scultura
Forme e figure in rilievo
In quanto lavorazione di materiali come marmo e bronzo, per molto tempo la scultura è stata ritenuta frutto di un’altissima abilità artigianale, piuttosto che prodotto di un’attività artistica al pari della pittura. Considerata nei secoli come tecnica decorativa degli edifici oppure come raffigurazione in rilievo della realtà, la scultura ha assunto nel tempo caratteri ben riconoscibili. Questa evoluzione ha consentito di distinguere diversi tipi di rilievo e di adottare un linguaggio moderno. Le nuove tecniche hanno gradualmente liberato lo scultore dalla manipolazione diretta dei materiali, giungendo nell’arte contemporanea a esaltare il momento dell’ideazione creativa
Quando sentiamo parlare di scultura subito immaginiamo un artista che scolpisce una statua lavorando un blocco di pietra con uno scalpello. Ma per gli antichi Romani il termine statua era applicato soltanto agli oggetti ottenuti dalla fusione del bronzo, mentre per scultura intendevano la lavorazione di oggetti in pietra, nelle numerose varietà del marmo, granito, porfido, travertino.
La diversità dei materiali impiegati – come nel caso di bronzo e pietra, ma anche nelle sculture in legno, avorio e terracotta – richiedeva strumenti e tecniche esecutive assai differenti: le statue bronzee erano infatti ottenute versando il metallo fuso su un modello, mentre le sculture venivano fatte fuoriuscire dal blocco di pietra togliendo con gli scalpelli tutto il materiale superfluo. Per sottolineare queste differenze tecniche, nel Rinascimento la scultura in pietra viene definita come arte del levare e la fusione bronzea come arte del porre. Entrambe erano considerate arti puramente meccaniche, frutto cioè di una grande abilità manuale che non richiedeva istruzione teorica.
A differenza della pittura basata sulle regole geometriche della prospettiva e ritenuta dal Quattrocento un’attività prodotta anche grazie alle capacità intellettuali degli artisti, la scultura non divenne mai un’arte liberale, rimanendo – come affermava Leonardo – «arte meccanicissima che genera sudore e fatica». Per tale ragione non esisteva una corporazione che riunisse tutti gli scultori, ma essi erano associati ai lavoratori del marmo e della pietra accanto ai semplici scalpellini, oppure ai fonditori di campane o cannoni, o ai maestri di legname quando si occupavano di intagliare le sculture in legno.
A partire dalla fine del 17° secolo, l’adozione di strumenti meccanici per misurare la proporzionalità della scena da rappresentare semplificò il lavoro manuale degli scultori, che iniziarono a delegarlo ai propri assistenti.
Nell’arte contemporanea la tecnica esecutiva non riveste più alcun ruolo, sia per il costante impiego di materiali industriali sia per l’attenzione prevalentemente concentrata sull’ideazione creativa e sull’installazione.
La definizione di scultura come arte del levare viene formulata nel Quattrocento da Leon Battista Alberti nel trattato De statua, che già nel titolo identifica l’arte di scolpire con l’esecuzione di statue secondo il significato moderno. Alberti, infatti, si occupa essenzialmente della scultura in marmo, descrivendo lo strumento di sua invenzione chiamato finitorium, che consente di misurare con precisione un modello antico per eseguirne una copia esatta. Il suo era un tentativo di individuare anche per la scultura una serie di norme matematiche simili alle regole prospettiche della pittura, al fine di dimostrare il fondamento scientifico e dunque intellettuale alla base della tecnica scultorea.
Gli scultori, tuttavia, erano abituati a lavorare la pietra ingrandendo a occhio proporzionalmente i piccoli modelli che avevano plasmato in creta e pertanto non adottarono mai la procedura suggerita da Alberti a causa della grande quantità di tempo richiesta. Nel loro apprendistato gli scultori erano infatti divenuti abili scalpellini in grado di eseguire cornici decorative (geometriche e poi floreali), particolari compositivi e infine anche figure intere con o senza panneggi, seguendo le diverse fasi della sbozzatura del blocco marmoreo, gradinatura e modellatura per realizzare il modellato tridimensionale e concludendo il lavoro con levigatura e politura per rendere perfettamente lisce e lucide le superfici.
Talune fasi esecutive non erano eseguite in prima persona dallo scultore, che si serviva di maestranze specializzate, come nel caso della sbozzatura, che ai tempi di Michelangelo si svolgeva direttamente nella cava dove veniva estratto il marmo; così come per la levigatura e politura esistevano degli operai, chiamati per quella specifica mansione una volta che la lavorazione scultorea fosse conclusa.
Anche se risulta difficile considerare la fusione del bronzo come una sovrapposizione di materiali diversi, questo è esattamente ciò che avveniva nella tecnica metallurgica degli antichi Romani, recuperata nel corso del Quattrocento grazie agli sforzi di diversi scultori come Ghiberti, Donatello e Andrea del Verrocchio, la tecnica cioè della fusione a cera persa.
Seguendo questo sistema si eseguiva un modello a grandezza naturale in creta della forma o figura che si voleva fondere; successivamente, sopra al modello ben plasmato in tutti i suoi dettagli, veniva applicato uno strato di cera, dello spessore equivalente a quello desiderato per il bronzo. Sul modello ricoperto di cera era poi costruita tutto attorno una copertura, solitamente in terra (forma fusoria), con aperture in alto e in basso (canali di fusione) per far uscire la cera nel forno e far colare il bronzo nell’intercapedine prodottasi dall’uscita della cera. Una volta raffreddata, la forma fusoria era aperta e appariva il bronzo con tutti i canali di fusione ancora attaccati che richiedevano un paziente lavoro di limatura e levigatura, prima di procedere alla patinatura con l’oro.
Questa tecnica era chiamata a cera persa perché durante la fusione lo strato di cera applicato sopra al modello si scioglieva senza che se ne potesse recuperare la forma, così come non poteva essere riutilizzato il modello in creta poiché, una volta cotto, diveniva terracotta e alla fine del procedimento si sbriciolava all’interno della forma fusoria.
Essa consentiva statue in bronzo di grandi dimensioni e cave all’interno, ma richiedeva un’esecuzione senza errori perché il modello originale veniva distrutto nel corso della fusione; inoltre si poteva ottenere la realizzazione di un unico esemplare. Il problema principale era costituito dal cosiddetto congelamento del bronzo, che poteva rapprendersi nei canali senza colare nella forma fusoria a causa di un improvviso abbassamento di temperatura della fornace a legna. La fusione del Perseo di Benvenuto Cellini fu un evento eccezionale, anche perché lo scultore riuscì a far riprendere la colatura del bronzo dopo che si era fermata.
La perdita del modello originale fu risolta nella seconda metà del Cinquecento con l’esecuzione di un calco in gesso, in modo da ottenere da questa matrice cava dell’originale un duplicato (sempre in creta) sopra il quale realizzare la fusione.
Per sculture di grandi dimensioni era necessario suddividere il calco in gesso in numerosi tasselli che, come riferisce Vasari, venivano numerati e ricomposti al momento di ottenere la copia in creta. Da tale suddivisione deriva la denominazione di tecnica di fusione a tasselli, diffusa largamente nel corso del Seicento anche per la moda di collezionare copie in bronzo di famose statue antiche e ben illustrata nelle tavole della Encyclopédie settecentesca di Denis Diderot e Jean-Baptiste d’Alembert.
Il modello in creta assunse una notevole importanza anche nell’esecuzione delle sculture marmoree tra Seicento e Settecento quando – grazie alla richiesta del re francese Luigi XIV di ottenere per la sua reggia di Versailles delle copie esatte delle più belle statue romane dell’antichità – gli scultori accademici recuperarono il trattato quattrocentesco di Alberti e da esso ricavarono la versione moderna del finitorium: il telaio metrato. Il telaio metrato consentiva di misurare accuratamente il modello originale e trasferirne le misure sul blocco marmoreo al fine di eseguire una perfetta copia in marmo.
È probabile che anche Gian Lorenzo Bernini abbia avuto notizia degli esperimenti che gli scultori dell’Accademia di Francia andavano conducendo nella sede di Roma ma, dichiarando categoricamente che egli non avrebbe mai scolpito una copia, preferì continuare a servirsi della sua eccezionale abilità nel calcolare le proporzioni della statua finita a partire da un modello in creta di piccole dimensioni.
Fu invece all’interno di grandi cantieri scultorei come quello della Fontana di Trevi a Roma che i telai metrati cominciarono a essere impiegati anche dagli scultori italiani, in particolare della bottega di Antonio Canova.
Come si vede in un disegno di Francesco Chiaruttini, Canova trasferiva le misure sulla scultura da eseguire a partire da un modello a grandezza naturale, realizzato non in creta ma in gesso. La creta, infatti, avevail difetto di essiccarsi in maniera diversa a seconda degli spessori, perdendo così progressivamente le proporzioni originarie. Realizzando un calco in gesso del modello in creta e ottenendo dal calco un modello duplicato in gesso, Canova aveva il duplice vantaggio di poter prendere le misure su un materiale inerte come il gesso e al tempo stesso suddividere il procedimento esecutivo in numerose fasi, ciascuna affidata a un operaio specializzato che lo liberava dalle incombenze più faticose, come la sbozzatura del blocco, la misurazione, la prima fase di modellazione e le fasi finali di levigatura e lucidatura.
Strumenti di misura. Nel rilievo raffigurante Fidia nel Campanile di Giotto a Firenze sono rappresentati alcuni tipici strumenti usati dallo scultore per le misure, come la squadra, per passare poi all’uso di scalpelli, mazze e mazzuoli oppure del trapano per ottenere fori precisi. Esaminando poi il rilievo del tabernacolo dei Quattro Santi Coronati di Nanni di Banco, in Orsanmichele, si constata che a distanza di oltre un secolo gli strumenti non si sono affatto modificati: si distingue l’archipenzolo a forma triangolare, usato per misurare le pendenze, e lo stesso trapano raffigurato da Giotto (il trapano ad asta).
Trapani. Il trapano ad asta portava tale nome perché per utilizzarlo bisognava avvolgere una cordicella legata all’asta verticale con la punta attorno al braccio orizzontale, in modo che, appoggiando la punta sul marmo da bucare, si potesse liberare la cordicella che srotolandosi faceva muovere velocemente la punta. Questo tipo di trapano era di uso comune e di semplice uso, ma dopo qualche tempo richiedeva allo scultore una sosta perché veniva premuto sulla superficie marmorea appoggiandovi il torace: fu probabilmente per l’eccessivo utilizzo di questo strumento nel corso dell’esecuzione del monumento sepolcrale a Clemente XIV che Canova si procurò una deformazione alle costole che gli creò numerosi malesseri per tutta la vita.
Un altro tipo di trapano era detto a violino e funzionava nello stesso modo, salvo che la cordicella era libera e tirata da un assistente, mentre lo scultore teneva premuta la punta per realizzare il foro, come si vede nelle tavole dell’Istruzione elementare per gli studiosi della scultura di Francesco Carradori (1802). Il trapano era impiegato non solo per eseguire fori – in particolari come i riccioli delle capigliature, delle barbe o delle criniere dei leoni di Nicola Pisano – ma anche per creare la traccia precisa di due elementi da separare nettamente, come una gamba accanto a un tronco d’albero, che con la consueta lavorazione degli scalpelli avrebbe richiesto più tempo e più fatica.
Scalpelli. Le diverse tipologie di scalpelli non hanno subito grandi variazioni nel corso dei secoli, anzi generalmente è evidenziata la somiglianza piuttosto stupefacente degli attrezzi moderni con quelli più antichi. Un esempio significativo è offerto dalla gradina, uno scalpello a tre o più punte che lascia nel marmo una traccia simile a quella di una forchetta nel purè, e che possiamo subito individuare sia nel tronco che sostiene la figura del Satiro in riposo – copia romana della famosa scultura di Prassitele – sia nel volto del Giorno di Michelangelo.
Un altro tipo di scalpello molto diffuso era il ferrotondo, che lasciava nel marmo una traccia simile a quella del cucchiaino in un budino, come si vede sul lato destro della Verità di Bernini.
L’abitudine a vedere le sculture in marmo candide come la più pregiata varietà del marmo di Carrara fa dimenticare che anch’esse in origine potevano essere policrome, cioè ricoperte di strati di colore. Analogo è il caso delle sculture polimateriche (realizzate, cioè, mediante l’uso di materiali diversi), la cui comparsa è assai più antica del primo decennio del Novecento, quando i futuristi italiani cominciarono a proporre assemblaggi di vari materiali sviluppando nell’ambito della scultura i collage cubisti di Picasso. Osservando i rilievi e le sculture degli antichi Egizi, come per esempio il busto della regina Nefertiti, vedremo nello stesso tempo un’opera policroma e polimaterica, poiché insieme al colore sono impiegati dei cristalli di rocca per rendere più preziosa la scultura modellata in calcare.
La pratica di colorare la scultura in pietra era assai più diffusa di quanto oggi possano testimoniare le scarse tracce di policromia rimaste, come i marmi del Partenone in origine dipinti su un sottilissimo strato di intonaco. Lo scrittore latino Plinio il Vecchio descrive nel 1° secolo d.C. la stesura del colore applicata da Nicia sulle statue di Prassitele, per cui la purezza dei marmi antichi esaltata nella scultura rinascimentale e ripresa nel Settecento dagli scultori neoclassici derivava in sostanza da una interpretazione della scultura classica che non teneva conto delle policromie originali, perdute a causa degli agenti atmosferici.
Il gusto per il colore applicato alle forme scolpite è confermato anche dalle tracce di policromia presenti sui rilievi e sulle sculture delle cattedrali medievali, dove i colori erano generalmente applicati a colla e a olio e accompagnati dall’inserimento di lamine dorate come nella contemporanea pittura su tavola, ma anche e soprattutto nella scultura lignea policroma.
La policromia e la doratura erano in epoca medievale le più consuete applicazioni finali per le sculture in legno eseguite intagliando i tronchi di diverse tipologie di legni. Poiché la forma e le dimensioni dei tronchi degli alberi non consentivano di ottenere una scultura in un pezzo unico – per esempio un Cristo crocifisso con le braccia aperte – era necessario operare incastri e incollaggi di diversi pezzi, che non potevano rimanere in vista e venivano quindi nascosti e ricoperti con la policromia eseguita a tempera d’uovo e con l’applicazione di lamine d’oro e d’argento su una preparazione a terra rossa chiamata bolo.
Nelle sculture lignee, particolarmente diffuse dal Duecento al Quattrocento, oltre alla policromia si riscontra anche la presenza di materiali diversi, dal momento che spesso nei diademi, nelle corone o nelle aureole delle figure rappresentate erano inseriti vetri, perle, gioielli o pietre preziose, che rendevano tali sculture manufatti polimaterici assai prima della loro comparsa ufficiale agli inizi del Novecento.
La terracotta viene ottenuta – oggi come millenni fa – modellando l’argilla con acqua e ponendola a cuocere al forno finché assuma la sua tipica colorazione rossastra.
La terracotta risulta estesamente impiegata nel corso del Medioevo per rilievi e per decorazioni architettoniche eseguite sulle facciate delle chiese – come nel caso dell’abbazia di Pomposa – nelle regioni prive di pietra da taglio o di cave di marmo. L’esecuzione di tali rilievi veniva condotta dai tagliapietracotta a mano libera mediante scalpelli, senza quindi servirsi di stampi premodellati, sistema che era uno di tre principali che venivano adottati per la lavorazione dell’argilla: a mano, al tornio, a stampo.
Se il tornio era generalmente destinato alla produzione del vasellame, la rappresentazione di figure sacre a tutto tondo era normalmente eseguita a mano, scavando l’interno per evitare di appesantire eccessivamente la scultura. Dopo la modellazione le figure venivano policromate stendendo il colore a pennello con terre naturali a base di ossidi metallici, che erano poi fissati stabilmente mediante una successiva cottura in forno.
Un particolare tipo di effetto decorativo venne ottenuto nel Quattrocento da Luca della Robbia. Le sue famose ceramiche invetriate, con figure in bianco lucido su fondi azzurri, erano ottenute applicando dopo la modellazione una vernice composta da silice (piombo e ossido di stagno) che rendeva i colori lucidi e indelebili.
La scultura del 20° secolo si è costantemente servita di numerosi e diversi materiali assemblati insieme, che acquistano un valore e un significato estetico solamente sulla base delle scelte espressive dell’artista e non più grazie alla sua abilità tecnica. Con il ready-made di Marcel Duchamp, infatti, qualsiasi oggetto reale può diventare un’opera d’arte mediante la manipolazione dell’artista.
L’utilizzazione di oggetti reali frantumati, rottami, rifiuti, materiali di scarto, ma anche laminati metallici, plastiche, resine, cemento, acciaio, vetro, tubi al neon, consente allo scultore di comporre forme espressive totalmente autonome e libere da ogni vincolo di rappresentazione della realtà. Viene così completamente superata la tradizionale distinzione tra scultura e pittura per suscitare invece sentimenti, emozioni, concetti e situazioni del tutto nuove.