Taylorismo
'Taylorismo' è il termine colloquiale e più diffuso con cui si indica l'organizzazione scientifica del lavoro, ovvero il corpus di dottrine e ricette organizzativo-manageriali per la produzione industriale messe a punto dall'ingegnere americano Frederick Taylor tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Con l'andar del tempo il termine taylorismo ha assunto un significato più vasto e ha preso a indicare tutti gli aspetti di un lavoro, sia manuale che impiegatizio, organizzato secondo criteri ripetitivi, parcellari e standardizzati, dove la mancanza di discrezionalità e di contenuti intelligenti è vista come una condizione necessaria per ottenere una resa produttiva più intensa e uniforme. In questo senso l'uso comune del termine taylorismo ha un significato intrinsecamente ambivalente, perché evoca l'idea che l'efficienza non possa essere ottenuta che a prezzo della ripetitività normalmente imposta per via gerarchico-burocratica.
Questa ambivalenza trova la sua radice storica nelle convinzioni che animarono tutta l'opera di Taylor. Egli si trovò a operare in una fase dell'economia industriale americana segnata da un profondo contrasto tra le potenzialità materiali di sviluppo e l'arretratezza dell'organizzazione produttiva delle fabbriche. Verso la fine del XIX secolo il progresso tecnico consentiva ormai una produzione di massa. Macchinari sempre più veloci e potenti permettevano di progredire lungo due dimensioni tipiche dell'industria moderna: la standardizzazione dei prodotti e dei processi produttivi e la specializzazione delle macchine utensili. Le cosiddette macchine polivalenti universali manovrate da operai di mestiere, che avevano trionfato per tutto il XIX secolo, lasciavano sempre più spazio alle macchine specializzate e monovalenti: ossia da macchine flessibili che dovevano essere adattate a una vasta gamma di lavorazioni si passava a macchine più veloci ma più rigide, destinate a produzioni di larga serie e assai più facili da manovrare. Questa evoluzione tecnica, come sottolinea Alain Touraine (v., 1955), poneva le basi per un profondo cambiamento del lavoro operaio: gli operai di mestiere, capaci di 'sentire' il ritmo e i bisogni delle vecchie macchine universali, lasciano il posto a operai dequalificati, che hanno il semplice compito di caricare e scaricare i pezzi sulle macchine, mentre la manutenzione di queste viene affidata a ristrette squadre di operai specializzati. Questa rivoluzione consentì di aumentare enormemente la produzione, ma anche di ridurre il costo del lavoro, data la minore qualificazione professionale degli addetti macchina.
Il progresso tecnologico si accompagnava a un altro importante fenomeno, la progressiva crescita delle dimensioni quantitative delle fabbriche. Mentre nel corso dell'Ottocento le fabbriche che superavano il migliaio di dipendenti erano relativamente rare, verso la fine del secolo esse divennero progressivamente più numerose. Espansione produttiva e fusione tra imprese portavano al cosiddetto gigantismo industriale, che raggiunse il suo culmine nella prima metà del XX secolo. Le sempre maggiori dimensioni delle imprese ponevano gravi problemi di controllo sociale e di organizzazione del lavoro, del tutto sconosciuti nell'Ottocento. Negli Stati Uniti il problema era reso più acuto dall'imponente afflusso di milioni di immigrati di origine contadina - polacchi, irlandesi, italiani - del tutto privi di cultura industriale, i quali si andavano ad aggiungere a neri, messicani e portoricani, creando così un'imponente domanda di lavoro in larga misura dequalificato. La mobilità lavorativa di queste masse era estremamente alta, con una permanenza media di pochi mesi nello stesso luogo di lavoro e ciò sia per l'assenza della sicurezza di impiego, sia perché i lavoratori stessi erano alla continua ricerca di un'occupazione migliore.
Vi erano dunque tutte le premesse tecniche e sociali perché l'economia capitalistica a cavallo dei due secoli conoscesse un impetuoso balzo in avanti verso la produzione di massa basata su ampie economie di scala. Ma, come si accennava prima, queste premesse contrastavano con l'organizzazione produttiva e il governo della manodopera, rimasti ancorati a criteri rozzi e obsoleti con un miscuglio di approssimazione, empiria e arbitrio. Negli stabilimenti troppo grandi per poter essere controllati direttamente dal padrone, tutto il potere era delegato ai capireparto, scelti più con il criterio della fedeltà che con quello della competenza. D. Nelson (v., 1975 e 1980) parla di "impero dei capireparto", a cui era demandato il potere di stabilire tempi e metodi della produzione, costi e qualità del lavoro, e di assumere e licenziare la manodopera. Il sistema che regnava nelle fabbriche era il drive system (o sistema dello spintone), che S. Jacoby (v., 1984) definisce come "controllo stretto, abuso, irriverenza e minacce". La nota dominante del drive system era di ispirare nell'operaio reverenza e paura del management, e quindi trarre vantaggio da quella paura per ottenere una maggiore produzione.
Oltre allo strapotere dei capireparto, molto diffusa nelle fabbriche era la figura dei 'contrattisti', operai qualificati che lavoravano nelle officine con il duplice ruolo di dipendenti e di piccoli imprenditori. Stabilita una paga globale del contrattista per un certo periodo, questi assumeva altro personale - compresi propri familiari - a cui pagava parte del salario globale ottenuto dall'impresa. Si sviluppava così un sistema doppio di sfruttamento, dell'impresa nei confronti dei contrattisti e di questi ultimi nei confronti dei propri collaboratori. Toccava dunque anche ai contrattisti escogitare soluzioni tecniche e organizzative per abbassare i costi.
Per capire il vero significato dell'organizzazione scientifica del lavoro proposta da Taylor è indispensabile tenere presenti le condizioni di lavoro delle fabbriche nell'Ottocento. Nella letteratura politica e sociale prolabour fiorita nel XX secolo il taylorismo è stato comunemente presentato come uno strumento di sfruttamento 'scientifico' del lavoro operaio, dove l'assenza di contenuti intelligenti si accompagna al più inflessibile controllo autoritario. Questa lettura del taylorismo è stata sostenuta anche dalla volgarizzazione delle tesi di Touraine (v., 1955), secondo cui dopo una fase industriale A caratterizzata dall'operaio di mestiere si è passati a una fase B caratterizzata dall'operaio dequalificato. Ma questa lettura del taylorismo soffre di un certo strabismo dovuto alla mancanza di prospettiva storica delle denunce dello sfruttamento operaio in regime taylorista, le quali non tengono conto delle condizioni di lavoro della grande maggioranza degli operai nelle fabbriche pretayloristiche.
Tali condizioni vanno invece tenute presenti quando si leggono i testi originali di Taylor. Ci si accorge allora che il suo discorso è abile e complesso. Di primo acchito le sue sembrano considerazioni dettate da un senso comune di impronta conservatrice: gli uomini (leggi gli operai) sono naturalmente portati all'indolenza, e lasciati a se stessi tenderanno sempre a prendersela comoda e a rallentare la produzione. Per ottenere che lavorino in modo più spedito ed efficiente occorre creare una struttura in cui tempi, metodi e controllo del lavoro siano stabiliti con rigore scientifico. Un opportuno aumento di paga premierà gli operai che accettano di lavorare seguendo scrupolosamente tutte le prescrizioni stabilite dal management.
A un esame più attento, tuttavia, ci si accorge che il discorso di Taylor contiene in realtà una serrata polemica contro il padronato del suo tempo, accusato di usare metodi inadatti e arbitrari nel comando della manodopera. Gli imprenditori hanno un'idea estremamente vaga e approssimata di quale possa essere il massimo sforzo ragionevolmente ottenibile da un operaio, e soprattutto non hanno idea di come organizzare la produzione complessiva in modo ottimale. Essi operano al buio, stabilendo quote di produzione e livelli salariali in modo arbitrario, pronti a modificarli non appena constatano che ulteriori aumenti di sforzo sono possibili. Tipica espressione di questa pratica è il sistema di lavoro a cottimo largamente usato a quell'epoca. Ma è proprio contro il cottimo che Taylor rivolge i suoi strali. Egli scrive: "È nel sistema di lavoro a cottimo che germoglia l'arte del sistematico rallentamento produttivo. Dopo che un lavoratore per due o tre volte ha visto il suo compenso per unità di prodotto diminuito quando egli ha lavorato più intensamente e ha migliorato il rendimento, è evidente che egli perda di vista l'interesse dell'imprenditore e si lasci penetrare dalla cupa decisione di non andare incontro a ulteriori abbassamenti di tariffa se può evitarli facendo finta di lavorare" (v. Taylor, 1947; tr. it., p. 157).
La conseguenza di questo metodo sbagliato è la diffusione nelle officine di un disastroso clima di sfiducia e di conflitto. Ma per Taylor il problema sta a monte, e nasce dall'errata convinzione degli imprenditori che 'fare il lavoro' sia la cosa più importante, mentre il modo di lavorare sia un aspetto secondario, incluso nei compiti esecutivi. Per Taylor bisogna capovolgere questo modo di pensare. Il lavoro operaio, egli sostiene, è così vasto e complesso che non può essere adeguatamente conosciuto nemmeno dal più esperto operaio di mestiere. Occorre uno studio apposito, fatto con metodologie scientifiche da professionisti dell'organizzazione del lavoro, e questo studio dev'essere promosso dalle direzioni aziendali. Un'impresa moderna non può limitarsi a esigere la produzione lasciando che gli operai se la organizzino a loro piacimento, ma deve assumere su di sé tutti i compiti organizzativi che fino allora erano lasciati agli operai. Questi devono limitarsi a eseguire in modo scrupoloso e sistematico il loro compito, ovvero tutto ciò che la direzione, attraverso i suoi tecnici, ha stabilito.
Se il processo produttivo può essere paragonato a una scatola nera, di cui l'impresa conosce input e output ma non ciò che avviene al suo interno, Taylor propone che l'impresa apra la scatola, ne analizzi tutti i meccanismi e intervenga per razionalizzarli. Il messaggio più profondo di Taylor è la necessità che l'impresa pervenga alla totale trasparenza dei suoi processi produttivi, come premessa per la gestione ottimale delle sue risorse umane e materiali. Questa trasparenza può essere raggiunta solo ricorrendo al metodo scientifico. In tal modo la direzione non conoscerà soltanto le possibilità di aumento produttivo, ma anche i limiti non superabili dello sforzo che si può richiedere al lavoro umano.
Ma in che cosa consiste l'organizzazione scientifica del lavoro proposta da Taylor? Egli presenta quattro principî essenziali, che esaminiamo brevemente.
Questo principio riguarda tutte le prescrizioni che portano a decomporre il flusso naturale del lavoro manuale e a ricomporlo in base a criteri stabiliti dall'esterno. Per prima cosa si deve selezionare un gruppo di lavoratori già particolarmente abili nel lavoro che si intende riorganizzare. Il loro lavoro va quindi analizzato in ogni singolo movimento in rapporto al tempo, la posizione fisica, la frequenza d'uso degli strumenti manuali, ecc. Dopo di che si individuano e si eliminano i movimenti falsi, inutili e dettati da pigrizia, e si ricompone il comportamento lavorativo montando i singoli movimenti risultati più razionali; vengono poi standardizzati tutti gli utensili e le attrezzature in base a rapporti ottimali tra peso, forma, frequenza d'uso, ecc. Si fissa, quindi, un tempo ottimale di esecuzione del lavoro, che deve tener conto delle pause fisiologiche, e si riaddestra il gruppo dei lavoratori sperimentali. Dopo aver accertato la possibilità che essi eseguano il lavoro così riorganizzato per un tempo prolungato, lo si impone al resto dell'officina.
Taylor sostiene che scopo del suo metodo è di ottenere un lavoro standardizzato sia in termini quantitativi che qualitativi, con un rendimento doppio e talvolta triplo rispetto a quello ottenuto con i vecchi metodi. Il ritmo ottimale del lavoro, egli afferma, è quello per cui un lavoratore al termine della giornata avverte il bisogno piacevole di riposarsi senza però sentirsi spossato, con l'ulteriore vincolo che egli possa mantenere quel ritmo a lungo negli anni senza logorarsi.
Con questo principio Taylor sostiene che l'assunzione della manodopera e la sua assegnazione ai vari lavori deve avvenire seguendo il criterio universale dell'uomo giusto al posto giusto. Taylor è convinto che per ogni tipo di lavoro è possibile trovare le persone più adatte in base a criteri attitudinali e che questi criteri vanno applicati da un ufficio apposito che abbia il compito di assumere e addestrare la manodopera. In tal modo egli polemizza implicitamente contro l'uso allora in auge di dare carta bianca ai capireparto. L'istituzione di un ufficio apposito per la selezione e l'addestramento scientifico della manodopera risponde, nel pensiero di Taylor, allo scopo di eliminare una delle maggiori fonti di instabilità e di arbitrio all'interno delle imprese. Questo principio porta come immediata conseguenza alla nascita di una figura aziendale fino allora sconosciuta, quella del quadro tecnico intermedio con funzioni di staff, figura che avrebbe poi giocato un ruolo di fondamentale importanza nelle grandi aziende del XX secolo.
Le profonde innovazioni sopra descritte non possono avvenire per pura imposizione gerarchica, ma ricercando il consenso dei diretti interessati. Ma come è possibile ottenere il consenso da persone a cui si chiede di lavorare più intensamente, con minori margini di discrezionalità e con maggiore disciplina? Taylor non ha dubbi: ciò è possibile in primo luogo attraverso un sostanziale aumento della retribuzione, e in secondo luogo mediante una direzione del personale capace di ascoltare i dipendenti e di ottenere la loro fiducia con l'equità garantita dai criteri scientifici della sua azione. Come si notava in precedenza, Taylor polemizza contro l'uso del cottimo, al posto del quale propone un premio di rendimento basato su criteri opposti. Anziché pagare la produzione in più rispetto a una quota minima stabilita, Taylor suggerisce la possibilità di dare un premio ai lavoratori che seguono fedelmente tutte le prescrizioni fornendo a fine giornata esattamente la quota di produzione, calcolata dall'ufficio programmazione. In caso contrario il premio sarà decurtato in proporzione alla quota di produzione mancante. Questo metodo - che in realtà sarebbe poi stato applicato molto raramente nelle fabbriche - rispecchiava la convinzione di Taylor secondo cui l'efficienza produttiva nasce più dal rispetto delle regole che non dall'iniziativa individuale.
Ma Taylor è anche consapevole che l'incentivo economico da solo non è sufficiente, e insiste lungamente sulla necessità che i dirigenti sviluppino comunicazioni e contatti con i propri sottoposti. Questi canali di comunicazione individualizzati devono anche servire a evitare che i lavoratori si rivolgano al sindacato per farsi tutelare in caso di conflitto. Taylor, in linea generale, era contrario al sindacato e si batteva contro ogni vincolo che l'azione sindacale avrebbe potuto imporre alla libertà dell'impresa nella gestione scientifica del personale. Solo negli ultimi anni della sua vita, di fronte alla constatazione che il sindacato era comunque una realtà insopprimibile nelle fabbriche americane, egli si rassegnò all'esistente, raccomandando però che l'azione sindacale non invadesse il campo dell'organizzazione del lavoro, che doveva rimanere prerogativa esclusiva della direzione dell'impresa.
Con questo principio Taylor intende affermare che l'efficienza di un'impresa non dipende soltanto dalla razionalizzazione del lavoro operaio in officina, ma anche dalla radicale riorganizzazione dell'intero apparato direttivo dell'impresa. In altri termini, il taylorismo non consiste soltanto in un nuovo modo di lavorare dell'operaio: esso consiste soprattutto in un nuovo modo di comandare. Scrive Taylor che in un'azienda tradizionale "è tutt'altro che insolito, per quanto sconsolante, vedere il direttore con la scrivania inondata da una marea di lettere e di rapporti su ognuno dei quali egli ritiene di dover apporre la sua firma o il suo timbro. Egli crede di essere tenuto in stretto contatto con l'intera azienda attraverso questa massa di dettagli che piovono sulla sua scrivania" (v. Taylor, 1947; tr. it., p. 84).
Questo metodo inefficiente, sostiene Taylor, dev'essere sostituito da un metodo più razionale basato sul principio di eccezione. In base a questo principio, il direttore riceve solo informazioni riassuntive e comparative che vengono elaborate ai livelli gerarchici inferiori, seguendo il criterio di evidenziare solo gli scostamenti dalla norma. In tal modo il direttore, liberato dall'onere di leggere informazioni inutili, avrà più tempo da dedicare al compito di progettare strategie e innovazioni.Il principio di eccezione - far filtrare le informazioni - si inserisce in un discorso più ampio, che riguarda il completo riordino dell'assetto gerarchico nell'azienda. Taylor parte dalla constatazione che in genere vi è grande penuria di personale dirigente, sicché i singoli capi sono oberati di mansioni e ciò li costringe a non rispettare i tempi previsti nei loro lavori o a svolgerli a costi non economici. Per superare questa difficoltà i capi scaricano parte dei compiti sui loro collaboratori di grado inferiore, ma poiché questi devono già svolgere i propri compiti, si provoca un generale ritardo con accumuli irrazionali di incombenze. Questi inconvenienti sono aggravati dal fatto che di norma un capo ha la responsabilità di tutta l'unità a lui sottostante, senza divisioni funzionali delle competenze. Ma capi effettivamente capaci di fronteggiare con successo tutte le incombenze sono estremamente rari, sicché spesso ci si trova di fronte a dirigenti che sono al di sotto dei compiti per essi previsti.
Per superare questi inconvenienti Taylor propone di restringere le sfere di competenza dei capi intermedi in modo che tutti abbiano incombenze proporzionate alle loro capacità. In altri termini propone per il medio e alto management una riorganizzazione dei campi di competenza secondo un principio analogo a quello proposto per suddividere il lavoro operaio. Se per gli operai la conseguenza della taylorizzazione è l'omogeneizzazione nella fascia semiqualificata degli addetti macchina, per la gerarchia di officina il restringimento dei campi di competenza ha come conseguenza l'aumento numerico dei capi intermedi e l'ancoraggio delle loro prestazioni a norme e procedure stabilite dalla direzione centrale.
Tra gli effetti di questa riorganizzazione vi è l'avvento della direzione funzionale: gli operai non obbediscono più a un solo capo, ma ricevono ordini da diversi superiori, ciascuno dei quali è preposto a un aspetto particolare del lavoro. Nasce così una poderosa burocrazia di fabbrica, che Taylor vede come il migliore strumento per garantire l'omogeneità delle procedure e delle comunicazioni all'interno dell'azienda.
Dall'esposizione di questi quattro principî fondamentali, l'organizzazione scientifica del lavoro appare come una imponente costruzione concettuale coerentemente volta ad affermare il primato assoluto dell'organizzazione dell'impresa su ogni componente umana che vi lavora. Questo primato trova la propria legittimazione nel ricorso alla scienza e, in particolare, nel postulato dell'one best way. Quest'ultimo consiste nell'assunto che per ogni problema esiste sempre una e una sola soluzione ottimale, e che tale soluzione può essere raggiunta solo impiegando metodi scientifici di ricerca. La ricerca dell'one best way non garantisce solo una maggiore efficienza, ma proprio la sua scientificità fornisce alla soluzione ottimale una superiorità anche politica, perché la fa apparire al di sopra delle parti. Tutti devono adeguarsi alle norme e ai limiti dettati dalla scienza: gli operai nell'esecuzione materiale della produzione e i tecnici nell'analisi dettagliata delle procedure lavorative e nella ricerca dei possibili miglioramenti produttivi, ma anche i dirigenti e i proprietari devono inchinarsi alle prescrizioni scientifiche che stabiliscono i limiti oltre i quali non è possibile richiedere né superprestazioni alle macchine né uno sforzo eccessivo alla manodopera. Osserva Taylor a questo proposito: "L'uomo che si trova alla testa dell'azienda è sottoposto come l'operaio alle regole che sono state sviluppate attraverso migliaia di esperimenti, e le norme che sono state sviluppate sono eque. Il codice delle leggi è giusto, e quelle questioni che con gli altri sistemi sono oggetto di giudizio arbitrario e perciò possono portare a disaccordi, sono state oggetto del più accurato e attento studio al quale hanno preso parte sia il lavoratore che la direzione, portando alla soddisfazione di entrambe le parti" (v. Taylor, 1947; tr. it., p. 357).Siamo di fronte a una versione idealizzata dell'organizzazione scientifica del lavoro - come vedremo, la sua realizzazione pratica nelle fabbriche di tutto il mondo fu ben lontana dall'olimpica armonia prefigurata in queste righe - che tuttavia risponde pienamente all'intima convinzione di Taylor che la scienza sia neutrale e che la sua applicazione rigorosa possa portare l'umanità a un'era di abbondanza e di concordia sociale.
Il secondo aspetto da sottolineare è il profondo processo di burocratizzazione a cui il taylorismo sottopone le fabbriche. È un processo ambivalente: da un lato la crescita della burocrazia di fabbrica diventa lo strumento più efficace per garantire il completo controllo della direzione su tutto il processo produttivo; dall'altro la fissazione di norme universali fornisce anche ai sottoposti la certezza di un diritto, quanto meno la conoscenza di norme che stabiliscono il limite massimo dello sfruttamento.
Questo processo di burocratizzazione presenta non poche affinità con la costruzione dello Stato moderno descritta da Weber. Come i funzionari nominati in base a criteri di legittimità burocratica sostituiscono i feudatari nel rappresentare il potere centrale in periferia, così in fabbrica i capi intermedi agiscono in quanto rappresentanti legali della direzione e non più come capi a cui è stato fiduciariamente delegato un potere senza controllo. In un caso come nell'altro si creano i presupposti per l'esercizio di un potere legittimato in base a criteri legali e non espressione di semplice arbitrio. Così come dallo Stato assoluto allo Stato di diritto gli individui passano dalla condizione di sudditi a quella di cittadini, nella fabbrica taylorizzata i dipendenti passano dalla condizione di 'plebaglia' vista con occhio sospettoso e ostile a quella di manodopera disciplinata in base a norme universalmente condivise. Il grande limite di Taylor è l'illusione che queste garanzie possano scaturire dalla forza intrinseca della legge e non dalla negoziazione regolata tra le controparti nel quadro di una compiuta democrazia industriale. Ma se il taylorismo non contiene in sé i principî della democrazia industriale, è anche vero che quest'ultima non avrebbe potuto avere le condizioni materiali di sviluppo senza la precedente opera di razionalizzazione del processo produttivo compiuta in nome del taylorismo: solo quando sono fissate ed esplicitate norme e misure, diventa possibile alle varie componenti interne chiedere la negoziazione di quelle stesse misure.
Da quanto detto finora risulta che l'organizzazione scientifica del lavoro ha costituito una tappa fondamentale nello sviluppo dell'industria mondiale del XX secolo. Essa ha segnato l'avvento della fase della moderna produzione di massa che avrebbe poi trovato nel fordismo la sua espressione più compiuta. Mentre il taylorismo è una formula manageriale che riguarda essenzialmente l'organizzazione del lavoro esecutivo, che viene segmentato e standardizzato in modo da aumentare l'intensità uniforme delle prestazioni, il fordismo nasce invece negli anni dieci con l'intuizione di Henry Ford di applicare nelle sue officine di montaggio il principio della catena semovente. In tal modo Ford perfezionava il taylorismo incorporando nella tecnologia meccanica della catena il ritmo di lavoro che Taylor pretendeva di imporre alla manodopera per via gerarchico-burocratica. Caratteri tipici del modello ideato da Ford sono le grandi dimensioni delle imprese, la produzione di massa di beni standardizzati, la rigidità della programmazione produttiva, e anche alcune garanzie di stabilità di impiego per i dipendenti.Per quanto i termini 'taylorismo' e 'fordismo' abbiano poi avuto diversi usi e sviluppi nel dibattito economico-sociale del XX secolo, a livello di fattualità storica è corretto affermare che per molti decenni il fordismo fu visto e vissuto come il modo tecnologicamente più avanzato di mettere in pratica le prescrizioni tayloriste.
Si pone a questo punto una questione: se il taylorismo è stato un passo così importante nello sviluppo delle forze produttive del XX secolo, come si spiega che tutta l'epoca della sua diffusione a livello mondiale sia anche stata l'epoca in cui è esploso il dibattito sulla necessità economica, sociale e umana del suo superamento?
Per capire questo apparente paradosso bisogna distinguere due livelli di analisi. Il primo riguarda le modalità concrete con cui moltissime imprese procedettero all'applicazione del taylorismo, mentre il secondo riguarda i limiti teorici intrinseci di quel modello. Fin dall'inizio l'applicazione del taylorismo, prima nelle fabbriche americane e poi in quelle europee, suscitò le più veementi proteste di operai, sindacalisti, uomini di cultura di orientamento prolabour. L'accusa era sempre la stessa: la messa in pratica delle prescrizioni di sfruttamento scientifico della forza lavoro si traduceva in un aumento insopportabile dello sforzo fisico e psichico, dei controlli autoritari, dell'impoverimento dei contenuti intellettuali del lavoro, del degrado e dell'abbrutimento provocati dall'eseguire a ritmi frenetici lavori senza senso per 810 ore al giorno. Le pagine di Simone Weil (v., 1951) sulla spaventosa condizione operaia nelle officine Renault negli anni trenta e quelle di Georges Friedmann (v., 1946) che denunciano i terribili guasti psichici e fisici provocati dall'applicazione frenetica del taylorismo appartengono al patrimonio della grande letteratura sociale del XX secolo.
Invano Taylor e i suoi fautori sostennero per decenni che quegli eccessi erano del tutto contrari allo spirito dell'organizzazione scientifica del lavoro, che prevede invece la continua ricerca del consenso dei sottoposti, limiti rigorosi e una cura attenta nell'applicazione. Di fronte al dilagare universale delle proteste, quelle difese d'ufficio suonavano come un argomento debole e inadeguato. Se l'applicazione di uno strumento che pretende di essere scientifico e super partes provoca tante denunce di ipersfruttamento disumano, non ci si può limitare a imputarne la responsabilità alle direzioni aziendali colpevoli di tradirne lo spirito. Non poteva non esserci qualcosa di sbagliato nella formula taylorista, qualcosa che al di là delle intenzioni dei suoi fautori la trasformava in un inesorabile strumento di oppressione e di ipersfruttamento. Oggi si può dire che il taylorismo offriva lo strumento tecnico per razionalizzare il processo produttivo, eliminando tuttavia anche quelle inefficienze che nel lavoro operaio potevano tradursi in occasioni per umanizzare il lavoro con pause, rallentamenti, momenti di socialità e iniziative informali. Quello strumento tecnico, messo nelle mani di una imprenditoria incolta e rapace, non poteva che portare alle conseguenze sociali suddette. Taylor e i tayloristi sottovalutarono il fatto che proprio la potenza tecnica della loro novità imponeva un'autolimitazione dello sfruttamento umano che non poteva nascere se non da una profonda rivoluzione culturale tesa a riformare dalle radici i rapporti sociali sui luoghi di lavoro. Tutto questo sarebbe avvenuto in modo lento e contraddittorio nel corso dei decenni, sulla spinta della protesta operaia ma anche del dibattito suscitato dallo stesso successo mondiale del taylorismo.
Nel dibattito sul taylorismo si possono distinguere due posizioni fondamentali, una filo-aziendale e una filo-operaia. La prima mira a emendare il taylorismo dai difetti che alimentano la protesta operaia, in forme come scioperi, assenteismo, sabotaggio e diffusa disaffezione dal lavoro. La posizione filo-operaia è volta invece a negare e superare il taylorismo con varie proposte ispirate a criteri di umanizzazione del lavoro.Tra le posizioni filo-aziendali si distinse la scuola delle relazioni umane, nata negli Stati Uniti già negli anni trenta, ad opera di Elton Mayo (v., 1933 e 1945) e dei suoi collaboratori F. Roethlisberger e W. Dickson (v., 1939). Costoro furono invitati dal management della Western Electric di Chicago a esaminare tutti i fattori che favorivano il rendimento lavorativo degli operai. L'impianto iniziale della ricerca era prettamente tayloristico: si sarebbe dovuto controllare se alcuni fattori ergonomici come l'illuminazione o la disposizione dei banchetti di lavoro potevano incidere favorevolmente sulla quota di produzione giornaliera. Senonché l'esito imprevisto della ricerca fu la scoperta che il fattore più importante per spiegare le variazioni di rendimento non era di natura tecnica ma umana: precisamente il clima più o meno gradevole che si instaurava sul luogo di lavoro, il tipo di rapporti informali tra le persone, il 'morale' che si sviluppava all'interno del gruppo di lavoro. La scuola delle relazioni umane prese questo nome proprio dalla necessità di curare innanzitutto il fattore umano all'interno delle aziende. Ci si rese conto che il razionalismo tecnico predicato dai fautori del taylorismo puro non poteva funzionare da solo, ma richiedeva di essere integrato da altri fattori capaci di soddisfare il lato emozionale e psicologico dei lavoratori. Lo stesso aumento di paga era insufficiente ad assicurare un maggior rendimento, se l'ambiente di lavoro rimaneva freddo e impersonale. Occorreva 'riscaldare' il luogo di lavoro, renderlo gradito con la creazione di gruppi di lavoro armonici, una supervisione cordiale e amichevole da parte dei controllori, l'attenzione al retroterra psicologico dei soggetti, il riconoscimento che l'ambiente della loro vita quotidiana in famiglia ha un'importanza fondamentale nel determinare anche il comportamento lavorativo.
La scuola delle relazioni umane ebbe il merito storico di riscoprire l'importanza degli aspetti informali del lavoro. Al di là delle strutture ufficiali e dei rapporti formali enfatizzati dal taylorismo, esiste in azienda una fitta rete di rapporti informali di fondamentale importanza. Se questi rapporti sono collaborativi danno luogo a un'atmosfera che favorisce l'integrazione sociale e il rendimento produttivo. In caso contrario, anche il più perfetto organigramma resterà sterile e fonte di conflitto. Conseguenza pratica dell'importanza riconosciuta agli aspetti informali è una politica aziendale volta a favorire la creazione di gruppi di lavoro armonici. A differenza di quanto predicato dal taylorismo, la teoria delle relazioni umane raccomanda che il lavoro sia organizzato riunendo i lavoratori in piccoli gruppi: in tal modo il piacere di lavorare insieme può diventare una motivazione per eseguire senza malanimo anche lavori intrinsecamente ingrati. Con questa teoria nacque anche la figura dello psicologo di azienda e presero avvio tutte le attività di formazione volte ad aumentare la sensibilità del management agli aspetti emozionali, anche inconsci, dei propri dipendenti.
Vanno tuttavia sottolineati anche i limiti della scuola delle relazioni umane. Essa non si pose il problema di come ridare contenuti professionali intelligenti al lavoro depauperato dalla frammentazione taylorista, anzi su questo punto non cambiò nulla del taylorismo. Si limitò a tentare di umanizzare quella formula iperrazionalista, fornendo il lubrificante psicologico perché potesse funzionare senza creare tensioni, e in questo senso le relazioni umane furono spesso accusate di essere uno strumento di manipolazione psicologica e non di reale affrancamento dei lavoratori.
Non c'era bisogno di superare il capitalismo per liberare gli operai dal degrado indotto dal taylorismo, come sostenevano i marxisti ortodossi come H. Braverman (v., 1974), o per escogitare formule di umanizzazione del lavoro più incisive di quelle propugnate dalla teoria delle relazioni umane. A cominciare dagli anni sessanta, di fronte alla ormai manifesta incapacità di questa teoria di restituire al lavoro esecutivo contenuti più intelligenti, si sviluppa - soprattutto negli Stati Uniti - una nuova scuola di pensiero detta motivazionalista. Questa scuola trova i suoi principali rappresentanti in psicosociologi come A. Maslow (v., 1954 e 1962), F. Herzberg (v., 1959 e 1966), R. Likert (v., 1961 e 1967), C. Argyris (v., 1957 e 1960). Il tema comune di questa scuola, peraltro assai diversificata al suo interno, era la necessità di una riorganizzazione del lavoro tale che i compiti affidati ai lavoratori fossero più intelligenti, più responsabili e più dotati di senso di quanto previsto dal taylorismo. Due sono i presupposti di questa scuola. Il primo è che lavori più ricchi di contenuti intelligenti procurano maggiore soddisfazione e consentono una crescita della personalità di chi li compie. Oltre a essere un valore in sé, l'arricchimento del lavoro favorisce la motivazione dei lavoratori, una maggiore efficienza, minore assenteismo e conflittualità. Il secondo presupposto è che la tecnologia non impone un solo modo in cui organizzare il lavoro, come sosteneva il taylorismo, ma consente vari gradi di libertà. Queste varie soluzioni vanno scoperte e sfruttate in modo da ridisegnare le mansioni con contenuti lavorativi più ricchi rispetto al passato. Il lavoro a 'isole', il lavoro di gruppo con rotazione delle mansioni, l'affidamento di responsabilità operative e di controllo, l'appiattimento della gerarchia, una maggiore comunicazione interna sono alcune tra le varie formule escogitate dai motivazionalisti per superare l'oppressione taylorista.
Questa scuola conobbe un notevole successo soprattutto negli anni sessanta e settanta, quando formule come 'arricchimento delle mansioni' e 'ricomposizione dei frantumi del lavoro' suonarono come parole d'ordine di ogni management illuminato. A distanza di alcuni decenni va detto che, nonostante la piacevolezza dei suoi argomenti, anche il discorso motivazionalista aveva un limite invalicabile nel fatto di aver trascurato le opportunità e i vincoli della tecnologia. Il rifiuto del determinismo tecnologico non viene accompagnato in questa scuola da una sufficiente attenzione al peso della variabile tecnologica, ai molteplici modi in cui, nonostante alcuni margini di libertà, essa condiziona epoche storiche e settori di attività. Il silenzio sulla tecnologia consente di sviluppare analisi suggestive, che prescindono però dalle condizioni concrete della maggioranza dei lavori esecutivi. La tesi che bisogna eliminare le costrizioni dei lavori taylorizzati indurrebbe a pensare che il principale riferimento motivazionalista siano gli operai. Invece i motivazionalisti parlano poco di operai, se non per citare alcuni casi di arricchimento delle mansioni, che però hanno una portata limitata e non possono valere per la grande massa. Il passaggio del lavoro umano dalla costrizione taylorista a modelli meno costrittivi può avere successo soltanto se si presenta non come un costo aggiuntivo, ma come la più conveniente conseguenza di un'innovazione tecnico-produttiva. È il mancato riconoscimento di questo requisito il motivo principale per cui, dopo una felice ma breve stagione, il discorso di tipo motivazionalista appare oggi sostanzialmente superato.
Più che la riorganizzazione volontaristica delle mansioni, ciò che a partire dagli anni settanta ha determinato l'attenuarsi della costrizione tayloristica nelle fabbriche è stato il progresso tecnologico, in particolare l'avvento dell'automazione flessibile a supporto informatico.
Già Touraine (v., 1955) aveva intuito che la tecnologia è il massimo fattore condizionante l'organizzazione produttiva e il modo di lavorare. Se all'epoca delle macchine universali polivalenti (fase A) corrisponde l'operaio di mestiere, l'epoca delle macchine specializzate (fase B) vede il dilagare degli operai dequalificati costretti nelle rigide maglie tayloriste. Ma con l'avvento delle macchine automatiche si entra in una terza fase, C, in cui le figure prevalenti sono gli operai tecnici chiamati a governare quelle macchine con un bagaglio di cognizioni apprese non più semplicemente per via empirica, come i vecchi operai di mestiere, ma grazie a lunghe preparazioni specialistiche. Il taylorismo, si può dedurre dall'analisi di Touraine, non cambia per merito di riforme interne, ma è destinato a scomparire con l'avvento di una nuova era tecnologica.
L'intuizione di Touraine prefigurava a grandi linee quella che oltre vent'anni dopo sarebbe stata l'effettiva evoluzione del lavoro operaio. Ma la via tecnologica al superamento del taylorismo sollecitava a porre la questione di tale superamento in termini assai più complicati di quanto non apparisse all'epoca in cui si pensava che bastasse ricomporre le mansioni frantumate. Da un lato le nuove tecnologie hanno portato a scoprire che l'afflizione del lavoro operaio non era provocata dal taylorismo in quanto tale, ma dalle condizioni concrete in cui le direzioni aziendali pensavano che la tecnologia tradizionale imponesse di usare la forza lavoro. Dall'altro la sfida rappresentata dal modello giapponese di produzione ha indotto, come vedremo tra poco, a riflettere in termini del tutto nuovi su quali siano i veri fattori costitutivi del taylorismo.
L'avvento dell'automazione informatizzata trasforma profondamente la natura del lavoro operaio. Si ottiene innanzitutto una netta riduzione dello sforzo fisico necessario per realizzare la produzione richiesta. Nell'epoca della meccanizzazione gli operai dovevano alimentare le macchine e compiere una serie di gesti sempre uguali, prescritti per garantire la resa continuativa della produzione. Ne derivava che la quantità della produzione era direttamente proporzionale alla quantità e continuità dello sforzo fisico erogato. Di qui i controlli burocratico-disciplinari sulla produzione, dato che ogni cambiamento nel rapporto sforzo-produzione determinava una somma zero: quanto meno lavorava l'operaio tanto minore era la produzione, con danno per l'azienda, e quanto maggiore era la produzione, tanto maggiore era lo sforzo fisico richiesto, con danno per l'operaio. Nella produzione tradizionale regolamentata dal taylorismo il conflitto di classe era esperienza di vita quotidiana sul luogo di lavoro, e nasceva dallo scontro di interessi immediati, determinati dalle condizioni materiali di produzione.
L'avvento delle 'macchine intelligenti' - ovvero dell'automazione informatizzata - segna l'attenuarsi del nesso necessario tra produzione e sforzo erogato (v. Hirschhorn, 1986; v. Zuboff, 1989). Nelle fasi produttive tecnologicamente più avanzate la quantità ottimale di produzione è incorporata nelle macchine, e gli operai si trasformano da alimentatori di tali macchine in loro controllori e manutentori. A loro spetta garantire la regolarità del ciclo produttivo, intervenire sulle anomalie e più ancora prevenire il loro verificarsi attraverso l'interpretazione intelligente dei 'segnali deboli' provenienti dalle macchine stesse.
Vengono così a cadere i presupposti materiali della prescrizione taylorista dei gesti e delle cadenze lavorative, che non sono più ripetitive e prescritte, ma sono dettate dalla competenza, prontezza di analisi e padronanza delle risorse tecnico-conoscitive. Ma anche le fasi produttive meno investite dalle innovazioni tecnologiche - si pensi alle linee di montaggio - beneficiano di diffusi miglioramenti ergonomici e ambientali che allontanano le condizioni oppressive del passato. Un fattore fondamentale è l'avvento dei controlli elettronici che sostituiscono i vecchi controlli burocratici, e ciò si accompagna a una lenta ma sostanziale evoluzione in senso più democratico dei rapporti gerarchici.
Questi cambiamenti pongono le condizioni per sollecitare un profondo ripensamento di che cosa sia il taylorismo. Per decenni - a onta di quanto Taylor prescriveva - gli operai hanno sperimentato oppressione e sfruttamento. Ora le migliorate condizioni tecnologiche, insieme a un'accresciuta sensibilità sociale e democratica da parte del management, fanno sparire il ricordo di quell'oppressione.
Eppure i contenuti intellettuali del lavoro non sono di molto cambiati. Per quanto non più logoranti e per quanto assistite dalle tecnologie informatiche - pannelli e controlli elettronici -, gran parte delle mansioni operaie restano povere e ripetitive. Con gli anni ottanta molte fabbriche occidentali entrano nell'era che alcuni sociologi tedeschi (v. Ebel, 1990; v. Altmann e altri, 1992) hanno chiamato del neotaylorismo informatizzato. È l'era che corrisponde alla prima fase del postfordismo, quella in cui il management comprende la necessità di immettere sul mercato una gamma più varia di prodotti e ritiene che questo compito possa essere raggiunto essenzialmente con l'automazione flessibile informatizzata. In questa fase si prende coscienza che l'umanizzazione del lavoro non consiste tanto nel superamento della formula taylorista come tale, quanto nella scomparsa dei suoi lati più afflittivi e autoritari. Ma la strada per il ripensamento radicale di tutta la questione non era ancora stata completamente compiuta.
Con la fine degli anni ottanta l'industria occidentale è stata sempre più investita dalla sfida portata dal cosiddetto modello giapponese di produzione. Questo modello, ridefinito anche 'produzione snella', capovolge gli assunti della tradizionale produzione fordista: non più grandi quantità di scorte per far fronte agli imprevisti, programmazioni centralizzate della produzione, controlli gerarchico-burocratici e rigide divisioni di compiti con grande quantità di addetti a lavori di staff. I principî di efficienza si capovolgono: sistema just-in-time nell'afflusso dei materiali, scorte minime, flessibilità produttiva, lavoro di squadra con massima intercambiabilità di ruoli; e soprattutto un'attenzione estrema, quasi ossessiva, ai problemi di qualità del prodotto. La lezione giapponese consiste principalmente nel dimostrare che sul finire del XX secolo la competizione mondiale riguarda sempre più gli standard di qualità del prodotto, e che questa battaglia non si vince con l'arma della tecnologia bensì con quella del consenso e della partecipazione responsabile dei lavoratori.
Si pone il problema di quale sia il rapporto tra modello giapponese e taylorismo. La questione è controversa, perché si tratta di un rapporto ambivalente e complesso. Alcune prescrizioni del modello giapponese sembrano tratte direttamente dai testi di Taylor, in particolare il monito di eliminare le sequenze di lavoro inutili, razionalizzare e standardizzare il flusso produttivo, semplificare il lavoro (cfr. Shimizu, cit. in Dohse e altri, 1984). Questi passaggi diventano, nei discorsi degli avversari del modello giapponese, facili argomenti per sostenere che esso non è che il perfezionamento estremo del taylorismo.
Le cose però non sono così semplici. Negli scritti di Ohno (v., 1978) - il dirigente della Toyota inventore carismatico del nuovo modo di organizzare la produzione - si legge che egli non si propose mai di superare il taylorismo, bensì di "pensarlo al contrario". Negli anni cinquanta Ohno intuì che per ottenere il massimo rendimento bisognava attaccare il potere degli operai professionali non frantumando le loro mansioni, ma sovraccaricandoli di compiti. Per ottenere questo obiettivo Ohno sostituì al principio tayloristico dell'one best way quello della riduzione progressiva delle scorte. Mentre l'one best way impone con burocrazia esterna gli spazi, i tempi e i gesti del lavoro, la riduzione delle scorte ha luogo all'interno del processo produttivo e coinvolge le intelligenze degli operai nel gioco di eliminare ridondanze e tempi morti. In tal modo l'one best way non è più un sistema di procedure stabilite una volta per tutte, ma si trasforma nelle tappe di un miglioramento continuo (in Giappone kaizen). Inoltre procedere sulla strada del miglioramento non è più prerogativa di un ristretto gruppo di tecnici che poi lo impongono dall'alto per via gerarchica, ma diventa una modalità diffusa del lavoro operaio, un'occasione di coinvolgimento dal basso.
È indubbio che l'applicazione integrale del modello giapponese, almeno nella versione 'pura' della Toyota, provoca una notevole intensificazione del lavoro operaio, ma questa si accompagna a un aumento dei suoi contenuti intelligenti e responsabili. Di qui l'intrinseca ambiguità del modello e la disparità delle reazioni che esso provoca, guadagnandosi entusiasti fautori e altrettanti tenaci avversari. Al di là di questi aspetti, tuttavia, il modello giapponese sollecita a ripensare da cima a fondo il messaggio del taylorismo. "Pensare al contrario" il taylorismo significa mantenere e se possibile esaminare tutti gli elementi di razionalità e standardizzazione del processo produttivo, con un non trascurabile aumento di impegno fisico e mentale da parte dei lavoratori, sia operai che tecnici. Ma questo obiettivo va raggiunto non con metodi burocratico-autoritari, e nemmeno con la divisione esasperata delle mansioni come predicava Taylor. Il metodo deve invece essere quello del coinvolgimento dei lavoratori, continuamente sollecitati a suggerire innovazioni e miglioramenti. Anche se il lavoro esecutivo resta di routine, questo coinvolgimento conferisce al lavoro una tensione intellettuale che lo riscatta dalla monotonia e dal degrado psico-mentale.In modo più o meno integrale queste pratiche si vanno sempre più diffondendo anche nelle fabbriche occidentali, che le adattano al loro contesto sociale. P. Adler (v., 1993) parla a questo proposito di taylorismo democratico. È un'espressione che suona come un ossimoro, dato che per quasi un secolo il taylorismo è stato esperito come sinonimo di sfruttamento e imposizione autoritaria. Ma Adler sostiene che l'aspetto più vitale e duraturo del messaggio tayloriano è la necessità di standardizzare metodi e oggetti della produzione. Gli altri aspetti, che per tanti decenni sono stati i più visibili e sofferti, non sono per Adler la sostanza del taylorismo, ma solo un suo epifenomeno storico destinato a cadere.
La rassegna fin qui compiuta mostra quanto sia problematico definire l'essenza del taylorismo. Paradossalmente, quanto più esso si è diffuso nel mondo con la pretesa di insegnare un metodo unico e ottimale di produrre, tanto più ambivalenti sono apparsi i suoi significati, variegati gli aspetti indicati come essenziali, e imprevedibili gli adattamenti a cui è stato via via sottoposto. Questa varietà è sicuramente il segno della vitalità di una proposta che supera le contingenze storiche che videro la sua nascita tra XIX e XX secolo.
Va anche detto che il taylorismo non si è fermato alle fabbriche, ma in modo più o meno esplicito ha investito tutta l'attività amministrativa e dei servizi. Il processo di taylorizzazione di banche, uffici, catene commerciali, aeroporti, servizi ha comportato, tra le altre cose, la necessità di distinguere all'interno del modello weberiano di burocrazia tra una burocrazia professionale e una burocrazia meccanica (v. Mintzberg, 1983). Mentre la prima opera in base alla standardizzazione delle capacità dei dipendenti, la seconda opera in base alla standardizzazione dei processi lavorativi. Un esempio estremo di taylorismo applicato al mondo dei servizi è quello offerto dalle catene di ristorazione McDonald (v. Ritzer, 1992). Si tratta di un processo molto avanzato di standardizzazione sia del processo lavorativo, con la parcellizzazione spinta delle mansioni lavorative, che del prodotto commestibile: in altri termini, viene taylorizzato non soltanto il lavoro dei dipendenti, ma anche il trattamento dei clienti. La preparazione del cibo come catena di montaggio, l'efficienza misurata in tempo impiegato nel servire e nel consumare, la prevedibilità del cibo e del servizio fanno dire a Ritzer che la MacDonaldization è la fase estrema del processo di burocratizzazione. Essa per Ritzer non si limita alle catene alimentari, ma si va diffondendo in una gamma molto vasta di servizi fai-da-te, dalla diagnosi ambulatoriale alle cosiddette chiese elettroniche con cerimonie religiose pre-programmate. Il fatto che - negli stessi anni in cui nelle fabbriche il taylorismo tradizionale si attenua fino a dissolversi - una quantità di istituzioni di servizio conoscano invece processi crescenti di taylorizzazione spinta è la prova più efficace di quanto complesso, vitale e tutt'altro che esaurito sia il fenomeno che abbiamo qui analizzato. (V. anche Divisione del lavoro; Imprenditori; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Lavoro; Occupazione; Produttività; Società industriale; Tecnica e tecnologia).
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