimare il potere monarchico anche nel momento in cui questo sembra riuscire a liberarsi dai vincoli delle vecchie istituzioni rappresentative, e cioè di quei meccanismi che in passato 'rendevano presenti' in un modo o nell'altro nelle sedi di governo le diverse componenti della società. La rappresentanza viene quindi a perdere quel significato di rappresentazione quasi visuale del corpo sociale che aveva nel parlamentarismo cetuale e si collega invece all'idea di uno Stato come persona morale e come entità unitaria nettamente trascendente i particolarismi del suo substrato sociale. Solo così è possibile utilizzare ancora questo concetto. Ma ovviamente in questa prospettiva è inconcepibile l'idea che il rappresentante sia legato da un mandato (più o meno vincolante) dei rappresentati.Quello che è importante ai fini degli sviluppi futuri non è comunque tanto che si sia fatto ricorso alla terminologia rappresentativa per legittimare la monarchia assoluta, ma che ciò sia avvenuto nel contesto di una trasformazione profonda - sia sul piano della realtà fattuale che delle interpretazioni di questa - del corpo politico, cioè dell'oggetto della rappresentanza. Il processo di omogeneizzazione-unificazione della comunità politica che avviene sotto la monarchia assoluta attraverso lo sviluppo degli apparati amministrativi centrali, ma anche grazie all'affermarsi di una concettualizzazione altamente unificante come quella connessa all'idea di Stato (persona), consegnerà agli sviluppi futuri della rappresentanza un oggetto in larga misura inedito.
Se dunque anche l'assolutismo aveva pescato nel pozzo concettuale della rappresentanza, non si può dire tuttavia che questo tema avesse assunto un ruolo preminente nel caratterizzare e legittimare tale regime politico. Altri temi, in particolare quello dell'unicità e supremazia della sovranità statale, avevano acquisito un peso ben maggiore, tant'è vero che la bandiera della rappresentanza potrà riproporsi in grande stile proprio in opposizione all'assolutismo monarchico. La rivendicazione e poi l'affermarsi di istituzioni rappresentative costituiscono proprio uno dei fattori e la manifestazione principale del tramonto di quel regime politico. D'altra parte che il governo rappresentativo sia stato interpretato come la forma di governo antiassolutistica per eccellenza è attestato dal diffondersi dell'uso di questa espressione proprio con questo specifico significato (da Constant a Stuart Mill). Come nel Medioevo si contrapponeva il dominium politicum et regale al dominium regale, così in epoca moderna si contrappone il governo rappresentativo al governo assolutistico. Allo stesso tempo, però, si deve rimarcare che alcune problematiche interne alla rappresentanza moderna costituiscono una continuazione di elaborazioni dell'epoca dell'assolutismo e sono una conseguenza proprio della cesura che questa ha prodotto rispetto al periodo della rappresentanza premoderna.Sul piano fattuale l'avvio della vicenda della rappresentanza moderna è abbastanza semplice. Più complessa è invece l'interpretazione dei suoi significati. Quanto al primo aspetto è facile rilevare che, nel periodo che va dagli ultimi decenni del Settecento alla prima metà dell'Ottocento, la contestazione del potere assoluto dei monarchi in Europa e del potere coloniale (assoluto nel senso che non dava alle colonie voce autonoma nel loro governo) nelle Americhe si esprime nella richiesta di costituzioni e di istituzioni parlamentari. L'idea, sviluppata come si è visto dai teorici dell'assolutismo, che il sovrano possa essere il miglior rappresentante del paese appare sempre più difficile da accettare. Perché mai, dopo che ne era stata ampiamente teorizzata la legittimità e opportunità, sia stata così rapida la crisi del potere monarchico assoluto, è certo un quesito interessante. Una prima spiegazione potrebbe rifarsi ai caratteri di lungo periodo dell'esperienza politica europea. Proprio perché contrastante con molti altri importanti elementi della civiltà europea (pluralismo dei centri potestativi; divisione tra potere temporale e spirituale; presenza di istituzioni rappresentative; ecc.), il potere assoluto avrebbe costituito l'eccezione, forse giustificata in un certo periodo dalle guerre di religione e dalle esigenze di consolidamento di entità amministrative più efficienti, piuttosto che la regola. Una seconda spiegazione si collega invece agli effetti stessi del governo assoluto. La riduzione delle autonomie e la concentrazione di potere che esso aveva prodotto avevano accresciuto enormemente le responsabilità di chi governava facendone inevitabilmente il destinatario anche di ogni insoddisfazione e protesta. A ciò si aggiunga il fatto che il processo di unificazione del corpo politico e di standardizzazione delle condizioni giuridiche, lo sviluppo di una sorta di cittadinanza passiva (sul piano dei doveri e della lealtà dovuta allo Stato) avevano finito per creare le premesse per la richiesta di una cittadinanza attiva (v. Hintze, 1931; v. Bendix, 1964; v. Rokkan, 1970). Ecco allora che la domanda di rappresentanza sarebbe riemersa non solo in forza di una ripresa di elementi della tradizione, ma anche delle nuove condizioni sviluppatesi proprio durante l'assolutismo.Lo sbocco di questo processo (quando e dove avrà successo) è l'affermazione di istituzioni rappresentative (parlamenti ed eventualmente presidenti) stabili e continuative, in posizione di controllo sul potere di governo, cioè al centro del sistema politico, e basate su elezioni tenute a scadenze regolari e secondo procedure altamente formalizzate tendenti a garantire la competizione e la libera scelta degli elettori. La rappresentanza si presenta quindi come un assetto politico fortemente definito sul piano istituzionale.Occorre però notare che questi esiti di massima comuni della vicenda moderna della rappresentanza sono raggiunti seguendo itinerari diversificati. Semplificando si possono distinguere almeno tre modelli fondamentali di sviluppo: 1) evoluzione continua dalla rappresentanza premoderna a quella moderna senza una compiuta fase assolutistica; 2) limitazione per via (relativamente) pacifica e consensuale della monarchia assoluta e affiancamento a essa delle istituzioni rappresentative; 3) rottura rivoluzionaria e creazione di un regime repubblicano rappresentativo. I tre itinerari comportano formule organizzative almeno parzialmente e temporaneamente diverse per le istituzioni rappresentative; inoltre stimolano generalmente concettualizzazioni e interpretazioni del significato della rappresentanza anch'esse differenti. In specie nel primo modello, ma in qualche misura anche nel secondo, le istituzioni parlamentari tenderanno più facilmente a incorporare modelli rappresentativi plurimi. L'esempio emblematico è ovviamente il Parlamento inglese, dove l'evoluzione continua dalle forme rappresentative premoderne porterà alla coesistenza tra una Camera 'medievale' come quella dei lords e una 'moderna' come quella dei commons dopo il primo Reform act. Ma anche in vari parlamenti continentali prodotti da un modello di sviluppo del secondo tipo (un esempio potrebbe essere quello sabaudo) avviene che a una camera 'popolare', espressione delle nuove concezioni rappresentative, se ne affianchi un'altra aristocratica o di nomina regia che consente di rendere almeno parzialmente omaggio a più tradizionali interpretazioni della rappresentanza. Altro aspetto importante da rilevare è che, tanto nel primo che nel secondo modello, non si pone in maniera troppo esplicita e ultimativa il problema del legame tra rappresentanza e sovranità. La titolarità della sovranità viene ancora riferita al monarca e, almeno inizialmente, non viene rivendicata esplicitamente dalle istituzioni rappresentative. Quanto più invece l'affermazione della rappresentanza avviene in maniera conflittuale o addirittura comporta, come nel terzo modello, una rottura rivoluzionaria che elimina il potere monarchico, tanto più sarà probabile che le istituzioni rappresentative si conformino sin dall'inizio integralmente all'interpretazione moderna della rappresentanza. Si adotterà quindi la soluzione monocamerale, oppure, quando si vorrà conservare la forma bicamerale, le due camere trarranno entrambe la loro legittimazione dall'investitura popolare, anche se magari in forme diverse per tener conto nella attuazione della rappresentanza di esigenze contrastanti. Nell'ambito di quest'ultimo modello di sviluppo il problema della titolarità della sovranità non potrà essere eluso e si porrà immediatamente ed esplicitamente. La rappresentanza e le sue istituzioni si troveranno a doversene fare integralmente carico. Con qualche problema però. Dopo l'esperienza monarchica dell'identificazione della sovranità con una singola persona la sua dispersione nelle mani collettive di un'assemblea sembrerà a molti un azzardo eccessivo. Da qui l'incentivo a istituire un organo rappresentativo, sì, ma monocratico, quale un capo dello Stato elettivo, per tentare di restituire unità all'esercizio della sovranità senza rinnegare il suo fondamento nella rappresentanza popolare.
Parallelamente all'affermarsi delle nuove istituzioni rappresentative si avvia nella cultura politica occidentale un ampio e variegato dibattito su significati, forme e contenuti della rappresentanza. I temi principali che lo caratterizzano sono i seguenti: 1) chi o che cosa è rappresentato? 2) chi è il rappresentante e quali ne sono i compiti? 3) quale rapporto deve legare rappresentante e rappresentato? 4) qual è il ruolo delle istituzioni rappresentative nel loro complesso? 5) quale sistema elettorale e quale assetto istituzionale sono più adatti per le istituzioni rappresentative? Questi temi, pur analiticamente distinguibili, presentano tra loro connessioni importanti. Le risposte in ordine al primo punto necessariamente influenzano quelle sul secondo e terzo e viceversa; inoltre tutti questi punti sono legati alla più ampia visione del significato complessivo del sistema di governo rappresentativo. Il quinto punto infine si collega ai precedenti in quanto si riferisce agli strumenti attuativi da calibrare in rapporto alle diverse interpretazioni degli altri aspetti.L'interrogativo in ordine a chi o che cosa costituisca l'oggetto della rappresentanza è certo uno dei temi principali della riflessione moderna, anche se un avvio di riflessione su questo punto lo abbiamo trovato già in epoca premoderna. Il primo problema che in genere si pone è quello dell'ambito territoriale che è oggetto di rappresentanza: si tratta di quell'articolazione territoriale delimitata che elegge il singolo rappresentante o un gruppo di rappresentanti, oppure della comunità nazionale nel suo insieme? Il problema si pone dacché i parlamenti - a partire da quelli premoderni, ma continuando poi, salvo rare eccezioni, con quelli moderni - hanno ancorato la scelta dei rappresentanti a realtà territoriali particolari. In epoca premoderna questa scelta locale (relativa ovviamente alla camera 'popolare') aveva le sue basi di legittimazione nella struttura fortemente decentrata e addirittura frammentata delle comunità politiche e significava certamente un rapporto molto forte tra il deputato e il suo collegio. In alcuni casi (ma non in tutti) tale rapporto poteva addirittura essere sanzionato dal vincolo del mandato imperativo (v. Koenigsberger, 1977). In epoca moderna diventa meno chiaro quanto la prosecuzione di questo sistema sia legata ancora a esigenze 'forti' del modello rappresentativo o piuttosto a motivi pratici di gestione delle elezioni. Certo la forte crescita del senso di unità degli Stati moderni determina una svalutazione del peso autonomo delle comunità locali e quindi anche della rappresentanza di queste rispetto a quella dell'intera comunità nazionale. Non è un caso che in Inghilterra, paese tra i primi a sviluppare una forte coscienza di unità nazionale già forse dal XVI secolo, ma più chiaramente dal XVII, ci si comincia a interrogare se i membri della Camera dei comuni rappresentino i collegi che li hanno eletti individualmente o il paese nella sua globalità. In questo secondo senso si esprimeva per esempio Coke nel già citato Institutes of the laws of England: "sebbene un rappresentante sia scelto per una particolare contea [...], tuttavia quando [...] siede in parlamento egli serve l'intero regno" (v. Pitkin, 1967, p. 245). Ma è certamente con Edmund Burke - e in un'epoca in cui il Parlamento inglese, pur ancora profondamente legato al suo impianto istituzionale premoderno, anticipa però, per la centralità del suo ruolo nel sistema politico, gli sviluppi del parlamentarismo moderno - che la questione riceve un primo esteso e ragionato approfondimento. Da qui si snoderà tutta la discussione sulla rappresentanza che arriva sino ai nostri giorni. Burke (Speech to the electors of Bristol, 1774), pur partendo dal problema se oggetto della rappresentanza sia il collegio di elezione del deputato o l'intera comunità nazionale, porta il suo ragionamento al di là del puro dato territoriale per cercare di precisare meglio che cosa effettivamente debba essere rappresentato. Ne emergono alcuni punti importanti. Il primo, in negativo, è che per questo autore la rappresentanza non è una questione di volontà ma di ragione e giudizio e quindi comporta, più che l'ossequenza alle volontà di questo o di quello, la deliberazione meditata dei rappresentanti. Il secondo è che l'oggetto della rappresentanza sono gli interessi. Ma parlando di interessi, come fa rilevare Pitkin (v., 1967, cap. 8), Burke non pensa in genere agli interessi particolari, e quindi per esempio agli interessi di un collegio, bensì ai grandi interessi - quali gli interessi commerciali, o quelli agrari, ecc. - che in un certo qual modo compongono l'interesse complessivo del paese. Questo per Burke implica, tra l'altro, che la rappresentanza di specifiche entità territoriali vada vista in funzione di queste esigenze; pertanto non sarà indispensabile che Birmingham abbia un suo rappresentante in parlamento perché Bristol, che è una città ugualmente commerciale, invia già un suo delegato che sarà in grado di rappresentare quegli interessi. Solo quando non ci fosse nessun rappresentante legato a un grande interesse si porrebbe un problema di rappresentanza. Quello appunto che per Burke succedeva nel caso degli Irlandesi cattolici e dei coloni americani.
Il tema degli interessi continuerà a essere al centro dell'attenzione, ma con trasformazioni di significato importanti. Dopo Burke si tende in genere a interpretare gli interessi come espressione più diretta degli individui. Nei Federalist papers americani, per esempio, la differenza tra interessi, volontà, opinioni, passioni, così netta in Burke, si attenua fortemente. Gli interessi ai quali la rappresentanza deve dar voce assumono carattere necessariamente plurale. La conseguenza è che le istituzioni della rappresentanza appaiono molto più esposte ai problemi derivanti da questa pluralità di quanto non risultasse nella visione piuttosto aristocratica di Burke. Non a caso il problema di come si possano contenere questi inconvenienti acquista rilevanza centrale nella riflessione sulla rappresentanza degli autori del Federalist. Come è noto essi proporranno di darvi soluzione essenzialmente attraverso il disegno istituzionale di organi rappresentativi diversificati e bilanciantisi tra loro, un modello che ben si concretizzerà nella Costituzione statunitense.
Nel momento in cui si riconosce il particolarismo degli interessi personali si accentua la riflessione sulla loro compatibilità con l'interesse comune o generale. La contrapposizione tende a diventare tanto più drastica quanto più il tema viene affrontato in una prospettiva ideologica e in un contesto rivoluzionario, nell'ambito dei quali concetti come Stato, nazione, popolo assumono connotazioni fortemente etiche e monistiche (è il caso del terzo modello di sviluppo delineato sopra). E la rilevanza del problema si fa maggiore quando sugli organi rappresentativi si scarica tutto il peso della responsabilità politica. Non è un caso che una delle formulazioni più esplicite di questa contrapposizione si abbia nello scritto di uno dei protagonisti della Rivoluzione francese come l'abate Sieyès (Qu'est-ce que le tiers état?, 1789). La volontà (il termine usato è ormai più o meno intercambiabile con quello di interesse) della nazione viene contrapposta alle volontà personali e, forse ancor più nettamente, a quelle dei gruppi particolari. Ma se l'alternativa è netta, ne deriverà o che l'interesse generale sarà irraggiungibile (e di qui nascerà lo scetticismo sul valore delle istituzioni rappresentative), oppure (ed è questa la conseguenza che ne trae Sieyès come molti altri dottrinari) che gli interessi particolari non dovranno avere cittadinanza politica.
Quando prevale la seconda opzione si sviluppano posizioni fortemente sospettose nei confronti di tutte le organizzazioni intermedie presenti nell'ambito della rappresentanza, in primo luogo i partiti (al plurale), e viceversa si prepara il terreno per la giustificazione di soggetti della rappresentanza a vocazione totalizzante come il leader carismatico o il partito unico, che sembrano assicurare un rapporto diretto tra il popolo come soggetto unitario e i governanti. Ben diversa la posizione di un Constant (v., 1820), per il quale invece interesse generale e interessi particolari, pur distinti, non sono necessariamente contrapposti; ma anzi il primo può essere pensato come una combinazione o transazione tra i secondi. È da questa prospettiva piuttosto che dall'altra che potrà svilupparsi la concezione liberaldemocratica della rappresentanza.
I due punti successivi - chi sia il rappresentante e quali caratteristiche debba avere; che rapporto debba esserci tra rappresentante e rappresentato - meritano di essere presi in esame assieme perché le connessioni tra di essi (oltre che naturalmente con il primo punto) sono particolarmente strette. La natura del rapporto tra rappresentato e rappresentante è stata volta a volta descritta utilizzando categorie concettuali come quelle dell'autorizzazione, della delega, del mandato imperativo, della procura, del rapporto fiduciario, della responsabilità, del rispecchiamento o della somiglianza. Queste diverse figure indicano da un lato variazioni nel grado di 'strettezza' del vincolo tra i due attori, dall'altro nei contenuti del rapporto stesso. Ed è facile capire che tipi diversi di rapporti tra i due termini della relazione rappresentativa implicano anche caratteristiche diverse della figura del rappresentante. In relazione alla natura della rappresentanza - dopo che in epoca premoderna erano prevalsi i modelli dell'impersonazione corporativa, dell'autorizzazione ad agire al posto di, e semmai del mandato imperativo, e in epoca assolutistica quello dell'autorizzazione incondizionata - nel periodo al quale ci riferiamo la discussione si concentra da un lato sulla contrapposizione mandato imperativo/mandato libero, dall'altro sulla questione del rispecchiamento. Nel primo caso la rappresentanza è interpretata come un agire e sono in gioco i contenuti e il grado di libertà di questo agire. Nel secondo invece è in questione un modo di essere.
La spinosa questione dell'imperatività o meno del mandato ha a che fare tanto con la natura e i compiti dell'organo parlamentare (organo discontinuo o invece a carattere permanente, luogo di ratifica ed espressione del consenso oppure luogo di deliberazione) che con la natura del soggetto rappresentato (una pluralità di comunità 'sovrane' oppure una comunità nazionale unitaria). Se il mandato imperativo si poteva attagliare ai parlamenti medievali, e soprattutto a quelli che si riunivano più saltuariamente e nei quali i rappresentanti dovevano, da un lato, trasmettere le lagnanze dei ceti, e in particolare delle comunità locali, dall'altro assicurare il loro consenso alle richieste del sovrano, l'affermarsi di istituzioni parlamentari più stabili e con un ruolo deliberativo più sviluppato fa sentire invece l'esigenza di margini di libertà maggiori per i deputati. Non a caso è in ambito inglese e durante la transizione (continua) tra parlamentarismo premoderno e moderno che si avvia questa discussione. Quando Burke contrasta l'idea di mandato imperativo lo fa precisamente su questa base: il parlamento non è un congresso di ambasciatori ma l'organo deliberativo del paese, e una deliberazione avveduta richiede parlamentari liberi di agire secondo un giudizio meditato e autonomo. La stessa linea di ragionamento la ritroviamo in Constant: è proprio la capacità dei parlamentari di deliberare insieme continuativamente che consente di fondere gli interessi particolari del corpo elettorale nell'interesse generale. È interessante notare come queste formulazioni anticipino temi che saranno poi sviluppati in maniera molto più formalizzata dalle recenti analisi del funzionamento dei processi decisionali parlamentari in una prospettiva di rational choice. Secondo queste analisi è proprio il carattere continuativo del gioco parlamentare che consente di comporre la pluralità degli interessi particolari in un risultato a somma positiva e di far funzionare le macchine decisionali parlamentari (v. Fiorina, 1981). Ma il rifiuto del mandato imperativo può originare anche da un'altra prospettiva, quella che, come si è visto, concepisce la nazione come un'entità fortemente unitaria e ipostatizza l'interesse generale contro quelli particolari. Le voci particolari dei rappresentati diventano qui un vero e proprio elemento di disturbo. Tanto meno quindi sarà accettabile che esse possano vincolare i parlamentari. È in genere una dottrina di questo tipo che fa iscrivere in molte costituzioni (a partire da quella francese del 1791) il divieto di mandato imperativo.
Che tipi di rappresentanti presuppongono queste diverse visioni? Il mandato imperativo suppone essenzialmente un messaggero, un esecutore; nelle altre visioni si tratterà invece di un politico capace di mediare tra i diversi interessi o di una figura ad alto profilo etico e ideologico, capace di interpretare l'interesse nazionale. Cambia necessariamente anche il significato delle elezioni. Nella prospettiva del mandato imperativo l'elezione è essenzialmente l'atto di investitura di un agente che dovrà attenersi alle direttive che gli vengono contestualmente trasmesse; se invece i rappresentanti sono coloro che devono interpretare l'interesse nazionale, l'elezione assumerà il significato di una scelta dei 'migliori', di coloro che siano in grado di esprimere una visione che trascenda le contingenze particolari. Più complesso è il ruolo delle elezioni se ai rappresentanti viene assegnato il compito di mediare tra interessi particolari per comporli in una visione più ampia dei bisogni del paese: l'elezione non può certo significare la comunicazione di direttive specifiche, ma neppure implicare una libertà del fiduciario da ogni vincolo. Assume importanza critica allora il tema della responsabilità. Il mandato (ampio) del rappresentante ha per corrispettivo una responsabilità verso i rappresentati e le elezioni si configurano come il meccanismo istituzionale attraverso il quale questa responsabilità può essere fatta valere.
Se la dimensione dell'agire, con tutte le sue problematiche, ha un posto centrale nella visione moderna della rappresentanza, come è comprensibile in ragione del ruolo di governo in senso lato che le istituzioni rappresentative hanno conquistato, non si deve dimenticare l'esistenza di un'altra visione che di quando in quando emerge a fianco di quella, nella quale la dimensione fondamentale è invece il modo di essere dei rappresentanti e in specie la loro capacità di 'riprodurre' il corpo politico. Questa visione ha alla sua base principalmente l'esigenza di dare visibilità politica alle diverse componenti della società. Questo non vuol dire che dal suo orizzonte sia esclusa completamente la problematica della rappresentanza come agire, ma piuttosto che essa si basa sull'idea che l'identità o somiglianza tra rappresentati e rappresentanti possa e debba essere il presupposto dell'agire rappresentativo. A sua volta questa idea poggia sul postulato, più o meno esplicito, che l'agire dei rappresentanti dipenda da determinate caratteristiche individuali originarie piuttosto che da fattori di altro tipo, come i processi di professionalizzazione politica (con le trasformazioni che essi comportano della forma mentis e delle aspettative dei parlamentari) o i meccanismi istituzionali della responsabilità. Prima ancora del problema della fondatezza di questi presupposti, che è naturalmente materia di indagine empirica, il quesito che si pone qui riguarda il significato stesso del concetto di identità o somiglianza. Identità o somiglianza rispetto a che cosa? Quando nel contesto medievale si utilizzavano queste categorie ci si riferiva a una ben definita e consolidata articolazione della società in ceti, sulla base della quale il principio della rappresentanza da parte dei 'pari' (i nobili rappresentati da nobili, il clero da chierici, ecc.) trovava un fondamento difficilmente controvertibile; in epoca moderna invece il quadro di riferimento è molto più vario e opinabile. Si può andare dalle somiglianze di classe o di ceto professionale a quelle di razza, di lingua, di appartenenza religiosa, di sesso, sino a quelle di opinione. Le implicazioni non sono ovviamente le stesse se sono in gioco caratteri immutabili (razza, sesso, ecc.) o invece mutevoli (professione, opinione, ecc.). La somiglianza sulla base di caratteri del primo tipo non può cambiare durante il mandato del rappresentante. Non così per gli altri: il caso estremo è ovviamente quello delle opinioni dei rappresentanti che possono sempre variare rispetto alla loro configurazione originaria, ma lo stesso si può dire in realtà anche per il ceto sociale o la qualifica professionale. Una forte professionalizzazione politica e parlamentare può infatti erodere seriamente la consistenza originaria di quei caratteri.
Come è facilmente comprensibile, la domanda di questo tipo di rappresentanza sarà tanto più forte quanto più sono rilevanti per la vita politica i problemi di identità, quando cioè sono presenti gruppi (tipicamente minoritari oppure marginalizzati) per i quali l'affermazione di una propria identità (etnica, religiosa, linguistica, di genere, ecc.) netta ed esclusiva sembra lo strumento politico principale per garantirsi uno spazio di azione. In queste situazioni dominerà la percezione che solo a rappresentanti che condividono la stessa identità del gruppo e a nessun altro possa essere demandata la rappresentanza. Quanto meno forte e distintiva è invece l'identità, tanto più incerta apparirà l'efficacia di questo tipo di rappresentanza. Rispetto a una identità debole è più facile tralignare, e infatti la vita politica è piena di rappresentanti che hanno 'tradito' la propria classe, fede religiosa, etnia, ceto. I meccanismi istituzionali di controllo della responsabilità dei rappresentanti appariranno allora preferibili.Dopo questi cenni sulle principali varianti nelle concezioni della rappresentanza occorre ricordare che esse hanno riflessi importanti per i meccanismi istituzionali attraverso i quali la rappresentanza si realizza in concreto. E infatti il disegno dei sistemi elettorali e delle istituzioni parlamentari è stato ampiamente utilizzato per caratterizzare in un senso o nell'altro la rappresentanza. Collegi piccoli, grandi o addirittura un collegio unico nazionale sono stati volta a volta proposti allo scopo di favorire o attenuare il radicamento territoriale dei rappresentanti, per promuovere ampie aggregazioni di interessi o viceversa per consentire una più fedele rappresentanza dei gruppi minoritari. E l'annosa querelle tra propugnatori dei sistemi elettorali maggioritari e di quelli proporzionali, che da Bagehot e Stuart Mill prosegue sino a Hermens e Lijphart, nasce dal contrasto tra l'esigenza di rispecchiare il più accuratamente possibile la varietà degli orientamenti e quella di favorire l'emergere di grandi schieramenti e di una élite in grado di governare sulla base di un mandato non eccessivamente vincolante. Possiamo leggere concezioni diverse della rappresentanza anche dietro i vari modelli organizzativi proposti per le assemblee parlamentari: bicamerali-monocamerali, centrati sull'aula o sulle commissioni, numericamente ristretti o invece pletorici. Infine non si deve dimenticare che, fatte salve alcune posizioni fortemente dottrinarie, gli obiettivi che si vogliono raggiungere in fatto di rappresentanza attraverso il disegno delle procedure e delle istituzioni sono spesso tutt'altro che univoci, con ovvi effetti di complicazione di quelle procedure e istituzioni.
Ci siamo soffermati sul dibattito teorico e dottrinale perché in esso troviamo articolate le molteplici e complesse problematiche connesse al tema della rappresentanza, le interpretazioni che via via sono state date a questo fenomeno politico, i criteri di valutazione che a esso sono stati applicati e le prescrizioni operative che ne sono state ricavate. Ora occorre considerare più da vicino lo sviluppo concreto della rappresentanza nella politica contemporanea, evidenziando le linee comuni di sviluppo, ma anche le variazioni di non poco conto che si sono manifestate. Gli aspetti principali da considerare riguardano, in analogia con quanto già si era visto per il dibattito teorico, la natura dei rappresentati, dei rappresentanti e del rapporto tra le due parti in gioco, e poi l'organizzazione e i compiti delle istituzioni rappresentative. Rispetto al primo punto - i rappresentati - i circa duecento anni della storia moderna della rappresentanza sono caratterizzati innanzitutto dal grande processo di estensione quantitativa che porta dal suffragio ristretto a quello universale. Salvo casi abbastanza eccezionali e spiegabili o con la mancanza di una tradizione aristocratica e il basso livello di stratificazione sociale (le colonie americane, la Norvegia), oppure con una rottura rivoluzionaria (la Francia del 1793), la rappresentanza nasce generalmente limitata ai ceti alti o medio-alti, a coloro cioè che per censo o altre caratteristiche sono considerati avere a stake in the country, un interesse nel benessere del paese. Capacità contributiva e proprietà, istruzione e sesso (ma in alcuni casi anche appartenenza razziale e religiosa o ruolo famigliare) sono i criteri che tipicamente delimitano l'elettorato. A questa fetta ristretta di società che può godere del diritto di voto corrisponde come figura tipica di rappresentante il 'notabile' (v. Weber, 1919). Il prestigio sociale, cioè il possesso di una serie di caratteristiche pre-politiche che ne fanno il naturale punto di riferimento del proprio ambiente, è l'elemento fondamentale di individuazione di questa figura. Il rapporto di rappresentanza politica ha dunque alla sua base in questo periodo un forte rapporto di rappresentanza (identificazione) sociale: la comune appartenenza a uno stesso ordine sociale predispone una quasi naturale comunanza di interessi. Il radicamento territoriale di questo ceto politico è tendenzialmente molto forte, visto che il prestigio sociale ha basi essenzialmente locali. Dall'interno della classe politica notabiliare emerge poi una minoranza che, per posizione sociale particolarmente elevata, per esperienze di alto livello nell'amministrazione pubblica o per capacità di azione parlamentare, si eleva al di sopra della dimensione locale di rappresentanza e acquista una levatura nazionale. Si stabilisce così un sistema di rappresentanza e di organizzazione politica articolato fondamentalmente su due livelli, dotati di una propria specificità e di una relativa autonomia, ma anche legati da scambi molto intensi. Finché si tratta di questioni locali (tra le quali anche la ricandidatura alle elezioni) che riguardano il proprio collegio il notabile comune ha una libertà di azione assai forte; d'altra parte il suo legame con il centro politico costituisce una risorsa importante per accrescere il suo prestigio locale; il contraccambio sarà quindi l'appoggio dato sulle questioni di più ampia portata ai suoi referenti nazionali. Da parte loro i leaders nazionali rispetteranno l'autonomia locale dei notabili ma in cambio di un appoggio poco critico sugli altri piani. In questo contesto il partito gioca ancora un ruolo minore nell'equazione rappresentativa. Se comincia a essere un elemento di organizzazione interna delle assemblee rappresentative, il suo ruolo in sede elettorale rimane invece ridotto (v. Sartori, 1976). Il notabile infatti si presenta all'elettorato soprattutto in forza delle sue qualità personali rispetto alle quali una generica definizione politica di 'governativo, ministeriale' o 'di opposizione' ha un'importanza abbastanza limitata. Si può a ragione dire che nei fatti la rappresentanza resta ancora, in gran parte, una rappresentanza locale e di ceto.
L'estensione (più o meno rapida a seconda dei casi) del suffragio maschile, fino a diventare universale, produce generalmente una profonda trasformazione del sistema rappresentativo. L'enorme aumento quantitativo del corpo elettorale e il cambiamento qualitativo della sua composizione, con l'immissione dei ceti non privilegiati (operai e contadini), tendono a mettere in crisi il rapporto diretto tra i rappresentati e il notabile. La necessità di un meccanismo organizzativo di mediazione diventa imprescindibile. L'effetto generalizzato di questo sviluppo è la crescita del ruolo dei partiti nel processo rappresentativo. Nell'ambito di questa tendenza generale un fenomeno di particolare rilievo è l'apparizione del partito di apparato. Anche se, contrariamente a qualche previsione (v. Duverger, 1951), questa forma di organizzazione non segnerà il punto finale dello sviluppo del partito e caratterizzerà soprattutto i gruppi di sinistra, la sua entrata in scena costringe tutte le forze politiche a rafforzare la propria organizzazione. Il 'congelamento' (v. Lipset e Rokkan, 1967) di sistemi partitici composti di un numero relativamente ridotto di partiti nazionali con un livello organizzativo significativo e (anche in conseguenza di questo) durevoli nel tempo ha importanti effetti per la rappresentanza. Il processo elettorale diventa prevalentemente una scelta operata dagli elettori tra etichette partitiche, che stanno in primo luogo per un orientamento ideologico-programmatico generale e in seconda battuta anche per dei programmi di politiche particolari. Lo sviluppo dei partiti organizzati di massa ha prodotto anche una mutazione profonda del ceto rappresentativo. Il notabile, forte solo del prestigio in una ristretta società locale, ha ceduto il posto a un politico le cui risorse elettorali derivano in misura prevalente da una prolungata carriera politica nei ranghi di un'organizzazione di partito che raccorda organicamente dimensione locale e nazionale (v. Weber, 1919). L'investitura partitica diventa praticamente indispensabile per candidarsi al parlamento e l'autentico candidato indipendente sparisce quasi completamente dalla scena. La rappresentanza ha acquistato quindi un carattere genuinamente nazionale. In questo contesto il vero soggetto della rappresentanza è diventato il partito come organizzazione, impersonato dalla sua dirigenza, mentre il ruolo dei parlamentari è stato tendenzialmente ricondotto a quello di esecutori sul piano parlamentare ed elettorale delle scelte partitiche.
Questa immagine generale non va naturalmente assolutizzata. Come non vi è omogeneità assoluta tra i tipi di organizzazione partitica, anche le caratteristiche del personale parlamentare e dei rapporti rappresentativi sono soggetti a variazioni. L'approssimazione maggiore al modello presentato si è avuta là dove il partito organizzato ha raggiunto il suo culmine sviluppando una propria forte struttura burocratica e il personale politico, ivi compreso quello parlamentare, si è caratterizzato pienamente secondo la tipologia del funzionario di partito, sostanzialmente privo di autonomia rispetto all'organizzazione. Quanto più ci si allontana da questo modello di partito - sia perché esso non è mai stato pienamente raggiunto, sia perché ne è iniziato il decadimento e la forza e la coerenza degli apparati organizzativi centrali e periferici sono minori - tanto più acquisteranno peso per i politici le linee laterali di carriera (nelle associazioni 'amiche', nei gruppi di interesse, nelle organizzazioni di categoria) e saranno maggiori anche i margini di autonomia. Il vertice del partito non potrà arrogarsi quindi un ruolo altrettanto dominante nella gestione del rapporto rappresentativo e i parlamentari, sia individualmente che in gruppi, manterranno o riacquisteranno un ruolo assai più spiccato. Il partito diventerà molto più la stanza di compensazione tra una pluralità di interessi rappresentati che non la loro guida indiscussa. Il caso americano, caratterizzato soprattutto negli ultimi decenni da una crescente debolezza organizzativa dei partiti, è quello che si è spinto più oltre in questa direzione. Non a caso la ricerca empirica sui meccanismi rappresentativi ha prestato oltre Atlantico un'attenzione particolare al rapporto tra parlamentari e constituencies (v. Miller e Stokes, 1963; v. Cain e altri, 1987) e tra parlamentari e gruppi di interesse, mentre in Europa è rimasta prevalente la focalizzazione sul ruolo dei partiti. E tuttavia, anche in Europa, la più recente letteratura sulle politiche pubbliche ha sentito sempre più il bisogno di guardare dietro la realtà unitaria dei partiti per individuare meccanismi rappresentativi più complessi (v. Dente e Regonini, 1987).
In parallelo con le trasformazioni del processo rappresentativo qui sintetizzate si sono verificati profondi cambiamenti anche nel personale parlamentare che di questo processo è l'espressione più diretta. Uno dei mutamenti più evidenti riguarda la provenienza sociale dei rappresentanti. Anche se in questo campo le differenze tra paese e paese sono tutt'altro che trascurabili, si possono rilevare sulla base di una abbondante letteratura empirica alcune tendenze abbastanza generalizzate (v. Putnam, 1976). Al progressivo declino dell'aristocrazia e dell'alta burocrazia di estrazione monarchica, che dominavano all'inizio i parlamenti a suffragio ristretto, ha fatto riscontro l'ascesa prima delle libere professioni (avvocati, ma anche notai, medici, ecc.) e dei giornalisti, poi dei funzionari di partito e sindacali, provenienti in misura significativa anche da gruppi sociali prima assolutamente assenti, come le classi operaia e contadina o i ceti medio-bassi. Il grado di rappresentatività 'sociologica' dei parlamenti rispetto alla popolazione nel suo complesso è andato dunque aumentando nel tempo, anche se difficilmente le assemblee rappresentative sono diventate degli 'specchi' pienamente fedeli della popolazione. Il livello più alto di rappresentatività è stato in genere raggiunto là dove il partito organizzato di massa ha pesato di più nel reclutamento parlamentare. Il declino progressivo negli ultimi decenni di questa forma di partito sta probabilmente di nuovo allontanando i parlamenti da quel punto massimo. L'appartenenza alla categoria degli 'esperti', le carriere nelle sempre più estese macchine pubbliche o para-pubbliche, ma anche la provenienza dall'imprenditoria privata e dal mondo dei media e il collegamento ai gruppi di interesse sembrano destinati a giocare un ruolo crescente nel reclutamento dei rappresentanti.Naturalmente l'estrazione socioeconomica e professionale non esaurisce il tema della rappresentatività dei parlamenti. Bisognerebbe ricordare anche altri caratteri, come l'appartenenza a gruppi etnici, linguistici, religiosi o razziali, che in molti paesi pongono rilevanti problemi di rappresentanza identitaria. In questa prospettiva il genere è tra i caratteri che più sono stati al centro della discussione negli ultimi decenni. La rappresentanza femminile, assolutamente minoritaria in passato anche dopo il riconoscimento del suffragio, ha visto negli ultimi anni una progressiva crescita in gran parte dei paesi democratici, anche se solo in alcuni parlamenti scandinavi la componente femminile si è approssimata a un sostanziale equilibrio con quella maschile.
Al di là del loro significato sul piano della rappresentatività dei parlamenti, il che rinvia come si è visto a una specifica accezione del concetto di rappresentanza politica, i mutamenti nelle caratteristiche del personale parlamentare comportano anche importanti cambiamenti nelle modalità di funzionamento e nello stile di lavoro delle istituzioni rappresentative.
Occorre comunque ricordare che nelle democrazie contemporanee il meccanismo fondamentale della rappresentanza rimane quello della competizione e della scelta elettorale tra partiti. Che natura abbia questa scelta e su che basi avvenga è stato argomento ampiamente discusso negli studi elettorali. Qui se ne richiameranno i principali elementi, per la loro rilevanza ai fini di una interpretazione della rappresentanza. Un primo dato che la ricerca elettorale ha messo in evidenza è la stabilità nel tempo di una componente maggioritaria dei comportamenti elettorali. In presenza di una continuità nell'offerta partitica una maggioranza degli elettori rinnova di elezione in elezione la propria adesione allo stesso partito. Identificazione psicologica, politicizzazione dei cleavages e appartenenza subculturale (di classe, religiosa, ecc.) sono tra le spiegazioni proposte. La rappresentanza diventa in questo contesto un rapporto organico e durevole rispetto al quale la singola elezione (a parte i limitati casi di elezioni fondanti o critiche, nelle quali si è formato o modificato un allineamento di fondo) è in buona misura un momento di conferma e di rafforzamento piuttosto che una scelta ex novo. Naturalmente questo non vale per tutto l'elettorato: una componente minoritaria, ma non per questo meno importante, esibisce una maggiore disponibilità a cambiare. La scelta in questo caso può essere dettata da preferenze per i leaders delle forze politiche, da valutazioni delle risposte di policy offerte dai diversi partiti alle specifiche issues che in una elezione acquistano particolare rilievo (v. Budge e Farlie, 1977), dalle caratteristiche personali dei candidati locali, ma in parte anche da una volubilità di opinioni legata a un livello di informazione politica limitato. L'allargarsi negli ultimi decenni di questa fascia di elettorato mobile, fenomeno dovuto a trasformazioni della società e allo stesso successo dell'azione di governo dei partiti organizzati di massa che ha favorito l'integrazione dei ceti prima esclusi, pone i partiti di fronte alla difficile alternativa tra una strategia volta a ribadire l'identità tradizionale e una più mobile diretta invece alla rincorsa di orientamenti variabili. L'emergere del catch all party (v. Kirchheimer, 1957) è stata una risposta a queste nuove esigenze. La fase culminante dello sviluppo del partito organizzato di massa ad alto tasso ideologico aveva prodotto un modello di rappresentanza abbastanza semplificato. La natura dei due attori del rapporto rappresentativo - da un lato una coerente e coesiva organizzazione (il partito), dall'altro un gruppo di riferimento altrettanto omogeneo (la classe, la subcultura) - era relativamente semplice. E altrettanto valeva per la natura del rapporto di rappresentanza: il legame identitario tra rappresentante e rappresentato vi aveva un ruolo dominante mentre gli interessi, le policies concrete, le opinioni venivano in buona misura di conseguenza. L'attenuarsi delle condizioni che avevano favorito questo modello di organizzazione politica e l'emergere di nuovi modelli di organizzazione politica (dal catch all party di Kirchheimer al cartell party di Katz e Mair: v., 1995), caratterizzati da una più ridotta capacità di monopolizzare le relazioni politiche, si accompagnano anche a una trasformazione della rappresentanza nel senso di una tendenziale maggiore complessità. Il peso dell'identità si attenua a vantaggio della varietà degli interessi e delle opinioni e a questi si offrono maggiori alternative ai fini della rappresentanza. Il partito, meno sicuro ora di 'rappresentare' quasi naturalmente il grosso dei suoi elettori, non più unificati da una forte identità comune, deve tentare di aggregare una pluralità di interessi e opinioni che, d'altra parte, possono contare su autonome basi organizzative. Il rapporto tra interessi organizzati e partiti diventa più complesso e incerto che nel precedente modello, che vedeva i primi colonizzati dai secondi. Da un lato il partito cerca di acquisire il sostegno degli interessi organizzati in sede elettorale, dall'altro questi possono, entro una certa misura, preferire di mantenere una certa libertà di azione e distribuire il loro sostegno tra una pluralità di soggetti politici per massimizzare le possibilità di riuscita. La pluralità degli interessi e l'esigenza di agganciarli tendono a introdurre nel partito post-ideologico un forte pluralismo interno che spinge il partito ad avvicinarsi al modello di una coalizione di sottogruppi difficili da controllare. Questa situazione emergerà con chiarezza in sede di governo e ancor più nell'attività legislativa parlamentare. Al partito resta ancora un compito importante (specie quando si occupano posizioni di governo) che è quello di far coesistere le diverse spinte e arbitrare tra di esse. A un estremo il ricorso a meccanismi di senatorial courtesy e a politiche distributive può essere il metodo più semplice per raggiungere un 'interesse generale' che sarà poco più che un tentativo di accontentare tutte le domande possibilmente occultandone i costi attraverso strumenti come l'inflazione o la crescita del debito pubblico. Il partito in questo caso offre poco più che una cornice di garanzia che assicura a tutti (o quasi) gli interessi una possibilità. Ma l'azione di un partito può indirizzarsi anche verso più drastiche scelte, che privilegino in un dato momento certi interessi rispetto ad altri. In questo caso l'interesse generale assume la forma di un ordine di priorità tra domande. Tanto più è probabile che un partito sarà in grado di fare questo, quanto più esso potrà fare appello a qualcosa che va al di là degli interessi specifici e consente appunto di graduare questi ultimi. In questo contesto gli appelli simbolici, usciti dalla porta della crisi delle vecchie ideologie, possono ritornare dalla finestra di più brevi fiammate di ri-ideologizzazione (il thatcherismo, il reaganismo, ecc.), così come potranno giocare un ruolo anche fattori più fragili, quale il richiamo personale di un leader.L'importanza degli interessi organizzati nelle società contemporanee ha alimentato un intenso dibattito sui rapporti tra questo fenomeno e la rappresentanza politica. Sul piano empirico ci si è chiesti in che misura l'attività dei gruppi abbia influito sulla rappresentanza tradizionale o se addirittura non l'abbia soppiantata. Sul piano valutativo e prescrittivo si è discusso sui pregi e difetti di forme alternative di rappresentanza centrate sugli interessi, e sull'opportunità di sanzionarle in sede di normativa costituzionale. In ordine al primo piano si può innanzitutto osservare che, se il grande rilievo politico degli interessi economici organizzati nelle società ad alto livello di industrializzazione è un dato incontrovertibile, varie sono state le modalità della loro influenza. Come si è già visto, una possibilità molto significativa nel corso di questo secolo è stata quella di una stretta identificazione e simbiosi tra interessi organizzati e partiti ideologici di massa, nell'ambito della quale questi ultimi hanno effettivamente monopolizzato la rappresentanza dei primi. Ma questo modello non esaurisce certo le modalità relazionali. La possibilità per gli interessi di 'saltare' l'intermediario partitico e di assumere un ruolo molto più diretto nei processi decisionali politici, in sostanza di autorappresentarsi (v. Kaiser, 1956), è una eventualità molto significativa specie quando cala la temperie ideologica e si indeboliscono i partiti. La letteratura sugli interessi ha messo in evidenza almeno due rilevanti modelli. Il primo è quello neocorporativo, in base al quale le grandi organizzazioni monopolistiche degli interessi si assumono in prima persona il ruolo di rappresentanza all'interno di procedure di concertazione nazionale delle macropolitiche economiche e sociali promosse dal governo (v. Lehmbruch, 1979; v. Schmitter, 1979). Il secondo è quello delle policy communities, che vede i gruppi di interesse interagire tra loro e con gli attori partitico-parlamentari e burocratici all'interno del sistema fortemente decentrato dei flussi continui di decisioni particolari relative a specifiche aree di policy (v. Heclo e Wildavsky, 1974). L'esistenza e l'importanza di questi fenomeni non possono certo essere trascurate se si vuole capire la politica contemporanea. Esse indicano che la rappresentanza elettoral-parlamentare non ha (più) il monopolio della rappresentanza. Resta aperta tuttavia la domanda se queste ulteriori forme di rappresentanza abbiano del tutto soppiantato la prima, o siano avviate a farlo, o se invece costituiscano alla fine solo una componente del fenomeno rappresentativo. Alcuni elementi inducono a propendere tuttora per la seconda interpretazione. Un primo elemento da considerare riguarda la natura degli interessi: se questi circuiti appaiono efficaci per gli interessi economici e a base funzionale, lo sono assai meno per interessi e opinioni non materialistici e/o a base territoriale, che non sembrano affatto destinati a sparire ma forse addirittura a crescere (v. Inglehart, 1977). Ma, anche restando alla sfera delle questioni economiche, la necessità di un'autorità politica che trascenda gli interessi organizzati e ne possa limitare le pretese particolaristiche e di breve periodo appellandosi ad altri e superiori interessi è un dato empirico che emerge ricorrentemente dopo cicli di politiche distributive dominati da quei modelli rappresentativi. Per esempio, di fronte alla necessità di porre argine a debiti pubblici usciti di controllo, il ritorno agli strumenti della rappresentanza tradizionale non sembra affatto da escludere. La rappresentanza elettorale e parlamentare sembra quindi destinata a coesistere piuttosto che a essere soppiantata da quella degli interessi organizzati.
Dall'esame, necessariamente sintetico, della vicenda storica delle concettualizzazioni e delle forme istituzionali della rappresentanza emerge abbastanza chiaramente che ci troviamo di fronte a una galassia di fenomeni e significati piuttosto che a una stella isolata. Il problema, centrale per l'esperienza politica occidentale, di come 'ancorare' i governanti ai governati, legittimando, limitando e controllando il potere e orientando il suo esercizio nell'interesse di questi, trova nel concetto di rappresentanza una metafora ricca e suggestiva; ma è anche un problema suscettibile di declinazioni così varie che, abbastanza comprensibilmente, finisce per trasformare la metafora stessa in una pluralità di sottometafore. Sia sul piano dottrinale che su quello dei fenomeni politici istituzionali (e conviene mantenere questa distinzione per chiarezza analitica, ma avvertendo subito che tra i due livelli i rimandi sono stati sempre intensissimi) ci troviamo quindi di fronte a una pluralità di tessere delle quali non si può dire che una sia (esaurisca) la rappresentanza. Con esse invece si possono comporre mosaici diversi. Quello della rappresentanza elettorale-parlamentare e partitica delle democrazie liberali degli ultimi due secoli costituisce certamente uno dei più elaborati mosaici rappresentativi. Un complesso apparato istituzionale e procedurale è stato posto a presidio del potere dei governati di scegliere e rimuovere i governanti, generando meccanismi di responsabilità dei secondi nei confronti dei primi che ne incentivano significativamente la responsività (v. Fisichella, 1996). Il mosaico moderno però, pur con tutte le sue peculiarità, non può a ben vedere essere considerato un fenomeno completamente a sé stante. Significative tessere (concettuali e istituzionali) che lo compongono erano già presenti in altri mosaici del passato. Questo vale ad esempio per alcuni aspetti della rappresentanza premoderna: certamente la diversa contestualizzazione ne ha trasformato il significato ma non ne ha cancellato completamente le ascendenze passate. D'altra parte si deve sottolineare che il modello moderno di rappresentanza, pur presentandosi come una configurazione abbastanza precisa di elementi istituzionali e procedurali, consente, come si è visto, al suo interno una gamma di variazioni niente affatto trascurabili in ordine ai contenuti e al significato del rapporto rappresentato-rappresentanti. All'interno di una stessa impalcatura istituzionale possono svilupparsi e coesistere diversi livelli di 'gioco rappresentativo' (la rappresentanza della nazione e di identità particolari, di interessi territoriali e funzionali). E infine, volgendo lo sguardo dal presente al futuro, sembra che la coesistenza di modelli plurimi di rappresentanza possa essere un esito niente affatto improbabile. (V. anche Democrazia; Elezioni; Liberalismo; Maggioranza, principio di; Parlamento; Partiti politici e sistemi di partito; Politica).
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