Stati Uniti
Yes, we can
I primi mesi della presidenza Obama
di Maurizio Molinari
20 gennaio
Oltre 2 milioni di persone assistono sul Mall di Washington alla cerimonia del giuramento come 44° presidente degli Stati Uniti di Barack Obama. L’elezione del senatore democratico dell’Illinois, decretata dal voto popolare del 4 novembre, è stata ufficialmente confermata il 15 dicembre da 365 grandi elettori su 538.
Pragmatismo nella formazione della squadra di governo, determinazione nel rilanciare la crescita facendo leva su una nuova ricetta economica che premia le famiglie della classe media e una politica estera divisa a metà fra la scommessa idealista di dialogare con i nemici e la grintosa volontà di sconfiggere Al Qaida e i suoi alleati jihadisti nello scacchiere afghano-pakistano: questo è il profilo della presidenza di Barack Obama emerso nei primi 100 giorni di amministrazione seguiti all’insediamento del 20 gennaio 2009.
La squadra di governo
Nei giorni che passano fra l’election night e l’insediamento al 1600 di Pennsylvania Avenue, Obama si immerge in una transizione dei poteri che affronta leggendo due libri: Team of rivals, nel quale la storica Doris Kearns Goodwin racconta come Abramo Lincoln formò il suo primo gabinetto mettendo assieme ministri rivali fra loro, e The defining moment di Jonathan Alter, il commentatore di Newsweek che descrive nei dettagli i primi 100 giorni di governo di Franklin Delano Roosevelt, il presidente che si trovò ad affrontare le conseguenze della crisi del 1929 e trasformò l’America in una superpotenza entrando in guerra contro le potenze dell’Asse. Per Obama ciò che accomuna Lincoln e Roosevelt è il pragmatismo. Lincoln lo dimostrò mettendo da parte il timore delle rivalità interne per puntare a costruire il team migliore e Roosevelt fece altrettanto, ponderando le proprie convinzioni con i fatti.
È questa la genesi delle decisioni che portano il nuovo presidente a comporre il suo ‘team di rivali’. Hillary Clinton, con cui ha duellato fino al giugno 2008 nelle roventi primarie democratiche, diventa segretario di Stato. Robert Gates, scelto dal presidente George W. Bush per il Pentagono, resta alla Difesa per gestire i cambiamenti in arrivo nelle campagne militari in Iraq e Afghanistan. Il liberal Eric Holder si insedia al Ministero della Giustizia per «ripristinare i valori della nostra nazione». Al Tesoro va Timothy Geithner, che come capo della Federal Reserve di New York affiancò il precedessore Henry Paulson nell’affrontare la genesi della tempesta economica, e al Ministero dell’Energia si insedia Steven Chu, paladino della lotta ai cambiamenti climatici, mentre l’ex giocatore professionista di basket Arne Duncan ottiene il portafoglio dell’Educazione. La compagine ministeriale somma bianchi, afroamericani, ispanici, asiatici, uomini e donne dando vita a una squadra multietnica e diversificata che riflette l’identità della nazione che ha eletto un presidente figlio di un padre kenyota e una madre bianca del Kansas. Alla Casa Bianca la squadra degli stretti collaboratori non è da meno. Il guru politico David Axelrod, cresciuto in una famiglia ebraica di Brooklyn, e la consigliera Valerie Jarrett, nata in Iran da una coppia di medici americani in missione umanitaria, sono i volti di punta dei fedelissimi di Chicago; il capo di gabinetto Rahm Emanuel e il capo dei consiglieri economi Larry Summers vengono dal team dei clintoniani, mentre il consigliere per la sicurezza generale James Jones ha lavorato con il Dipartimento di Stato di Condoleezza Rice. Dallo Studio ovale fino alle rive del Potomac l’amministrazione Obama si presenta come un collage di differenze, etniche e politiche, ed è lo stesso presidente a giustificare la scelta spiegando che vorrà governare «ascoltando pareri differenti» per distinguersi dalla compagine del predecessore al quale imputa di «essersi circondato solo di persone accondiscendenti».
La ricetta economica
Vincitore di una campagna elettorale condizionata dal peso della recessione sulle famiglie della classe media, Obama mette in cima all’agenda la necessità di porre le basi per una nuova fase di crescita. La scelta cade sulla definizione di un nuovo modello di sviluppo nel quale Wall Street conti meno di Main Street, ridimensionando il peso della finanza sul PIL. Se è stata la crisi immobiliare a innescare le difficoltà delle banche poi trovatesi carenti di capitali, Obama individua il vulnus in un sistema economico troppo legato alle speculazioni. Assieme a Summers e Geithner, ma anche a una schiera di consiglieri economici liberal come Daniel Tarullo e conservatori come Paul Volcker, decide dunque di intraprendere una strada diversa. Se è il ceto medio a soffrire di più dovrà essere lo Stato ad aiutarlo a risollevarsi. Partono così iniziative molteplici mirate a sostenere l’economia delle singole famiglie: borse di studio per poter frequentare i college, sanità pubblica gratis per i bambini, nuove scuole nei quartieri poveri, fonti rinnovabili per abbassare le bollette energetiche, controlli per evitare le speculazioni delle carte di credito, sovvenzioni per i farmaci destinati ai più anziani, treni veloci per collegare piccoli e grandi centri al fine di usare meno le auto, rete di Internet su banda larga in ogni angolo della nazione per consentire a tutti pari accesso alle opportunità dell’economia digitale. Sono progetti a medio e anche a lungo termine, ma la strategia di Obama è quella di «investire sull’avvenire» impegnando lo Stato a creare migliori condizioni di vita per il ceto medio. Un pilastro cruciale di questo edificio è il recupero dell’occupazione, e quindi lo stimolo per l’economia da 787 miliardi di dollari che il Congresso approva in tempo record prevede una pioggia di dollari in una miriade di progetti, pubblici e no, destinati a produrre posti di lavoro. L’obiettivo di Obama è crearne 3-4 milioni entro 2 anni, ma l’opposizione repubblicana, guidata dall’ex rivale presidenziale John McCain, lo accusa di confezionare un boomerang economico perché l’indebitamento causato dalla crescita vertiginosa della spesa pubblica «peserà sulle prossime generazioni». Mike Huckabee, l’ex pastore evangelico ed ex governatore dell’Arkansas anch’egli candidato per i repubblicani nel 2008, si spinge fino a definire ‘socialista’ la ricetta di Obama, ammonendo gli americani sui rischi di uno ‘statalismo all’europea’ negli Stati Uniti. Lo scontro al Congresso con i repubblicani è duro, segnato da una contrapposizione ideologica che si ripropone quando Obama presenta il progetto di bilancio 2010, che include un aumento tale della spesa pubblica da prevedere, nel migliore dei casi, un deficit record di 1200 miliardi di dollari. Ma se la destra contesta la scelta di fare leva sulla spesa pubblica per risollevare l’occupazione, la sinistra non gradisce i piani di Geithner per il riassetto dell’intero sistema finanziario.
Obama e Geithner fanno proprio il piano TARP (Troubled Assets Relief Program) ereditato dall’amministrazione Bush, che prevede aiuti pubblici alle istituzioni finanziarie a rischio di collasso e con capitali superiori ai 500 milioni di dollari. Sono 19 le grandi banche che accedono ai finanziamenti e si sottopongono agli stress tests della Federal Reserve per accertare la loro tenuta sui mercati. Geithner vara anche un piano per identificare i ‘titoli tossici’ e rimetterli progressivamente sui mercati, ma per gli economisti liberal, come i premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman, si tratta di palliativi perché destinati a «non risolvere alla radice il problema del sistema finanziario». Krugman propone delle ‘nazionalizzazioni a tempo’ delle banche, ma Geithner è convinto che anche l’intervento dello Stato nell’economia debba avere dei limiti. Lo scontro è sull’applicazione dei principi keynesiani all’inizio del 21° secolo: Krugman preme per una massiccia presenza pubblica nella finanza, mentre l’amministrazione teme che in questa maniera si pregiudicherebbe la prospettiva di ripresa, allontanando nel tempo il ritorno dei capitali privati a Wall Strett. Per Obama il rilancio della crescita passa attraverso massicci investimenti per la lotta all’inquinamento e la difesa del clima. La decisione di varare nuovi standard per le emissioni nocive per le auto – puntando ad arrivare a consumare 1 litro di benzina per 16 km nel 2016 – significa spingere le industrie produttrici a massicci investimenti destinati a creare green jobs, posti di lavoro legati allo sviluppo di impianti di nuova generazione che proteggono la salute del Pianeta. L’intenzione è di fare dell’America la potenza leader dei nuovi accordi su clima ed energia destinati a essere approvati dalla Conferenza di Copenaghen nel dicembre 2009, perseguendo così anche un obiettivo molto patriottico: ridurre drasticamente la dipendenza dalle importazioni di greggio da nazioni instabili come Arabia Saudita, Venezuela e Libia.
Il dialogo con i nemici
Feluche inviate a trattare nel palazzo di Bashar Assad a Damasco, mano tesa verso l’Iran che insegue il nucleare e anche verso la Corea del Nord che lancia missili intercontinentali, pacche sulle spalle con il presidente venezuelano Hugo Chávez e revisione dell’embargo a Cuba al fine di accelerare il dialogo diretto con Raúl Castro. Barack Obama cambia approccio con gli avversari strategici degli interessi americani rispetto all’amministrazione di George W. Bush puntando a scongelare le situazioni di crisi e a ritagliare all’America il ruolo di unica potenza mondiale capace di dialogare in ogni scenario.
L’apertura agli avversari ha come asse portante il rilancio delle relazioni con l’Islam perché Obama ritiene che sia l’urgenza più impellente in politica estera. Nel discorso inaugurale pronunciato dagli scalini del Campidoglio di Washington propone un rapporto basato su «comuni interessi e reciproco rispetto». Pochi giorni dopo concede ad Al Arabiya, una stazione televisiva in lingua araba destinata al pubblico del Medio Oriente, la prima intervista da presidente al fine di far capire ai telespettatori che l’«America non è in guerra con l’Islam». In aprile di fronte al Parlamento di Ankara e in giugno in Egitto i passi si succedono. L’offensiva di Obama non è solo politica ma anche personale: mette sul piatto il fatto di «aver vissuto in una nazione a maggioranza musulmana» come l’Indonesia e di avere dei «parenti musulmani in famiglia» per presentarsi come portatore di valori che appartengono anche all’Islam. Ciò non significa abdicare agli interessi strategici americani, abbandonare gli alleati come Israele o rinunciare alla guerra contro Al Qaida, ma Obama aggiunge a questi tasselli quello di un’America che cerca l’engagement (il rapporto diretto) con i musulmani nella convinzione che sia questa la strada migliore per fare terra bruciata attorno all’antiamericanismo che consente ai gruppi jihadisti di continuare a far presa. La «mano tesa verso chi sarà disposto a schiudere il proprio pugno» di cui parla nel discorso inaugurale è verso quei paesi musulmani che sommano maggiori attriti con gli Stati Uniti, a cominciare da Siria e Iran. Il presidente è convinto di poter scardinare l’asse Damasco-Teheran offrendo a entrambe le capitali opzioni diverse da quelle del braccio di ferro. Nel caso della Siria di Bashar Al Assad, pensa a un negoziato di pace con Israele capace di portare alla fine di uno stato di guerra che dura dal 1947, mentre sull’Iran il nodo del programma nucleare – del quale l’ONU ha chiesto la sospensione temendone la natura militare – è per Obama l’occasione di portare l’America alla guida di un’offensiva diplomatica multilaterale, che coinvolge anche Pechino, Mosca e le maggiori capitali europee ed è mirata a offrire a Teheran la fine delle sanzioni e il completo reinserimento nella comunità internazionale in cambio del blocco dell’arricchimento dell’uranio. Ogni volta che Obama fa un passo avanti verso i dittatori di Damasco e Teheran raccoglie risultati scarsi, ma le sconfitte tattiche lo spingono a rinnovare la sfida. Per questo in occasione del capodanno persiano, il Nowruz, dedica al popolo iraniano un messaggio di apertura e speranza che punta a scavalcare la teocrazia degli ayatollah per costruire un rapporto diretto con la popolazione. Dietro queste scelte c’è la convinzione della Casa Bianca che Obama rappresenti quella ‘novità’ che le nuove generazioni di musulmani in Medio Oriente aspettano con ansia e che potrebbe rivelarsi capace di sconvolgere gli equilibri regionali.
In occasione del suo primo viaggio europeo, in aprile, il presidente spiega prima al summit del G20 di Strasburgo e poi al pubblico degli studenti alsaziani della stessa città che la propria idea di leadership americana nel mondo implica «costruire coalizioni» e riuscire «ad aiutare il mondo a trovare le soluzioni migliori ai problemi comuni». Con Obama cambia dunque la declinazione di leadership americana: non significa più prendere solitarie iniziative e quindi raccogliere i consensi dei singoli paesi ma essere protagonisti della genesi di decisioni comuni di vasta portata. È in questa cornice che il presidente lancia la sua mediazione personale per arrivare a una pace in Medio Oriente basata sulla coesistenza in ‘pace e sicurezza’ fra lo Stato di Israele e il nascituro Stato di Palestina. In primavera riceve in rapida successione nello Studio ovale i capi di governo di Giordania, Israele, Egitto e Autorità nazionale della Palestina facendo capire di voler arrivare a un accordo regionale, capace da un lato di porre fine al contenzioso israeliano-palestinese e dall’altro di portare tutti gli Stati arabi a riconoscere l’esistenza di Israele come uno Stato ebraico. Fra gli avversari dell’America quello più abbordabile è anche il più vicino: nella Cuba del molto malato Fidel Castro il governo di Raúl guida una lenta trasformazione dell’economia e dei consumi che viene letta da Washington come la premessa di una possibile svolta. Sostenuto dagli esuli cubani della Florida, dove in maggioranza sono i giovani e non più le vecchie generazioni fuggite dopo la rivoluzione del 1959, Obama fa così il primo gesto riducendo le restrizioni ai viaggi, ai ricongiungimenti familiari e all’invio di danaro. È un segnale che lascia intendere la disponibilità a rivedere drasticamente, se non abolire del tutto, un embargo economico che dura da mezzo secolo. Raúl Castro risponde con favore, fa capire di essere pronto a «dialogare su tutto, inclusi diritti umani e prigionieri politici» e prima dell’inizio dell’estate in un hotel di Washington alti funzionari dei due paesi incominciano colloqui diretti che promettono la normalizzazione dei rapporti. L’apertura a Cuba ha una vittima illustre in Hugo Chávez, il presidente del Venezuela che ha costruito la propria popolarità sull’antiamericanismo e la condanna dell’embargo a Cuba, puntando a legittimarsi come leader regionale grazie ad accordi bilaterali con Bolivia, Ecuador, Nicaragua e la stessa Cuba e a un’intesa strategica con l’Iran di Ahmadinejad. Tanto più Obama si avvicina a Cuba tanto più è difficile per Chávez sostenere la campagna anti-yankee in America Latina e quando i due leader si incontrano a Trinidad e Tobago, sede del summit quadriennale delle Americhe, uno scambio di pacche sulle spalle e gesti di amicizia lasciano intuire una rottura del ghiaccio. Ma per Obama il Venezuela non è Cuba: la scelta di Chávez di consentire agli hezbollah filoiraniani di insediarsi in Venezuela e di siglare accordi militari con Teheran, Mosca e Pechino fa di Caracas una capitale assai più destabilizzante dell’Avana. Se la partita fra Obama e Raúl Castro promette la normalizzazione in tempi brevi, nel caso di Chávez a tenere banco continuano a essere le tensioni. Anche perché i gravi atti di intolleranza antiebraica che si succedono a Caracas – sinagoghe devastate, rabbini aggrediti, minacce notturne contro istituzioni e famiglie – sollevano forti preoccupazioni nel Congresso di Washington a guida democratica.
La guerra dell’Afpak
Dopo aver condotto una campagna elettorale nel segno dell’opposizione alla guerra in Iraq e della necessità di dedicare più risorse alla campagna contro Al Qaida e i Talebani in Afghanistan, una volta eletto presidente Obama trasforma le promesse in fatti. La prima decisione è far sapere al governo di Baghdad che entro la fine del 2011 gli ultimi soldati americani lasceranno il paese ponendo fine alla presenza militare iniziata con l’invasione del 2003. Pianificare il ritiro è possibile grazie al fatto che, negli ultimi 18 mesi di presidenza Bush, il generale David Petraeus, comandante delle truppe in Iraq, è riuscito a ridurre drasticamente le violenze interetniche mettendo a segno duri colpi contro i terroristi di Al Qaida e i loro alleati jihadisti. Petraeus ora è il comandante di tutte le truppe USA nella regione del ‘Grande Medio Oriente’, che si estende dal Marocco al Pakistan, e Obama è a tal punto convinto dell’efficacia della sua ricetta da volerla ripetere in Afghanistan. Il metodo Petraeus è basato sui manuali dell’antiguerriglia che si studiano a West Point: contro le insurrezioni armate non basta l’uso dei militari ma serve anche il sostegno della popolazione civile e per ottenerlo bisogna impegnarsi nella ricostruzione, nelle opere pubbliche, nell’assistenza sanitaria. Per questo Obama propone agli alleati della NATO una nuova strategia in Afghanistan mirata a ottenere un duplice risultato: rafforzare le istituzioni del debole Stato centrale garantendo più servizi ai cittadini e aumentare l’impegno militare contro Al Qaida e i Talebani. Quest’ultimo aspetto ha però una novità rispetto a quanto ereditato dall’amministrazione Bush: per Obama e i suoi consiglieri militari la guerra contro i jihadisti non si svolge solo in Afghanistan ma anche in Pakistan. Nasce così la denominazione di ‘Afpak’ per la regione strategica che include entrambi i paesi a causa del fatto che i Talebani presenti in Pakistan sono le retrovie di quelli che si battono contro la NATO in Afghanistan e, secondo l’intelligence americana, garantiscono il rifugio agli ancora latitanti leader di Al Qaida responsabili degli attacchi dell’11 settembre 2001: Osama Bin Laden e Ayman Al Zawahiri. Nasce così la guerra dell’Afpak, una campagna militare che si sviluppa su due fronti: su quello afghano il Pentagono aumenta le truppe fino a toccare 70.000 effettivi nel settembre 2009 per non dare tregua ai gruppi jihadisti, mentre su quello pakistano è l’intelligence – americana e britannica – ad addestrare le truppe pakistane a dare la caccia ai Talebani con i droni della CIA che colpiscono dall’alto, causando numerose vittime, anche civili. Cruciale per il successo di questo approccio è la piena collaborazione dei governi di Kabul e Islamabad. Per questo in maggio Obama invita entrambi i presidenti nello Studio ovale per un summit trilaterale che si conclude con l’impegno dell’afghano Hamid Karzai a guidare un governo più efficiente e impegnato a migliorare la vita dei cittadini e del pakistano Asif Ali Zardari a usare le truppe contro i Talebani per smantellare le roccaforti islamiche nelle aree tribali di confine, a cominciare dal Waziristan. È quest’ultimo aspetto che interessa di più a Obama perché la CIA guidata da Leon Panetta ritiene che proprio le complicità dei servizi pakistani – l’ISI (Inter-Services Intelligence) – con i gruppi talebani durante la presidenza del generale Pervez Musharraf abbiano consentito ad Al Qaida di riorganizzarsi, allevando una nuova generazione di colonnelli dediti a organizzare attacchi kamikaze.
Ai ferri corti con la CIA
Il più difficile nodo che il presidente si trova a dover affrontare è Guantánamo, la base USA sull’isola di Cuba dove il suo predecessore ha creato un super-carcere per interrogare, detenere e far processare da tribunali militari i detenuti di Al Qaida, inclusi quelli più coinvolti nell’organizzazione degli attacchi dell’11 settembre, come Khalid Shaikh Mohammed, ideatore del piano dell’assalto con aerei commerciali trasformati in kamikaze che fece quasi 3000 vittime a Washington e New York. La doppia scelta di fondo che Obama compie è di chiudere Guantánamo e condannare come ‘torture’ le tecniche rafforzate di interrogatorio adoperate dalla CIA sui detenuti, come per esempio il waterboarding. Nell’applicare queste due scelte, nel trasformarle in fatti concreti, Obama viene a trovarsi ai ferri corti con l’apparato dell’intelligence. La scelta di declassificare i memorandum top secret nei quali la CIA illustrava l’esatta natura delle tecniche rafforzate provoca infatti l’irritazione di molti agenti del Dipartimento Operazioni clandestine – a cui spetta di dare la caccia ai terroristi – che durante una rovente riunione a Langley, dove ha sede l’Agenzia, accusano il presidente di volerli far combattere «con un braccio legato dietro la schiena» privandoli della possibilità di condurre interrogatori duri per ottenere informazioni utili a sventare nuovi attentati. Gli 007 temono inoltre che l’equiparazione delle tecniche rafforzate alle torture apra la strada a processi legali nei confronti di coloro che le hanno praticate. L’altro fronte di tensione riguarda lo scenario del trasferimento da Guantánamo nelle carceri americane della maggioranza dei 241 rimanenti detenuti, perché una moltitudine di sindaci e legislatori si oppone temendo «ripercussioni per la cittadinanza» e lo stesso direttore dell’FBI, Robert Mueller, si unisce al coro dei contrari, entrando in contrasto diretto con il presidente. Dietro queste difficoltà c’è la necessità da parte di Obama di riscrivere le regole della lotta contro il terrorismo. A svelare la difficoltà dell’opera ci sono i frequenti voltafaccia del presidente, che arriva fino a ripristinare, anche se con regole diverse, i tribunali militari creati dall’amministrazione Bush e considerati una violazione della legalità dai militanti liberal. Incalzato dalle critiche di opposto tenore politico, il presidente ribadisce la strada intrapresa e, parlando nella sede degli Archivi nazionali a fine maggio, spiega il disegno di combattere il terrorismo rispettando lo Stato di diritto nella convinzione che «l’arma più forte dell’America è quella della difesa dei propri valori, contenuti nella Costituzione redatta dai padri fondatori».
Il predecessore di Obama: George W. Bush
Gli anni della formazione e l’esordio in politica
Maggiore dei sei figli di George Herbert Walker Bush, quarantunesimo presidente degli Stati Uniti (1989-93) e di Barbara Pierce Bush, George Walker Bush è nato a New Haven, Connecticut, il 6 luglio 1946; suo nonno, Prescott Bush, fu senatore del Connecticut (1952-63). Trasferitasi la famiglia in Texas nel 1948, il giovane Bush crebbe a Midland e Houston. Frequentò le scuole primarie a Midland e completò l’educazione secondaria presso la Phillips Academy, il collegio di Andover, Massachusetts, frequentato a suo tempo dal padre e prima ancora dal nonno. Anche per l’università seguì le tradizioni di famiglia, iscrivendosi a Yale, dove nel 1968 ottenne la laurea in storia. Si immatricolò poi in un corso di addestramento piloti presso la sezione aeronautica della Guardia nazionale del Texas; trasferito nel 1973 nella Riserva, l’anno successivo, allo scadere dei sei anni di servizio obbligatorio, fu definitivamente dimesso. Nel 1973 entrò alla Business School di Harvard, dove conseguì un MBA (Master in Business Administration). Tornato a Midland nel 1975, iniziò l’attività di imprenditore nel settore petrolifero, lavorando dapprima per un amico di famiglia e dando poi vita a una propria ditta, la Arbusto Energy Company, cui si dedicò completamente dopo aver fallito nel 1978 il suo primo tentativo di entrare in politica, candidandosi per il Congresso.
A quella prima campagna elettorale partecipò anche Laura Welch, un’insegnante e bibliotecaria che Bush aveva sposato nel novembre 1977. Il matrimonio ebbe una profonda influenza stabilizzatrice sulla sua vita. Il futuro presidente lasciò la Chiesa episcopale, in cui era stato educato, per aderire a quella Metodista Unita cui apparteneva la moglie. All’influenza di Laura e al risveglio religioso sfociato in un rafforzamento della sua fede cristiana Bush avrebbe attribuito in seguito la sua liberazione dalla dipendenza dall’alcol, che gli aveva creato qualche problema in precedenza.
Nel 1986, al momento del crollo del prezzo del petrolio, Bush cedette la sua compagnia estrattiva e di ricerche petrolifere alla Harken Energy Corporation, dalla quale ottenne un incarico di consulente e un posto nel consiglio direttivo. Liquidata l’impresa, nel 1988 si trasferì con la famiglia a Washington per dedicarsi a tempo pieno alla campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti del padre, nella quale ebbe il ruolo di consigliere e speechwriter e tenne i rapporti con la stampa, viaggiando per tutto il paese.
Governatore del Texas
Tornato in Texas dopo il successo elettorale di George senior, George W. riprese le attività economiche in un nuovo settore: a Dallas, a capo di un gruppo di investitori da lui organizzato insieme con un suo ex socio d’affari, acquistò la squadra professionista di baseball dei Texas Rangers. La sua qualifica di manager e la partecipazione con cui seguì per anni le attività della squadra gli diedero ampia visibilità sui media e la reputazione di uomo d’affari di successo: quando nel 1998 vendette la sua quota, dagli 800.000 dollari dell’investimento iniziale questa aveva raggiunto il valore di 15 milioni.
Forte della popolarità conquistata, nel 1994 avanzò la sua candidatura a governatore dello Stato, sfidando la governatrice in carica, la democratica Ann Richards. Per la campagna elettorale si affidò a Karl Rove, figura centrale nello staff che aveva guidato l’elezione presidenziale del padre; concentrò il suo programma essenzialmente su quattro punti: riforma del welfare, educazione, inasprimento delle pene per i giovani delinquenti, riforma del danno nelle cause civili. Vinse ottenendo il 53% dei voti contro il 46% della Richards.
Preoccupato per l’elevato tasso di analfabetismo fra i giovani texani, fece dell’istruzione una priorità del suo mandato di governatore, aumentando la spesa pubblica per le scuole elementari e medie e legando i miglioramenti salariali e di carriera degli insegnanti ai risultati raggiunti. Riformò il sistema di welfare, proponendo limiti temporali al godimento di sussidi, e incoraggiò nel campo della lotta agli abusi di droga e di alcol l’opera di istituzioni a guida religiosa da affiancare alle agenzie statali. Nel 1998 fu riconfermato con circa il 70% dei voti, primo governatore del Texas a essere rieletto due volte per un mandato di quattro anni (fino al 1972 nel Texas il governatore restava in carica due anni).
Verso la presidenza
Già durante il primo mandato si cominciò a parlare di Bush come di un possibile candidato alle elezioni presidenziali; l’annuncio fu dato nel giugno 1999 e Bush dovette confrontarsi con numerosi repubblicani in corsa per la nomination, fra i quali temibile fu soprattutto John McCain, il futuro antagonista di Obama del 2008.
Quando in un incontro di governatori del suo partito un giornalista inglese gli chiese quale fosse la sua filosofia, Bush rispose di essere «un conservatore con il cuore», e «conservatorismo compassionevole» divenne la formula su cui lo staff di Bush impostò la campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2000. Lo scontro si concentrò sulla situazione economica interna: il candidato democratico, il vicepresidente Al Gore, forte dei successi della presidenza Clinton, si presentava come il continuatore di quella politica e quindi il garante della solidità conquistata, mentre Bush, figlio dell’ex presidente e governatore del Texas dal 1994, richiamandosi anche a quell’esperienza, sosteneva la necessità di riduzioni fiscali per stimolare la crescita produttiva, di una limitazione del welfare, di un potenziamento della scuola pubblica e della difesa, nel quadro di un richiamo morale di forte impronta religiosa che assegnava un ruolo centrale alle comunità locali e alle famiglie. Per correre al suo fianco Bush chiamò un vecchio amico di famiglia dalla consolidata esperienza politica, Dick Cheney, già nello staff del presidente Gerald Ford e segretario alla Difesa nella presidenza di Bush padre.
L’iniziale largo vantaggio registrato da Bush nei primi sondaggi si andò progressivamente assottigliando con il procedere della campagna elettorale, fino a registrare lo scarto più piccolo dei precedenti quarant’anni. In questa situazione la risposta delle urne sollevò un grave problema, dal momento che la maggioranza dei suffragi finì con il dipendere dai 25 voti elettorali della Florida, i cui risultati furono immediatamente contestati. Seguirono settimane di incertezza, di ricorsi, denunce e sentenze contraddittorie: una battaglia giudiziaria in cui, oltre ai due partiti, furono coinvolte la Corte suprema della Florida e quella federale. La decisione di quest’ultima, con 5 voti su 9, di non procedere a una verifica manuale dei voti contestati, richiesta dai democratici che accusavano di scarsa attendibilità il sistema automatico di conteggio dei suffragi, ma che non si sarebbe potuta concludere entro il 18 dicembre, termine ultimo per la proclamazione dei grandi elettori, portò Gore a dichiarare pubblicamente la propria sconfitta elettorale in Florida, e quindi a livello nazionale. Bush vinse dunque di strettissima misura, per 271 voti elettorali contro 266, uno soltanto in più dei 270 richiesti (uno degli elettori di Gore si astenne). I risultati del voto popolare indicarono però che Gore aveva ottenuto il 48,4% dei suffragi validi, contro il 47,9% di Bush. Quest’ultimo diventava così il primo candidato ad avere la maggioranza dei voti elettorali a fronte di una sconfitta nel voto popolare nazionale.
Le consultazioni per il Senato registrarono un aumento dei democratici, che ottennero 50 seggi al pari dei repubblicani, che però conservavano la maggioranza alla Camera; il passaggio poi di un senatore repubblicano nella lista degli Indipendenti, nel maggio 2001, assicurò ai democratici la maggioranza al Senato.
Il primo mandato presidenziale
Insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 2001, Bush segnò la prima fase della sua presidenza con una serie di iniziative che rispecchiavano le linee guida della sua campagna elettorale. In nome degli interessi nazionali, minacciati sul piano economico dalla recessione, sospese l’attuazione di una serie di misure di protezione ambientale decise da Clinton poco prima della fine del suo mandato; presentò in febbraio la prima finanziaria, che annunciava riduzioni dell’imposta sulle persone fisiche; ritirò in marzo l’appoggio statunitense alla ratifica degli accordi di Kyoto del dicembre 1997 sulla riduzione delle emissioni di gas serra. La congiuntura economica era dominata dalla crisi della cosiddetta new economy, la quale denunciava una marcata fragilità strutturale, aggravata da un forte interesse speculativo: l’esito fu dapprima un crollo del listino borsistico specializzato (NASDAQ), quindi quello generalizzato delle borse, con pesanti contraccolpi a livello mondiale. Per restituire slancio all’economia, Bush decise di mobilitare rilevanti risorse finanziarie pubbliche, per destinarle, in massima parte, ai settori della ricerca militare e degli armamenti, allo scopo di mantenere elevato il livello di fiducia interna e internazionale, ma anche per sostenere i consumi. Nell’ambito strettamente militare annunciò, in aprile, che gli Stati Uniti non avrebbero partecipato ad accordi internazionali antinucleari che avessero ostacolato il Programma di difesa missilistica (avviato da Clinton nel 2000), mentre si adoperava per ottenere l’impegno di vari governi a non estradare cittadini statunitensi alla nuova Corte criminale internazionale, di cui non riconosceva la giurisdizione. Inoltre l’amministrazione Bush sembrò abbandonare in questa prima fase l’impegno che aveva contraddistinto la presidenza Clinton per una soluzione della questione israeliano-palestinese.
La politica di Bush sembrava muoversi in una direzione marcatamente isolazionista. Ma la linea adottata subì una drammatica svolta con gli attentati dell’11 settembre 2001, quando l’organizzazione terroristica islamica Al Qaida si rese responsabile di una tragica azione sul territorio statunitense, provocando migliaia di morti con l’attacco suicida alle Twin Towers di New York e contro il Pentagono a Washington. Di fronte agli attentati dell’11 settembre e allo shock subito dal paese in quello che fu percepito come il primo riuscito attacco all’invulnerabilità degli Stati Uniti, l’obiettivo prioritario della presidenza Bush divenne la lotta al terrorismo. Nell’ottobre, dopo aver ottenuto un largo assenso internazionale, una coalizione militare guidata dagli USA iniziò una guerra, denominata Enduring freedom, contro il regime dei Talebani in Afghanistan, accusato di garantire la base logistica dei terroristi di Al Qaida. Sul piano interno, gli attentati dell’11 settembre portarono all’adozione da parte del governo Bush di misure straordinarie di sicurezza che provocarono in una parte dell’opinione pubblica nazionale e internazionale forti perplessità per le restrizioni delle libertà civili che comportavano.
Nel gennaio 2002 Bush varò una delle misure di maggior rilievo del suo primo mandato riguardante la riforma del sistema educativo, intesa a sostenere l’apprendimento dei giovani: il No child left behind act introduceva significative modifiche nei curricula delle scuole pubbliche elementari, medie e superiori, istituendo criteri di misurazione del rendimento degli studenti e rifinanziando le scuole in difficoltà. Nel frattempo, l’amministrazione era coinvolta nello scandalo della società multinazionale energetica Enron, che aveva svolto un ruolo di primo piano nel finanziamento della campagna presidenziale e il cui fallimento, nel dicembre 2001, fece emergere un sistema di bilanci truccati per fuorviare gli investitori sul valore obiettivo dell’azienda. A quell’episodio seguirono, nei mesi successivi, una serie di bancarotte di altre importanti società e una crisi di fiducia degli investitori cui si accompagnò una fortissima pressione sociale per nuovi interventi regolatori sui mercati finanziari. Tuttavia, nonostante le turbolenze sul piano economico, il Partito repubblicano riconquistò la maggioranza al Senato nelle elezioni di medio termine del novembre 2002, pur perdendo il governatorato di tre Stati.
Forte della maggioranza nei due rami del parlamento, Bush fece passare nel maggio 2003 una nuova riduzione generale delle tasse e in particolare della tassazione sui capital gains.
Nel discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2002 Bush denunciò l’esistenza di un ‘asse del male’, formato da Iraq, Iran e Corea del Nord, paesi che con il loro appoggio al terrorismo internazionale e la corsa agli armamenti minacciavano la pace nel mondo. La teorizzazione della ‘guerra preventiva’ come risposta a possibili attacchi da parte di ‘Stati canaglia’ divenne il perno della cosiddetta dottrina Bush. Mentre andavano concludendosi le operazioni di guerra in Afghanistan, Bush attaccò l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di possedere e sviluppare armi di distruzione di massa in violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre che di contatti con Al Qaida; nel gennaio 2003 il presidente denunciò il tentativo posto in atto dal governo iracheno di acquistare uranio arricchito dalla Nigeria allo scopo di costruire ordigni nucleari. Gli inviati dell’ONU incaricati di verificare la presenza di siti di produzione di armi di distruzione di massa furono ritirati prima della conclusione delle loro ispezioni e quando già stava per scattare l’attacco militare. Senza l’avallo delle Nazioni Unite, il governo americano, a capo di una ‘coalizione dei volenterosi’ (comprendente in prima fila Gran Bretagna, Polonia e Spagna; l’Italia si sarebbe aggiunta solo dopo la caduta del regime iracheno per operazioni di peace keeping), diede inizio all’operazione denominata Iraqi Freedom, allo scopo di abbattere Saddam Hussein e catturare le armi di distruzione di massa. Il 20 marzo 2003 scattarono le operazioni militari; il 9 aprile cadde Baghdad; il 1° maggio il Pentagono dichiarò la fine dei combattimenti principali, e il giorno dopo Bush, a bordo della nave da guerra Abraham Lincoln, dichiarò compiuta la missione. Nel periodo successivo all’invasione, mentre la vana ricerca di armi di distruzione di massa faceva cadere il pretesto su cui era stata scatenata la guerra, l’insurgency irachena diede l’avvio a una fase più sanguinosa del conflitto, che avrebbe prodotto negli anni seguenti migliaia di morti e feriti tra le truppe alleate e un numero incalcolabile di vittime fra la popolazione irachena, provocando nell’opinione pubblica americana una reazione di sfiducia riguardo ai costi e agli obiettivi di tutta l’operazione. Nello stesso tempo il governo Bush varava una serie di iniziative di aiuti all’estero volti al riscatto dalla povertà e a promuovere lo sviluppo della democrazia. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2003 Bush lanciava un ambizioso programma di sostegno ai paesi africani e caraibici devastati dalla piaga dell’AIDS, stanziando 15 miliardi di dollari in cinque anni, una misura apprezzata negli Stati Uniti anche dai suoi critici. Nel gennaio 2004 istituiva la Millennium Challenge Corporation che prevedeva aiuti allo sviluppo e alla crescita economica dei paesi poveri, vincolandoli all’impegno verso la democrazia, la libertà d’impresa e la trasparenza governativa.
La rielezione e il secondo mandato
La campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2004 si giocò per buona parte sugli sviluppi della guerra irachena, che avevano visto, negli ultimi mesi del 2003, calare i consensi nei confronti del governo. Bush, che si presentava affiancato dal vicepresidente Cheney, incentrò la sua piattaforma elettorale sull’impegno nella guerra al terrorismo, in cui rientrava l’invasione dell’Iraq, mentre il concorrente democratico, il senatore del Massachusetts John Kerry, affiancato da John Edwards della North Carolina, replicò sottolineando i limiti della pianificazione e della gestione del conflitto, al quale Bush aveva sacrificato le priorità domestiche. Sul piano interno, temi sensibili del confronto elettorale furono le questioni della legislazione sull’aborto e sulle unioni gay. Mentre si profilava un testa a testa, i dibattiti pubblici fra i due candidati non risultarono determinanti. Bush ottenne la rielezione con il 51% dei voti popolari, mentre il 48% andava a Kerry e l’1% al candidato indipendente Ralph Nader. Nel collegio elettorale, Bush conquistò 286 voti contro i 252 di Kerry, e nel nuovo Congresso i repubblicani incrementarono la loro maggioranza sia alla Camera sia al Senato.
L’inizio del secondo mandato fu caratterizzato da importanti cambiamenti nel governo federale: il segretario di Stato Colin Powell, dimissionario, fu sostituito da Condoleezza Rice, la prima donna di colore a capo dell’importante dicastero, mentre a responsabile del Dipartimento di Giustizia, al posto dell’uscente John Ashcroft, fu nominato Alberto Gonzales, giudice di origini ispaniche già consigliere generale di Bush durante il governatorato in Texas. Tra le iniziative politiche particolare impegno fu dedicato da Bush alla riforma del sistema sociale. Allarmato dalle previsioni di un deficit record per il 2005, il presidente illustrò nel primo discorso sullo Stato della Nazione del nuovo mandato il suo programma, che prevedeva una parziale privatizzazione della social security. Di fronte all’opposizione dei democratici, Bush si rivolse direttamente all’opinione pubblica per guadagnarne l’appoggio, intraprendendo una serie di tour attraverso il paese; gli scarsi consensi raggiunti convinsero il Partito repubblicano a rinviare la questione, ma il sopraggiungere di altre priorità prima e poi la perdita della maggioranza al Congresso dopo le elezioni di medio termine segnarono il destino del progetto. Nell’ambito delle politiche di welfare, entrò invece in vigore nel 2006 una misura riguardante il sistema sanitario, il Medicare act, consistente in un programma di prescrizione delle medicine con sussidi alle industrie farmaceutiche.
Sulle politiche ambientali Bush continuò a muoversi nella convinzione che lo sviluppo economico sia perseguibile senza troppi danni per l’ambiente e che limiti allo sviluppo, quando necessari, vadano raggiunti attraverso la cooperazione dell’industria piuttosto che attraverso regolamentazioni governative. Riconoscendo la gravità dell’allarme sul riscaldamento globale, l’amministrazione Bush propose misure intese a contenere l’inquinamento atmosferico. Ritenute ampiamente insufficienti, quelle misure, contenute nel Clear skies act, caddero comunque al vaglio del Senato nel 2005. Più in generale, furono settori del mondo della ricerca scientifica a muovere critiche all’amministrazione Bush, accusata di interferenze politiche. Nel luglio 2006 Bush esercitò per la prima volta nella sua presidenza il potere di veto per bloccare una legge che autorizzava l’uso di fondi federali nella ricerca sulle cellule staminali embrionali.
In nome della lotta al terrorismo, Bush firmò nell’ottobre 2006 il Military commission act, una legge che consentiva al governo di perseguire i combattenti nemici attraverso tribunali militari e non in base alle normali procedure; nei loro confronti sospendeva inoltre l’accesso all’habeas corpus e, mentre proibiva la tortura dei detenuti, lasciava al presidente di determinare quali pratiche costituiscano tortura. Ancora nel marzo 2008 Bush avrebbe posto il veto su una legge intesa ad ampliare il potere di controllo del Senato sulle attività di intelligence e a bandire pratiche illegali di interrogatorio, come il cosiddetto waterboarding (tecnica consistente nel versare acqua sul volto dell’interrogato, in modo da provocargli la sensazione dell’annegamento), sostenendo che una misura del genere avrebbe eliminato uno degli strumenti più efficaci di lotta al terrorismo.
Nonostante giocasse a suo vantaggio il successo ottenuto nel dicembre 2005 con le prime elezioni libere dell’Assemblea irachena, il protrarsi della guerra accrebbe la disaffezione dell’elettorato americano, che si manifestò nelle elezioni di medio termine del novembre 2006: i democratici assunsero il controllo di entrambi i rami del Congresso, ottenendo una maggioranza di 30 seggi alla Camera dei rappresentanti e vincendo di misura – 51 a 49 – al Senato. Oltre al conflitto iracheno, a pesare sul risultato elettorale fu una serie di scandali di corruzione che videro coinvolti esponenti di primo piano del Partito repubblicano e, sul piano interno, le inefficienze e i ritardi imputati all’amministrazione Bush nella gestione del disastro provocato nell’agosto 2005 dall’uragano Katrina abbattutosi su New Orleans e le regioni vicine, provocando oltre 1800 morti.
A suscitare un acceso dibattito nell’ultima fase della presidenza Bush fu il problema dell’immigrazione clandestina. Di fronte alla drammatica situazione in cui vivevano 12 milioni di immigrati illegali, Bush sostenne l’esigenza di una riforma della legislazione esistente tale da consentire a una buona parte di coloro che erano entrati illegalmente di restare temporaneamente in qualità di ‘lavoratori ospiti’ con la prospettiva di poter ottenere poi la cittadinanza. Nel maggio 2007 il presidente dette il suo appoggio a un disegno di legge che si muoveva in quella direzione, frutto del lavoro bipartisan di un gruppo di senatori con la partecipazione attiva dell’amministrazione, e che ottenne l’adesione di alcuni autorevoli esponenti del Partito democratico, tra i quali il senatore Edward Kennedy. Se da parte liberale ci fu chi mise in guardia dalla creazione di un esercito di lavoratori poveri senza diritti, i critici di parte conservatrice denunciarono la misura come una sorta di amnistia di fatto che avrebbe incoraggiato nuove ondate di immigrazione clandestina. Alla prova finale il progetto fu bocciato al Senato il 28 giugno 2007.
L’ultimo anno della presidenza Bush trovò gli Stati Uniti di fronte a problemi enormi. Alle difficoltà di uscire dall’Iraq si accompagnarono quelle della ripresa della minaccia talebana in Afghanistan. Sul piano dei conti pubblici, lontani ormai i surplus di bilancio degli anni 2000 e 2001, a partire dal 2003 il budget federale aveva registrato una serie di deficit sempre più marcati, dovuti all’effetto combinato dell’aumento delle spese militari, dei tagli fiscali e del rallentamento della crescita economica. Negli ultimi mesi del 2008 l’esplodere di una crisi finanziaria paragonabile solo a quella del 1929 produsse effetti a cascata a livello globale, causando nei soli Stati Uniti una perdita di quasi 2 milioni di posti di lavoro. L’emergenza indusse il Congresso a varare un controverso piano di salvataggio dell’economia finanziaria, presentato dal Segretario al Tesoro Henry Paulson, per il quale l’amministrazione stanziava un fondo di 700 miliardi di dollari. La firma dell’Emergency economic stabilization act, subito dopo l’approvazione definitiva da parte del Congresso il 3 ottobre 2008, fu uno degli ultimi atti della presidenza Bush.