Rivoluzione francese
Crolla il mondo dei privilegi e nasce il mondo dei diritti
Con l’espressione Rivoluzione francese si indicano gli eccezionali eventi politici avvenuti in Francia tra il 1789 e il 1799, con la formazione di una monarchia costituzionale (1789-92) e, dopo la caduta della monarchia (settembre 1792), con l’instaurazione della repubblica. Per il suo carattere di radicale trasformazione della società, la rivoluzione suscitò per contrasto una corrente controrivoluzionaria, che si espresse in varie forme, popolari e aristocratiche. La rivoluzione non rimase circoscritta alla Francia, e l’Europa intera fu influenzata dai suoi ideali
Nella seconda metà del Settecento la Francia, pur conservando una posizione di supremazia in Europa, cominciava a mostrare segni di crescenti difficoltà. Si accentuava il debito dello Stato e stava perdendo di prestigio la monarchia a causa dello stile di vita del re Luigi XVI. Questi si mostrava incapace di farsi valere sulla corte di Versailles, dove spadroneggiavano le fazioni nobiliari, e sulla moglie, l’austriaca Maria Antonietta, non amata dai Francesi.
A nulla servirono i progetti di riforma fiscale presentati nel 1787-88 dal ministro Calonne e dal successore Loménie de Brienne, perché furono bloccati dai ceti privilegiati, in particolare dalla nobiltà. Intanto aumentava il malcontento dell’opinione pubblica, che ormai criticava apertamente non solo il re ma anche l’istituto della monarchia e metteva in discussione un sistema sociale fortemente squilibrato a favore del clero e della nobiltà (antico regime). Cresceva la richiesta di forme di rappresentanza politica in grado di ridurre il potere assoluto del sovrano, dietro l’esempio di quanto era stato da poco realizzato nella Rivoluzione americana.
Spinto da diversi settori della società, Luigi XVI si decise a convocare gli Stati generali, un organismo di consultazione della nazione eletto sulla base delle tre classi (chiamate stati oppure ordini) in cui era divisa la società francese: clero, nobiltà, terzo stato. A questa ultima categoria apparteneva la stragrande maggioranza della popolazione. Sin dal giorno della convocazione, il 5 maggio 1789, i delegati del terzo stato si riunirono separatamente per definire le richieste da sottoporre al sovrano. Poco dopo si autoproclamarono Assemblea nazionale (17 giugno 1789), dichiarando di essere gli unici rappresentanti della nazione. A essi si unirono molti deputati del clero e della nobiltà e gli Stati generali cambiarono il nome assumendo quello di Assemblea nazionale costituente (9 luglio 1789).
Fu l’atto d’inizio della rivoluzione politica: i deputati dei tre ordini si attribuirono il compito di dare al paese una Costituzione, ossia una legge fondamentale base di un nuovo ordinamento dello Stato.
Il re tentò di bloccare l’azione dell’Assemblea, licenziando il direttore generale delle Finanze Jacques Necker, di idee riformatrici, e facendo affluire le truppe a Parigi, ma ottenne il risultato opposto.
Artigiani e borghesi di Parigi si ribellarono, prendendo d’assalto la Bastiglia, prigione e fortezza, simbolo del dispotismo regio, e distruggendola il 14 luglio 1789. Il movimento di protesta apparve così irresistibile da convincere Luigi XVI a scendere a patti: ritirò le truppe, richiamò Necker e concesse una Guardia nazionale, ossia un corpo armato che rispondeva agli ordini della municipalità di Parigi. Per placare gli animi si recò di persona dal sindaco di Parigi ricevendo la coccarda tricolore, il nuovo emblema che univa al bianco della monarchia il blu e il rosso dei colori di Parigi.
In luglio un nuovo sussulto rivoluzionario vide questa volta protagonisti i contadini, i quali si armarono per occupare i castelli e bruciare gli archivi dove i signori custodivano i contratti in virtù dei quali per secoli avevano preteso tasse e prestazioni di lavoro. Fu una rivolta di carattere antifeudale, dettata dalla fame e dalla paura. Dilagò a tal punto che anche i nobili presenti nell’Assemblea accettarono le rivendicazioni dei contadini pur di riportare l’ordine. Il 4 agosto 1789 l’Assemblea adottò provvedimenti che sopprimevano i privilegi fiscali della nobiltà e consentivano ai contadini di liberarsi dai vincoli feudali.
Pochi giorni più tardi l’Assemblea emanò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789), un testo che fissava solennemente i diritti di libertà politica, religiosa, di pensiero, di proprietà e la parità delle garanzie giuridiche per tutti i cittadini, ispirandosi ai concetti di libertà, di uguaglianza e di sovranità del popolo (diritti dell’uomo).
Essa abolì la monarchia assoluta, affermando «il principio che ogni sovranità risiede nella nazione», ossia che era il popolo a legittimare l’autorità politica, anche quella del re.
Di fronte alle esitazioni del sovrano, incerto se approvare o no le decisioni dell’Assemblea, la folla parigina scese in piazza. Tra il 5 e il 6 ottobre migliaia di donne, esasperate dalla carestia che colpiva la Francia, marciarono su Versailles e occuparono la reggia. A esse si unirono alcuni deputati del terzo stato, esigendo che il re accettasse i decreti dell’Assemblea. Luigi XVI finì col cedere e la famiglia reale fu costretta a trasferirsi a Parigi, scortata dalla folla.
L’Assemblea rifondò lo Stato francese. Abolita l’antica ripartizione amministrativa, la Francia venne divisa in 83 dipartimenti, a loro volta suddivisi in distretti, cantoni e comuni. La giustizia divenne gratuita ed eguale per tutti. Le tasse più odiose furono sostituite da nuovi contributi che tutti i Francesi dovevano pagare in rapporto ai loro redditi.
Per far fronte al debito dello Stato, i deputati decisero di mettere le proprietà della Chiesa a disposizione del paese. Quindi approvarono la costituzione civile del clero, una legge che trasformava radicalmente la Chiesa francese, stabilendo che parroci e vescovi fossero eletti dai fedeli e stipendiati dallo Stato e che dovessero giurare fedeltà alla Costituzione. Di fronte a tali cambiamenti il clero si divise: circa una metà giurò fedeltà alla Costituzione (clero costituzionale); l’altra metà si rifiutò (clero refrattario), continuando a obbedire al papa, che aveva rifiutato la riforma.
L’Assemblea terminò i suoi lavori nel settembre del 1791, approvando la Costituzione: nasceva la prima monarchia costituzionale francese e si realizzava la separazione dei poteri. Il potere di fare le leggi e di dirigere la politica generale del paese passò all’Assemblea legislativa, composta di 745 deputati eletti ogni due anni. Al re spettava la nomina dei ministri e il diritto di sospendere una legge approvata dall’Assemblea, ma per non più di quattro anni. Il sovrano non poteva sciogliere l’Assemblea, né dichiarare guerra, né firmare trattati di pace. Il potere giudiziario fu affidato alla magistratura, indipendente in quanto eletta. Il diritto di voto fu riservato solo agli uomini al di sopra dei 25 anni che pagassero tasse elevate, una soluzione che accontentava la borghesia mentre lasciava insoddisfatti i ceti popolari.
Intanto gravi difficoltà di natura economica rendevano quanto mai insicura la vita della gente, mentre a Parigi si susseguivano le manifestazioni contro l’aumento dei prezzi alimentari che impoveriva i ceti popolari. La protesta fu guidata dai sanculotti, termine con il quale si indicavano quei rivoluzionari, soprattutto artigiani e piccoli commercianti, che portavano i calzoni lunghi al posto di quelli fino al ginocchio (culottes), indossati dai nobili.
Luigi XVI, il quale aveva tenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti delle grandi novità impostegli, decise che era giunto il momento di contrastare la rivoluzione. In questo modo finì col farsi odiare dai Francesi, i quali non gli perdonarono il tentativo di fuga messo in atto nella notte tra il 20 e il 21 giugno 1791. Suo scopo era di unirsi alle forze controrivoluzionarie composte di migliaia di nobili emigrati all’estero. Il piano non riuscì: Luigi XVI fu catturato mentre tentava di passare segretamente la frontiera con il Belgio e riportato a Parigi.
Intanto aumentava la minaccia di un’invasione condotta dalle potenze straniere (Austria, Prussia e Russia) alleatesi con lo scopo di ripristinare la monarchia assoluta in Francia. A questa sfida i deputati dell’Assemblea legislativa risposero dichiarando la guerra (aprile del 1792). Gli eventi sembravano dare ragione al re, che sperava in una sconfitta dell’esercito francese, premessa per abolire l’odiata Costituzione, perché i primi combattimenti furono disastrosi per la Francia. A Parigi l’agitazione popolare cresceva, eccitata dal timore che sulla città piombassero i soldati prussiani.
Fu in quel clima di panico che il 10 agosto 1792 i sanculotti s’impadronirono del Palazzo reale, mentre l’Assemblea ordinava di imprigionare il re con l’accusa di tradimento della patria. Nei disordini di quei giorni la folla prese d’assalto le prigioni massacrando centinaia di detenuti tra aristocratici, preti contrari alla rivoluzione e prigionieri comuni.
Intanto i volontari partiti per il fronte a difendere la patria in pericolo riportarono a Valmy (20 settembre 1792) un’imprevista e decisiva vittoria sull’esercito prussiano, considerato il più agguerrito d’Europa. All’indomani di Valmy fu proclamata la repubblica e venne ordinato che il re e la sua famiglia fossero processati per alto tradimento. Condannato a morte, Luigi XVI salì al patibolo il 21 gennaio 1793. In ottobre la stessa sorte toccò alla regina Maria Antonietta.
La Francia trascorse mesi e mesi tra violenti scontri politici, anche a seguito di un’insurrezione, propagatasi in Vandea (regione situata lungo la Loira) e suscitata dall’odio per la rivoluzione nutrito dai nobili di sentimenti cattolici e monarchici e dai contadini da essi influenzati.
A Parigi aspre polemiche dividevano i gruppi politici presenti alla Convenzione, cioè la nuova assemblea di deputati eletti nel settembre del 1792 a suffragio universale maschile. Sui banchi più alti dell’aula sedevano i montagnardi, deputati di orientamento egualitario e antimonarchico, i quali conquistarono la maggioranza anche in due importanti club rivoluzionari (giacobini e cordiglieri). I maggiori esponenti di questo gruppo erano Maximilien de Robespierre, Georges Danton, Camille Desmoulins e Jean-Paul Marat. Alla destra dell’aula stavano i girondini, più moderati, che rappresentavano la borghesia degli affari. I deputati che sedevano al centro, denominato Palude, non avevano precise posizioni politiche e si spostavano appoggiando ora l’uno ora l’altro schieramento.
Nell’estate del 1793 i Francesi vissero altri momenti drammatici, simili a quelli dell’estate precedente. Le truppe nemiche, passate al contrattacco, stavano invadendo il paese, mentre la rivolta della Vandea non si placava e faceva migliaia di morti. Nella capitale erano frequenti i tumulti per il pane e diverse città della Francia insorgevano contro il governo di Parigi, appoggiate dalle potenze straniere.
In quella situazione di emergenza i poteri dello Stato furono affidati a un Comitato di salute pubblica (ottobre 1793), in cui sedeva Robespierre, il capo dei giacobini. Per bloccare la crescita del costo della vita, il Comitato fissò per legge il prezzo del grano e di tutti i generi alimentari. Per difendere i confini e la sicurezza interna della Francia, esso arruolò un nuovo esercito e inviò soldati in Vandea con il compito di reprimere la rivolta.
I metodi autoritari adottati dal Comitato di salute pubblica portarono alla repressione degli avversari politici e di diversi esponenti giacobini contrari ai metodi di Robespierre. Alcune migliaia di oppositori vennero ghigliottinate dopo processi sommari. Per questo motivo quel periodo, durato dall’autunno del 1793 all’estate del 1794, fu definito Terrore.
L’esercito rivoluzionario riuscì a sconfiggere a Fleurus i nemici (26 giugno 1794), liberando la Francia dal pericolo dell’invasione, a riconquistare le città ribelli al governo di Parigi – tra cui Marsiglia, Lione, Tolone – e a controllare la Vandea, dove tuttavia la ribellione continuò sotto forma di guerriglia. A quel punto la politica del Terrore non si giustificava più con lo stato d’emergenza, così che molti deputati si accordarono per destituire il Comitato di salute pubblica. Nella seduta del 27 luglio 1794 (9 termidoro dell’anno II, secondo il nuovo calendario repubblicano) fu decretato l’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, che il giorno successivo vennero ghigliottinati senza processo. Nel nuovo ciclo che si aprì, chiamato Termidoro, prevalse una linea politica moderata, anche se sanguinose vendette furono compiute ai danni dei giacobini. La svolta fu sancita da una nuova Costituzione (1795), che affidava il governo a un Direttorio, composto di cinque membri, e il potere legislativo a un’Assemblea divisa in due Camere.
Tra i generali delle armate francesi si era messo in luce un giovane originario della Corsica, Napoleone Bonaparte, che aveva conseguito eccezionali vittorie contro gli Inglesi e gli Austriaci. Le imprese militari lo avevano reso popolare in patria al punto da permettergli di presentarsi sulla scena politica come l’uomo che poteva riportare stabilità e ordine dopo un decennio di convulsa lotta politica. Con un colpo di Stato preparato dall’esercito e attuato il 9-10 novembre 1799 (18-19 brumaio), Napoleone abolì il precedente governo e trasferì tutto il potere a un Consolato nel quale accanto a lui sedevano due collaboratori. In tale veste emanò la Costituzione dell’anno VIII, in vigore dal 25 dicembre 1799, con la quale gli furono attribuiti pieni poteri.
La rivoluzione in Francia finiva a quel punto la sua storia: erano stati dieci anni di cambiamenti in ogni settore della politica e della società ed era allo stesso tempo iniziato il periodo della diffusione in tutta Europa delle idee rivoluzionarie. Sin dal 1789 gli avvenimenti francesi avevano avuto ampia risonanza nel resto dell’Europa, informata attraverso i giornali delle radicali novità. Si formarono gruppi conquistati dalle idee della rivoluzione, i quali tentarono di organizzarsi per imitare nei loro paesi quanto stava avvenendo in Francia. Sembrava loro che si aprisse un mondo nuovo, in cui i re non avrebbero più governato per diritto divino, gli uomini sarebbero stati eguali e liberi e avrebbero potuto scegliersi il tipo di governo ritenuto migliore. Libertà, fraternità, eguaglianza, le tre parole simbolo della rivoluzione, erano circolate per tutta Europa.
Negli Stati italiani la rivoluzione aveva acceso grandi speranze in alcuni settori della società, così che si erano costituiti gruppi di rivoluzionari repubblicani. Essi poterono passare all’azione nella primavera del 1796, quando il governo di Parigi decise di sferrare una guerra d’attacco che doveva servire ad ampliare i confini della Francia e ad abbattere le monarchie assolute in Europa. A Bonaparte fu affidato il comando di un’armata che doveva entrare in Italia per piegare la resistenza dei sovrani. L’attacco, sferrato a sud del Piemonte, fu incontenibile così da costringere il re sabaudo Vittorio Amedeo III all’armistizio.
Napoleone avanzò nella Pianura Padana: sbaragliato l’esercito austriaco entrò da trionfatore a Milano e trasformò una parte della Lombardia in repubblica. Nel 1797 egli firmò con l’Austria il trattato di Campoformio, prima importante tappa della rivoluzione politica dell’Italia. Infatti mentre Venezia, Istria e Dalmazia vennero cedute all’Austria, le province di Bergamo e Brescia furono unite ai territori milanesi e alle province dell’Emilia e della Romagna, dando vita alla Repubblica cisalpina. Per iniziativa dei Francesi e dei repubblicani italiani si costituirono quindi la Repubblica ligure, la Repubblica romana (1798), sorta nei territori dell’ex Stato pontificio con la fine del potere temporale della Chiesa (papa Pio VI fu portato prigioniero in Francia), la Repubblica di Napoli (1799) e i governi repubblicani in Piemonte e in Toscana (1798-99).