SOCIETÀ CIVILE
Storia del concetto
di Giuseppe Bedeschi
Nel pensiero giusnaturalistico del Seicento 'società civile' è sinonimo di 'società politica', e quindi di Stato (ma già Alberto Magno, nel suo commento alla Politica di Aristotele, aveva parlato di "società civile o politica", e in età moderna Bodin aveva definito la repubblica come societas civilis). I due pensatori che possono essere citati a questo riguardo sono Hobbes e Locke. A proposito del patto stipulato dagli individui per abbandonare lo stato di natura e dar vita allo Stato, Hobbes dice: "Un'unione così fatta si chiama Stato (civitas), ossia società civile [...]" (De cive, V, 9). Allo stesso modo Locke intitola il VII capitolo del Secondo trattato sul governo "Della società politica o civile": tale società sorge dall'accordo fra gli individui che vivono nello stato di natura di abbandonare questa condizione e di dar vita, appunto, a una "società civile o politica". Questa definizione di Locke è tanto più rimarchevole, in quanto per lui lo stato naturale non ha affatto quella connotazione asociale che ha per Hobbes (per il quale lo stato naturale è in primo luogo "una guerra di tutti contro tutti", e in secondo luogo è uno "stato odioso e miserabile", caratterizzato da "desolante miseria", sicché la contrapposizione fra stato naturale e società civile risulta in Hobbes ancora più plastica); per Locke, invece, lo stato naturale è già in notevole misura una società, in quanto è caratterizzato da istituti e da rapporti sociali che sono tipici della società civile (famiglia, proprietà privata, uso della moneta, economia mercantile notevolmente sviluppata): e tuttavia, per Locke, la società civile è solo e soltanto la società politica, e, quindi, lo Stato.
Il quadro cambia radicalmente nel Settecento con il Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini (1755) di Rousseau: qui, infatti, società civile e società politica non coincidono più. Se è vero che anche in Rousseau stato naturale e società civile sono distinti, e che la società civile si costituisce al culmine di un processo di sviluppo che modifica progressivamente e profondamente lo stato naturale fino a farlo scomparire, tuttavia la società civile non è la società politica, ma piuttosto quella condizione che, creata dallo sviluppo economico e caratterizzata da differenze sociali sempre più forti, e quindi resa insicura da tensioni sociali sempre più aspre, genera la società politica attraverso il contratto iniquo che sanziona le differenze sociali medesime. "Il primo - suona la celebre affermazione di Rousseau - che, recintato un terreno, ebbe l'idea di dire: questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile" (Discorso su l'origine e i fondamenti della ineguaglianza, a cura di V. Gerratana, Roma 1968, p. 133). La società civile si costituisce dunque sulla base della proprietà privata (che era assente nelle prime fasi dello stato naturale), e proprio la salvaguardia della proprietà privata richiederà l'edificazione della società politica, con le sue istituzioni e le sue leggi, e quindi dello Stato.
La distinzione fra società civile e società politica, operata da Rousseau, riuscirà più chiara qualora si ponga mente al processo che, secondo il pensatore ginevrino, porta alla dissoluzione e al superamento dello stato di natura. In una primissima fase di tale stato gli uomini vivevano isolati, e avevano pochi elementari bisogni facilmente appagabili. Ma a mano a mano che il genere umano si estese, gli uomini dovettero far fronte a diverse difficoltà (cattive annate, inverni lunghi e rigidi, estati torride che distruggevano i raccolti), le quali esigevano una nuova operosità. Essi divennero così pescatori e cacciatori, e diedero vita alle prime associazioni più o meno provvisorie. Lentamente ma irresistibilmente gli uomini entrarono in una seconda fase dello stato naturale, che vide il sorgere delle famiglie e la costruzione delle prime capanne. Rousseau mette in rilievo gli aspetti negativi che già caratterizzano questo primo passo degli uomini verso la civiltà. "Ci si abituò a riunirsi davanti alle capanne o intorno a un grande albero; il canto e la danza, veri figli dell'amore e dell'ozio, divennero lo svago o meglio l'occupazione degli uomini e delle donne sfaccendati e riuniti. Ognuno cominciò a guardare gli altri e a volere a sua volta essere guardato, e la stima pubblica ebbe un valore. Chi cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, il più abile o il più eloquente, divenne il più stimato; e questo fu il primo passo verso l'ineguaglianza e al tempo stesso verso il vizio; da queste prime preferenze nacquero da una parte la vanità e il disprezzo, dall'altro la vergogna e l'invidia, e la fermentazione causata da questi nuovi lieviti produsse infine dei composti dannosi alla felicità e all'innocenza" (ibid. pp. 138-39). E tuttavia, secondo Rousseau, questa è stata "l'epoca più felice e duratura" per il genere umano (p. 140). Il motivo di questa felicità stava nel fatto che gli uomini si dedicavano "solo a lavori che potevano essere fatti da una sola persona e ad arti che non avevano bisogno della collaborazione di parecchie mani", sicché essi "vissero liberi, sani, buoni e felici quanto glielo permetteva la loro natura e continuarono a godere tra loro la dolcezza di un rapporto indipendente" (p. 140).
Ma il quadro mutò radicalmente, e si entrò così nella terza fase dello stato naturale, "dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell'aiuto di un altro uomo, da quando ci si rese conto che era utile a uno solo avere provviste per due", sicché l'eguaglianza scomparve e sorse la proprietà (non più limitata ai bisogni individuali).Questa terza fase dello stato naturale è caratterizzata da una "grande rivoluzione", prodotta dall'invenzione di due arti, la metallurgia e l'agricoltura. "L'oro e l'argento per il poeta, ma per il filosofo sono il ferro e il grano che hanno civilizzato gli uomini e perduto il genere umano" (p. 141).
Metallurgia e agricoltura, infatti, richiedono una prima forma di divisione del lavoro ("dato che ci volevano uomini per fondere e forgiare il ferro, ce ne volevano altri per nutrire i primi", p. 142), e quindi realizzano un meccanismo di dipendenza sociale: l'uomo non è più libero e indipendente, ma dipende da tutti gli altri. E non solo. Metallurgia e agricoltura avviano un formidabile ed esiziale processo di diseguaglianza sociale. L'individuo più forte, infatti, produce di più, il più abile ricava maggior profitto dalla sua opera, il più ingegnoso trova dei mezzi per abbreviare il lavoro. In questo modo le differenze fra gli uomini si estendono costantemente e incominciano a influenzare nella stessa proporzione la sorte degli individui (p. 143).Con ciò lo stato di natura è completamente scomparso ed è sorta la società civile. La quale è sì una consociazione di uomini, ma fondata sulla loro più completa dissociazione, in quanto è caratterizzata dall'"ambizione divorante", dalla "smania di innalzare la propria posizione", dalla "oscura tendenza a nuocersi reciprocamente"; "in una parola, nella società civile troviamo da una parte concorrenza e rivalità, dall'altra opposizione d'interessi, e sempre il desiderio nascosto di guadagnare a spese degli altri" (p. 144).
Avviene così che la società civile, lungi dal configurarsi come un'associazione pacifica di individui, si presenti come una sorta di bellum omnium contra omnes (dunque la guerra non caratterizza affatto lo stato di natura, come invece pensava Hobbes, bensì proprio la società civile). Essa, infatti, è suddivisa ormai in ricchi e poveri, ed è fondata su un meccanismo sociale che rende i ricchi sempre più ricchi e potenti, e i poveri sempre più poveri e indifesi, alla mercé dei primi. "Così accadde che [...] l'eguaglianza spezzata fu seguita dal più spaventoso disordine; così accadde che le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancora debole della giustizia, resero gli uomini avidi, ambiziosi e malvagi [...]. La società nascente dette luogo al più orribile stato di guerra" (p. 145).
Ma se la società civile è un tale bellum omnium contra omnes, allora essa non garantisce la sicurezza di nessuno, e in primo luogo non garantisce la sicurezza dei ricchi. I quali concepiscono dunque "il progetto più ponderato che sia mai stato ideato da intelletto umano": quello di utilizzare a loro vantaggio proprio le forze di coloro che li attaccavano, e dei loro avversari fare i loro difensori, ispirare loro altri principî e dar loro altre istituzioni che fossero tanto favorevoli ai ricchi quanto il diritto naturale era loro contrario (p. 146). Ossia i ricchi propongono questo patto a tutti gli altri membri della società civile: "Uniamoci per garantire i deboli dall'oppressione, moderare gli ambiziosi ed assicurare a ciascuno il possesso di ciò che gli appartiene; istituiamo regolamenti di giustizia e di pace ai quali tutti siano obbligati a uniformarsi, che non facciano eccezione per nessuno, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna, sottomettendo sia il forte che il debole a doveri reciproci. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, uniamole in un potere supremo che ci governi con sagge leggi, che protegga e difenda tutti i membri dell'associazione, respinga i nemici comuni e ci mantenga in un'eterna concordia" (p. 146). Sulla base di questo patto sorge il corpo politico o società politica, ovvero lo Stato.
Lo Stato, dunque, è il risultato di uno stratagemma ovvero di un inganno dei ricchi. Esso, infatti, non fa che garantire e sanzionare le disuguaglianze e le iniquità della società civile; procura nuovi intralci al debole e nuove forze al ricco; distrugge una volta per tutte la libertà naturale; fissa per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza; fa di un'abile usurpazione un diritto irrevocabile; assoggetta tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria, a vantaggio di pochi ambiziosi (p. 147). Ecco perché lo Stato politico, nonostante tutte le fatiche dei più saggi legislatori, è rimasto sempre imperfetto: perché esso soffriva di un vizio fondamentale. "Si continuava ad accomodare, mentre sarebbe stato necessario incominciare col far piazza pulita e gettare via tutti i vecchi materiali per poi costruire un buon edificio, come fece Licurgo a Sparta" (p. 149).La concezione rousseauiana della società civile e dei suoi rapporti con la società politica costituisce una tappa fondamentale del pensiero politico occidentale. Senza di essa non si può intendere né la concezione che Hegel avrà del rapporto fra società civile e Stato, né quella di Marx.
Nel Settecento viene sviluppata oltre Manica, in ambiente scozzese, un'altra concezione della società civile, assai diversa da quella di Rousseau. Infatti il Saggio sulla storia della società civile (1767) di Adam Ferguson si apre in diretta polemica proprio contro Rousseau (e contro Hobbes). Rousseau, dice Ferguson, ha rappresentato gli esseri umani nella loro condizione primitiva come dominati da semplice sensibilità animale, completamente privi delle facoltà che li rendono superiori agli animali bruti, di legami politici, di mezzi per esprimere le proprie idee. Hobbes, invece, ha fatto consistere lo stato di natura in guerre continue scatenate da lotte per il potere e per l'interesse, dove ogni individuo è in conflitto con la propria specie, e dove la sola presenza di un suo simile è un segnale di battaglia.
Entrambe queste rappresentazioni sono, secondo Ferguson, false, perché falso è il presupposto dal quale esse muovono, anche se esse lo intendono diversamente: l'idea di stato di natura. In realtà è impossibile ipostatizzare uno stato di natura presociale, perché l'uomo è caratterizzato dal progresso, e proprio ciò lo differenzia dall'animale. Nelle altre specie animali l'individuo si sviluppa dall'infanzia fino alla maturità, e nell'arco di una singola vita raggiunge tutta la perfezione cui la sua natura può pervenire. Nel genere umano, invece, è la specie stessa a realizzare un progresso. Ogni generazione costruisce sulle fondamenta poste dalle generazioni precedenti, e, nel susseguirsi degli anni, la specie tende a una perfezione che richiede il supporto di una lunga esperienza e gli sforzi congiunti di molte generazioni.L'ipotesi dello stato di natura è quindi inutile, perché sterile. In realtà, nell'uomo la società sembra essere tanto antica quanto l'individuo, e l'uso della lingua tanto universale quanto quello della mano o del piede. Se vi è stato un tempo in cui l'uomo ha dovuto prendere cognizione della propria specie e acquisire le proprie facoltà, di questo tempo non conserviamo testimonianze, e in relazione ad esso le nostre opinioni non hanno alcuna utilità, poiché non sono sostenute da alcuna prova.
Dobbiamo attenerci, nello studio della storia degli uomini, alle testimonianze che ci sono state tramandate. E tutti i resoconti, anche i più antichi, provenienti da ogni parte della terra, rappresentano gli esseri umani riuniti in gruppi e comunità, e l'individuo sempre unito da legami di affezione a un gruppo e in contrasto netto con un altro gruppo. Perciò gli esseri umani debbono essere considerati in gruppi, così come sono sempre vissuti.
Anche per Ferguson la proprietà privata ha la più grande importanza per lo sviluppo della società civile, ma in senso positivo, non in senso negativo. Egli suddivide infatti i popoli primitivi in due categorie: quelli che quasi non conoscono la proprietà e quelli che praticano tale istituzione. I primi poggiano il loro sostentamento principalmente sulla caccia, sulla pesca o sui prodotti naturali del suolo, che consumano in comune, e fra di loro si trova appena un inizio di subordinazione o di governo. I secondi, possedendo greggi, e dipendendo dal pascolo per i loro viveri, si dividono in poveri e in ricchi: di qui la relazione tra signore e cliente, tra servo e padrone, di qui un'articolazione sociale complessa. Quest'ultima ha certo degli inconvenienti, ma è anche condizione del progresso sociale e civile degli uomini. Ecco perché la proprietà privata per Ferguson, a differenza di Rousseau, è "con molta evidenza un elemento di progresso". Si acquisisce proprietà, infatti, attraverso l'operosità, e "l'operosità con cui essa è acquisita o migliorata richiede un'abitudine ad agire in vista di oggetti futuri tale da poter superare la disposizione presente all'apatia o al godimento. Questa abitudine viene acquisita lentamente, ed è ciò che in realtà contraddistingue principalmente le nazioni che si trovano nello stadio avanzato delle arti meccaniche e commerciali" (II, 2).
La società civile più articolata e più complessa è quella basata sulla divisione del lavoro. Un popolo non può fare grandi progressi nel coltivare le arti utili alla vita finché non ha diviso e affidato a persone diverse i vari compiti che richiedono abilità e attenzioni specifiche. Di qui una duplice divisione del lavoro: una, più generale, all'interno della società, sulla base del sempre più ricco articolarsi delle funzioni sociali, e una all'interno della manifattura, che rende possibile una produzione sempre più abbondante di merci a un prezzo sempre più contenuto.
Nella manifattura, ogni imprenditore sa che quanto più riesce a suddividere i compiti dei suoi operai, e quanto maggiore è il numero di braccia che riesce a impiegare in settori diversi, tanto più diminuiranno le sue spese e aumenteranno i suoi profitti. Ma i benefici acquisiti nei rami inferiori della manifattura, attraverso la divisione delle sue parti, vengono raggiunti con espedienti simili anche nei settori più alti dell'amministrazione civile e militare. Il soldato viene dispensato da ogni preoccupazione che non sia quella del suo servizio. Gli uomini di Stato dividono l'attività del governo civile in settori, e i funzionari pubblici possono raggiungere risultati positivi in ogni incarico, osservando le regole già stabilite sulla base dell'esperienza di altri.
Ferguson vede sia i vantaggi che gli inconvenienti della divisione del lavoro. A proposito della manifattura egli osserva infatti: "Si può tuttavia dubitare che con il progresso delle arti si innalzi anche il livello delle capacità di una nazione. Molte arti meccaniche in verità non richiedono alcuna capacità, e hanno esiti positivi in condizioni di totale assenza di sentimento e di ragione. [...] La riflessione e la fantasia sono soggette a errore, ma l'abitudine di muovere la mano o il piede è indipendente da entrambe. La manifattura, di conseguenza, prospera soprattutto dove l'attività mentale è meno necessaria e dove l'officina, senza grande sforzo di immaginazione, può essere considerata come una macchina le cui parti sono costituite da uomini". Nello stesso modo, l'uomo di Stato può avere un'ampia comprensione degli affari umani, sebbene le persone che egli impiega come strumenti ignorino il sistema al quale sono state associate; il generale può essere un grande esperto nella conoscenza della guerra, mentre il soldato è limitato a pochi movimenti della mano o del piede (IV, 1).
Questa articolazione sociale, alla quale corrispondono forti differenze nella distribuzione della ricchezza, e che produce intere classi ottuse, prive di sviluppo intellettuale e spirituale, ha forti incidenze sul governo e sulle istituzioni politiche. "Nei grandi come nei piccoli Stati - scrive Ferguson a questo proposito - la democrazia è conservata con difficoltà, quando vi è una disparità di condizione e un modo disuguale di coltivare la mente derivante dalla varietà di scopi e di attività che dividono gli esseri umani nello stato più avanzato delle arti commerciali. Comunque in questa situazione non dobbiamo fare altro che prendere posizione contro la forma democratica, dal momento che se ne è rimosso il principio, e capire l'assurdità delle aspirazioni ad una eguale autorità e importanza tra gli uomini, dal momento che le loro condizioni hanno cessato di essere simili" (IV, 2).
Nell'opera di Ferguson confluiscono vari motivi: in primo luogo l'idea che la società civile è un prodotto storico, la cui evoluzione è condizionata dall'evolversi della sua organizzazione economica, in connessione con la quale si evolvono anche le istituzioni e le forme politiche (di qui la critica di Ferguson non solo all'idea di stato di natura, ma anche alle teorie contrattualistiche: non sono mai esistite società sorte per 'contratto' - e in ciò Ferguson è d'accordo con Hume - ma ogni società è il risultato di uno sviluppo economico e politico, che trascende i desideri, le intenzioni e le volizioni degli individui); l'idea, poi, che ogni società civile è complessa, nel senso che è caratterizzata da una certa stratificazione sociale, in rapporto alla quale devono essere analizzate anche le caratteristiche 'culturali' (in senso lato: comportamenti, sensibilità, gusti) di ogni società (questa idea è al centro anche dell'opera di John Millar, The origin of the distinction of ranks, 1771); la percezione, infine, del fatto che la divisione del lavoro all'interno della manifattura costituisce una svolta fondamentale nella storia della società civile, sia perché la rende infinitamente più complessa rispetto alle società precedenti, sia perché da un lato produce una quantità enorme di ricchezza sconosciuta a qualunque società passata, mentre dall'altro lato crea interi strati sociali 'ottusi' e quindi esclusi dallo sviluppo intellettuale e spirituale della società civile medesima (questi temi erano già stati affrontati con mirabile profondità di pensiero da Adam Smith nel primo abbozzo, risalente al 1763, della Ricchezza delle nazioni).
L'ampia trattazione che Hegel ha dato della 'società civile' (che è anche 'società borghese': bürgerliche Gesellschaft) nella sua Filosofia del diritto (1821) è assai importante per tre motivi fondamentali:
1) perché egli ha sentito il bisogno di distinguere fra sfera economico-sociale (la 'società civile', appunto, che però include, come vedremo, anche gli istituti giuridici che la regolano e la disciplinano) e sfera statuale, e di dedicare una sezione autonoma alla prima (all'interno di quella terza parte della Filosofia del diritto, l'eticità, che comprende, in progressione dialettica, la famiglia, la società civile, lo Stato);
2) perché ha dato una rappresentazione fortemente critica della società civile, i cui contenuti ha ricavato dalla società borghese più avanzata del suo tempo (infatti Hegel si riferisce spesso all'Inghilterra);
3) perché ha istituito un collegamento assai complesso tra società civile e Stato (che per lui rappresenta l'incarnazione più alta dell'eticità, e quindi supera l'eticità solo 'immediata' della famiglia e l'eticità solo 'relativa' della società civile).
Hegel ricavò con ogni probabilità la denominazione di 'società civile' dall'opera di Adam Ferguson di cui abbiamo parlato in precedenza, An essay on the history of civil society, che ebbe circolazione europea (fu tradotta in tedesco nel 1768 e in francese nel 1783). In quest'opera Ferguson mostrava come, storicamente, lo Stato si sovrapponesse a rapporti sociali preesistenti; e dopo Ferguson divenne di uso comune l'espressione 'società civile' per indicare l'insieme di tali rapporti (v. Solari, 1931, p. 228).Per Hegel la società civile sorge in quanto la famiglia (che è "spirito etico immediato o naturale", perché caratterizzata da legami di amore e di solidarietà fra i suoi membri, legami che si fanno valere in modo irriflesso, e che sono basati sul sangue) dà luogo a una pluralità di famiglie e di individui, ciascuno dei quali si comporta come persona autonoma, separata dalle altre, nel senso che ciascuno persegue il proprio particolare vantaggio o interesse. La concorrenza si mostra quindi come una caratteristica strutturale della società civile sin dalla sua origine. E si tratta, per Hegel, di una caratteristica negativa, al punto che egli parla, già nel primo paragrafo, di "perdita dell'eticità" (con un paradosso voluto, poiché qui in realtà siamo nell'ambito del secondo momento dell'eticità, tra la famiglia e lo Stato).
È vero che Hegel, sin dai primi paragrafi della sua trattazione, introduce una dialettica di particolarità e di universalità che ricorda molto da vicino la concezione ottimistica kantiana dell'antagonismo sociale e della "insocievole socievolezza" come fonte di ogni sviluppo e di ogni civiltà. "La persona concreta - egli afferma infatti -, la quale è a sé come fine particolare, in quanto totalità di bisogni e mescolanza di necessità naturale e di arbitrio, è un principio della società civile". L'altro principio è quello dell'universalità, in quanto ogni persona particolare si fa valere e si appaga mediante l'altra. Se, quindi, nella società civile "ciascuno è fine a se stesso", e "ogni altra cosa per lui è nulla", tuttavia, "senza rapporti con gli altri, esso non può conseguire l'ambito dei suoi fini: pertanto questi altri sono mezzo al fine del particolare. Ma il fine particolare, mediante il rapporto con gli altri, si dà la forma dell'universalità e si appaga, poiché esso insieme appaga nello stesso tempo il benessere altrui" (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821, § 182).
Ci troviamo di fronte, dunque, a una doppia connessione sociale: per un verso la particolarità, il singolo individuo, può promuovere il proprio benessere solo entrando in rapporto con gli altri individui, solo diventando un anello di una lunga catena; per un altro verso il singolo, in quanto promuove il proprio benessere, produce beni e servizi anche per gli altri, sicché, mentre crede di lavorare solo per sé, lavora invece per l'universalità. Se quindi nella società civile "tutte le singolarità, tutte le disposizioni, tutte le accidentalità della nascita e della fortuna divengono libere", se "sgorgano le onde delle passioni", tuttavia esse "sono governate soltanto dalla ragione che vi risplende" (§ 182).
E tuttavia, se è vero che nella caratterizzazione hegeliana della società civile emerge bene il motivo della "mano invisibile" di Smith, è anche vero, però, che in essa non vengono mai meno quelle connotazioni critiche e negative che abbiamo viste, le quali, anzi, si accentuano nel seguito della trattazione.Il fatto è che, per Hegel, nella società civile si fa valere sì l'universale, ma in modo del tutto incosciente; inoltre esso è soltanto mezzo per la realizzazione del particolare. Perciò la razionalità che appare in questa cerchia è solo intelletto, e la società civile è appunto questo, "Not- und Verstandes Staat", stato del bisogno e dell'intelletto (§§ 183 e 189). Inoltre, poiché nella società civile le singole persone "hanno per proprio fine il loro particolare interesse" (§ 185), e non mirano a qualcosa di superiore e di più elevato, ogni individualità, appagando i suoi bisogni, il suo arbitrio accidentale e il suo libito soggettivo, "distrugge nei suoi godimenti se stessa e il suo concetto sostanziale". L'individualità, "infinitamente eccitata, e dipendente sempre da accidentalità esterna e da arbitrio", appaga sì i propri bisogni, ma solo "accidentalmente". Sicché la società civile "in questi contrasti e nel loro intreccio, offre, appunto, lo spettacolo della dissolutezza, della miseria e della corruzione fisica ed etica" (§ 185).
Tracciato questo quadro generale, Hegel illustra poi alcune profonde e drammatiche contraddizioni della società civile. Ricerca del massimo profitto o utile (Gewinn), accumulazione in poche mani di ricchezze sproporzionate, dipendenza e ristrettezza degli operai dell'industria, il cui lavoro, inoltre, è sempre più parcellizzato e diviso, e quindi limitato e ottuso: questi gli elementi che egli mette in rilievo (§ 243). E subito dopo aggiunge che tutto ciò determina "il decadere di una grande massa al di sotto della misura di un certo modo di sussistenza", e che ciò produce a sua volta "la formazione della plebe" (§ 244), sicché la questione della povertà, e di come si debba sovvenirla, "muove e tormenta particolarmente le società moderne" (§ 244). Si delinea qui, dunque, il vasto orizzonte di quella che sarà chiamata più tardi la 'questione sociale', destinata ad avere enormi sviluppi nel corso dell'Ottocento e nella prima metà del Novecento.
Come risolvere questo problema cruciale dell'età moderna? Esso, in un primo tempo, sembra non avere soluzione all'interno della società civile, e la conclusione, assai pessimistica, del filosofo tedesco, è che "nella sovrabbondanza della ricchezza, la società civile non è ricca abbastanza, cioè non possiede, nella ricchezza ad essa propria, abbastanza per ovviare all'esuberanza della povertà e alla formazione della plebe" (§ 245). Certo, all'esterno della società civile c'è la colonizzazione, alla quale "è spinta la società civile progredita", e con la quale quest'ultima "procura a una porzione della sua popolazione, in un nuovo territorio, il ritorno al principio famigliare" (§ 248). Ma anche questo rimedio è parziale e non decisivo.Senonché la società civile hegeliana non comprende solo il "sistema dei bisogni" (al quale si limitano spesso le esposizioni degli studiosi), ma comprende anche altre due parti essenziali: "l'amministrazione della giustizia" e "la polizia e la corporazione".Che il secondo momento della società civile sia "l'amministrazione della giustizia", alla quale è dedicato un buon numero di paragrafi di carattere strettamente giuridico, non deve stupire, poiché non c'è società civile senza una precisa determinazione dei diritti civili dei singoli, e senza sanzioni per il pieno rispetto di tali diritti; ovvero, come Hegel dice, "mediante l'amministrazione della giustizia è cancellata l'offesa alla proprietà e alla personalità" (§§ 208 e 230).
Assai più significativo è il fatto che il terzo momento sia costituito dalla 'polizia' e dalla 'corporazione'. Hegel, infatti, intende con Polizei l'insieme dei provvedimenti coi quali lo Stato interviene nella vita economica e sociale nell'interesse della collettività, e in particolare per rimediare ai mali della società civile, sovvenendo coloro che soccombono nelle lotte economiche. Questo è un nodo cruciale della trattazione hegeliana. Proprio perché Hegel è pessimista circa il funzionamento della sfera socioeconomica moderna, e non crede nella sua armonia naturale, egli si pone il problema di concreti interventi del potere pubblico per rimediare agli inconvenienti più gravi. I quali sono resi ancora più drammatici dalla dimensione ormai mondiale dell'economia, dal sorgere di un mercato mondiale, che è fonte di nuovi scompensi e di nuove contraddizioni (§ 236).
Ma se l'intervento dell'amministrazione pubblica, ovvero dell'autorità generale (allgemeine Macht), è importantissimo per rimediare ai mali della società civile, e più in generale all'accidentalità che la caratterizza, non minore importanza Hegel attribuisce alla corporazione, che costituisce un elemento fondamentale della sua concezione della società moderna.La corporazione è propria della classe dell'industria, cioè della classe intermedia fra la classe agricola e la classe dei funzionari pubblici. I tre ceti che costituiscono la classe dell'industria (artigiani, addetti alle manifatture, commercianti) si organizzano attraverso le corporazioni. La corporazione è infatti una organizzazione volontaria, che sorge sulla base del mestiere o della professione; non è quindi un'organizzazione chiusa, ma accetta i propri membri "secondo la qualità oggettiva della loro abilità e rettitudine, in un numero determinantesi attraverso la connessione generale"; provvede ai loro interessi, li sovviene contro le accidentalità particolari e le avversità della fortuna, cura la loro educazione professionale e il miglioramento delle loro capacità. In breve la corporazione interviene "come seconda famiglia" (§ 252).
Questa affermazione è assai importante e significativa, perché mostra che Hegel, con la corporazione, si propone di conferire alla società civile quei rapporti di solidarietà, quei vincoli di unità e quei legami organici che essa in un primo tempo sembrava escludere, condannata com'era alla "perdita dell'eticità". E infatti, secondo Hegel, "accanto alla famiglia, la corporazione costituisce la seconda radice etica dello Stato, la radice profondata nella società civile" (§ 255). Il ruolo della corporazione è dunque centrale nella visione hegeliana della società civile. Le corporazioni istituiscono e sviluppano quei legami di collaborazione, di solidarietà, di assistenza e di aiuto reciproco, e quindi quei sentimenti di appartenenza a una stessa comunità, che il meccanismo concorrenziale e alienante della società civile sembrava aver compromesso in modo irrimediabile. Perciò la corporazione prepara il passaggio a quell'incarnazione più alta dell'eticità che è lo Stato, nel quale particolare e universale sono pienamente conciliati.
Il concetto di 'società civile' (bürgerliche Gesellschaft) ha un'importanza fondamentale nel pensiero del giovane Marx, allorché egli realizza il proprio passaggio agli ideali comunisti. Il testo esemplare a questo proposito è la Questione ebraica, redatto nel 1843 e pubblicato nel 1844 sugli "Annali franco-tedeschi". Qui Marx sostiene che la società borghese moderna è caratterizzata da una scissione (Spaltung) fra Stato e società civile: lo Stato è la sfera giuridico-politica in cui tutti gli uomini sono uguali in quanto dotati degli stessi diritti (questa condizione ha raggiunto la sua espressione più perfetta negli Stati Uniti d'America, dove è stato abolito il censo per l'elettorato sia attivo che passivo); la società civile è la sfera della vita economico-sociale in cui tutti gli uomini sono disuguali per condizione, professione, educazione, ecc. Secondo il giovane Marx, la sfera giuridico-politica, la sfera statuale sancisce quindi un'eguaglianza soltanto astratta, illusoria, ma ha un compito molto concreto, quello di tutelare e garantire le differenze reali, sociali, della società civile (e in questo modo di porre il rapporto fra Stato e società civile emerge chiaramente l'ispirazione di Rousseau). Scrive infatti Marx: "Con l'annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta. Lo Stato sopprime nel suo modo le differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita, condizione, occupazione non sono differenze politiche, proclamando ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali differenze, trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello Stato. Nondimeno lo Stato lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione, e facciano valere la loro particolare essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone, sente se stesso come Stato politico, e fa valere la propria universalità solo in opposizione con questi suoi elementi" (Marx, La questione ebraica, Roma 1969, pp. 57-58).
L'opposizione fra l'universalità dello Stato e il particolarismo della società civile è valutata dal giovane Marx come una contraddizione (Widerspruch): e in ciò si avverte l'influsso di Hegel. Del resto nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico - un ampio e minuto commentario di alcune sezioni della hegeliana Filosofia del diritto, redatto nel 1842-1843 - Marx riconosce a Hegel il merito di avere percepito la scissione/contraddizione fra Stato e società civile, anche se Hegel ha creduto di poterla superare con strumenti ideologici arcaici ed illusori (corporazione, mistica dello Stato, ecc.).
Nelle opere della maturità Marx ritorna sul concetto di società civile. Il testo più importante in tal senso si trova nella prefazione (1859) a Per la critica dell'economia politica, dove Marx, ricostruendo il percorso intellettuale che lo portò da posizioni liberal-radicali a posizioni materialistiche e comuniste, scrive: "Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l'introduzione nei "Deutsch-französische Jahrbücher" pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza, il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di 'società civile'; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica" (Marx, Per la critica dell'economia politica, Roma 1967, p. 4).
In verità qui Marx opera una indebita riduzione del concetto hegeliano di società civile, poiché, come sappiamo, quest'ultima per Hegel non abbraccia solo la sfera dei bisogni, ma anche l'amministrazione della giustizia, nonché la polizia e la corporazione. E tuttavia l'aspetto più importante di questo celebre testo di Marx è da cercare nel rapporto che egli istituisce fra società civile (intesa come la sfera dei rapporti materiali dell'esistenza) e rapporti giuridici nonché forme dello Stato: è la prima a spiegare i secondi, e non viceversa. Ovvero, come Marx dice poco dopo, "nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale" (ibid., pp. 4-5). Per Marx, dunque, è la società civile (=struttura, ovvero rapporti sociali di produzione) a spiegare la sovrastruttura (ovvero la sfera dei rapporti giuridici e politici e delle forme statuali). Questa formulazione di Marx diventerà canonica per tutti i marxisti, sia alla fine dell'Ottocento che nel Novecento.
In campo marxista Antonio Gramsci ha attuato, nei suoi Quaderni del carcere, un profondo ripensamento del concetto di società civile. Per Gramsci, infatti, la società civile non appartiene più al momento della struttura bensì a quello della sovrastruttura (v. Bobbio, 1976, pp. 27 ss.). Egli scrive a questo proposito: "Si possono [...] fissare due grandi piani superstrutturali, quello che si può chiamare della società civile, cioè dell'insieme di organismi volgarmente detti privati, e quello della società politica o Stato, e che corrispondono alla funzione di egemonia che il gruppo dominante esercita in tutta la società e a quello di dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato o nel governo giuridico" (Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Torino 1949, p. 9). E in una lettera dal carcere Gramsci afferma che il concetto di Stato "di solito è inteso come Società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l'economia di un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull'intiera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.) e appunto nella società civile specialmente operano gli intellettuali" (Gramsci, Lettere dal carcere, Torino 1972, p. 481). Alla luce di questi passi sembra evidente che per Gramsci la 'società civile' comprende non già tutto il complesso delle relazioni materiali (come per Marx), bensì tutto il complesso delle relazioni ideologico-culturali, non già tutto il complesso della vita commerciale e industriale, bensì tutto il complesso della vita spirituale e intellettuale (v. Bobbio, 1976, pp. 27-28). Questo diverso modo di intendere la società civile ha naturalmente un'influenza decisiva sul modo di concepire i rapporti fra struttura e sovrastruttura. Infatti, mentre in Marx il primo elemento è primario e subordinante, e il secondo secondario e subordinato, in Gramsci avviene precisamente l'opposto. Di qui il grande rilievo che viene ad assumere nel suo pensiero tutta la tematica della 'società civile', e di qui l'enorme importanza di un suo elemento centrale, l'egemonia.
Gramsci è, in campo marxista, il teorico per eccellenza dell'egemonia, e proprio ciò lo differenzia da Lenin: perché mentre in Lenin l'egemonia è intesa prevalentemente come direzione politica, in Gramsci è intesa prevalentemente come direzione culturale. E ancora: in Gramsci il momento della forza è strumentale e subordinato al momento dell'egemonia, in Lenin invece dittatura ed egemonia procedono di pari passo, e comunque il momento della forza è primario e decisivo; per Gramsci la conquista dell'egemonia precede la conquista del potere, per Lenin l'accompagna o addirittura la segue. Inoltre l'egemonia gramsciana abbraccia, come strumenti portatori, non solo il partito, ma tutte le altre istituzioni e articolazioni della società civile (scuola e università, istituzioni e associazioni culturali, editoria, giornali, ecc.), così come non mira solo alla creazione di un nuovo apparato statale, ma anche alla elaborazione e diffusione di una nuova concezione del mondo, di una "riforma intellettuale e morale", quale conditio sine qua non per la creazione di un nuovo ordine e di un nuovo apparato statale (v. Bobbio, 1976, pp. 38-39).
Non c'è dubbio quindi che Gramsci, pur all'interno della tradizione marxista-leninista (l'elemento di continuità di tutto il pensiero di Gramsci è costituito infatti dall'influenza di Lenin, e dall'esigenza da questi proclamata di fondare ovunque possibile dei partiti comunisti, concepiti come rappresentanti esclusivi della classe operaia, e coordinati da un unico centro), abbia elaborato una propria concezione complessa e originale, in cui la società civile, concepita come sfera sovrastrutturale, viene ad assumere un grandissimo rilievo, sino a configurarsi come il luogo in cui la classe operaia può e deve esercitare la propria 'egemonia' su tutta la società. In questo quadro, le ideologie vengono ad assumere una enorme importanza, in quanto esse non sono più pure e semplici 'proiezioni' della struttura economico-sociale, ma diventano strumenti autonomi di influenza intellettuale e culturale, e dunque di 'egemonia'. Di qui la grande attenzione dedicata da Gramsci, nei Quaderni, agli intellettuali e al loro ruolo sociale, e in modo particolare agli "intellettuali organici", cioè a quegli intellettuali che scelgono di collocarsi al fianco di una classe sociale e della sua espressione politica, per realizzarne appunto l'egemonia sull'intera società.
Bobbio, N., Gramsci e la concezione della società civile, Milano 1976.
Bobbio, N., Società civile, in Dizionario di politica (a cura di N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino), Torino 1983, s.v.Colletti, L. Rousseau critico della 'società civile', in Ideologia e società, Bari 1969, pp. 195-262.
Kettler, D., The social and political thought of A. Ferguson, Columbus, O., 1965.
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Salvucci, P., Adam Ferguson. Sociologia e filosofia politica, Urbino 1972.
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di Salvador Giner
1. Natura e caratteristiche della società civile
L'analisi delle concezioni classiche della società civile fa nascere alcune domande. La società civile esiste? È stata mai un'unità storica identificabile? È un concetto utile? Le variazioni sul tema della società civile giustificano pienamente la formulazione di queste domande. Non solo le interpretazioni differiscono le une dalle altre, ma quasi tutte trattano della società civile con notevole imprecisione. Forse però tale imprecisione è sintomatica della natura di quanto descritto, più che un riflesso di possibili negligenze da parte dei suoi interpreti. In forte contrasto con le frontiere ben delineate dell'entità a essa 'opposta', lo Stato, quelle della società civile sono condannate a rimanere incerte. Per lo Stato, la demarcazione è fondamentale. Per la società civile, fondamentale è l'ambiguità (quella che scaturisce da un certo genere di libertà).
E nonostante i problemi a cui dà luogo l'identificazione della società civile con il regno della libertà individualistica e competitiva, non si può facilmente fare a meno della nozione che la denota (e di tutto ciò che essa connota). L'ordine liberale a cui essa pienamente appartiene è impensabile senza una società civile. È la sua stessa essenza, sebbene qualche filosofo politico si discosti da questa opinione classica.Se la società civile è inestricabilmente unita all'apogeo e al consolidamento del capitalismo, della civiltà borghese e della democrazia liberale, è opportuno domandarsi in che senso sia possibile parlare, per esempio, di una società civile socialista o di una postliberale, sebbene entrambe dovrebbero essere prima definite. Potrebbe darsi che quanti hanno parlato di una società civile socialista ritengano che la distinzione liberale tra pubblico e privato sia un attributo della società borghese degno di essere mantenuto sotto quella socialista o quella postliberale? Ovvero, ci troviamo forse davanti a un'altra concezione, appena sviluppatasi, di società civile?
Forse queste domande sono premature. In ogni caso si può tentare di dare una risposta una volta che possediamo:
1) una definizione accettabile di società civile;
2) un'analisi plausibile della sua evoluzione presente e delle sue possibili tendenze per il futuro.
Per questo mi limiterò a presentare qui di seguito una visione della società civile che presenti dei requisiti minimi di accettabilità nell'ambito della scienza sociale contemporanea, e che integri in modo coerente le nozioni principali di quanti l'hanno teorizzata, nella misura in cui tali nozioni sono state corroborate dall'indagine empirica di politologi e sociologi. Inoltre, e per motivi ovvi, ignorerò l'importante tema dell'origine e dell'evoluzione storica della società civile (o meglio, delle società civili) in Europa e negli altri paesi in cui si è sviluppata in maggiore o minore grado. Nel presente articolo concentrerò l'attenzione su concetti, interpretazioni e teorie al margine della storiografia specifica disponibile sull'evoluzione reale delle società civili conosciute.Iniziamo, tuttavia, con una precisazione empirica: nel 'mondo reale' non esistono società civili paradigmatiche. Si può solo dire che alcuni paesi si avvicinano più di altri al modello ideale. Esistono, tutt'al più, varie società civili, tutte diverse le une dalle altre. Alcune sono più mature, altre meno. Così, si dice spesso che l'Inghilterra e gli Stati Uniti possiedano società civili forti (ma ciò non impedisce che l'espressione si usi in entrambi i paesi con scarsa frequenza). Al contrario, la Grecia moderna, per esempio, è solitamente definita una nazione dotata di una società civile debole. Questa distinzione è stata spesso utilizzata per interpretare la storia recente dei paesi dell'Europa meridionale o dell'America Latina, o per caratterizzare determinate regioni (così, la Catalogna e la Lombardia avrebbero società civili forti; la Sicilia e l'Andalusia le avrebbero deboli). La società civile debole spiegherebbe squilibri, dittature e interventismi statali, oltre che endemiche guerre intestine. Dal canto loro, molti paesi extra-occidentali, si suole affermare, sono totalmente privi di una società civile. Stando così le cose, è ovvio che qualsiasi definizione data sarà inevitabilmente un tipo ideale. Quella che segue, così come le cinque dimensioni che la caratterizzano, vanno intese in tal senso. Inoltre, la definizione deve considerarsi valida solo per quel periodo storico durante il quale la civiltà liberale borghese raggiunge il suo apice, senza che né l'espansione dello Stato assistenziale e interventista né le burocrazie private di grandi dimensioni (come le compagnie multinazionali) modifichino sostanzialmente i suoi tratti essenziali.
La società civile può essere definita come quella sfera storicamente costituita di diritti individuali, libertà e associazioni volontarie, la cui autonomia e reciproca concorrenza nel perseguimento dei propri interessi e desideri privati sono garantite da un'istituzione pubblica, chiamata Stato, la quale si astiene dall'intervenire politicamente nella vita interna del detto ambito di attività umane.Qualsiasi società civile così configurata possiede, come minimo, cinque tratti distintivi: individualismo, privacy, mercato, pluralismo e struttura di classe. Ciascuno di questi tratti pone un problema esistenziale alla società civile, ossia genera correnti che lo logorano e che, pertanto, indeboliscono la società civile stessa. I riferimenti a queste controcorrenti hanno lo scopo di frenare qualsiasi eccesso idealistico cui si possa pervenire nello sforzo di abbozzare il tipo ideale di società civile.
Il principale presupposto ontologico del liberalismo è che l'unica e ultima unità della vita sociale è l'individuo. Tutte le istituzioni sociali non sono altro che associazioni di individui singoli. La società civile è radicata in questo assunto (come tale, è un presupposto che non si limita al semplice individualismo metodologico, ma implica anche un individualismo 'realistico'). L'individuo è la sede della volontà sovrana. La ragione e i desideri umani sono i giudici supremi del mondo. Chiese, partiti, eserciti, società commerciali, governi, sono solo aggregati di volontà individuali. Possono essere modificati, soppressi o creati dai singoli uomini che li compongono e usano. Nella misura in cui l'universo della società civile individualista è risultato positivo (e non esistono società civili collettiviste), esso ha favorito lo sviluppo dell'individualismo ontologico, così come di quello ideologico. Come credenza fondamentale o come finzione giuridica dominante l'individualismo, dunque, è la pietra di paragone della società civile.Inizialmente l'ostacolo principale al progresso dell'individualismo era costituito dalle potenti istituzioni ereditate dal passato, che dovevano essere abolite dal momento che erano percepite essenzialmente come sovra-individuali o anti-individuali. In qualunque modo l'individualismo sia sorto per la prima volta in Europa, il cui passato era feudale, i suoi bersagli preferiti furono le corporazioni, gli stati generali, i privilegi feudali e l'autorità ecclesiastica sul mondo secolare. Quando si sgretolarono o si attenuarono questi poteri, quelli delle coalizioni individualiste emergenti (governi, partiti, imprese industriali e commerciali) cominciarono ad affermarsi in modo tutt'altro che individualistico. Il problema specifico, dunque, che l'individualismo ontologico genera nel difendere la creazione libera di associazioni volontarie è quello della sua autonomia collettivista e del suo potere di fronte agli individui stessi che le formano, così come di fronte agli altri. È la questione del monopolio e dell'oligopolio, che si ergono contro la società civile individualista nella sua versione primigenia. Entrambi sono generati, tuttavia, dalla logica stessa dell'universo liberale.
La società civile è la sfera della privacy in un mondo che è stato diviso in due domini complementari: il pubblico e il privato. Quando la libertà individuale è definita come bene supremo e la non ingerenza nella vita altrui è considerata una virtù cardinale della società civile (e un obbligo per i poteri statali), la privacy diventa la sua conquista più importante. A un livello più concreto, la privacy è l'utopia dell'animo liberale. La si suole ottenere solo per approssimazione, e non tutti hanno uguale accesso a essa. Si ottiene in diversi modi: per privilegio, merito, titoli, potere, abilità sociale o, semplicemente, per acquisto. A parte il fatto che non tutti i cittadini mostrano un interesse altrettanto vivo per la pratica della privacy (o delle sue virtù affini, come l'arte dell'intimità) e che essa si trova in permanente tensione col suo contrario, la vita pubblica, la privacy può causare un problema specifico: l'attenzione esclusiva per essa porta a trascurare il civismo come virtù della vita pubblica. Quando sono in molti a rifugiarsi nella sfera privata abbandonando quella pubblica, favoriscono la tirannia, o almeno l'oligarchia. Il civismo è una qualità della società politica che esige la partecipazione popolare alla vita pubblica. L'eccesso di privacy produce apatia, spoliticizza lo Stato e lo rende vulnerabile agli attacchi dei nemici della democrazia.
Se individualismo e privacy sono la giustificazione morale della società civile, il mercato è la sua caratteristica strutturale di maggiore spicco. Come principio organizzativo cruciale, il mercato, relativamente libero da ostacoli, distribuisce risorse, onori, beni e servizi mediante un processo spontaneo e in ultima analisi anonimo di innumerevoli transazioni (contratti) tra individui e associazioni di individui. In un certo senso il mercato è privo di istituzioni. Al livello economico, nel quale è più visibile, il mercato genera equilibrio attraverso le forze aggregate della domanda e dell'offerta. Un processo simile opera nei mercati intellettuali, scientifici, tecnici, culturali, politici e ideologici. Il mercato generalizzato, tuttavia, non è una mera estensione dell'economia: è l'ambito competitivo ma essenzialmente pacifico in cui si genera la vita sociale. Qualsiasi istituzione pubblica che si intromette nei diversi mercati mediante la distribuzione e il controllo di beni e risorse indebolisce e persino distrugge il mondo che da essi nasce e la cui dinamica spontanea è esattamente la stessa della società civile.
I termini 'competitivo' e 'pacifico' sono assai contraddittori. Per questo si rendono necessari sforzi permanenti per restaurare la libertà di mercato (spesso da parte dello Stato stesso come protettore della società civile), che non sempre sono sufficienti. Inoltre, nascono tendenze monopolistiche e oligopolistiche in economia e oligarchiche in politica, come conseguenza della logica stessa della maturità della società di mercato, la qual cosa impedisce il suo funzionamento normale. A ogni modo, gli ammonimenti sui limiti del mercato e sull'impossibilità della concorrenza perfetta devono essere accompagnati da altrettanti ammonimenti sulla funzione fondamentale dei mercati reali (per imperfetti che siano) nella regolazione spontanea, senza mediazioni esterne, della vita culturale, economica e politica. La portata reale dei mercati di idee, poteri, beni materiali, onori, privilegi, servizi e altri valori (la cui quotazione, circolazione e appropriazione è la sostanza delle attività civiche) potrà essere limitata, ma è sufficientemente potente da aver prodotto conseguenze decisive per garantire l'esistenza di società civili vitali e durature.
Il pluralismo è una di queste conseguenze. Esso ha due dimensioni. Da un lato, implica che il potere sia diffuso in tutta la società, senza restare confinato in una sola parte di essa. Potere e autorità si plasmano diversamente in individui, comunità, classi, associazioni e istituzioni. Questi, là dove vi è società civile, sono autonomi gli uni rispetto agli altri in diverso grado, ossia possiedono le loro proprie sfere di competenza, nelle quali le altre entità (incluso lo Stato) non osano entrare impunemente. Dall'altro lato, il pluralismo è una cultura. Grazie a essa coesistono (nell'arena civica) un'ampia gamma di credenze, idee e atteggiamenti, propagati dai loro rispettivi seguaci (sebbene questi debbano accettare un grado di relativismo culturale notevole: un certo relativismo in fatto di valori è il sostrato culturale che rende possibile il pluralismo). Sociologicamente il pluralismo rappresenta il riconoscimento e la legittimazione della frammentazione sociale in termini di classe, ideologia, etnia, religione e occupazione, nonché di quelle coalizioni, associazioni e istituzioni a cui danno luogo i conflitti generati da tale diversità.
Come nel caso del mercato, a cui è legato da una forte affinità elettiva, il pluralismo è molto distante dal proprio tipo ideale. Normalmente la distribuzione di potere e influenza tra le molteplici unità che formano l'universo del pluralismo è molto asimmetrica. Ciò vale tanto per quelle unità che competono per ottenere beni identici (partiti diversi con uno stesso elettorato, imprese che concorrono per una clientela comune), quanto per quelle unità che si affrontano per distribuirsi beni da posizioni diverse ma complementari, come accade tra il padronato e i sindacati. Queste caratteristiche diminuiscono il pluralismo della società civile, senza però cancellarlo. In ogni caso ciò che conta è il grado effettivo e reale del pluralismo, non i suoi limiti manifesti.
La società civile è classista, benché mai in modo esplicito e legalizzato. La classe è, in linea generale, la conseguenza indiretta e involontaria della cittadinanza. Se la cittadinanza è l'istituzionalizzazione politica dell'individuo nell'ambito liberale, e il liberalismo, a sua volta, si basa sull'attribuzione competitiva di beni, mezzi e potere, ne consegue che la società deve essere formata da individui diseguali, sebbene fortunatamente non sia così davanti alla legge, almeno in teoria. Da questo non deriva, è chiaro, che si debba verificare una riproduzione delle classi sociali nel tempo. Questa è un'affermazione che va contro le teorie espresse da T.H. Marshall in un influente saggio, poiché per lui classe e cittadinanza sono tendenze antitetiche. Teoricamente il trinceramento e la riproduzione della classe sociale per mezzo di privilegi familiari, padronato e trasmissione della proprietà non scaturiscono dalla logica della società civile. Tuttavia possiamo quanto meno affermare che la società civile, in quanto si fonda su processi contrattuali 'spontanei', manca di un apparato istituzionale che metta un freno a queste tendenze. E neppure la sua costituzione morale prevede l'opposizione a esse. Per ottenere che si realizzino obiettivi ugualitari o di 'giustizia sociale' (un concetto alieno alla società civile, come riconoscono senza remore alcuni dei suoi stessi amici liberali) debbono formarsi movimenti sociali (socialisti, femministi, ecologisti o di altra natura) oppure debbono intervenire dall'esterno i poteri pubblici con politiche di scolarizzazione universale, imposte progressive, egualitarismo militare, politico e giuridico, e altro.
Nell'età liberale classica lo Stato minimo (il genuino Stato liberale) non fece direttamente nulla di significativo contro la disuguaglianza sociale, conformemente alla politica del laissez faire che formava parte della sua ideologia. Per questa ragione alcuni osservatori descrissero lo Stato come una mera escrescenza della società civile, come un'espressione, essenzialmente, della volontà delle sue classi dirigenti. Più tardi, quando cominciò ad affermarsi l'intervento statale al fine di attenuare i danni ad alcune classi, vale a dire la politica sociale, questa investì il tessuto stesso della società civile. Dalla prospettiva dell'ortodossia liberale, comunque, l'intervento statale a favore della società civile si giustifica solo come deregolamentazione, denazionalizzazione e smantellamento di agenzie statali, governative e parastatali. In senso stretto, l'intervento dello Stato sarebbe dovuto consistere solo nel tirarsi indietro e nell'astenersi, benché si raccomandasse l'azione governativa contro la delinquenza, o per garantire il rispetto della legge, compito che i liberali hanno sempre ritenuto prerogativa dello Stato. In questo contesto è interessante constatare come i partiti e i movimenti liberali (conservatori stricto sensu) tentino ciclicamente di ritornare a questa venerabile ortodossia quando sono fuori dal potere, e persino quando lo raggiungono. I loro sforzi, tuttavia, nelle nuove condizioni storiche, hanno dato risultati limitati.
Individualismo, privacy, mercato, pluralismo e classi sono le dimensioni che conferiscono sostanza e concretezza alla definizione astratta di società civile data sopra. L'immagine che ne risulta differisce in vari sensi dalle concezioni tradizionali anteriori, ma deve molto a tutte loro. Qualsiasi tentativo di abbozzare un nuovo modello dovrà respingere o mitigare alcuni aspetti delle varie interpretazioni classiche, e accoglierne invece altri. Così, l'ignoranza liberale dell'intima relazione che intercorre tra la società civile e le classi sociali, o la sua cecità davanti ad alcune delle sue facce meno piacevoli, appare inaccettabile. D'altro canto appare dubbia la divisione tripartita neomarxiana tra l'economia, la società civile e lo Stato. Le cose non sono così nette nel mondo contemporaneo, se mai lo sono state.La presente prospettiva considera la società civile come spazio di attività che abbraccia la condotta umana nei campi economico, politico e culturale, sempre che cada fuori dalla sfera 'ufficiale', sebbene spesso sia da questa legittimata. Ciò non vuol dire che si confondano i campi del pubblico e del privato, delle sfere economica e politica, dell'opinione pubblica e della dottrina governativa. Tantomeno la società civile è intesa soltanto come rete di istituzioni, sebbene certamente le possieda. Essa è concepita piuttosto come uno spazio in cui la specializzazione, la divisione 'spontanea' del lavoro, la mentalità analitica e le relazioni contrattuali tra uomini si sviluppano senza grossi ostacoli.A prescindere dalla sua contrattualità, fin dagli inizi la società civile mostrò un'intima affinità con la mentalità analitica. Lo sviluppo di quest'ultima fu cruciale per la civiltà che generò la società civile: per questa è fondamentale che possano effettuarsi separazioni tecniche e formali (analisi) tra i diversi campi dell'azione e del pensiero. La separazione e l'isolamento di un aspetto della vita sociale rispetto agli altri hanno una lunga storia in Occidente: le loro radici risalgono alla distinzione degli antichi romani tra fas (legge religiosa) e ius (legge umana, profana). La distinzione tra Stato e società civile è un traguardo di questo lungo e accidentato processo.
2. Mutamenti della società civile nell'epoca contemporanea
Non è mai esistita un'età dell'oro della società civile. Ma ci fu un tempo in cui, dietro il baluardo politico di uno Stato relativamente autonomo rispetto alle classi dominanti e basato sulla disuguaglianza sociale, la società civile fiorì senza altri ostacoli che i vincoli e le restrizioni inerenti al pluralismo limitato dell'ordine liberale. Quel periodo, tuttavia, non durò molto. In effetti, molto prima della seconda guerra mondiale alcuni indizi rivelavano che le cose avrebbero potuto prendere una piega ostile alla società civile e che la sua vita sarebbe divenuta più precaria di quanto sarebbe potuto sembrare a prima vista. Ciò accadeva non solo in quei paesi in cui il fascismo l'aveva eliminata con la violenza, ma anche in altri, come la Russia, in cui era caduta al primo assalto rivoluzionario. Si potevano avvertire varie correnti che corrodevano la rete di autonomie su cui si fonda ogni società civile salda. Tali correnti si fecero molto più manifeste dopo la seconda guerra mondiale, paradossalmente quando la società civile, rianimata dalla ritrovata prosperità capitalistica, riacquistava l'impulso perduto.
Possiamo identificare almeno quattro di tali correnti, tutte esprimenti processi complessi ma collegati fra loro: la corporativizzazione, l'espansione statale, la congestione e la tecnocultura.
Con 'corporativizzazione' si intende lo sviluppo di ciò che con la dovuta prudenza può chiamarsi 'società corporativa'. La corporativizzazione è il culmine di tendenze già affermatesi come la burocratizzazione, la specializzazione del lavoro e la proliferazione di corporazioni, sindacati e organizzazioni formali nei terreni più diversi. Queste organizzazioni ('corporazioni' nell'accezione più generica del termine) fanno spesso da mediatrici nelle situazioni di conflitto tra le classi, attenuandolo e riducendo allo stesso tempo la capacità degli individui di competere tra loro o di formare nuove coalizioni che minaccino il potere e le competenze di quelle già esistenti. Le negoziazioni individuali o collettive erano una condotta perfettamente accettabile per la società civile tradizionale, ma non vi furono mai intese come modi di dirimere conflitti tra gruppi privati a cui comunque era riconosciuto uno status quasi ufficiale. Questo avviene, per esempio, con i sindacati, ufficialmente riconosciuti come interlocutori del potere pubblico. La gestione corporativistica dell'economia mette in questione alcuni assunti tradizionali sulla società civile. Inoltre, l'istituzionalizzazione della triplice relazione tra imprenditori, governo e sindacati ha comportato una notevole interferenza sul mercato, esigendo una mediazione governativa o statale ancora maggiore attraverso camere speciali (come i consigli economici e sociali di vari paesi), nel momento stesso in cui si rafforzavano i poteri monopolistici o oligopolistici delle organizzazioni di lavoratori o di imprenditori. A questo si aggiunge la prepotenza delle grandi multinazionali finanziarie, mediali, commerciali e tecnologiche.
Pur non avendo tutto ciò portato alla scomparsa del mercato come istituzione centrale dell'ordine tardocapitalistico, è evidente che i punti di riferimento della società civile sono già molto diversi da quelli tradizionali.
Il consolidamento e la proliferazione delle corporazioni hanno portato progressivamente altre unità della vita sociale (classi, comunità territoriali, movimenti sociali) verso una situazione in cui devono esprimere le proprie necessità e i propri interessi attraverso le prime, oppure imboccare la strada incerta di qualche posizione 'alternativa' e radicale che metta in questione l'ordine corporativo. Sebbene la corporativizzazione non abbia esaurito tutto lo spazio sociale disponibile, la sua portata è notevolissima. La saturazione corporativa della società civile non è ancora avvenuta (e forse non avverrà mai, almeno fino a quando sopravviverà il pluralismo, per debole che sia), ma molti paesi soffrono di un'eccessiva presenza di corporativizzazione, le cui conseguenze economiche non è qui possibile analizzare. In ogni caso tale eccessiva presenza mette in pericolo il principio fondamentale della società civile, secondo cui qualsiasi gruppo di individui può formare un'associazione al fine di perseguire i propri interessi. Formulato così, si potrebbe affermare che tale principio ha fatto sempre parte dell'utopia liberale. Ma l'osservazione empirica indica che sembrano essere diminuite le possibilità reali di creare nuove associazioni in quegli ambiti in cui altre sono già presenti. La cristallizzazione di gruppi in imprese, associazioni e corporazioni e le successive fusioni, confederazioni e leghe indicano lo sviluppo di una rete di dipendenze e riconoscimenti reciproci che ostacola la fluidità originaria della società civile. Oggi, le regole che caratterizzano la concorrenza oligopolistica (sfiducia, cautela e costi e prezzi accordati invece che determinati dal mercato) appartengono anch'esse al nuovo ordine.
L'espansione statale comporta la metamorfosi del potere pubblico in Stato benefattore, imprenditoriale e assistenziale (e, andrebbe aggiunto, bellico, anche se l'elemento essenzialmente militarista dello Stato è molto anteriore al fenomeno). La penetrazione dello Stato in tutte le sfere della vita sociale (nelle funzioni di educatore, gestore di servizi pubblici, produttore e consumatore di armamenti, imprenditore, produttore e convertitore di energia, poliziotto, medico, diffusore dell'informazione) ha trasformato il suo rapporto con la società civile. Prima lo Stato la proteggeva nel suo insieme per favorire, alla fine, gli interessi delle classi dominanti, abbandonando invece alla propria sorte ogni singola classe, famiglia e individuo; ora la amministra e in teoria tutela allo stesso modo ciascuno di questi elementi. Ciò ha comportato un avvicinamento graduale dello Stato alla cittadinanza mediante l'incorporazione dell'una nell'altro. In tale incorporazione rientra il vasto numero di funzionari che formano le schiere dell'amministrazione pubblica in tutti i suoi livelli e ramificazioni. L'incorporazione avviene direttamente, tramite la militarizzazione, le cariche politiche, la funzione pubblica e altri modi di reclutamento, o indirettamente, tramite l'aumento della sorveglianza poliziesca, l'intervento fiscale, i servizi sociali (sanità, pensioni, sussidi e trattamento pubblico di problemi privati mediante il 'lavoro sociale') e le restanti forme di penetrazione del pubblico nel privato. Nel migliore dei casi tutto questo scalza quella che prima era una sfera inviolabile (benché abbandonata al proprio destino), nel peggiore stempera la distinzione essenziale tra pubblico e privato, e tra lo Stato (ora massimalista, benché entro i confini di un universo non totalitario) e la società civile. Un processo cominciato unicamente come critica della vecchia concezione patrimoniale della proprietà privata, come ius utendi et abutendi, limita ora l'autonomia individuale in modo sistematico. Senza dubbio spesso ciò avviene per proteggere certe libertà e sfere di autonomia di individui e associazioni, per gli stessi motivi che si era soliti difendere per giustificare l'ingerenza ufficiale nella vita o negli affari privati. Tuttavia la portata e l'intensità della sorveglianza protettrice e di tale ingerenza sono oggi così considerevoli che, senza volerlo, si scalza ciò che si dovrebbe proteggere, vanificando il proprio scopo.
La congestione è in gran parte la causa di questa situazione tanto contraddittoria. Vi è congestione istituzionale dovuta alla densità corporativa e burocratica; congestione legale per eccesso di regolamentazione; congestione fisica per eccesso di popolazione, accompagnato da una massiccia partecipazione popolare ad ambiti di attività in passato riservati alle minoranze (la cosiddetta 'democratizzazione' della vita sociale) e dal rapido esaurimento di terre di nessuno e zone abbandonate. La società civile presupponeva l'esistenza di risorse infinite, l'espansione ininterrotta e la crescita permanente. Né Smith né Marx misero in dubbio il presupposto dell'inesauribilità delle risorse naturali, contrariamente a Malthus e in qualche modo a Ricardo.La congestione e le ristrettezze che questa comporta hanno cambiato radicalmente la nostra percezione fisica e morale dei limiti dello spazio disponibile per la vita umana. Inoltre, ora che cerchiamo di capire quale mondo ci aspetti (sulla base di concezioni del progresso molto diverse da quelle predominanti fino a poco tempo fa), le tendenze inflazionistiche della legge, dei regolamenti, dell'apparato statale, delle organizzazioni sovranazionali e di altro tipo, si vanno mescolando con lo sviluppo 'spontaneo' della società civile oscurando la nostra visione di essa. Ogni nuova ondata di eventi (disoccupazione in aumento, deindustrializzazione, crisi fiscale, nuove generazioni di armamenti, sviluppi nella telematica, nella microelettronica e nella robotica, nuova delinquenza, inquinamento chimico o nucleare, guerre) esige sforzi coordinati che non possono sempre limitarsi alla società civile, ma devono trovare riscontro nei poteri pubblici. Spesso questi, che i cittadini lo vogliano o no, si vedono obbligati a penetrare in quelle sfere di libertà che dovrebbero proteggere. Per evitare il sovraccarico della rete istituzionale esistente creiamo più istituzioni pubbliche, ossia con il potere di comandare. Si verifica allora un sovraccarico (overload) addizionale di lavoro per i governi e le amministrazioni per il quale non si trova una soluzione né a livello pratico né a livello teorico. Di quest'ultimo è testimone l'abbondante letteratura sulla governabilità, che tanto direttamente concerne la teoria contemporanea della società civile.L'attività governativa o economica ha sempre prodotto aspetti negativi o effetti perversi, ma talvolta l'uomo riusciva a evitarli fuggendo altrove. Così, la ricerca incessante (descritta da David Ricardo) di terre vergini e nuove fonti di ricchezza fu stimolata dagli aspetti perniciosi della concorrenza capitalistica, e non solo dal desiderio di trarne vantaggi. Oggi il problema sembra consistere nella diminuzione e nell'esaurimento rapido degli spazi vergini disponibili (vale a dire spazi immuni da aspetti negativi), da cui un tempo dipendeva l'esistenza di una prospera società civile.
La tecnocultura e la cultura mediale sono, tra le tendenze qui descritte, le meno radicate nella logica storica della società civile. La trasformazione della concezione della conoscenza e dell'informazione, lo sviluppo della tecnologia informatica, della robotizzazione e soprattutto dell'intelligenza artificiale, sono fenomeni prettamente del nostro tempo. Rimane aperta la questione se, alla distanza, saranno compatibili con la società liberale ristrutturata in cui oggi si sviluppano. Per ora sembra che la manipolazione e il controllo tecnologici, assieme all'informatica, alla computerizzazione e all'intelligenza artificiale, possiedano un'affinità molto maggiore con la gestione corporativa avanzata e con l'ambiente medio della società corporativa che con l'universo morale e le libertà personali di cui per certi aspetti la società civile tradizionale è stata paladina. La proliferazione di imprese e iniziative private nei campi della microelettronica, della televisione e delle telecomunicazioni potrebbe significare un arricchimento, solo a breve termine, della vitalità della competitività in seno alla società civile, che deve cedere il passo a una nuova ondata di monopoli e oligopoli. Questi, d'altro canto, già esistono. E lo Stato in ogni caso non si è limitato a intervenire come regolatore della tecnoconoscenza e controllore nella tecnocultura, ma ha partecipato attivamente in entrambi i settori in modo caratteristico.A prescindere dalla presenza congiunta e vigorosa di queste quattro correnti (corporativizzazione, statalismo, congestione e tecnocultura), la società civile non solo non è morta, ma qualsiasi attenta osservazione delle realtà di oggi rivela fatti e tendenze notevoli che sembrano impedirne l'estinzione. Siamo in presenza di sviluppi complessi e paradossali, come vedremo nel prossimo capitolo.
3. Il futuro della società civile
Nelle società in cui non è stata importata dall'esterno, ma si è sviluppata progressivamente e autonomamente, la società civile ha subito profonde trasformazioni. La penetrazione della corporativizzazione e dello statalismo (ovvero dell'interventismo o ingerenza e controllo da parte dei poteri pubblici) in questo caso si osserva più al livello strutturale che in quello culturale. Tuttavia in quest'ultimo, tanto cruciale per il futuro sviluppo delle società moderne, l'intervento dei media nella vita collettiva (come nella politica e nell'economia) ha trasformato in buona misura anche la vita civile. La tecnocultura non è né neutra né innocente, e soprattutto non è estranea a quanto avviene nella sfera tradizionale della società civile. In ogni caso, sebbene l'espansione delle corporazioni (economiche o di altro tipo) sia divenuta meno fluida di un tempo, le stesse necessità della politica e dell'economia odierne hanno contribuito al persistere in alcuni ambiti della mentalità e della cultura individualistiche, specialmente in quei campi in cui esse si rivelano utili per stimolare la concorrenza occupazionale in seno alle corporazioni, al fine di aumentarne la competitività. Il passaggio dalla competitività individualistica imprenditoriale a quella occupazionale e corporativa ha comportato che le qualifiche personali e i diritti all'autonomia individuale, e persino alla privacy, venissero rispettati in modo notevole dai nuovi poteri in alcuni ambiti circoscritti. Così, l'economia corporativa è la prima a trarre beneficio dall'esistenza di un capitale privato di talento e capacità, o capitale umano, vale a dire di un mercato relativamente libero del lavoro, basato per definizione su una società civile autonoma. Le organizzazioni sindacali (alcune delle quali senza dubbio corporative) sono una delle difese principali contro i mali che possono generare queste regole di mercato (al capitale umano corrisponde il mercato umano, come non ignorano i seguaci della scuola economica che prende questo stesso nome). Nelle attuali circostanze, tuttavia, il sindacato può trasformarsi a sua volta in una fonte di corporativismo operaio (o professionale), soprattutto quando esiste un sindacato riconosciuto dalle imprese come unico negoziatore valido, e l'azione del sindacato è inoltre obbligatoria, o lo è di fatto.
La probabilità che nel futuro queste tendenze si invertano non appare molto alta, ma esse non occupano tutto lo spazio della società civile. Innanzitutto, le tendenze in questione devono convivere con la proliferazione e l'espansione diffuse (contro ogni previsione tanto della sinistra tradizionale quanto del pensiero conservatore) di imprese di piccole o di medie dimensioni, così come con la moltiplicazione di iniziative cittadine di ogni sorta: associazioni civiche, sportive, letterarie, benefiche, etniche o comunitarie. Molte di esse sono associazioni altruistiche, essenzialmente private (sono state definite a volte 'associazioni non governative'), profondamente radicate nella società civile ma rivolte verso la sfera pubblica: ciò ci pone di fronte a un fenomeno importante, l'apparire di una 'sfera privata pubblica', il cui sviluppo dipende precisamente da quello della società civile presente e futura. Quest'ultima importante tendenza può essere interpretata in due modi opposti: può essere considerata come un mero epifenomeno, oppure come la dimostrazione più chiara di quanto infondata possa essere l'ipotesi della scomparsa completa della società civile. Entrambe le posizioni appaiono discutibili. È molto difficile affermare che la nuova articolazione dell'ordine sociale non si fondi oggi sulle reti interstatali e statali, sulle compagnie multinazionali, sulle finanze a livello transnazionale, così come sui processi incessanti di adattamento e negoziazione di interessi organizzati a livello locale, regionale, statale, sovrastatale e interstatale. Allo stesso modo, non è realistico negare che questi nuovi assetti istituzionali provengano tutti da uno stesso lungo processo storico, il cui centro è stato proprio l'ordine civile che abbiamo descritto. Nessuna legge sociologica prescrive che un nuovo ordine sociale debba cancellare completamente quello precedente, salvo casi eccezionali di invasione e distruzione di una società da parte di un'altra. Al contrario, con notevole frequenza certe continuità si impongono persino in situazioni di rottura rivoluzionaria. Così, l'imborghesimento dell'aristocrazia e della nobiltà (non la loro scomparsa) fu un fenomeno-chiave del passaggio dalla società feudale a quella civile. La spettacolarità dell'assalto giacobino ai suoi nemici reali o immaginari non dovrebbe oscurare una realtà più ampia e complessa.
Allo stesso modo, l'adattamento dell'antico ceto borghese, delle classi medie, e degli operai all'ordine corporativo di tipo pluralistico e civile non ha comportato rotture. Non c'è stata discontinuità, ma tutto il contrario: l'esito normale e sperato era l'amalgama al quale oggi assistiamo. È possibile che, una volta raggiunti i livelli necessari per il proprio funzionamento, la sfera corporativizzata della società (tanto tra le imprese pubbliche e statali quanto nelle burocrazie e nelle organizzazioni formali, teoricamente o realmente private) non abbia bisogno di continuare a crescere. La persistenza di una sfera subordinata, ma relativamente autonoma, di reti civili e istituzioni cittadine, molte delle quali altruistiche, può essere perfettamente funzionale alla dimensione corporativa. Data l'intensità dei mutamenti sociali nel mondo di oggi, sarebbe infondato supporre una relazione stabile o armonica tra le due sfere. Tuttavia, nel presente stadio, la sostituzione parziale della tradizionale dicotomia 'sfera pubblica'/'sfera privata' con una nuova dicotomia imposta dall'alto, 'sfera corporativa'/'sfera civica', appare quanto meno possibile. Dalla nuova dicotomia sorgerebbero i movimenti sociali antiburocratici, spontaneistici, alternativi e anticorporativi, sebbene non tutta la sfera corporativa sarebbe disposta ad appoggiarli: la sua capacità di reclutamento, neutralizzazione e assorbimento è infatti assai forte. Tuttavia, ciò spiegherebbe perché tali movimenti sociali incrementino progressivamente la loro forza e non costituiscano una semplice moda passeggera. Lo stesso si può dire delle associazioni volontarie altruistiche, di solidarietà e di aiuto economico, educative, per i diritti civili e umani, e così via. Se queste acquistassero più forza ci potremmo anche trovare di fronte a una struttura tricotomica: 'sfera statale e amministrativa'/'sfera corporativa e imprenditoriale'/'sfera associativa e altruistica'.
Data la complementarità relativa che esiste tra la sfera corporativizzata e quella che non lo è, si può ipotizzare che la prima abbia bisogno di favorire quegli aspetti della cultura politica liberale che la legittimano. E una parte sostanziale della cultura della vecchia società civile, convenientemente ridefinita, è ancora molto utile per il mantenimento di forme moderne di disuguaglianza di classe e di potere politico. Il passaggio dall'individualismo possessivo di prima (basato sulla proprietà privata) all'individualismo posizionale di oggi (fondato sull'occupazione, sui titoli e sul potere in seno alla corporazione) si è verificato in questo quadro di cambiamento senza scosse. Così, osservando come certi elementi della cultura della società borghese siano ancora necessari per il funzionamento dell'ordine corporativo di oggi, iniziamo a risolvere l'enigma della continuità nella discontinuità della storia contemporanea. La vecchia cornice liberale, ora ridefinita, non è necessaria soltanto per il mantenimento della disuguaglianza e per il reclutamento adeguato di personale qualificato per le diverse posizioni corporative, ma lo è anche per la neutralizzazione del dissenso e dell'opposizione radicale all'ordine sociale. In quest'ultimo senso, la vecchia cultura della tolleranza ha ottenuto vittorie insperate attraverso la cosiddetta permissività.
Tra le altre ragioni, anche per il fatto che i responsabili delle varie istituzioni chiave della società non si sentono più minacciati dai progressi di quelle che in altri tempi furono idee sovversive e pratiche immorali. Così, le corporazioni politiche ed economiche non si sentono insicure di fronte alla nuova cultura: i cittadini possono chiedere l'introduzione del socialismo più radicale, il disarmo unilaterale, l'abolizione effettiva della discriminazione sessuale e razziale, l'entrata in vigore della giustizia distributiva, e qualsiasi altra rivendicazione ugualmente forte viene tollerata. Dal canto loro, le corporazioni culturali tradizionali (le Chiese, per esempio), confuse oggi nelle loro credenze, assimilano i nuovi apporti in un miscuglio di sincretismo e casistica tale da far scomparire simili operazioni realizzate in tempi passati in epoche di crisi. Non sorprende, dunque, che davanti a questa generale accettazione della cultura alternativa alcuni autori abbiano proposto una teoria della 'tolleranza repressiva' per poter dare una risposta a questa spinosa questione. Il difetto di tale teoria consiste nel rifiutare quegli elementi del credo liberale che derivano dagli aspetti universali della libertà umana e che non è logico che rimangano monopolio esclusivo della cultura liberale borghese: sono patrimonio comune di tutti. I teorici della tolleranza repressiva sembrano dimenticare che solo la relativa tolleranza di cui essi godono può rendere possibile l'eventuale sviluppo di una tolleranza non repressiva. È dubbio che i regimi totalitari spianino la strada alla libertà. Se questi sono gli stratagemmi della storia, ben poco potremo aspettarci da essa.
Queste osservazioni mostrano la necessità di raggiungere una visione equanime della problematica della società civile. Come è opportuno riconoscere la relativa crisi della società civile (almeno di quella tradizionale), è parimenti opportuno definirne i limiti. Come si è constatato, più che una spaccatura la società civile ha sperimentato profonde trasformazioni, molte delle quali intimamente collegate con la nuova struttura classista della società corporativa, così come con lo sviluppo dello Stato, la crisi o la recessione dell'apparato assistenziale pubblico e, all'opposto, la rivitalizzazione dell'attività civica partecipativa o altruistica, sotto forma di organizzazioni e movimenti non governativi. Forse è questa la ragione per cui durante gli ultimi decenni del XX secolo la dicotomia 'società corporativa'/'cittadinanza' ha progressivamente sostituito in molti casi, e più o meno coscientemente, la tradizionale distinzione 'Stato'/'società civile', tanto nel discorso politico corrente quanto nella teoria sociale (l'espressione 'società corporativa' può essere qui sostituita con 'società delle organizzazioni', o essere specificata meglio con il riferimento alla cosiddetta 'società dell'informazione').
Lo sviluppo dell'associazionismo altruistico, i movimenti sociali indipendenti dai partiti e dalle ideologie tradizionali e lo sviluppo dell'economia cooperativistica o non lucrativa (o 'sociale') hanno rivitalizzato, in ogni caso, la società civile e l'hanno condotta su sentieri ignoti alla teoria tradizionale. La società civile così riformata si consolida ora sotto l'egida dell'ordine e delle garanzie delle democrazie pluralistiche e parlamentari. È una protezione a volte precaria, poiché non sempre esclude il controllo e la manipolazione delle autorità della sfera pubblica, che li esercitano mediante sussidi o sforzi per influenzare la sfera privata. Esercitano forme di controllo e di influenza sui cittadini anche forze molto potenti della stessa sfera privata, come ad esempio gli interessi commerciali di grandi imprese mediali o industriali, alcune delle quali hanno precisi disegni politici. Ma, con tutte le opportune distinzioni, è possibile affermare che il sistema giuridico e la cultura politica delle democrazie proteggono il campo assediato della cittadinanza in quanto legittimano e permettono le associazioni civiche e i movimenti sociali autonomi.
Le transizioni di alcuni regimi dittatoriali verso l'ordine parlamentare liberale (come è accaduto in Italia dopo la seconda guerra mondiale e nel resto dell'Europa meridionale tra il 1974 e il 1976, nell'America Latina negli anni immediatamente successivi e in Russia e in altri paesi dell'Europa orientale dal 1989) devono essere considerate come significative espressioni di una tendenza generale verso la ricostruzione della società civile, benché quella che si è andata profilando presenti caratteristiche nuove, alcune delle quali rappresentano progressi verso l'autonomia della società civile, secondo la formula tradizionale (le origini del recupero, o della creazione, della società civile nell'Europa orientale risalgono agli sforzi dei democratici cechi e slovacchi nel 1968 e di quelli polacchi a partire dal 1980, mirati a creare corpi cittadini autonomi e rappresentativi senza l'interferenza dello Stato). Tuttavia, è opportuno osservare che queste controtendenze, o trionfi della società civile, si sono verificate in aree geografiche confinanti con i paesi in cui questa è sempre stata forte, quelli dell'Europa nordoccidentale. È un luogo comune menzionare la debolezza della società civile greca, spagnola, polacca o russa per spiegare gli alti e bassi della loro storia recente, gli scontri e le lacerazioni che hanno subito e la facilità con cui le rivoluzioni, i colpi di Stato e le dittature militari hanno fatto presa su questi Stati, o su quelli dei paesi sudamericani. La cosa certa, tuttavia, è che la società civile ha recuperato terreno dove prima era precaria o del tutto inesistente. Tutto questo, chiaramente, significa che la tendenza globale, e a lungo termine, non è contraria a questo notevole recupero di autonomia e di iniziative da parte dei cittadini (e di organizzazioni diverse dallo Stato, come accade per esempio in Polonia) in vari paesi. L'articolazione e la tensione tra Stato e società civile fluttua e varia in ogni paese in modo specifico e diversificato, ma ciò non toglie che sia possibile formulare alcune generalizzazioni.
(V. anche Borghesia; Classi e stratificazione sociale; Liberalismo; Marxismo; Mercato; Opinione pubblica; Pluralismo; Società di massa; Stato).
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