Relativismo culturale
1. Le ragioni del relativismo
Il relativismo culturale è una modalità di confronto con la variabilità e la molteplicità di costumi, culture, lingue, società. Di fronte alla molteplicità l'atteggiamento relativistico è incline a riconoscerne le ragioni, ad affermarne non solo l'esistenza, ma anche l'incidenza e la significatività. Un ottimo esempio di atteggiamento relativistico è contenuto nelle Storie di Erodoto (III, 38), là dove egli racconta l'esperimento culturale di Dario, il re dei Persiani. Posti a confronto Greci e indiani Callati, Dario chiede loro a quale prezzo sarebbero disposti a rinunciare ai loro rispettivi costumi funerari (quello di bruciare i cadaveri da parte dei Greci e quello di divorare il corpo dei genitori defunti da parte degli indiani Callati), ricevendone in entrambi i casi una risposta non solo negativa, ma indignata: agli occhi dei Greci è repellente mangiare i cadaveri; ma agli occhi dei Callati è altrettanto obbrobrioso bruciarli. In tema di trattamento dei cadaveri sono molte le soluzioni possibili o i modelli culturali adottati: due di questi vengono messi a confronto da Dario, e altri si possono ovviamente immaginare o constatare. L'atteggiamento relativistico è quello per il quale perde senso la questione di quale sia il costume 'migliore' (cremazione o endocannibalismo, nel caso affrontato da Dario): il giudizio su ciò che è 'migliore' viene infatti già espresso dagli individui che adottano i costumi della propria cultura; e non è pensabile un'istanza superiore alle singole società. "Il costume (nomos) è sovrano di tutte le cose" - così infatti Erodoto conclude il brano ora citato dell'esperimento comparativo di Dario.
Se il relativismo consiste in un forte riconoscimento della molteplicità culturale, esso si traduce inevitabilmente in un altrettanto forte riconoscimento dell'incidenza dei costumi (o della cultura) nell'organizzazione della vita e della società umana. Alla base del relativismo vi è una profonda diffidenza nei confronti dell'universalità di strutture psichiche o mentali - di ordine naturale - che accomunerebbero tutti gli uomini. Il relativismo non nega che esistano strutture di tal genere; ritiene tuttavia che esse rappresentino una componente per così dire minoritaria nell'organizzazione umana: più importante appare invece la dimensione culturale, con la sua inevitabile variabilità, per cui ciò che contraddistingue l'uomo nella sua vera essenza sarebbe proprio questa variabilità, anziché l'uniformità di leggi o strutture naturali. "Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura - sosteneva Michel de Montaigne nella seconda metà del Cinquecento - nascono dalla consuetudine (coustume)", aggiungendo che "le idee comuni che vediamo aver credito attorno a noi" assumono ai nostri occhi la sembianza di leggi "generali e naturali" (v. Montaigne, 1580; tr. it., p. 150). Come si vede, il relativismo di Montaigne non si limita ad asserire la variabilità delle 'leggi della coscienza' e neppure ad affermare la loro origine eminentemente culturale; esso comporta anche una teoria che svela il processo di naturalizzazione a cui tali leggi sono sottoposte. Gli uomini aderiscono a norme o leggi 'culturali', che ricevono dalle loro tradizioni e che in definitiva essi si fabbricano con la loro cultura (i costumi); ma per dare a esse consistenza e una sorta di indiscutibilità le trasformano ideologicamente in leggi 'generali e naturali', come se, anziché provenire dalla cultura, provenissero dalla natura. La forza di una strategia come quella esemplificata da Montaigne - qui assunto come autore paradigmatico per il relativismo delle scienze sociali del Novecento (v. Geertz, 1984; v. Todorov, 1989; v. Remotti, 1990) - consiste nel tentativo di rendere conto degli atteggiamenti antirelativistici, di spiegare come possa nascere l'antirelativismo e come questo sia insito in ogni cultura. Negare il relativismo, specialmente se questo minaccia di essere applicato alla propria cultura, dimostrandone appunto la 'relatività' dei principî, dei valori, delle scelte, può configurarsi in effetti come una mossa autoprotettiva a cui ogni cultura sarebbe quasi obbligata a ricorrere. Sotto questo profilo, il relativismo si configurerebbe come una strategia intellettuale che agisce 'contro' i processi di naturalizzazione, di sacralizzazione o comunque di assolutizzazione, svelando il carattere culturale di ciò che viene fatto passare per 'naturale', il carattere umano e costruito di ciò che viene posto su un piano di sacralità, il carattere relativo e storicamente (o etnograficamente) contingente di ciò che viene considerato come assoluto. Il relativismo culturale potrebbe dunque essere interpretato come parte di un programma di demistificazione, come una presa di distanza critica rispetto ai miti coltivati dalle varie società (compresa la civiltà occidentale), avente un indubbio sapore illuministico (nel senso almeno conferito a questo termine da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno: v., 1947).
Gli autori più sensibili al relativismo coltivano però una teoria piuttosto radicale circa l'incisività dei costumi, la quale non pare trovare accoglienza in programmi di tipo illuministico. È la teoria della carenza di una natura umana solida, rocciosa, costante (René Descartes), quale è stata esposta nel Seicento da Blaise Pascal e nel Settecento da Johann Gottfried Herder, ripresa nell'Ottocento da Friedrich Nietzsche e poi nel Novecento da Arnold Gehlen, da Clifford Geertz e da diversi altri scienziati sociali (v. Cultura e Natura e cultura). Il relativismo che, implicitamente o meno, si fonda su questa teoria accorda un significato particolarmente profondo agli universi culturali che in modi diversificati gli uomini di volta in volta costruiscono per sopperire alle mancanze della natura umana. Questi universi - per quanto strani e persino estranei possano apparire gli uni rispetto agli altri - rispondono tutti all'esigenza di dare forma (una forma culturale) all'umanità: essi non sono semplicemente delle stravaganze (anche se tali possono apparire), bensì costituiscono i modi specifici mediante cui nelle più varie situazioni storiche e geografiche gli uomini hanno costruito la loro umanità. Da ciò il relativismo trae alcune implicazioni piuttosto importanti: a) vi sono molti modi - pressoché indefiniti - mediante cui si può dare forma e senso all'umanità, per cui occorre essere disposti a scorgerne sempre altri oltre a quelli che ci sono più familiari o che finora si è stati in grado di conoscere; b) questi modi, proprio in quanto conferiscono senso, sono internamente organizzati, anche se la conoscenza e l'analisi degli universi culturali rappresentano passi ed opzioni che inevitabilmente travalicano una prospettiva meramente relativistica; c) se gli universi culturali non sono costruzioni cervellotiche e superflue, ma decidono del senso dell'umanità, conferendo ad essa forme inevitabilmente particolari, si comprende più facilmente l'attaccamento ai propri costumi che gli osservatori etnografi (a cominciare quantomeno da Erodoto) hanno da sempre rilevato. È vero che i costumi (o la stessa cultura) hanno alcunché di 'esterno'; ma l'imprescindibilità di questo rivestimento esterno è tale che l'essere costretti a rinunciarvi suscita negli esseri umani un profondo disagio e reazioni di rifiuto.
I relativisti si dispongono quindi non solo ad ammettere le forme più varie e inedite, ma anche a comprendere 'dall'interno' la logica che le sostiene, ovvero i loro principî, i loro valori, le loro categorie. Come si è detto, le maniere mediante cui si decide di addentrarsi negli universi culturali possono essere assai diverse e rispondere a criteri metodologici persino opposti (non è ovviamente la stessa cosa un approccio funzionalistico, teso a cogliere le relazioni funzionali tra i vari elementi, e un approccio di tipo ermeneutico, mirante a interpretare i significati di un determinato contesto); ma in generale il relativismo tenderebbe a fare propria la posizione di un antropologo come Bronislaw Malinowski, allorché affermava, a proposito dell'indigeno delle isole Trobriand, che occorre cogliere "la sua visione del suo mondo" (v. Malinowski, 1922; tr. it., p. 49, corsivi nostri). L'acquisizione di una visione 'dall'interno' - comunque questa venga poi perseguita - rappresenta il punto maggiormente produttivo del relativismo, quello per il quale esso non si riduce soltanto a un atteggiamento di rilevazione della molteplicità e di rispetto della diversità culturale, ma si traduce in uno sforzo conoscitivo portato fino nell'intimo dell'alterità. Può essere allora importante rilevare su questo punto una convergenza significativa tra Malinowski da un lato e Franz Boas dall'altro, allorché quest'ultimo affermava in un articolo di fine Ottocento (1896) sui Limiti del metodo comparativo in antropologia la necessità di indagare "ciascuna cultura individuale" nella sua particolarità storica, ponendo in luce che non si tratta di una mera raccolta di dati estrinseci, ma di un'analisi interna - storica e psicologica - delle "ragioni per cui tali costumi e credenze esistono" (v. Boas, 1966, p. 276). In particolare, le ricerche psicologiche cercano di cogliere "i diversi atteggiamenti e le diverse interpretazioni" che gli individui via via sviluppano, in quanto "forniscono il materiale più importante", quello attinente al "significato" elaborato all'interno di ogni singola cultura (ibid., p. 296).
Questa propensione a valorizzare una visione 'dall'interno', elaborata mediante principî e categorie particolari e irripetibili, specifici di una società determinata, salda del resto il relativismo culturale con il relativismo linguistico. Da Boas a Edward Sapir, da questi a Benjamin Lee Whorf, riemerge nella cultura antropologica e linguistica del Novecento una tradizione di pensiero che risale a Herder e soprattutto a Wilhelm von Humboldt. Da un lato il linguaggio è per Humboldt (v., 1836; tr. it., p. 42) "l'organo formativo del pensiero" e nel contempo dell'umanità. Dall'altro il linguaggio non può che tradursi in una serie indefinita di lingue particolari, ciascuna delle quali esprime "non una diversità di suoni e di segni, ma una diversità di visioni del mondo": ognuna di esse infatti "incide" e "recide" diversamente il mondo e quanto "lo spirito umano deve coltivare", ossia la stessa umanità (cfr. Humboldt, cit. in Di Cesare, 1991, pp. XLI-XLII). Partendo dal presupposto della "pari dignità di tutte le lingue", in quanto ciascuna di esse racchiude una visione del mondo che è anche una forma specifica di umanità, Humboldt si era spinto a vagheggiare una sorta di "enciclopedia" globale di tutte le lingue, in cui però la diversità strutturale (di significato, non solo di suono) fosse mantenuta e in cui l'irriducibile molteplicità delle lingue e delle forme fosse salvaguardata come ricchezza dell'intera umanità (v. Di Cesare, 1991, pp. XCIII e XLV). In queste formulazioni, che troviamo poi riecheggiate nelle pagine di Sapir e di Whorf, è possibile rintracciare una combinazione tra due principî: quello della relatività linguistica, esprimibile nella formula "Non esiste limite alla diversità strutturale delle lingue", e quello del determinismo linguistico ("Il linguaggio determina il pensiero") (v. Lyons, 1981; tr. it., p. 312). È il secondo principio che riesce a trasformare il relativismo da una semplice constatazione di diversità strutturali e di molteplicità irriducibili in un atteggiamento di ricerca globale. In fondo, come sostiene Clifford Geertz (v., 1984, p. 276), il relativismo - questa disponibilità a cogliere la diversità e nella diversità significati o "verità" che non siano soltanto quelli "di casa" - coincide con la stessa antropologia, o perlomeno è ad essa connaturato come sua dimensione irrinunciabile.
2. Rischi del relativismo
Nonostante i suoi pregi (apertura alla molteplicità e disponibilità a cogliere i significati interni all'alterità), non sempre il relativismo è visto di buon occhio. Si può anzi sostenere che in ogni epoca il dibattito sul relativismo sia stato sempre un argomento piuttosto acceso e animato. Per ridurre la questione all'essenziale potremmo sostenere che il dibattito ha da sempre riguardato il rapporto tra uniformità (U) e differenza (D) nella realtà umana (U/D): un conto è schierarsi tra coloro per i quali la dimensione 'uniformità' è prevalente sulla dimensione 'differenza' (U > D), per i quali quindi l'uomo è sostanzialmente uniforme, nonostante tutte le differenze di cultura, di luogo e di tempo che pure sono innegabili; un altro conto è schierarsi invece tra coloro per i quali l'uomo è soprattutto diverso, per i quali cioè la dimensione 'differenza' prevale sulla dimensione 'uniformità' nell'organizzazione degli esseri umani (D > U). Per questo secondo schieramento (quello dei relativisti) l'ammissione della molteplicità e il riconoscimento delle differenze comportano - almeno in linea di principio - un'apertura verso le forme più diverse che l'umanità può assumere, non avvertendo in ciò un pericolo, ma semmai un arricchimento: non ammettere la molteplicità e anzi screditarla appare come una chiusura. Per il primo schieramento (quello degli antirelativisti) la tesi della molteplicità si configura invece come una minaccia portata verso lo stesso senso di unità degli uomini: se gli esseri umani fossero così culturalmente diversi e se la diversità culturale fosse tale da incidere così profondamente negli esseri umani, non sarebbe forse messa in discussione la stessa possibilità di intesa e dialogo tra individui, gruppi, società? Ian C. Jarvie, un filosofo che, formatosi sotto la guida di Karl Popper, si è occupato prevalentemente di filosofia delle scienze sociali e di antropologia, ebbe a scrivere a proposito del relativismo: "Esso ci disarma, ci disumanizza, lasciandoci incapaci di entrare in una interazione comunicativa"; il relativismo toglie qualsiasi capacità di critica interculturale e anzi di critica tout court; per Jarvie, alle spalle del relativismo è possibile intravedere il "nichilismo" (v. Jarvie, 1983, pp. 45-46).
Si può comprendere assai bene come a Geertz, uno dei più convinti sostenitori del secondo schieramento (D > U), questa presa di posizione di Jarvie appaia come l'evocazione del tutto infondata di uno "spettro", come la manifestazione di una "paura" ingiustificata (v. Geertz, 1984, pp. 263 e 265). E tuttavia è innegabile che il relativismo culturale possa assumere aspetti assai inquietanti, a dimostrazione di come il relativismo - alla stregua di un'infinità di altri movimenti o tendenze - non presenti un unico volto, ma possa piegarsi a molteplici usi e interpretazioni. Se è vero che il relativismo può essere identificato con la formula D >U, la quale - come abbiamo argomentato - conferisce programmaticamente spazio alla diversità e alla pluralità culturale, è però altrettanto vero che un ulteriore e decisivo problema è il modo in cui sono concepite le relazioni tra le diversità, tra i mondi culturali in cui l'umanità prende forma.
Sotto questo profilo, una delle manifestazioni più significative di relativismo culturale può essere individuata nell'opera di Oswald Spengler Il tramonto dell'Occidente, la quale ha esercitato una qualche influenza sull'antropologia culturale americana della prima metà del Novecento (Alfred Kroeber, Ruth Benedict). Anche qui il relativismo non si presenta affatto come una mera rilevazione di una molteplicità di modi di umanità. Come è noto, Spengler ritiene che vi siano fondamentalmente due livelli di umanità: un'umanità puramente zoologica, anonima e indistinta, e un'umanità che invece assume una vera e propria configurazione storica. È a questo secondo livello che viene fatta valere la prospettiva del relativismo: se sul piano zoologico è dominante il senso dell'uniformità (U > D), sul piano storico invece l'umanità si divide in una molteplicità di "forme elementari", le quali sono le otto civiltà finora comparse nella storia universale dell'umanità. Ma poiché le civiltà "imprimono ciascuna la propria forma all'umanità, loro materia", non può darsi l'idea di una umanità: "umanità è o un concetto zoologico o un puro nome" (v. Spengler, 1923; tr. it., p. 40). Se non è un concetto zoologico, umanità è necessariamente un concetto plurale: e - si badi - non è la biologia, ma la 'cultura' (Kultur è infatti il termine con cui Spengler designa le otto civiltà) il fattore che provoca inesorabilmente la 'differenza' tra le varie forme di umanità. Ognuna di esse è concepita come un'unità autonoma e autosufficiente, come un organismo che non dipende da altri. Tutto il 'destino' e tutto il 'senso' dell'umanità si giocano entro il chiuso delle singole forme elementari. Esse costituiscono organismi compatti, universi completi di verità, "ognuno chiuso in se stesso" (ibid.), assolutamente individuale e irripetibile, dotato della propria idea di morale, di natura, di storia, infine di umanità. Contro Kant, il quale sarebbe "il rappresentante più illustre della teoria dell'unità del genere umano" anche per quanto attiene alla dimensione spirituale, Spengler fa valere l'idea che l'uniformità è solo un dato biologico, mentre sul piano culturale e storico gli uomini sono irriducibilmente diversi (v. Conte, 1990, p. 16). Questa diversità, d'altronde, è del massimo rilievo, in quanto non concerne aspetti superficiali, bensì i modi culturali mediante cui l'umanità prende forma. Inoltre, poiché non esiste "alcuna unità superiore come termine di connessione tra le diverse civiltà", questi modi sono tra loro eterogenei e del tutto incomunicabili (v. Rossi, 1971, pp. 379 e 381). Infine, i caratteri dell'autonomia e della chiusura spiegano perché le civiltà non possano intrattenere tra loro alcuna relazione positiva: essi determinano "un ostacolo insormontabile al rapporto con altre civiltà" (ibid., p. 390).
Si può concedere volentieri che Spengler rappresenti una versione esasperata del relativismo culturale, fondata oltretutto su ricostruzioni storiche discutibili e su un'impostazione antropologica del tutto inaccettabile. Pur nella grossolanità della sua visione, il pensiero di Spengler pone tuttavia un problema di non poco conto per qualunque versione del relativismo che intenda conferire alla 'diversità' non solo una rilevanza quantitativa, ma anche una pregnanza qualitativa. Se gli esseri umani prendono forme culturalmente diverse e se entro i confini di tali forme si decide di volta in volta il senso della loro umanità, quali possono mai essere le relazioni effettive tra tali forme, tra i differenti 'tipi' di umanità? A dimostrazione che questo genere di problema non riguarda soltanto il relativismo esasperato di Spengler, può essere utile ritornare a Humboldt e alla sua indubbia propensione a conferire un significato profondo alla diversità tra le lingue. Anche per Humboldt vale ovviamente la formula D > U; anche per Humboldt pare non esservi "un punto d'osservazione dall'alto del quale si possa cogliere il mondo"; anche per Humboldt uscire dal mondo di una lingua particolare è possibile solo collocandosi nella prospettiva, altrettanto particolare, di un'altra lingua (v. Di Cesare, 1991, pp. XLII e L). Ma se tali sono il predominio e l'incidenza profonda della diversità, "se la diversità giunge sino ai significati, sembra allora aprire l'abisso dell'incomprensione" (ibid., p. XLII). Come avremo modo di vedere, Humboldt pone immediatamente rimedio a questo esito di chiusura solipsistica delle lingue o delle culture su loro stesse. Ma vi è da chiedersi se lo scenario che affiora dalle pagine di Spengler non corrisponda abbastanza bene all'immagine delle società umane che scaturisce dalla stessa antropologia che sposa un relativismo non sufficientemente corretto nelle sue deviazioni etnocentriche. Se l"interno' delle culture è denso di umanità, nel senso che solo all'interno delle culture prende forma l'umanità, il rischio è che lo spazio tra le culture divenga una sorta di terra di nessuno caratterizzata dall'incomunicabilità, dall'ignoranza e incomprensione reciproca, o peggio dal rifiuto, dal disprezzo, dall'esclusione, dalla sopraffazione, da tentativi di annientamento. Forme di umanità 'differenti' vengono avvertite come minacce, e in una situazione siffatta ogni cultura - portatrice di una forma di umanità peculiare, esclusiva - dovrebbe sentirsi giustificata nel suo atteggiamento di autoaffermazione o quantomeno di difesa, pena la sua soppressione, la sua perdita di identità.Il relativismo culturale, inizialmente tanto efficace nel porre in luce la varietà delle forme e delle soluzioni, e quindi nel togliere credibilità ai vari tipi di etnocentrismo (v. Etnocentrismo), rischia fortemente di tramutarsi in una sorta di avallo e di giustificazione di questo stesso atteggiamento. In una prospettiva tipicamente relativistica, nella quale non esistono istanze superiori oltre le varie culture particolari (ovvero le specifiche forme di umanità che in esse si incarnano), i passi che si compiono sembrano essere i seguenti: 1) riconoscimento della pluralità e delle differenze (criterio quantitativo); 2) attribuzione alle singole differenze di un peso specifico di umanità particolare (criterio qualitativo); 3) giustificazione dei sentimenti di lealtà verso i propri costumi e degli atteggiamenti di affermazione, rivendicazione, difesa della 'propria' forma di umanità. In questa visione l'etnocentrismo non appare più come una manifestazione condannabile; si configura invece come l'unica, vitale possibilità di affermazione della propria identità. Addirittura, l'etnocentrismo si presenta come la prova più irrefutabile di una verità generale (l'unica verità generale ammessa), quella secondo cui l'essenza dell'uomo coincide con la sua stessa diversità culturale. "Se vogliamo scoprire in che cosa consiste l'uomo - afferma Geertz (v., 1973; tr. it., p. 94, corsivo nostro) - possiamo trovarlo soltanto in ciò che gli uomini sono: e questi sono soprattutto differenti". Un'umanità negata come unità sostanziale; al contrario, un'umanità differenziata, spezzettata, pluralizzata nei vari tipi o forme entro cui si realizza: è lo stesso esito cui era pervenuto Spengler. Se dentro a ognuna delle singole forme si concentra in modi diversi e peculiari l'umanità, è logico attendersi quantomeno un'affermazione di identità che è anche un'affermazione della 'propria' umanità. Ma se per ognuna di queste culture la 'propria' umanità è anche l''autentica' umanità (realizzando anche qui un passaggio dalla quantità alla qualità), lo spazio esterno, quello delle altre culture, in quale altro modo potrà configurarsi se non come lo spazio della dis/umanità, di forme più o meno tollerabili di dis/umanità? Secondo Geertz, quando i Giavanesi affermano "Essere umani è essere giavanesi", essi manifestano una consapevolezza che difficilmente è raggiunta dagli stessi antropologi (ibid., p. 95). "Altri campi, altre cavallette", dicono ancora i Giavanesi, volendo con ciò significare che "essere umani non significa essere un qualsiasi uomo: vuol dire essere un particolare tipo di uomo, e naturalmente gli uomini sono diversi" (p. 96). Dunque anche i Giavanesi, a proposito dell'umanità, fanno coincidere ciò che è 'proprio' con ciò che è 'autentico', approdando anch'essi inevitabilmente alla definizione di forme di 'dis/umanità': all'interno della loro società, i bambini, gli zoticoni, i sempliciotti, i pazzi sono ndurung djava, "non ancora giavanesi", e fuori della loro cultura il comportamento dei cinesi locali "è tenuto in gran spregio".
3. Oltre il relativismo
Una catena di implicazioni - a partire dalla percezione della molteplicità di forme dell'umanità, fino all'affermazione della 'propria' umanità e lo 'spregio' o la negazione di quelle altrui - potrebbe descrivere efficacemente i tipi di scenari storici in cui i vari gruppi umani si dibattono tra reciproche tolleranze più o meno convinte e dichiarati atteggiamenti di sopraffazione. Per capire come il relativismo culturale abbia a che fare con tutto ciò, occorre distinguere tra il piano delle analisi e delle riflessioni antropologiche e il piano delle azioni e dei progetti sociali. Il relativismo - così come è stato presentato finora - è una prospettiva che attiene soprattutto al piano delle analisi e delle riflessioni: a essere - o a poter essere - relativisti sono gli antropologi, non le società che essi studiano. Le società non possono non essere etnocentriche; gli antropologi non possono che essere relativisti. E se sono relativisti che hanno compiuto i passi analizzati prima (dalla rilevazione delle differenze all'attribuzione a esse di un significato antropologico), gli antropologi o assumono un atteggiamento quasi di tipo moralistico-esortativo, affinché le società moderino il loro inevitabile etnocentrismo, oppure privilegiano un punto di vista più realistico, rischiando però di avallare con il loro stesso relativismo qualsiasi atteggiamento di separazione, di incomprensione e di esclusione, ovvero un atteggiamento che contrasta con l'accettazione e la valorizzazione della molteplicità che sembrano essere alla base del relativismo. In questo modo il relativismo rischia di coltivare nel suo oggetto la sua stessa negazione: le società e i loro comportamenti sono una costante e pesante smentita del relativismo e della sua aspirazione al riconoscimento e alla valorizzazione della molteplicità.
È mai possibile comprendere questa specie di controfinalità? Riteniamo che, allorquando dalla rilevazione della molteplicità si passa all'attribuzione di significati interni ai singoli universi culturali, ciò che prevale nettamente nei relativisti è una concezione 'chiusa' delle culture o delle società, come se davvero le società o le culture fossero universi in cui si decide tutto, in cui si elaborano tutte le risposte (ancorché particolari) di cui gli uomini hanno bisogno. Sarà una versione 'volgare' del pensiero di Ludwig Wittgenstein quella secondo cui ci si immagina "un'umanità divisa in isole culturali chiuse e incomunicanti, dotate ognuna dei propri criteri di razionalità non criticabili dall'esterno" (v. Dei e Simonicca, 1990, p. 35); ma è indubbio che la nozione wittgensteiniana di 'forme di vita' - così ampiamente utilizzata da Peter Winch e che secondo lo stesso Wittgenstein dobbiamo accettare come "il dato" (v. Wittgenstein, 1953; tr. it., p. 295) - spinge a immaginare mondi chiusi e in qualche modo autosufficienti e autoesplicativi. Che il carattere 'chiuso' dei mondi culturali sia un tratto che ritorna con preoccupante insistenza si può osservare proprio quando i pensatori maggiormente interessati a difendere il relativismo passano dalla considerazione di società tradizionali o premoderne alla considerazione della società moderna e, soprattutto, della scienza o delle comunità scientifiche. Agevolati in ciò dalle riflessioni di Thomas Kuhn sull'importanza decisiva dei 'paradigmi' e dalla possibilità di avvicinare la nozione di 'paradigma' a quelle di 'modelli' o tradizioni culturali (v. Barnes, 1969), confortati inoltre dall'invito rivolto da Paul Feyerabend a studiare le comunità scientifiche allo stesso modo con cui gli antropologi indagano una qualsiasi tribù primitiva, questo tipo di relativisti ha osato affermare che "le più valide comunità accademiche non sono più grandi della maggior parte dei villaggi di contadini e pressappoco altrettanto chiuse" (v. Geertz, 1983; tr. it., p. 199, corsivo nostro). Con questa specie di 'primitivizzazione' della società moderna si ottiene l'effetto di estendere anche all'area della modernità il modello della 'chiusura', smentendo l'ideologia dell''apertura' con cui il pensiero della modernità, specialmente in campo scientifico, si è da sempre presentato. Ma la questione più importante non riguarda tanto, o soltanto, l'estensione alla modernità di caratteri tradizionalmente attribuiti alla premodernità, bensì - e prima di tutto - la liceità di una visione 'chiusa' delle società umane (premoderne o moderne che siano).
È indubbio che il nocciolo dell'acceso dibattito sul relativismo - quale si è sviluppato negli ultimi decenni - coincide con la posizione della scienza moderna: da una parte i relativisti (reclutati tra antropologi, sociologi e filosofi della scienza) disposti a trascinare la scienza moderna in un novero di saperi locali e plurali, alternativi e difficilmente comunicabili; dall'altra coloro che invece scorgono in questa avventura un'abdicazione irrazionalistica. Karl Popper, ispiratore di questo secondo schieramento, non ha esitazioni ad appaiare relativismo e irrazionalismo come "deviazioni intellettuali" (v. Popper, 1969; tr. it., p. 636). Sono soprattutto i popperiani a scorgere nel relativismo un pericoloso "fantasma che ossessiona il pensiero umano" (v. Gellner, 1982, p. 181), schierandosi a difesa della scienza moderna. Con mossa indubbiamente astuta Gellner concede molto volentieri ai relativisti il principio della "diversità, della non universalità dell'uomo" (ibid.), in quanto da questo principio fa dipendere l'idea dell''unicità del mondo', anzi di 'questo' mondo, quello dominato dalla scienza moderna, dalla sua specifica 'tradizione epistemologica' e dal suo "miracoloso successo", un mondo creato abbattendo "tutti i sistemi di credenze circolari e autoconvalidantesi", sostituendoli invece con un "sapere cumulativo e comunicabile" (p. 189). Questo è anche il mondo tecnologico ed economico in cui coabitano diverse culture, le quali pur in competizione tra loro non trovano particolari difficoltà a comunicare. Ma questo "Unico Mondo" e questa "Unica Verità" non comportano affatto un'uniformità antropologica, un "Unico Uomo", perché questo mondo è stato prodotto da "una tradizione tra molte", una tradizione che è prevalsa sulle altre e che ha fornito una prospettiva mediante cui indagare tutte le altre tradizioni, le altre visioni del mondo (p. 191). In questo modo - sostiene Gellner - "noi abbiamo sconfitto il relativismo", il quale dunque appare come una prospettiva reale sì, ma storicamente superata, adatta a quel lungo periodo della storia dell'umanità in cui prevalevano i sistemi di 'credenze' autoconvalidantisi (mitologia, cosmologia, metafisica), mediante cui più facilmente si può sbrigliare la fantasia degli uomini: in quel periodo gli uomini si differenziavano culturalmente grazie alle loro 'credenze' e ai loro 'miti' (le credenze o i miti dividono; la verità al contrario unifica). C'è quindi "una radicale discontinuità nella storia", in quanto "la visione o lo stile cognitivo corretto appare soltanto in un punto definito nel tempo", e questo non è frutto di un'umanità generica e uniforme, ma soltanto di "un particolare stile di pensiero, che non è affatto universale tra gli uomini, ma culturalmente specifico", avente "specifiche radici socio-storiche" (pp. 191 e 200). Il fatto che questo mondo unificato sia disponibile e accessibile a tutti gli uomini, non toglie che esso sia stato costruito da "un tipo [particolare] di uomo", culturalmente e storicamente determinato.
Se per il primo schieramento - quello dei relativisti - tutti i mondi culturali (compresa la scienza moderna) sono chiusi e il relativismo appare dunque una prospettiva che ingloba anche la modernità, per il secondo schieramento - quello dei difensori della scienza e della modernità - la molteplicità di mondi chiusi, sostanzialmente incomunicabili, e il connesso relativismo appartengono a un passato ormai superato, sconfitti dall'unica 'società aperta', quella della scienza moderna. L'alternativa entro cui dovremmo scegliere sarebbe dunque tra un relativismo invincibile e onnipervadente e un relativismo che invece arretra di fronte all'apertura progressiva della modernità; tra una visione in cui tutti i mondi, compresa la modernità, sono chiusi e una visione per la quale tutti i mondi tradizionali sono chiusi, eccetto la modernità. Le due alternative hanno questo in comune: di considerare la chiusura come un fatto normale e tradizionale per le società; si distinguono invece per il fatto che la prima estende a tutte il carattere della chiusura, mentre la seconda ritiene che l'apertura sia caratteristica di una sola società.È però proprio vero che le società sono normalmente e tradizionalmente chiuse? Che nel chiuso di ogni singola cultura si decide il senso e la forma dell'umanità, addebitando agli 'altri' i vari gradi e forme di dis/umanità? Non può essere che l'antropologia, insieme alle altre scienze sociali, sia rimasta vittima di questa impostazione e non si sia attrezzata in maniera sufficiente per cogliere i fenomeni di apertura che potrebbero caratterizzare tanto le società moderne, quanto le società definite tradizionali? Abbiamo visto come in Humboldt l'approfondimento della diversità (una diversità non di segni e di suoni, ma di significati) comportasse il rischio dell''ncomprensione' reciproca tra le lingue; ma l'antropologia humboldtiana apporta correttivi assai importanti. Tra questi la relatività del concetto di diversità, in base alla quale ci si chiede dove possano essere tracciati confini sicuri e indiscutibili di differenziazione linguistica entro i due estremi della lingua del singolo individuo e quella del genere umano (v. Di Cesare, 1991, p. XLIII). Tutto ciò corrisponde alle riflessioni critiche che di recente impegnano l'antropologia sul carattere 'relativo' (sempre un po' arbitrario, costruito, imposto) dei confini di società e culture. In fondo, il vecchio relativismo culturale ha avuto il torto di accettare il carattere 'assoluto' (non relativo) dei confini, trattando le società come se fossero entità naturali (v. Leach, 1989). Su questo punto, occorre spingere più avanti il relativismo, ponendo in luce come i confini di differenziazione siano funzione non soltanto del punto di vista del ricercatore (v. Lévi-Strauss, 1958; tr. it., pp. 328-329), ma anche delle scelte degli attori sociali, i quali creano e ricreano 'noi' più o meno inclusivi. I confini, relativi alle scelte, si spostano, e le società corrispondentemente si ampliano o si restringono. Inoltre, entro i confini variabili e relativi di un qualsiasi 'noi', esistono "nessi aperti", la cui organizzazione "né chiusa né definitiva" può essere sempre modificata: come afferma Humboldt a proposito della lingua, abbiamo qui a che fare con un'attività che è sempre di "trasformazione" (v. Di Cesare, 1991, pp. LI e LXI).
Questa costante trasformazione, unitamente all'idea dei confini relativi, induce a pensare lingue, società e culture non come entità date, ma come processi in cui da subito è coinvolta, in vario modo e misura, l'alterità. E così l'idea che nelle singole culture prende forma l'umanità non viene affatto abbandonata; ma si aggiunge che, anziché avere luogo nel 'chiuso' di una cultura, questo processo si verifica preferibilmente nel 'dialogo' (non importa quanto ampio o ristretto, e quanto pacifico o conflittuale) 'tra' culture differenti. Sono le stesse società molto sovente a esigere il contatto con gli 'altri' per questioni di vitale importanza, a provocare quindi l''apertura' verso l'alterità e lo scambio interculturale: i confini, proprio perché sono posti, sono fatti anche per essere travalicati. Per riprodursi le società praticano spesso un'esogamia che le porta a cercare donne presso i loro 'nemici' (i Mae Enga della Nuova Guinea); per generare socialmente individui che riproducano la forma di umanità di una società particolare (i Konjo dell'Uganda) ci si rivolge a ritualisti stranieri (Amba); per garantire la continuità nel tempo della discendenza si cerca la morte tra gli altri, finendo grazie al cannibalismo nel loro ventre (Tupinamba del Brasile); per togliere il male, ovvero la 'stregoneria' che pure nasce 'all'interno' del 'noi' (i Lese dello Zaire), si fa ricorso addirittura a una forma diversa e 'inferiore' di umanità (i pigmei Efe). È normale per molte società (per esempio in Africa) relativizzare i propri spiriti e le proprie divinità, assumendo nei loro confronti un atteggiamento critico e ponendovi accanto divinità e tradizioni che provengono da un altrove anche molto lontano (cristianesimo, islamismo) come, del resto, è avvenuto nei numerosi casi di sincretismo religioso tipici del politeismo romano, nel quale vennero accolte in modo consapevole divinità di provenienza greca, iranica, semitica, etrusca, ecc. Risulta fondamentale infine per la definizione del nostro 'noi', per l'identità stessa della nostra civiltà, addentrarsi con l'antropologia nella molteplicità e apprezzare la diversità culturale.Il fatto è che per una sorta di diffuso errore antropologico abbiamo immaginato che nel 'chiuso' delle culture fossero contenute le 'risposte' a tutti i 'bisogni', primari e secondari (Malinowski), che contraddistinguono l'esistenza umana. Non ci si è accorti in tal modo che le culture non sono soltanto portatrici di risposte: anche con le loro risposte esse suscitano dubbi e perplessità, formulano domande, pongono problemi, per affrontare i quali non solo le società moderne, ma un po' tutte le società umane sono costrette a 'relativizzare' se stesse, i loro principî, i loro presupposti, barcamenandosi in tal modo tra un atteggiamento di antirelativismo (v. cap. 1), corrispondente a un'esigenza di definizione del 'noi', di identità, di 'chiusura', e un atteggiamento opposto, che si potrebbe ricondurre alle ragioni del relativismo, corrispondente all'esigenza della ricerca, dell'esplorazione delle possibilità in un qualche altrove, dell''apertura' verso l'alterità. È in definitiva questa attribuzione di relativismo alle stesse società umane ciò che consente di scorgere aperture e connessioni (non soltanto chiusure ed etnocentrismi) tanto nel mondo moderno quanto più in generale nel mondo umano e, nello stesso tempo, di superare le aporie di un relativismo come prospettiva riservata agli intellettuali occidentali, programmaticamente 'aperta' alla molteplicità e tuttavia troppo a lungo convinta del carattere 'chiuso' e 'incomunicabile' delle altre culture umane. (V. anche Antropologia ed etnologia; Cultura; Etnocentrismo; Evoluzione culturale umana, processi della; Natura e cultura).
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