(gr. Σκύϑαι) Popolazione originaria delle steppe settentrionali dell’Asia centrale, organizzata in tribù nomadi (allevatori), seminomadi e sedentarie, cui Erodoto dedica parte del IV libro delle Storie. In seguito a movimenti di altre popolazioni, gli S. si spostarono stanziandosi (7° sec. a.C.) sulle coste asiatiche del Mar Nero, nella regione dagli antichi detta Scizia; poi, ricacciati dai Medi verso N, si scissero in due gruppi, di cui uno finì per stabilirsi di nuovo sul Mar Nero, un altro sul Mar Caspio (i Saci, iranici come gli altri S.). Dei loro costumi si sa da Erodoto che vivevano di pascolo e si nutrivano di carne e latte equini; abitavano su carri tirati da buoi; combattevano con arco e piccola spada. Il paese era diviso in distretti, con centro presso il santuario del dio della guerra, venerato sotto forma di spada: altra divinità era Tabili, una specie di Vesta. Non esistevano sacerdoti, ma veggenti, come gli androgini, probabilmente sciamani. Le tombe reali erano nella zona di Gerrhos, sul Dnepr. Nel 4° sec. gli S., penetrati in Bulgaria, furono fermati dalle migrazioni di Celti e Illiri e dalle spedizioni di Filippo e Alessandro Magno. Respinti man mano, nel 2° sec. costituirono un ultimo forte Stato in Crimea sotto la guida di Sciluro e di suo figlio Palaco; poi si divisero in vari nuclei isolati sino all’età delle grandi migrazioni barbariche. Furono abili nell’arte della lavorazione dei metalli, in particolare dell’oro, in cui si riconoscono influenze greche, anatoliche, mediorientali.
Le lingue scito-sarmatiche costituiscono un gruppo di lingue parlate dalle antiche popolazioni iraniche degli S. e dei Sarmati, penetrate e stanziatesi a N del Caucaso e nelle regioni della Russia meridionale. Appartengono al gruppo iranico della famiglia indoeuropea e oggi sono rappresentate dal solo osseto; sono documentate soltanto da qualche rara glossa e dall’onomastica di alcune iscrizioni greche delle colonie pontiche.