Benessere, Stato del
Lo Stato del benessere è un elemento centrale delle società europee e un prodotto della loro evoluzione, ed è pertanto strettamente connesso con lo sviluppo dello Stato nazionale, della democrazia di massa e del capitalismo industriale. Al tempo stesso si tratta di un fenomeno più generale del processo di modernizzazione, che ha dato origine a unità sociali più estese e più complesse, la cui integrazione deve basarsi in misura crescente su un controllo centralizzato e sui diritti individuali.Il concetto di Stato del benessere è rimasto sino a oggi scientificamente vago e politicamente controverso. Il termine è stato coniato in Inghilterra (Welfare State) poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, per contrapporre allo Stato autoritario nazionalsocialista la visione di una società libera, fondata sui diritti sociali. Dopo la seconda guerra mondiale, e soprattutto a partire dagli anni sessanta, tale concetto, e il termine correlato, si sono rapidamente diffusi, penetrando anche nelle lingue romanze.In questo articolo noi cercheremo di risalire alle origini europee comuni dello Stato del benessere (v. cap. 2), per delineare poi, a partire da queste, il tipo fondamentale di uno Stato liberale del benessere (v. cap. 3). Le varianti principali di questo tipo fondamentale saranno illustrate sulla base del processo di formazione degli Stati e delle nazioni (v. cap. 4), e ricollegate all'evoluzione generale della società (v. cap. 5). A una delineazione dell'espansione a lungo termine (v. cap. 6) seguiranno un'analisi delle crisi attuali e delle loro tendenze (v. cap. 7) e un esame delle possibilità di sviluppo futuro (v. cap. 8).
Il moderno Stato del benessere è nato in Europa verso la fine del XIX secolo. Rispetto ad altri elementi strutturali della società attuale - quali Stato nazionale, democrazia parlamentare e ordinamento economico capitalistico - esso è dunque un fenomeno relativamente recente. Considerato però come parte integrante dello sviluppo peculiare dell'Occidente, esso ha una storia assai più lunga. In un senso molto ampio, i presupposti storici dello Stato del benessere si trovano già nel XII secolo, quando furono create le condizioni preliminari fondamentali per una forma sociale più differenziata, la cui dinamica interna determinò quei processi di modernizzazione e di razionalizzazione caratteristici dello sviluppo seguito dall'Europa. A questo riguardo sia l'autonomia delle città medievali che gli inizi del potere burocratico rappresentano le origini di una nuova forma economica e di un nuovo ordinamento politico. Vi è inoltre da annoverare lo stabilizzarsi dell'equilibrio tra Papato e Impero, che assicurò le basi istituzionali dell'etica universalistica del cristianesimo, la quale annullava le barriere rappresentate dalla nascita e dalla posizione sociale. Così dalla concezione di una eguaglianza degli uomini di fronte a Dio, e attraverso le dottrine giusnaturalistiche degli inizi dell'epoca moderna, poté svilupparsi l'idea dei diritti universali dell'uomo. In questi "processi di differenziazione e di inclusione" (v. Parsons, 1971) risiedono i primi fondamenti del successivo Stato del benessere.In senso più stretto, tuttavia, la storia dello Stato del benessere comincia solo nel XVI secolo, in connessione con lo sviluppo del primo capitalismo, degli Stati territoriali e della Riforma. In seguito al dissolversi dei legami sociali tradizionali nella fase del primo capitalismo, in vaste zone d'Europa si ebbe in questo periodo un forte aumento del vagabondaggio e della mendicità. Dalla povertà dell'epoca medievale si passò al pauperismo dell'epoca moderna, sentito come un problema di ordine pubblico e di disciplina nel lavoro. Sino al XIX secolo (quindi sino all'industrializzazione) questo problema dominò la prima fase storica del moderno Stato del benessere. Tale problema fu affrontato in un primo tempo dalla Chiesa e poi dallo Stato, allora in via di formazione, che rese obbligatori per le comunità dei contributi sociali, creando in tal modo i prodromi di un 'diritto' all'assistenza pubblica. Le preoccupazioni dominanti rimasero tuttavia quelle del mantenimento dell'ordine pubblico e della disciplina dei poveri in grado di lavorare, dopo che la Riforma e il mercantilismo avevano portato a una nuova valutazione del lavoro. La forma fondamentale del diritto dei poveri rimase dunque "l'assistenza in un contesto di repressione" (v. Webb e Webb, 1927, vol. I, p. 396).
Antesignana di questa evoluzione fu l'Inghilterra, per l'intensa trasformazione capitalistica della sua economia agricola e per il suo precoce costituirsi in Stato nazionale. La legislazione elisabettiana sui poveri del 1601 aprì una strada che sarà poi seguita da altri paesi europei, sia pure con delle differenziazioni.L'Inghilterra fu anche il paese in cui, con la prima industrializzazione, la 'rottura liberale' (v. Rimlinger, 1971) ebbe l'influenza più marcata sulla nascita del diritto dei poveri. Questa rottura significò il dissolvimento - sia ideologico che pratico - della connessione, costitutiva per l'antico ordinamento sociale, tra dipendenza e protezione, in nome dei diritti universali alla libertà. L'industrializzazione creò la necessità di una classe operaia mobile, stimolata dalla prospettiva del salario, la cui disciplina era ormai il risultato del mercato del lavoro e dell'attività in fabbrica, e richiedeva dunque una repressione meno diretta da parte dello Stato.L'affermarsi di questo nuovo ordine comportava un adeguamento del diritto dei poveri, che trovò la sua espressione tipica nella Poor law inglese del 1834. Con essa furono istituzionalizzati due principî fondamentali: il principio della less eligibility, in base al quale i sussidi assistenziali dovevano essere sempre inferiori al salario dei lavoratori peggio retribuiti, e quello del work house test, in base al quale tali sussidi erano legati all'ingresso in una casa di lavoro. Naturalmente tali principî non furono rispettati dappertutto, e la loro applicazione subì inoltre dei mutamenti con l'andar del tempo. Essi rimasero tuttavia costitutivi della politica sociale del paese antesignano della rivoluzione industriale lungo tutto il XIX secolo.Il liberalismo si dimostrò pertanto un ostacolo per lo sviluppo di forme moderne di sicurezza sociale, anche se in seguito, al principio del nuovo secolo, esso conferì loro il carattere specifico di diritti civili. Questo contrasto tra prima industrializzazione ed evoluzione successiva dello Stato del benessere si spiega innanzitutto con l'estensione estremamente lenta del diritto di voto: dal 1832 al 1867-1868 meno del 20% della popolazione maschile in età elettorale aveva tale diritto; sino alla riforma del 1884-1885 il 35% circa, e in seguito, sino al 1918, poco più del 60% (v. Flora e altri, 1983-1986, vol. I, p. 149).
Ma il paese pioniere del moderno Stato del benessere non fu l'Inghilterra, patria della rivoluzione industriale, né la Francia, patria del moderno Stato nazionale, bensì la Germania, la 'nazione in ritardo', l'ultima arrivata dell'industrializzazione. È vero che fenomeni strutturali come quello dello Stato del benessere non hanno nella maggior parte dei casi inizi univoci; tuttavia i provvedimenti sociali bismarckiani costituiscono una pietra miliare sulla strada che porta allo Stato del benessere dei nostri giorni. L'introduzione, negli anni 1883-1889, di un'assicurazione obbligatoria contro infortuni, vecchiaia, invalidità e malattia rientra nel programma del cosiddetto 'messaggio imperiale' del 1881.
Non fu certo Bismarck a inventare le assicurazioni sociali; idee simili venivano discusse in quegli anni anche in altri paesi europei. Tuttavia esse furono istituzionalizzate per la prima volta in Germania, e non fu un caso. Il Reich tedesco appena costituito, con il suo suffragio universale maschile, ma privo di un governo parlamentare, con il suo rapido processo di industrializzazione e con una classe operaia che si era data una fortissima organizzazione, aveva particolari problemi di integrazione, la cui soluzione poteva basarsi su tradizioni statali paternalistiche.Con le assicurazioni sociali fu creata una nuova istituzione, che rappresentava una rottura radicale rispetto alla secolare tradizione europea del diritto dei poveri. Destinatari di tali provvedimenti legislativi non erano più i poveri in generale, bensì gli operai delle fabbriche. Il fine era quello di assicurare il loro reddito contro determinati rischi, dai quali altre associazioni di solidarietà non erano più in grado di tutelarli. In connessione con la questione operaia, le assicurazioni sociali divennero il nucleo storico del moderno Stato del benessere. Esse si diffusero in quasi tutti i paesi europei con l'avvento della società industriale.
Tale avvento comportò un incremento sino ad allora sconosciuto di produttività e produzione, che superava anche l'aumento della popolazione di quel periodo, aumento che fu il più rapido della storia europea. Tale crescita determinò un massiccio trasferimento di popolazione dall'agricoltura all'industria, dalla campagna alla città. L'industrializzazione si diffuse uniformemente, mutando dappertutto le strutture occupazionali e di classe. Solo in Europa si svilupparono società industriali in senso stretto, cosicché a lungo andare l'industria divenne il settore principale dell'economia e la classe operaia la categoria sociale centrale. Questa è l'origine dello Stato europeo del benessere.
Gli spostamenti di popolazione, di dimensioni e ritmo mai visti sino ad allora, crearono nuovi problemi sociali, ancor più accentuati dalla struttura capitalistica delle economie europee. In questo periodo si ebbero pertanto anche un acutizzarsi dei conflitti di classe, una mobilitazione della nuova classe operaia e il suo organizzarsi in sindacati e in partiti politici. Il costituirsi dei sindacati fu favorito dai diritti di organizzazione che erano in vigore già prima del 1870 nella maggior parte dei paesi europei. La nascita dei partiti operai si ebbe per contro un po' più tardi, con l'estensione del diritto di voto. Prima della fine del secolo, comunque, in tutti i paesi europei si ebbero partiti di questo genere, prototipi dei moderni partiti di massa.
La mobilitazione di forze antagoniste rispetto al sistema fu in certa misura attenuata e mediata da una sia pur rudimentale regolamentazione dei conflitti di lavoro, mentre la più generale 'istituzionalizzazione' dei conflitti di classe fu mediata dalle istituzioni parlamentari, allora in via di formazione, e infine dal crescente intervento statale e dalla creazione di nuove istituzioni pubbliche. Le entrate complessive dello Stato aumentarono enormemente in virtù della crescita economica, e gli Stati europei si presero man mano una fetta sempre più consistente del prodotto sociale. Poiché questo fu un periodo relativamente pacifico, le nuove risorse poterono essere utilizzate non solo per lo sviluppo delle infrastrutture economiche e il mantenimento dell'ordine interno, ma anche per l'attuazione di politiche sociali.
La formazione dello Stato europeo del benessere, tuttavia, non può essere considerata esclusivamente come una reazione al problema della classe operaia dell'industria. La sua stretta connessione con lo sviluppo della democrazia di massa colloca infatti lo Stato del benessere in un contesto più ampio, in cui l'estensione dei diritti politici portò a una lotta democratica per una distribuzione più equa delle ricchezze materiali e del patrimonio culturale delle nazioni. In questa prospettiva lo Stato del benessere può essere inteso come compimento dello Stato nazionale, nella misura in cui i diritti civili e politici divennero un elemento essenziale delle opportunità di vita individuali e della legittimità politica.
Poiché il moderno Stato del benessere è sorto in Europa nel periodo che precede la prima guerra mondiale, la sua formazione è strettamente legata allo sviluppo dello Stato nazionale democratico e della società industriale capitalistica. Tuttavia, la creazione di istituzioni assistenziali simili (sebbene non identiche) nei regimi fascisti e comunisti dopo la prima guerra mondiale, o anche nell'attuale Terzo Mondo (ad esempio negli Stati petroliferi islamici) ha dimostrato che non si tratta affatto di una costellazione uniforme, bensì di una costellazione storicamente specifica di elementi strutturali. Se si prescinde da questo fatto, si possono formulare i tratti distintivi di un tipo fondamentale di 'Stato liberale del benessere'.
Lo Stato nazionale, quale si è formato in Europa dopo il 1500, è un primo presupposto strutturale del suddetto tipo fondamentale. Sebbene anche altri sistemi politici abbiano previsto misure assistenziali in favore dei propri membri, è lo Stato nazionale che ha creato strutture specifiche a tale scopo. Esso si distingue per la sua relativa centralizzazione (rispetto a imperi o confederazioni), per la relativa differenziazione dei suoi apparati di governo rispetto ad altre organizzazioni (distinguendosi ad esempio da organismi di potere ierocratici) e per l'instaurazione di rapporti relativamente più diretti e più stretti tra centro politico e popolazione. Ciò comporta una progressiva esautorazione di strutture e livelli intermedi. (Un corrispondente ampliamento di funzioni della Comunità Europea investirebbe anche le strutture fondamentali degli Stati europei del benessere).
La società industriale costituisce un secondo presupposto strutturale. Sebbene anche società a economia agricola conoscessero istituzioni assistenziali (provvedimenti per aiutare i poveri, assicurazioni sul raccolto, ecc.), solo con la società industriale emerge la necessità di istituzioni assistenziali nuove e più ampie, in quanto la crescente divisione del lavoro, se da un lato comporta nuovi rischi e rafforza la mutua dipendenza, dall'altro indebolisce però gli antichi legami di solidarietà. Nello stesso tempo solo la società industriale, con la sua accresciuta capacità produttiva, crea i presupposti economici per la nascita del moderno Stato del benessere.Società industriale e Stato nazionale sono presupposti strutturali necessari ma niente affatto sufficienti per lo Stato liberale del benessere. Questo acquista la sua configurazione particolare solo in connessione con le istituzioni e le condizioni funzionali della democrazia di massa e dell'economia di mercato capitalistica, diventando in tal modo l'elemento strutturale di una formazione sociale specifica. Tale formazione si fonda su una tipica differenziazione e reintegrazione tra 'Stato' e 'società', analizzata da T. H. Marshall (v., 1964) con l'ausilio del suo concetto di cittadinanza.
Marshall distingue tre tipi di diritti fondamentali.
1. Diritti civili: "diritti necessari alla libertà individuale - libertà della persona, libertà di parola, di pensiero e di fede, il diritto di proprietà e di concludere contratti, e il diritto alla giustizia".
2. Diritti politici: "il diritto di partecipare all'esercizio del potere politico, come membro di un corpo investito di autorità politica o come elettore dei membri di tale corpo".
3. Diritti sociali: "l'insieme di diritti che va dal diritto a un minimo di benessere economico e alla sicurezza, al diritto di partecipare pienamente alla ricchezza sociale e di vivere la vita di un essere civile secondo gli standard prevalenti nella società".
Se in questa distinzione non si legge una successione storica, come ha fatto Marshall, ma una connessione strutturale, si ha il nucleo dello Stato liberale del benessere. I diritti sociali e le istituzioni dello Stato del benessere sono dunque strettamente legati ai diritti politici e alle istituzioni della democrazia di massa, sono un prodotto della democratizzazione e della competizione fra i partiti, della 'lotta di classe democratica'. Legati ai meccanismi della decisione maggioritaria, essi rispecchiano tendenze sia egualitarie che conservatrici. Nello stesso tempo, tuttavia, lo Stato del benessere contribuisce a una stabilizzazione della democrazia, in quanto riduce le disuguaglianze risultanti dalle strutture familiari e di classe, e diminuisce i rischi connessi con le modalità di produzione capitalistico-industriali. In questo modo, nonostante tutte le tensioni, lo Stato del benessere 'concilia' democrazia di massa e capitalismo, come ha messo in luce Marshall. Lo Stato liberale del benessere può essere visto come una socializzazione del consumo, non però della produzione, nonostante tutti i tentativi di influenzarne le condizioni generali. In questo senso la struttura e la dinamica evolutiva di questo tipo di Stato del benessere dipendono dall'autonomia interna, assicurata istituzionalmente, del processo economico e dall'apertura delle economie nazionali all'economia mondiale.
Al di là di queste connessioni strutturali fondamentali, lo Stato liberale del benessere presenta naturalmente, dal punto di vista storico, varianti significative. I tentativi fatti finora di fornire una tipologia si basano sull'originaria distinzione di R. M. Titmuss (v., 1958 e 1974) fra tre modelli di politica sociale: 1) un residual welfare model, in cui la politica sociale interviene solo quando non funzionano 'canali naturali' (mercato, famiglia/parentela) di soddisfacimento dei bisogni (ad esempio gli Stati Uniti); 2) un industrial-achievement-performance model, in cui la politica sociale si basa sul lavoro retribuito come fondamento primario del soddisfacimento dei bisogni, e corregge solo parzialmente il mercato (ad esempio la Germania); 3) un institutional-redistributive model, in cui le istituzioni assistenziali dello Stato, come parte integrante della società, assicurano prestazioni sociali in base ai bisogni, indipendentemente dal mercato (ad esempio la Gran Bretagna).Successivi tentativi di classificazione (v. Mishra, 1977; v. Korpi, 1982) riducono di solito questa tipologia a due tipi opposti di politica sociale, 'marginale' e 'istituzionale', che si distinguono fondamentalmente per il carattere prevalentemente selettivo o universalistico-egualitario dei programmi, ma anche per altre caratteristiche, come tipo ed estensione dei programmi medesimi, ammontare dei contributi, tipo di finanziamento o grado di redistributività.Queste tipologie hanno per lo più tre difetti: a) non operano una distinzione sufficientemente chiara tra modelli normativi, tipi ideali e casi storici; b) non distinguono tra programmi politico-sociali, che possono avere caratteristiche molto diverse; c) implicano uno sviluppo evolutivo secondo il quale i diversi tipi o sono 'stadi intermedi' o 'casi anomali'.
Per lungo tempo le ricerche tipologiche si sono orientate verso l'Inghilterra, la Scandinavia e la Germania. Solo lo studio dello Stato italiano del benessere (v. Ascoli, 1984) ha richiamato l'attenzione su nuovi aspetti, e ha suggerito la definizione di un 'modello particolaristico-clientelare', nel quale i partiti politici si servono di istituzioni pubbliche per favorire gli interessi delle loro clientele. Ma prima di tentare di delineare nuove tipologie, sembra importante distinguere le dimensioni principali delle varianti dello Stato del benessere, per arrivare poi a definire modelli tipico-ideali o tipologie empiriche di casi storici.Tre dimensioni risultano essenziali nella determinazione delle varianti: 1) la misura in cui lo Stato (centrale) 'penetra' le istituzioni assistenziali, ossia il grado di 'statalità' dello Stato del benessere, che definisce il margine di azione di associazioni intermedie (soprattutto Chiese e sindacati, ma anche partiti); 2) la misura in cui le istituzioni assistenziali si fondano su diritti sociali universali o rispecchiano differenziazioni sociali, ossia il grado di 'frammentazione' o di 'integrazione' dello Stato del benessere, che definisce il potenziale di conflittualità e di mutamento; 3) il grado di espansione e diversificazione delle istituzioni assistenziali, ossia la misura in cui tali istituzioni si fanno carico di prestazioni che altrimenti dovrebbero essere assicurate dalle famiglie e da associazioni private, nell'ambito del mercato.
Molte delle attuali differenze nel grado di penetrazione statale e di integrazione istituzionale degli Stati europei del benessere esistevano in una fase precedente di sviluppo, spesso già anteriormente alla prima guerra mondiale. Queste differenze, dal canto loro, derivano da diversità nelle strutture statali e storico-sociali, formatesi nel corso di precedenti processi politici di sviluppo.Stein Rokkan (v., 1970; v. Rokkan e altri, 1987) ha definito la formazione dello Stato del benessere come uno dei seguenti quattro processi fondamentali di sviluppo.
1. 'Formazione degli Stati' stricto sensu: unificazione a livello delle élites e creazione di istituzioni per la mobilitazione delle risorse, la difesa e l'ordine interno.
2. 'Formazione delle nazioni': integrazione di strati più ampi della popolazione nel sistema politico tramite gli obblighi di leva, la scuola obbligatoria e i mass media.
3. 'Partecipazione': accresciuta partecipazione delle masse alla vita politica, introduzione dei diritti politici e sviluppo della democrazia di massa.
4. 'Redistribuzione': ampliamento dei servizi pubblici e del sistema delle assicurazioni sociali; introduzione di diritti sociali e sviluppo dello Stato del benessere.
Rokkan distingue cinque dicotomie, che in base al loro baricentro possono essere associate a periodi critici della storia europea (v. tab. I).Le prime due dicotomie sono scaturite da conflitti nel processo di formazione delle nazioni. Nei paesi che hanno raggiunto relativamente presto l'indipendenza nazionale, l'epoca della Riforma e della Controriforma ha rappresentato il primo culmine del conflitto tra centro e periferia, che riguardava essenzialmente il consolidamento dello Stato territoriale e la sua identità etnico-linguistica e religiosa. La mobilitazione politica sull'onda della Rivoluzione francese poneva in primo piano il conflitto tra Stato e Chiesa, soprattutto per quel che riguardava il controllo dell'istruzione. La rivoluzione industriale ha determinato parimenti due diverse dicotomie, incentrate su due elementi distinti, il mercato dei beni e quello del lavoro; la prima di tali dicotomie, ossia il conflitto tra contadini-proprietari terrieri e borghesia cittadina in ascesa ha cominciato a delinearsi con l'espansione del commercio mondiale e della produzione industriale nel XIX secolo.
Secondo Rokkan sono soprattutto queste tre dicotomie, il loro carattere e la loro configurazione, a spiegare le differenze principali dei sistemi partitici odierni, che si sono formati durante il processo di democratizzazione e si sono consolidati dopo la prima guerra mondiale con il suffragio universale. Ciò vale in particolare per la formazione di partiti cattolici popolari nelle regioni meridionali e di partiti di agricoltori in Scandinavia. Il cattolicesimo politicamente organizzato ha improntato in misura assai notevole la struttura dello Stato del benessere in generale e i servizi sociali in particolare, mentre i contadini politicamente organizzati hanno influenzato fortemente lo sviluppo dei trasferimenti sociali.
La quarta dicotomia, tra le masse lavoratrici e le classi proprietarie, ha avuto piuttosto conseguenze unificanti, in quanto durante il processo di industrializzazione sono sorti partiti operai in tutti i paesi. In questo senso anche la 'questione operaia' ha contribuito a standardizzare gli Stati europei del benessere. Nello stesso tempo, però, per le loro divergenti modalità di sviluppo, le differenze di forza e di coesione del movimento dei lavoratori hanno avuto un ruolo essenziale, soprattutto le divisioni all'interno del movimento operaio manifestatesi già anteriormente alla prima guerra mondiale, ma venute pienamente alla luce solo con la Rivoluzione russa del 1917.In base al modello di Rokkan le dicotomie socioculturali nel processo di formazione degli Stati e delle nazioni vanno distinte dalle dicotomie socioeconomiche del processo di industrializzazione. Poiché d'altro canto lo Stato nazionale europeo ha ridotto l'eterogeneità religiosa ed etnico-linguistica, esso ha relativizzato (in confronto ad altre regioni del mondo) il significato delle dicotomie socioculturali per lo sviluppo dello Stato del benessere. Queste continuano tuttavia ad avere un ruolo, soprattutto per quel che riguarda lo sviluppo di istituzioni nazionali comuni e di diritti sociali universali nel campo dei servizi sociali. Un esempio estremo è rappresentato dall'Olanda, dove la divisione confessionale è rispecchiata da uno 'Stato segmentato del benessere', come elemento di una articolazione sociale più generale. Quando la segmentazione culturale si connette ad accentuate divisioni di classe, si può parlare di un tipo di Stato del benessere 'non integrato'.
Le dicotomie socioeconomiche hanno improntato strutturalmente molte istituzioni dello Stato del benessere; ciò vale soprattutto per la struttura particolaristica o universalistica del sistema delle assicurazioni sociali.Così l'introduzione di un sistema di trasferimento nazionale unitario nei Paesi Scandinavi risale principalmente a un compromesso di classe tra gli operai delle fabbriche e la classe dei contadini, in un periodo in cui il settore agricolo era di gran lunga più consistente di quello industriale. Questi paesi costituiscono un esempio di un tipo 'integrato' di Stato del benessere.
Un'eccezione a questo riguardo è rappresentata dall'istituzione in Inghilterra di un sistema unitario ed egualitario di previdenza sociale (e di un'assistenza sanitaria nazionale), durante e subito dopo la seconda guerra mondiale (secondo le indicazioni di Beveridge del 1942). Decisive in proposito furono senza dubbio la situazione bellica e la necessità di un consenso nazionale. Nello stesso tempo, però, in quell'epoca già il 90% della popolazione attiva aveva un lavoro dipendente, con una differenza di status tra operai e impiegati relativamente inferiore rispetto, ad esempio, alla Germania.Il sistema bismarckiano delle assicurazioni sociali era diretto infatti quasi esclusivamente agli operai delle fabbriche. All'inizio del secolo furono istituiti sistemi assicurativi differenti per gli impiegati, e in seguito anche per altri gruppi professionali. In questo modo fu bloccata la strada verso un sistema nazionale unitario. La maggior parte degli altri paesi europei seguì uno sviluppo analogo, e rientrano tutti nel tipo dello Stato 'segmentato' del benessere.
Il grado di frammentazione/segmentazione o di integrazione delle istituzioni dello Stato del benessere deve essere distinto dal grado di penetrazione statale (centrale), anche se sussistono relazioni tipiche tra le due dimensioni. Quando gli Stati del benessere cominciarono a svilupparsi, verso la fine del XIX secolo, trovarono una molteplicità di istituzioni preesistenti nei vari settori, facenti capo soprattutto alle Chiese e al movimento operaio, le due principali organizzazioni di massa. Alcune di tali istituzioni restarono 'private', molte però furono in seguito sovvenzionate dallo Stato, e quindi sottoposte a controllo, per essere infine il più delle volte integrate o trasformate in istituzioni pubbliche. Una delle questioni decisive al riguardo fu la misura in cui alle Chiese e alle organizzazioni operaie (soprattutto sindacali) furono riconosciuti o concessi diritti di partecipazione corporativa in queste istituzioni.
Durante il Medioevo la Chiesa romana aveva dappertutto responsabilità essenziali nell'assistenza ai poveri e agli infermi e nel campo dell'istruzione. A partire dalla Riforma, però, in Europa si svilupparono modelli differenziati. La rottura con la Chiesa romana portò a una certa fusione tra potere religioso e secolare negli Stati del Nord, soprattutto nelle monarchie luterane. Le proprietà delle chiese e dei monasteri furono confiscate e il clero fu incorporato nella burocrazia dello Stato territoriale. In questo modo poté svilupparsi assai presto nel Nord l'idea di provvedimenti assistenziali legittimati dallo Stato.Nel Sud cattolico, invece, la Chiesa conservò proprie istituzioni assistenziali sino al XX secolo, ostacolando in tal modo lo sviluppo di uno Stato nazionale del benessere. Queste istituzioni, importanti per la socializzazione e il controllo sociale della popolazione, erano bensì sottoposte agli attacchi di élites nazionali secolarizzate, ma con esiti assai diversi. Di solito queste istituzioni assistenziali furono sovvenzionate in misura crescente dallo Stato, senza essere sottoposte a effettivi controlli. Se esse rimasero autonome anche dopo le prime fasi della democratizzazione, furono non di rado utilizzate dai partiti politici per assicurarsi l'appoggio di determinate clientele. Sebbene tra paesi cattolici e protestanti non sussista alcuna netta dicotomia per quel che riguarda la 'statalità' dello Stato del benessere (e vi è del resto anche l'importante categoria dei paesi religiosamente eterogenei), tuttavia in generale la Chiesa cattolica sostenne con successo il 'principio di sussidiarità', secondo il quale la priorità spetta a gruppi e istituzioni prestatali. Pertanto nei paesi cattolici un'assistenza di tipo pubblico ai poveri poté svilupparsi solo assai più tardi. Lo stesso vale per altre istituzioni assistenziali. Solo nel campo della politica del reddito familiare questi paesi furono in genere dei precursori.
Nella misura in cui vi fu un'integrazione tra istituzioni assistenziali religiose e statali, la Chiesa divenne uno degli elementi portanti dello Stato 'corporativo' del benessere soprattutto nell'ambito dei servizi sociali. L'altro elemento portante derivò dal movimento operaio. In molti paesi europei furono in primo luogo i sindacati, e non lo Stato, a creare sistemi di mutua assicurazione (per disoccupazione, malattia, invalidità, morte) e di collocamento. Nel corso del loro sviluppo tali istituzioni ebbero bensì sovvenzioni statali, ma si trasformarono in istituzioni pubbliche in misura assai diversa. Così, soprattutto in Scandinavia, le organizzazioni sindacali conservarono il controllo su queste istituzioni sino a epoca recentissima.Le differenze tra i paesi europei nella rappresentanza corporativa delle organizzazioni sindacali sono in generale assai complesse. Un fattore iniziale di esse risiede nelle differenti reazioni al declino delle associazioni corporative durante il processo di industrializzazione e nella conseguente necessità di nuove regolamentazioni (libertà di associazione e di unione tra lavoratori). Reinhard Bendix (v., 1964) ha distinto tre tipi di reazioni: 1) un tipo tradizionale, in cui le antiche organizzazioni artigiane furono ampiamente conservate (Paesi Scandinavi, Svizzera); 2) un tipo autoritario, in cui la libertà di associazione e di unione tra lavoratori fu repressa (Prussia, Austria); 3) un tipo liberale, in cui la libertà di associazione fu conservata, ma non fu concesso il diritto di unione tra lavoratori (Inghilterra).
Strutture corporative poterono svilupparsi sia dal tentativo dei regimi autoritari di servirsi delle organizzazioni sindacali per scopi statali, sia dallo sforzo di queste ultime di utilizzare mezzi statali per i loro scopi particolari. In linea di principio le possibilità in questo senso erano maggiori nei primi due tipi che non nel tipo liberale. Lo sviluppo concreto dipese tuttavia da una molteplicità di fattori: 1) dal legame dei sindacati con i partiti operai e dalla loro partecipazione al governo; 2) dal sistema sindacale, dal suo grado di organizzazione e centralizzazione; 3) dalla struttura delle stesse istituzioni dello Stato del benessere, dove le possibilità di rappresentanza corporativa erano maggiori nel caso delle assicurazioni sociali.
Il moderno Stato del benessere deve essere considerato nella sua connessione con lo sviluppo dello Stato nazionale. Ciò vale sia per le origini delle sue strutture attuali, sia per il mutamento di struttura e funzioni dello Stato nazionale, che ha determinato dappertutto una cancellazione dei confini tra Stato e società. Nello stesso tempo, però, lo sviluppo degli Stati del benessere può essere compreso solo se lo si considera anche in relazione ai cambiamenti nella struttura delle società europee, vale a dire soprattutto in relazione al mutamento delle loro strutture di classe.
Sebbene le origini dell'ordinamento economico capitalistico risalgano assai più addietro nel tempo, tuttavia solo l'industrializzazione ha spazzato via i resti della società dei ceti, creando in Europa le società divise in classi. Con l'estensione del suffragio e l'espansione dello Stato del benessere i principî della strutturazione in classi di queste società sono poi di nuovo mutati in modo essenziale.
Secondo la concezione di Max Weber (v., 1922), la 'struttura di classe' designa una struttura specifica della diseguaglianza, in cui le opportunità di vita dei membri di una società dipendono dalla loro situazione di mercato (direttamente per la popolazione attiva, indirettamente per gli altri membri familiari).Con 'opportunità di vita' Weber intende soprattutto le possibilità di sostentamento tramite beni e servizi sociali, ma poi anche 'la condizione di vita esteriore' e 'il destino della vita interiore'. La condizione di classe è determinata dal mercato, e quanto più quest'ultimo determina le opportunità di vita, tanto più una società è divisa in classi.
Per Weber, se la formazione delle classi poteva essere legata anche all'estensione del mercato dei beni e di quello monetario, tuttavia fu decisivo in proposito il costituirsi nell'età moderna di mercati 'liberi' del lavoro, in incessante espansione a partire dalla rivoluzione industriale. Con ciò venne a crearsi una nuova classe di persone, le cui opportunità di vita dipendevano fondamentalmente dalla possibilità di utilizzare la propria forza-lavoro in un libero mercato del lavoro.
La nascita del moderno Stato del benessere in Europa va vista innanzitutto in connessione coi problemi di questa classe: legislazione sulle fabbriche, legislazione in materia sindacale e di sicurezza sociale costituiscono in questo senso un tutto unitario. All'inizio si ebbe la regolamentazione del lavoro minorile e femminile e quella dell'orario di lavoro, con la legge inglese delle dieci ore del 1847 come famoso punto di partenza. Anche i sistemi di assicurazione sociale si svilupparono innanzitutto dal problema del lavoro nelle fabbriche. Alla base di tali sistemi vi fu dappertutto l'istituzione di assicurazioni contro gli infortuni (nelle fabbriche), e la maggior parte dei sistemi di assicurazione che si svilupparono più tardi - contro malattia, invalidità, anzianità e morte - originariamente erano circoscritti in quasi tutti i paesi agli operai delle fabbriche.
Grazie a questi sviluppi furono migliorate le condizioni di lavoro, si ridusse la necessità di un'utilizzazione immediata della forza-lavoro e si attenuò la dipendenza dai datori di lavoro. Un progresso fondamentale nel corso di questo processo si ebbe peraltro solo molto più tardi, con l'introduzione di un'assicurazione contro la disoccupazione e con lo sviluppo di strumenti alternativi nell'ambito di una politica del mercato del lavoro, quali la riqualificazione professionale retribuita, i lavori pubblici e altre misure occupazionali. Un ulteriore progresso si ebbe con la rapida espansione del pubblico impiego grazie agli Stati del benessere durante gli anni sessanta e settanta.Max Weber ha operato una distinzione tra 'classi possidenti', la cui condizione di classe è determinata fondamentalmente da differenze patrimoniali, e 'classi acquisitive', la cui condizione di classe è determinata principalmente dalle possibilità di accedere al mercato dei beni e dei servizi. Con il suo crescente intervento lo Stato influenza in linea di principio le opportunità di vita di tutte le classi (per quel che riguarda sia la proprietà che il reddito, sia il mercato del lavoro che quello dei beni). In base al suo sviluppo storico, tuttavia, il concetto di Stato del benessere risulta legato soprattutto ai provvedimenti in favore dei lavoratori dipendenti, la cui condizione di classe è contrassegnata tendenzialmente da mancanza di proprietà e scarsa qualificazione. Pertanto non rientrano nella definizione tradizionale di Stato del benessere provvedimenti equivalenti a un'assicurazione sul reddito, come ad esempio un sostegno ai prezzi dei prodotti agricoli o una monopolizzazione appoggiata dallo Stato delle opportunità di guadagno in molte 'libere professioni'. Un'analisi completa dell'influenza politica sulle condizioni di vita della popolazione in rapporto alla struttura di classe della società dovrebbe tener conto anche di tali aspetti.
Secondo la definizione di Weber, le classi sono dapprima solo categorie di persone che si trovano in analoghe condizioni. Esse diventano un 'fenomeno di ripartizione del potere' all'interno delle società solo attraverso molteplici processi, quali la mobilità sociale, la delimitazione della circolazione sociale, la mobilitazione e l'organizzazione politica. In questo contesto lo sviluppo dello Stato del benessere va visto come un elemento centrale nella istituzionalizzazione dei rapporti di classe. Ciò vale sia per la legislazione sull'orario e la tutela del lavoro, sia per la regolamentazione dei rapporti di lavoro, la sovvenzione e la regolamentazione delle mutue assicurazioni, sia infine per l'assistenza pubblica e i sistemi di sicurezza sociale.Nonostante tutte le differenze nello svolgimento storico e nelle strutture istituzionali, l'espansione generale dello Stato del benessere deve essere considerata una funzione del mutamento della struttura sociale. Questo vale in particolare per l'aumento del lavoro salariato. Già intorno al 1910 in Europa una media di oltre il 60% della popolazione attiva aveva un lavoro dipendente, e questa percentuale è cresciuta sino a superare oggi l'80%. Decisivo è stato l'incremento del lavoro dipendente al di fuori dell'agricoltura. La tab. II mostra in cifre l'incremento relativo dell'occupazione nei settori secondario e terziario nell'Europa occidentale.
La tabella mostra sia la generalità della tendenza che la grande diversità nelle condizioni di partenza. Con l'incremento generale dell'occupazione nei settori secondario e terziario (nelle condizioni della democrazia di massa) si è accresciuto il peso politico dei lavoratori dipendenti e nello stesso tempo è diminuito il numero di quelli indipendenti, tradizionali oppositori dello Stato del benessere. Questo è essenziale per spiegare la crescita generale. Allo stesso tempo, però, nelle istituzioni dello Stato del benessere si sono riflesse le differenze originarie nelle strutture di classe, con la mediazione del sistema dei partiti. Ciò riguarda il rapporto tra popolazione delle città e quella delle campagne, le differenziazioni interne alla classe lavoratrice, il rapporto tra operai e impiegati nonché quello tra impiego pubblico e privato.
Lo sviluppo dello Stato del benessere è stato in passato strettamente connesso all'industrializzazione e alla classe operaia, e ciò ha improntato anche il carattere delle sue istituzioni. La sua evoluzione ulteriore dipenderà perciò dal significato che assumeranno per tali istituzioni l'espansione del settore dei servizi e l'ascesa dei nuovi ceti medi.
Con l'espansione dello Stato del benessere non muta solamente la disuguaglianza delle opportunità di vita della popolazione, ma si trasformano anche i principî in base ai quali è strutturata tale disuguaglianza. Le società perdono il loro carattere di classe nel senso e nella misura in cui le opportunità di vita diventano indipendenti dal mercato e subordinate a un processo di decisione politica. Questo vale in particolare per quei diritti sociali che derivano dall'appartenenza a una nazione, e dunque non più dall'appartenenza a una classe.Tuttavia solo pochi dei diritti sociali sono diritti civili in senso stretto. Questi si trovano soprattutto nei campi dell'istruzione e della sicurezza sociale, e rappresentano un elemento sia precoce che relativamente tardo nello sviluppo dello Stato del benessere. In entrambi i campi i diritti sono strettamente legati agli obblighi: il diritto all'istruzione all'obbligo scolastico, il diritto alla sicurezza sociale agli obblighi assicurativi e fiscali. L'introduzione dell'obbligo scolastico come presupposto di un diritto universale all'istruzione precede lo sviluppo delle assicurazioni sociali praticamente in tutti i paesi. In alcuni, come la Prussia e l'Austria, la scuola obbligatoria fu istituita molto prima dell'industrializzazione, mentre in altri (come ad esempio l'Inghilterra) la battaglia per un sistema scolastico pubblico si ebbe molto più tardi e fu legata alla 'questione sociale' in senso stretto. Questo spiega perché in tali paesi la politica relativa all'istruzione rientri nel quadro della politica sociale. D'altro canto, tentativi di estendere i diritti derivanti dalla cittadinanza anche al campo dell'istruzione secondaria si sono avuti in Europa solo a partire dagli anni cinquanta, e in seguito in modo più intenso anche negli anni sessanta, mentre negli Stati Uniti si è arrivati a creare un sistema di istruzione secondaria esteso e decentrato già dopo la prima guerra mondiale. Ciò che sino a oggi ha distinto gli Stati Uniti dai paesi europei è la combinazione tra espansione precoce del sistema d'istruzione e ampliamento più lento della sicurezza sociale.In quest'ultimo settore, tuttavia, lo sviluppo di diritti sociali universali è un fenomeno relativamente tardo. Sebbene già nel 1891 in Danimarca fosse stato introdotto un sistema pensionistico generale finanziato mediante tasse, la corresponsione delle pensioni rimase legata alla dimostrazione di uno stato di indigenza.
Sistemi analoghi furono introdotti in Inghilterra nel 1908, in Svezia nel 1911, in Norvegia nel 1936 e in Finlandia nel 1937. Sistemi pensionistici moderni, fondati esclusivamente sul possesso della cittadinanza, si ebbero invece solo più tardi, cominciando con le riforme Beveridge in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, seguite dalla Svezia e più tardi anche dagli altri Paesi Scandinavi. Negli altri paesi il processo che portò alla creazione di diritti sociali in questo campo durò ancora più a lungo, e in parte non si è ancora concluso. Esso è il risultato di una progressiva estensione del sistema, dai lavoratori dipendenti a quelli autonomi, dalla popolazione attiva a quella inattiva.
Se l'istituzionalizzazione di diritti sociali universali è limitata, ancor più limitato risulta il processo verso un'ulteriore eguaglianza attraverso provvedimenti di redistribuzione da parte dello Stato. Così, nel campo dell'istruzione, la spesa pubblica per le scuole di livello superiore è in gran parte regressiva. Nel campo della sicurezza sociale, il sistema pensionistico finanziato dalle tasse ha effetti di redistribuzione nella misura in cui il sistema fiscale stesso è progressivo. Gli altri sistemi di assicurazione, per contro, hanno effetti redistributivi essenzialmente orizzontali, anche se di solito comportano anche elementi egualitari. Gran parte dei provvedimenti sociali (soprattutto l'organizzazione sanitaria e gli alloggi) hanno mostrato per lo più un'incidenza regressiva.La riduzione delle disuguaglianze originate dalle strutture familiari e di classe costituiva sicuramente uno degli scopi nello sviluppo dello Stato del benessere, ma non l'unico e (sicuramente) non il principale. La sicurezza è l'altro scopo fondamentale, e sicurezza ed eguaglianza sono per un certo verso in contrasto, poiché sicurezza significa anche mantenimento delle rispettive condizioni di vita, che sono disuguali.
Se si fa astrazione dalle istituzioni concrete, eguaglianza e sicurezza possono essere intese come dimensioni dell'intervento statale in quanto prodotto del processo di differenziazione sociale fondamentale. Questo processo ha determinato una maggiore dipendenza delle antiche comunità fondate sulla solidarietà e le ha indebolite. Pertanto la tutela delle condizioni di vita è diventata un compito di unità sociali più vaste. La differenziazione sociale ha prodotto nel contempo un processo di individualizzazione attraverso il quale anche la parità di opportunità individuali, oltre alla sicurezza, è diventata il fondamento di legittimazione delle società moderne.
Sicurezza materiale e opportunità di sviluppo individuali costituiscono i due punti di riferimento basilari della politica sociale. Sotto questo profilo, nel tentativo di radicare istituzionalmente un'eguaglianza di fondo tra tutti i cittadini di uno Stato, liberalismo e socialismo si incontrano. (Il cattolicesimo come terza forza, per contro, si è sempre più interessato alla salvaguardia delle comunità fondate sulla solidarietà). Essi differiscono d'altro canto nell'orientamento della politica sociale, redistributivo ovvero meritocratico. Elementi meritocratici ricorrono soprattutto nel legame dei sistemi di sicurezza sociale con la professionalità e il reddito, e con l'istruzione superiore, ma anche in altri ambiti della politica sociale, come ad esempio quello degli alloggi. Elementi egualitari, ossia provvedimenti orientati alla redistribuzione, sono presenti in tutti i campi della politica sociale, anche se il loro nucleo è costituito dal sistema fiscale.
Lo 'Stato borghese' come tipo ideale era contraddistinto da un'unificazione giuridica del territorio, da una netta separazione tra Stato e società, da un'amministrazione pubblica impersonale, da una parlamentarizzazione del governo e da una limitata attività dello Stato, il cui fulcro era costituito dall'assicurazione dell'ordine interno e della sicurezza esterna. Lo Stato del benessere, al confronto, rappresentava un significativo ampliamento dei compiti dello Stato, connesso a un mutamento strutturale e funzionale.
Il mutamento strutturale si manifestò in uno spostamento dei confini tra Stato e società e in un cambiamento nel carattere della burocrazia statale, in conseguenza dei nuovi compiti nell'ambito del sostegno all'economia e del benessere sociale, a cominciare dallo sviluppo del sistema pubblico dei trasporti e delle comunicazioni, nonché delle scuole pubbliche.Già alla fine del secolo scorso l'economista Adolf Wagner postulava la 'legge' di un aumento a lungo termine delle spese pubbliche quale conseguenza necessaria dei mutamenti funzionali dello Stato. Di fatto tale aumento cominciò a cavallo tra i due secoli, dopo una lunga fase di stagnazione nel corso del XIX secolo (v. tab. III). Se intorno al 1910 gli Stati europei utilizzavano solo il 10-15% del prodotto sociale, questa percentuale nel 1930 raggiungeva già il 15-25%. Dopo la seconda guerra mondiale la quota dello Stato ebbe un incremento ancora più rapido, raggiungendo il 25-35% intorno al 1950 e il 45-60% verso il 1980. Questo relativo aumento a lungo termine della spesa pubblica era essenzialmente una conseguenza dell'incremento delle spese sociali, specialmente del potenziamento della sicurezza sociale. Se si prescinde dalle differenze tra i vari paesi, dopo un avvio piuttosto modesto questo potenziamento risultò straordinariamente continuo, e con una palese accelerazione a partire dai primi anni sessanta.
Verso la fine del secolo dodici paesi europei avevano un'assicurazione contro gli infortuni che abbracciava in media il 20% della popolazione attiva; sette paesi avevano un'assicurazione contro le malattie che abbracciava in media il 17% dei lavoratori; solo la Germania aveva un'assicurazione obbligatoria contro vecchiaia e invalidità; altri paesi avevano sistemi molto più circoscritti. In nessun paese era ancora prevista un'assicurazione contro la disoccupazione. Da allora l'espansione è stata continua, sia per quel che riguarda la copertura dei rischi sia per l'allargamento a diversi strati della popolazione. Né le guerre mondiali né la crisi economica degli anni trenta riuscirono a ostacolare in modo significativo questo processo generale. All'inizio degli anni trenta circa la metà della popolazione attiva era tutelata contro la perdita del reddito a causa di infortuni, malattia, invalidità o vecchiaia, ma non più del 20% contro la perdita del reddito a causa della disoccupazione. Verso la metà degli anni settanta, la media della popolazione attiva tutelata contro la mancanza di reddito per vecchiaia, invalidità e malattia superava il 90%, l'88% per i casi di infortunio e il 60% per la disoccupazione.
Si può asserire in generale che l'estensione dei programmi di assicurazione sociale si connetteva dappertutto con l'aumento sia assoluto che relativo delle spese pubbliche. Verso il 1930 le spese per le assicurazioni sociali ammontavano con tutta probabilità a meno del 3% del prodotto sociale (v. Alber, 1982). Verso il 1950 raggiunsero il 5%, nel 1960 il 7% e nel 1974 il 13%. Se si considera un quadro più ampio delle spese per la sicurezza sociale (che comprenda tutti i programmi di assicurazione sul reddito e di assistenza sanitaria pubblica), la crescita relativa risulta ancora più chiara: misurata in punti percentuali essa ha avuto un'accelerazione dello 0,9 tra il 1950 e il 1955, dell'1,4 nel 1955-1960, di oltre l'1,8 nel 1960-1965, del 2,4 nel 1965-1970, e ha raggiunto il 3,4 nel 1970-1974. Buona parte della crescita relativa e del suo ritmo accelerato era riconducibile all'aumento delle spese per le pensioni e la sanità, la cui quota relativa all'interno delle spese generali per la sicurezza sociale aumentò da una media di un quarto (1954) sino a circa un terzo (1974). Se consideriamo infine il quadro complessivo delle spese sociali (comprese le spese per l'istruzione e gli alloggi), la crescita dello Stato del benessere è ancora più evidente. Verso il 1950 nella maggior parte dei paesi europei le spese sociali ammontavano al 10-15% del PIL; nel 1980 raggiungevano anche il 40%; tra il 1960 e il 1980 la quota media per i provvedimenti sociali raddoppiava passando dal 15 al 30%, con uno sviluppo che è proseguito ininterrotto per tutti gli anni settanta (v. tab. IV).
Con le difficoltà dell'economia mondiale provocate dalle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979 lo Stato liberale del benessere è entrato in una nuova fase critica di sviluppo. Sul carattere di questa crisi non si è raggiunta sino a oggi nessuna visione unitaria. Così non è ancora chiaro se essa rappresenti principalmente una conseguenza della crisi dell'economia mondiale degli anni settanta oppure se quest'ultima non abbia fatto altro che far venire a galla problemi di sviluppo già presenti a livello profondo; se le reazioni ai problemi di sviluppo dello Stato del benessere siano in primo luogo una conseguenza di spostamenti del potere politico, o di mutamenti fondamentali della struttura sociale; se lo Stato del benessere sia entrato in una fase storica di regresso oppure in una fase di rinnovamento istituzionale.
Per quanto poco queste questioni fondamentali appaiano risolte, una cosa è però chiara: il periodo di massima espansione dello Stato occidentale del benessere coincide con 'l'età d'oro del capitalismo', il quale, con una straordinaria crescita economica, ha consentito un relativo ampliamento del settore statale. Questa situazione è radicalmente mutata a partire dalla crisi dell'economia mondiale degli anni settanta. Anche se in seguito l'economia mondiale ha avuto una ripresa e l'inflazione è stata arginata, due problemi fondamentali sono rimasti irrisolti: la disoccupazione di massa e il deficit dei bilanci pubblici.
La disoccupazione come fenomeno di massa era andata progressivamente scomparendo verso la metà degli anni cinquanta, e non aveva più alcuna incidenza nella fase di espansione degli Stati del benessere occidentali. L'aumento della disoccupazione dopo il 1973 colse pertanto gli Stati del benessere del tutto impreparati. Il ripresentarsi della disoccupazione di massa è senza dubbio in primo luogo una conseguenza del rallentamento della crescita e di adattamenti strutturali condizionati dalla tecnologia. Vi sono però anche fattori specifici che conferiscono un carattere peculiare alla disoccupazione attuale: rispetto alla crisi economica mondiale degli anni trenta si tratta prevalentemente di una disoccupazione giovanile e femminile. Ciò si spiega con il combinarsi di un incremento della natalità, tra la seconda metà degli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta, con un'espansione generale dell'istruzione dall'inizio degli anni sessanta e una crescente presenza femminile nel mondo del lavoro a partire dalla fine degli anni sessanta. Questi fattori hanno determinato l'affluenza di un maggior numero di giovani, di persone istruite e di donne sul mercato del lavoro, in un periodo in cui la crisi economica, soprattutto nell'industria, falcidiava posti di lavoro, e la crisi dei bilanci pubblici rendeva difficile proseguire la precedente espansione del settore pubblico.
La crisi dei bilanci pubblici è soprattutto una conseguenza del rallentamento della crescita economica e della disoccupazione di massa, che hanno determinato una diminuzione delle entrate e un'impennata delle spese. Oltre a ciò, tuttavia, vi sono gli effetti delle tendenze espansive dello Stato del benessere, soprattutto i costi crescenti dell'organizzazione sanitaria e l'aumento delle spese nel settore delle pensioni. Questo ha determinato un deficit strutturale dei bilanci pubblici e delle assicurazioni sociali, che pone i governi di fronte all'alternativa tra aumento delle entrate o riduzione dei servizi sociali. Quasi tutti i governi, perlomeno all'inizio, hanno preso la via dell'indebitamento, che tuttavia nel migliore dei casi costituisce solo una soluzione a medio termine.
Solo pochi governi sono stati in grado di limitare lo squilibrio del bilancio attraverso un aumento delle entrate. Una tale politica si scontrava non solo con la necessità economico-politica di incrementare la crescita, ma anche con una opposizione sempre maggiore dei contribuenti. Le rivolte contro le tasse, verificatesi in Danimarca e in California, non si sono più ripetute, ma a tal proposito è da rimarcare che dal XVIII secolo erano scomparse in Europa forme di rivolta fiscale, e che la diffusione delle varie forme di elusione ed evasione del fisco ne rappresenta l'equivalente funzionale.
È rimasta solo la strada di un taglio dei servizi sociali, che è stata seguita da quasi tutti i paesi, sia pure in diversa misura. E tuttavia non si può parlare di uno smantellamento dello Stato del benessere. Tranne poche eccezioni, i servizi sociali non sono regrediti al livello in cui si trovavano anteriormente alla prima crisi petrolifera, e d'altra parte in molti paesi i tagli effettuati non sono stati sufficienti a eliminare il deficit strutturale del bilancio. Questo vale anche per i governi Thatcher (1979-1990) e Reagan (19801988), che hanno eretto lo smantellamento dello Stato del benessere a programma politico (v. Rein e altri, 1987, cap. 9). La crisi dello Stato del benessere rappresenta dunque in primo luogo un problema economico (disoccupazione, deficit pubblico) e in secondo luogo un problema politico (opposizione all'aumento delle entrate e/o alla riduzione dei servizi sociali). La questione decisiva, tuttavia, è se dietro tutto ciò vi sia anche una crisi di legittimazione dello Stato del benessere. A questo proposito occorre distinguere tra il consenso o il dissenso articolato delle élites e l'approvazione o il rifiuto diffusi della popolazione.
La grande fase espansiva dello Stato del benessere era contraddistinta da un consenso politico relativamente vasto, spesso designato come 'socialdemocratico', sebbene andasse al di là di questo orientamento politico in senso stretto. Tale consenso si basava sull'idea di una connessione funzionale tra Stato da un lato e mercato e società dall'altro, e sulla convinzione di principio che lo Stato del benessere potesse 'conciliare' capitalismo e democrazia. La funzione essenziale della programmazione statale quale piecemeal social engineering era indicata nella correzione delle disfunzioni del mercato, nel senso di garantire i bisogni fondamentali e raggiungere una maggiore eguaglianza attraverso la redistribuzione. Le critiche allo Stato del benessere, che già da tempo venivano mosse sia da destra che da sinistra, rimasero a lungo politicamente irrilevanti. Le critiche da sinistra si rivolgevano principalmente al fatto che gli Stati del benessere non soddisfacevano gli scopi che si proponevano. Così la miseria fu riscoperta come fenomeno delle società industriali avanzate negli anni sessanta, e l'efficacia della redistribuzione operata dallo Stato fu messa in discussione. Dalla fine degli anni sessanta prese consistenza la critica neomarxista allo Stato del benessere, che veniva interpretato come elemento di uno sviluppo capitalistico contrassegnato da un crescente contrasto tra accumulazione e legittimazione (v. O'Connor, 1973; v. Gough, 1979; v. Offe, 1984).
Rispetto ai sostenitori 'socialdemocratici' dello Stato del benessere, i critici di destra (con Hayek e Friedman quali maggiori rappresentanti) misero l'accento sin dall'inizio sulle conseguenze negative dell'espansione statale per la stabilità e la crescita economiche. Al posto del concetto di 'disfunzioni del mercato' essi ponevano quello di 'disfunzioni del governo', interpretando la crescita dello Stato come conseguenza di una competizione incontrollata in un mercato politico e come dilatazione degli interessi privati della burocrazia statale. Secondo costoro, dall'ampliamento delle organizzazioni di interessi e dalle crescenti aspettative da un lato, e da una insufficiente consapevolezza della crescente complessità dall'altro, consegue un sovraccarico dello Stato, che inficia sempre di più la razionalità della sua gestione e può essere risolto solo limitando i compiti dello Stato stesso.Se si può parlare a ragione di una certa polarizzazione sul piano delle élites, presente già da tempo ma esplosa solo con la crisi dell'economia mondiale, non si può osservare un analogo sviluppo per quanto riguarda la popolazione, come mostrano i sondaggi a disposizione (v. Coughlin, 1980; v. Taylor-Gooby, 1985). Vi è certo la consapevolezza che non si può semplicemente continuare a percorrere la strada seguita sinora, e che saranno necessarie riforme istituzionali; che occorre distinguere tra la politica economica e quella sociale, e tra il lato delle entrate e quello delle spese dello Stato del benessere; che vi sono notevoli differenze tra i paesi (soprattutto tra gli Stati Uniti e la maggioranza dei paesi europei) e tra i diversi programmi (per esempio tra il sistema delle pensioni e l'assicurazione contro la disoccupazione). Tuttavia il fatto fondamentale è che esiste un largo consenso nei confronti dello Stato del benessere, e che le differenze tra i gruppi rilevanti della popolazione sono relativamente scarse.
Questo fatto ne rispecchia un altro: le società occidentali sono diventate società di lavoratori dipendenti, mentre quelli autonomi, tradizionali oppositori dello Stato del benessere, hanno perso parte del loro peso; una quota sempre più grande della popolazione è diventata dipendente dallo Stato per la tutela dei suoi bisogni vitali, e in questo modo esso si è creato i propri sostenitori. La tab. V lo mostra chiaramente: i pensionati rappresentano oggi da un quarto a un terzo degli elettori, e in queste quote non sono compresi quelli che vivono grazie a sussidi di disoccupazione o di assistenza sociale. Se si includessero le persone impiegate nell'ambito dell'istruzione, della sanità e dei servizi sociali, risulterebbe che attualmente in molti paesi circa la metà degli aventi diritto al voto percepiscono il loro reddito dallo Stato del benessere. Non c'è quindi da meravigliarsi se lo Stato del benessere può contare ancora oggi su un vasto consenso e se lo smantellamento dei servizi sociali è rimasto relativamente limitato. Ciò dimostra la stabilità istituzionale dello Stato del benessere, ma nel contempo indica una immobilità istituzionale che può costituire un pericolo rispetto alle sfide del presente.
È certamente troppo presto per poter fare già oggi previsioni sugli sviluppi futuri dello Stato liberale del benessere. La situazione è troppo complessa, gli sviluppi più recenti troppo contraddittori. Ci si può chiedere tuttavia se lo Stato del benessere, al di là dei gravi problemi della disoccupazione e del deficit di bilancio, si trovi di fronte a sfide più basilari, che lo costringeranno ad adattamenti istituzionali di più ampia portata.
Nel corso della sua evoluzione lo Stato del benessere si è adattato in forte misura alle tendenze verso la differenziazione e la standardizzazione inerenti alla società industriale, accentuando a sua volta questi processi. Questo vale soprattutto per la struttura fondamentale della ripartizione del lavoro tra generazioni e sessi, tra gruppi professionali e classi sociali. Con l'estensione del sistema scolastico e pensionistico lo Stato del benessere ha svolto una parte essenziale nella costituzione di un ciclo vitale individuale standardizzato, articolato nelle tre fasi fondamentali dell'istruzione, del lavoro retribuito e del pensionamento. Esso si è orientato verso una divisione di lavoro salariato e lavoro domestico tra i sessi, rafforzandola tramite le regolamentazioni del processo di lavoro e della sicurezza sociale. Infine, ha costruito anche le proprie istituzioni sulla differenziazione del lavoro retribuito, contribuendo altresì a rafforzarla.
Con il passaggio da una società industriale a una società postindustriale questo tipo di ripartizione del lavoro rappresenta sempre più un ostacolo allo sviluppo e rende necessaria una riforma delle istituzioni legate a esso. Nello stesso tempo sembrano aumentare le possibilità di riscoprire in una forma nuova, più 'progredita', l'antica flessibilità della società preindustriale per quel che riguarda la connessione tra le fasi della vita e i suoi vari ambiti.La capacità di adattamento istituzionale dello Stato del benessere sembra trovarsi allora di fronte a tre sfide fondamentali: 1) l'invecchiamento della popolazione e la necessità di un nuovo patto tra generazioni; 2) il mutamento nella ripartizione del lavoro tra i sessi e la necessità di un nuovo patto tra di essi; 3) il mutamento dei valori e la necessità di un nuovo patto tra Stato e cittadini.Le società europee sono entrate oggi nell'ultima fase di un processo demografico che ha avuto inizio nel XIX secolo. Esso ha significato essenzialmente il passaggio da un aumento limitato della popolazione, con alti tassi di natalità e di mortalità, a una fase di stagnazione, con bassi indici di natalità e di mortalità, dopo un lungo periodo di rapido aumento della popolazione dovuto all'intervallo temporale intercorso tra il recedere della mortalità e quello della natalità.
Il rallentamento dell'incremento della popolazione ha determinato un invecchiamento di quest'ultima, effetto insieme di un aumento della speranza di vita e di un calo del tasso delle nascite. Questo non significa solo una perdita della capacità di innovazione, dal momento che i mutamenti sociali sono in gran parte legati a ricambi generazionali; significa anche, probabilmente, un aumento del peso politico delle generazioni più anziane e un'incidenza più consistente del fattore età nei conflitti riguardanti la ripartizione del prodotto sociale. Questo vale in particolare per il sistema pensionistico, che rappresenta il maggior meccanismo di redistribuzione nelle società moderne.
Con il prevedibile aumento della percentuale di persone anziane all'interno della popolazione complessiva occorre trovare una nuova base per l'attuale sistema pensionistico. Dal punto di vista giuridico tale sistema si basa su un 'patto' tra due generazioni: coloro che lavorano, e pagano i contributi, e i pensionati che percepiscono una pensione. In realtà, però, il sistema si fonda sul rapporto tra tre generazioni, pur senza istituzionalizzare espressamente questo rapporto. Esso presuppone infatti che i giovani non ancora in grado di guadagnare pagheranno in seguito le pensioni di coloro che sono attualmente attivi.
La legittimità del patto generazionale non risiede pertanto solo nei contributi che la popolazione di volta in volta attiva paga in favore delle generazioni più anziane, ma anche nei contributi che essa paga per la formazione della generazione successiva. Con il processo di invecchiamento si determina di conseguenza una grave mancanza di adattamento delle istituzioni alla realtà, in cui il mutamento nel rapporto tra generazioni si connette a quello nel rapporto tra i sessi. Il punto di connessione sta nella sottovalutazione strutturale di quella parte di lavoro socialmente necessario che viene effettuata al di fuori degli scambi di mercato, e a cui di conseguenza non corrispondono né retribuzioni indipendenti né diritti sociali adeguati.
L'educazione dei bambini è una parte essenziale di questo lavoro sottovalutato nella nostra società. La lotta delle donne per l'eguaglianza diventa così una lotta per uscire dall'ambito domestico. Nello stesso tempo l'evoluzione demografica ha accresciuto per le donne le possibilità di trovare un impiego al di fuori di tale ambito: vi sono molti meno bambini, e la fase del ciclo familiare caratterizzata dalla dipendenza dei figli si è notevolmente accorciata. Questa 'liberazione demografica' delle donne si è unita a un progressivo eguagliamento delle possibilità di istruzione per i due sessi, seguito da un lento ma costante aumento della percentuale della popolazione femminile occupata, che neanche la disoccupazione di massa è riuscita a frenare. Questo mutamento fondamentale e irreversibile nella ripartizione del lavoro tra i sessi richiede un adattamento non solo della struttura familiare, ma anche delle istituzioni dello Stato del benessere.
Lo Stato del benessere si basava originariamente sulla figura del capofamiglia maschio. I diritti sociali degli altri membri della famiglia furono introdotti nella maggior parte dei casi solo più tardi, e quasi sempre in connessione con il lavoro e con lo status del capofamiglia. Una maggiore eguaglianza può essere raggiunta sia mediante una equiparazione delle possibilità di guadagno, sia anche attraverso un collegamento tra educazione dei figli e diritti sociali - o ancora più in generale attraverso un rafforzamento delle prestazioni sociali per tutti. Se tuttavia si vuole collegare una politica di eguaglianza dei sessi con il perseguimento di una stabilizzazione della struttura familiare e di uno sviluppo uniforme della popolazione, saranno necessari adattamenti istituzionali assai più vasti. Questi riguardano soprattutto una migliore armonizzazione tra lavoro retribuito e vita familiare, e una configurazione più flessibile del ciclo di vita individuale.
Un mutamento istituzionale di ampia portata dello Stato del benessere appare necessario anche rispetto al mutamento dei valori che si può rilevare, a partire dalla fine degli anni sessanta, soprattutto nel nuovo ceto medio, sempre più numeroso. Si tratta di un mutamento di valori che da un lato va in direzione di un maggior rilievo dato all'autodeterminazione, all'autorealizzazione e alla libertà di scelta, dall'altro in direzione di una maggiore solidarietà quotidiana e di una partecipazione diretta più incisiva alle questioni pubbliche. Ma questi valori sono in contrasto con le caratteristiche fondamentali dello Stato del benessere 'moderno', quali la burocratizzazione, la ricerca del guadagno e la professionalizzazione. Se la legittimità delle istituzioni dello Stato del benessere deve essere preservata, esso deve adeguare le proprie strutture a questo mutamento dei valori. Ciò implica un nuovo 'patto' tra Stato e cittadini, in cui questi ultimi non siano più confinati nel loro ruolo di elettori, di soggetti fiscali e di beneficiari di servizi sociali, ma possano avere maggiori opportunità di scelta, e possano partecipare all'elaborazione stessa dei provvedimenti, in forme e ambiti di carattere misto pubblico/privato.
L'orientamento e la dimensione delle riforme istituzionali dipenderanno probabilmente in maniera decisiva dai nuovi ceti medi, la cui posizione è caratterizzata da una combinazione di status di lavoratori dipendenti e di risorse individuali relativamente ampie. In linea di massima essi si collocano dunque tra organizzazioni collettive di interessi e intervento statale da un lato, e libertà di scelta e mobilità individuale dall'altro. Riforme istituzionali che uniscano un rafforzamento degli elementi universalistici con una maggiore flessibilità istituzionale potrebbero trovare in essi il loro sostegno generale. Le forme concrete di realizzazione, tuttavia, dipenderanno dalle modalità assai diverse in cui i nuovi ceti medi nei vari paesi articoleranno e aggregheranno i loro interessi ambivalenti e divergenti. Esse dipenderanno inoltre dalle istituzioni già esistenti, che limitano in maniera assai diversa le possibili opzioni di cambiamento istituzionale. Non è probabile, pertanto, che gli Stati del benessere postindustriali rassomiglieranno a quelli industriali così come sono stati sinora. (V. anche Assistenza sociale; Bilancio pubblico; Debito pubblico; Eguaglianza; Finanza pubblica; Giustizia, accesso alla; Sicurezza sociale; Stato).
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