Teatro
Il rapporto del cinema con il t. è stato presente fin dalle origini della storia del nuovo linguaggio. Il t. ispira la dimensione spettacolare dei dispositivi nati nel corso dell'Ottocento dagli esperimenti sul movimento (si pensi al prassinoscopio-teatro e al Théâtre optique di Émile Reynaud) così come ispirerà il perfezionato punto di arrivo di tali tentativi, ossia il Cinématographe dei fratelli Lumière. Alla tradizione teatrale infatti il cinema come spettacolo si appoggiò nei primi anni della sua storia, utilizzando le sale teatrali come luogo della propria 'assembleità', ricalcata su quella del t., fino all'apparire delle sale specializzate.Il processo che portò all'invenzione del cinema mise in gioco, fin dal 18° sec., la teatralità come forma antropologica della funzione spettatoriale. Ciò accadde, negli spettacoli di piazza dei 'mondi nuovi', nei 'panorami' e nei 'diorami', o nelle 'fantasmagorie' di Étienne-Gaspard Robert detto Robertson. Fu su questa dimensione antropologica stabilizzata che si innestarono le forme nuove della visione, debitrici di quel cambiamento del punto di vista che si stava realizzando in seguito all'accentuarsi della dimensione del viaggio (i cui risultati erano diffusi dai 'lanternisti' con i loro pantascopi), e grazie al progresso nei mezzi di trasporto, in particolare alle invenzioni della mongolfiera e del treno.Il cinema, poi, mutuò dal t. la sua spazialità nei primi teatri di posa, come il Black Maria di Thomas A. Edison e lo studio di Montreuil di Georges Méliès. E appare profondamente debitore del t. nelle storie e nelle forme della narrazione, come dimostrano non solo le performances funamboliche di Méliès, ma anche le scenette comiche presenti nell'opera di Louis Lumière accanto alle vedute di carattere documentaristico.
Osservando il cinema delle origini, perfino nelle realizzazioni della scuola di Brighton si coglie una sorta di dialogo tra le forme nuove della visione e la spettacolarità teatrale, un dialogo rimasto vivo nel corso dell'intera storia del cinema, che può essere riassunto lungo le due linee fondamentali costituite dai rapporti materiali e dai rapporti formali tra i due linguaggi. Linee che coesistono interagendo tra loro, e che vengono variamente accentuate nei saggi storiografici e critici: la prima orientando gli studiosi a impostare la questione dei rapporti tra cinema e t. in termini di prestiti, citazioni, sovrapposizioni, inclusioni, secondo un criterio topografico che considera i linguaggi come territori e che mira per lo più a una ricognizione dei casi in cui il t. è incluso nel cinema o il cinema nel t.; la seconda spingendo piuttosto a studi centrati sulle proprietà specifiche del significante cinematografico e di quello teatrale, in un confronto che investe le condizioni di setting dei due linguaggi e il loro funzionamento simbolico.
Dall'insieme degli studi emergono da un lato alcune modalità di inclusione del t. nel cinema ‒ oltre alle numerose inclusioni del cinema all'interno di spettacoli teatrali, dalle avanguardie in poi (si pensi, per es., al breve filmato Dnevnik Glumova, Il diario di Glumov, di Sergej M. Ejzenštejn, proiettato nell'ambito del suo spettacolo del 1923 Na vsjakogo mudreca dovol′no prostoty, Anche il più saggio sbaglia; o a Erwin Piscator e alle diverse forme di 'teatro totale') ‒, e dall'altro alcuni nuclei problematici di carattere più propriamente formale. Tra i due insiemi, quello di carattere materiale e quello formale, si instaura nella storia del cinema e nella storia della critica cinematografica, la più vasta gamma di relazioni, esplicite o implicite.
La messinscena del testo teatrale. - È il caso più frequente, e se ne hanno esempi nell'intero corso della storia del cinema, fin dai primissimi anni. Tra gli autori drammatici maggiormente rappresentati spicca il caso di W. Shakespeare, le cui opere non hanno mai smesso di essere 'adattate' (Amleto e Romeo e Giulietta in primo luogo), dando vita a una varietà di approcci, tra i quali sono da ricordare quelli filologicamente più radicali, dall'Hamlet (1948; Amleto) di Laurence Olivier a Much ado about nothing (1993; Molto rumore per nulla) di Kenneth Branagh, fino al William Shakespeare's Romeo + Juliet (1996; Romeo + Giulietta di William Shakespeare) di Baz Luhrmann. Film in cui il testo letterario non subisce alterazioni ma viene giocato in rapporto dialogico con le risorse del cinema, istituendo con queste un lavoro critico dal sapore saggistico (direzione, questa del saggio critico, evidente anche in Richard III, 1995, Riccardo III, di Richard Loncraine).
Per analogia si possono ricondurre a questa modalità anche i film che mettono in scena commedie musicali preesistenti, come per es. Porgy and Bess, girato in studio nel 1959 da Otto Preminger come adattamento della commedia musicale di G. Gershwin (1935, tratta da un romanzo del 1927), o West Side story, girato da Robert Wise e Jerome Robbins nel 1961 con esterni dal vero (la Sessantottesima e la Centodecima strada prima della loro demolizione), versione cinematografica di un musical (1957) di Arthur Laurents e Stephen Sondheim, con musiche di Leonard Bernstein, ispirato al Romeo e Giulietta di Shakespeare.
A questa modalità si possono ricondurre numerosi altri film dove l'aspetto saggistico appare viceversa attenuato e il confronto tra i linguaggi del tutto implicito, come, per es., Glengarry Glen Ross (1992; Americani) di James Foley, trasposizione cinematografica della pièce scritta da David Mamet, interamente giocata sulla performance di attori del livello di Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin, Ed Harris, Alan Arkin, Jonathan Pryce.
Film di ispirazione teatrale. - Queste realizzazioni aprono a una seconda modalità del rapporto cinema/teatro, dalle forti anche se implicite risonanze formali: quella in cui si osserva l'operare ‒ in film che non sono trasposizioni di testi teatrali ‒ di una forte ispirazione teatrale, sia nel lavoro degli attori sia nell'intreccio, perfettamente congegnato e giocato su percorsi psicologici che, per tradizione, sono propri del t., sia, ancora, nella scelta dello spazio della scena e dei ritmi del film. Gli esempi sono numerosi, soprattutto nel cinema hollywoodiano, e valgono a mostrare come questa modalità risulti tra le più rilevanti nel découpage classico. Film come The player (1992; I protagonisti) di Robert Altman, House of games (1987; La casa dei giochi) e Homicide (1991) di Mamet, fino a The usual suspects (1995; I soliti sospetti) di Bryan Singer, e tanti altri (per es. certe opere, dall'andamento musical, di Spike Lee) testimoniano degli scambi, usuali nel cinema americano, tra palcoscenico e set cinematografico: attori, sceneggiatori e talvolta registi si spostano agevolmente dall'uno all'altro. Il cinema mostra qui la sua inclinazione a mutuare le proprie modalità dal t., come dalle altre arti, in modo naturale, come un punto di forza. Cosa che accade anche quando si adottano, nella costruzione del testo filmico, i modi stilistici del musical, per lo più a scopo di distanziazione.
La messinscena della messinscena del testo teatrale. - Sul versante del saggio critico si delinea questa ulteriore modalità. Ne sono esempi Vanya on 42nd Street (1994; Vanya sulla 42a strada) di Louis Malle, e Looking for Richard (1996; Riccardo III ‒ Un uomo, un re) diretto da Al Pacino. Qui l'elemento metalinguistico mostra, almeno in linea di principio, la problematizzazione del rapporto tra i due linguaggi, con la cinepresa testimone delle prove in un lungo (nel caso del film di Malle addirittura illimitato) work in progress. Questa modalità è caratterizzata da una dichiarata coscienza della distinzione tra i due linguaggi, e tuttavia è a vantaggio, se così si può dire, del testo teatrale: la relazione tra cinema e t. non vi è indagata più di tanto, la vita del testo teatrale è il punto di consistenza dell'intera operazione. A questa modalità possono essere assimilati i film che raccontano nelle forme della finzione la messinscena di un'opera teatrale consacrata, come per es. In the bleak midwinter (1995; Nel bel mezzo di un gelido inverno) di Branagh, storia tragicomica della messinscena a basso costo dell'Amleto da parte di una compagnia di attori alla deriva.
I film che riflettono sulla messinscena teatrale come figura dell'atto creativo. - Una quarta modalità nell'ambito degli scambi tra i due linguaggi è costituita dai film che riflettono sulla messinscena teatrale come gioco dell'artificio, come figura di ogni finzione e, in definitiva, come figura dell'atto creativo. Ne sono esempi film come La carrozza d'oro (1952) di Jean Renoir, Le dernier métro (1980; L'ultimo metrò) di François Truffaut, La bande des quatre (1989; Una recita a quattro) di Jacques Rivette, o Bullets over Broadway (1994; Pallottole su Broadway) diretto da Woody Allen. In questi casi il testo teatrale che nella fiction si mette in scena ha un'importanza relativa o addirittura nasce in funzione del film, e il senso generale dell'operazione consiste in una riflessione sulla creatività, sulla finzione e sul loro rapporto con la vita. Il t. e il cinema funzionano soprattutto come indici dell'operatività artistica, per un discorso generale incentrato sul rapporto tra arte, finzione e vita.
Le forme di intersezione tra i due linguaggi analizzate fin qui pertengono soprattutto al cinema classico (con importanti distinguo per i film di Renoir e Rivette, Malle e Pacino). Accanto a esse è rintracciabile nella storia del cinema un'altra forma di 'teatralità', per la cui comprensione è necessario mettere in gioco direttamente gli elementi formali specifici dei due linguaggi e farli operare nell'interpretazione indipendentemente dalle forme dell'intertestualità.Punto di partenza del discorso è che le pratiche teatrali del Novecento e le loro teorie lasciano la consapevolezza che 'materia dell'espressione' dell'arte teatrale è in definitiva il corpo dell'attore. È in esso, nella sua relazione 'qui e ora' con lo spettatore, che risiede la specificità del teatro. 'Materia dell'espressione' del cinema è invece l'immagine in movimento su uno schermo.Tra i due linguaggi vi è dunque un'incompatibilità ontologica: da un lato la fisicità, dall'altro la virtualità. Con diverse importanti implicazioni, anche per quanto riguarda la posizione spettatoriale. Nel caso del t., infatti, questa è caratterizzata dal fatto che il sentimento di propriocettività non abbandona mai lo spettatore, che viene attivato in relazione al tempo e allo spazio reali della rappresentazione. Mentre invece, nel caso del cinema, la funzione spettatoriale è caratterizzata da una forte attenuazione della propriocettività e dal conseguente costituirsi, nella mente dello spettatore, di un mondo immaginario che si dà come realtà sostitutiva del reale fenomenico (si vedano al riguardo gli studi dei filmologi Jean Leirens, Albert Michotte van den Berck e Henri Wallon, poi ripresi, tra gli altri, da Edgar Morin, da Roland Barthes e da Christian Metz; v. inoltre dispositivo cinematografico).
Questa riflessione spingerebbe a considerare possibili, tra i due linguaggi, solo rapporti per così dire materiali, del tipo di quelli cui si è accennato in precedenza. Sennonché, come la storia del t. del Novecento mette in primo piano il corpo dell'attore, mediante un lavoro di contrapposizione al concetto classico di drammaturgia basato sulla letteratura teatrale e sulla parola, così anche la storia del cinema presenta al suo interno una linea antagonista a quella maggioritaria costituita dal ricorso programmatico alla virtualizzazione. È la linea della modernità cinematografica, caratterizzata da un lavoro di carattere metalinguistico (una riflessione sul cinema) svolto attraverso il recupero dell'elemento riproduttivo insito nel dispositivo cinematografico.Come la riscoperta della corporeità (ivi compresa la corporeità degli oggetti e della scena) ha costituito nel Novecento l'asse portante di una polemica contro il t. tradizionale, con la conseguenza di mettere in primo piano il 'qui e ora' della rappresentazione, così il 'moderno' nel cinema si contrappone al découpage classico disattivandone i meccanismi di identificazione spettatoriale e realizzando una forma particolare di hic et nunc del set cinematografico.
Riappropriandosi dell'elemento riproduzione insito nel dispositivo ed elevandolo a fattore estetico, il 'moderno' problematizza la concezione classica del tempo e dello spazio nel cinema. Del tempo, riproducendo il tempo reale (strategie del piano-sequenza, ricorso minimo alle ellissi temporali); dello spazio, riproducendo la materialità del referente in modo autonomo rispetto al racconto, vale a dire tentando di conservare quella materialità come un di più di senso rispetto al plot, fino a costruire il soggetto stesso del film sulla base di un'esplorazione dello spazio reale e degli oggetti (corpi) che vi si iscrivono (strategie della profondità di campo, cinema-verità, ogni forma di documentarismo, lezione di un certo Neorealismo e dello zavattiniano 'cinema del soggetto pensato durante'; adattamenti nella linea indicata da André Bazin per il lavoro compiuto da Robert Bresson sul testo di G. Bernanos, fino all'esplicito e creativo montaggio di materiali culturali realizzato da Jean-Luc Godard).
Modo dichiaratamente paradossale, si è detto, poiché i 'moderni' sono del tutto consapevoli della sfasatura e del fatto che essa è connaturata al cinema: solo, essi la provocano in un gesto estremo, che sonda il limite in cui l'immaginario si costruisce dal reale. Operazione che non può essere fatta se non spingendo in modo radicale, da un lato, nella direzione della riproduttività del dispositivo e dell'annullamento delle drammaturgie tradizionali, e dall'altro esasperando l'essere immagine dell'immagine proprio grazie a questa matericità che la depura completamente di scorie letterarie, impressioniste o espressioniste, e fa apparire il funzionamento nudo e crudo di quello che Metz ha chiamato il 'significante immaginario'.
Questo paradosso esplicito dei moderni induce a pensare la 'teatralità' del cinema in termini formali. Se pensiamo infatti a pratiche di regia 'moderne' come quelle di Renoir o di Jean Rouch, di Rivette, Jean Eustache, Philippe Garrel, Eric Rohmer, Bernardo Bertolucci, ci si accorge che la relazione al t., ben oltre le forme dell'inclusione territoriale che possono esservi presenti (nei già citati film diretti da Renoir e da Rivette, come si è detto, i protagonisti mettono in scena pièces teatrali), è qualcosa di più interno, attiene alla loro stessa pratica di regia, alla loro idea di cinema. In questi autori il set cinematografico diventa una sorta di palcoscenico teatrale, un palcoscenico sul quale le funzioni attoriale e spettatoriale si intersecano costantemente, e che perciò fa pensare alla scena grotowskiana o a quelle di Eugenio Barba o di Peter Brook, anche quando l'azione raccontata dal film si svolge, per così dire, en plein air. Su questa scena opera il gruppo costituito dal regista, dai suoi attori, dalle maestranze, e la cinepresa si fa personaggio tra i personaggi, occhio attivo che registra un vero e proprio happening, un'azione che ha un suo forte valore in sé stessa, al di là delle particolari esigenze della concatenazione narrativa. Il corpo dell'attore, il lavoro sul suo processo di identificazione con il personaggio, il senso prodotto dalla sottile sfasatura tra personaggio e attore (le forme, fino alle meno ortodosse, di cinema-verità), introducono nel film una matericità che la presa diretta del sonoro, l'inquadratura lunga, il rifiuto della frammentazione della recitazione, sanciscono in modo inequivocabile, e che legano intimamente questo cinema alle ragioni più profonde del t. del Novecento.
Avventura 'teatrale' del set che si avverte tutte le volte che la materia del profilmico e quella dell'espressione sono sottoposte simultaneamente (cioè l'una attraverso l'altra) a riflessione critica e creativa, in ossequio al principio che per i moderni discutere il reale e discutere l'occhio che lo percepisce sono operazioni interconnesse; l'una si svolge attraverso l'altra e viceversa.
Di qui l'appartenenza alla medesima famiglia di cineasti come Ozu Yasujirō e Roberto Rossellini, Marguerite Duras, Wim Wenders e Michelangelo Antonioni, Abbas Kiarostami e non pochi altri, fino a certi film di Martin Scorsese, Quentin Tarantino e Abel Ferrara, e fino al cinema di vagabondaggio di Robert Kramer e alle pratiche di Godard e di Chris Marker, che esibiscono il fatto che l'immagine sia lavoro costruttivo su materiali culturali. Esibizione che instaura il lavoro del set come un 'qui e ora' e perciò spinge il cinema a raggiungere il t. nell'autoconsapevolezza della sua corporeità.
Per una formalizzazione generale: la messa in gioco della 'drammaturgia''
Dietro le forme finora analizzate, il rapporto fra cinema e t. mette in gioco un livello generativo profondo del testo, il livello dell'intuizione drammaturgica che sta all'origine sia della scrittura di un dramma sia di quella di una sceneggiatura. Esso non soltanto può essere il medesimo nel dramma e nella sceneggiatura, ma appare anche comune agli altri linguaggi, e perciò non sembrerebbe possibile, in prima istanza, pensare per quel livello alcuna regola specifica. All'origine di un dramma o di una sceneggiatura possono esserci infatti motivi eterogenei, anche molto diversi tra loro: un fatto di cronaca, un fatto storico, un sogno, un concetto, la psicologia di un personaggio, l'abbozzo di un intreccio, l'osservazione della vita, un'immagine, reale o mentale che sia. Fatti eterogenei che si raccolgono in un'intuizione drammaturgica, vale a dire nell'intuizione di un loro possibile sviluppo relazionale, che mette in gioco concetti quali quelli di conflitto, movimento, divenire, elaborati per il cinema da S.M. Ejzenštejn in un suo articolo scritto in tedesco nel 1929, Filmform. Der dialektische Zugang zur Film Form (trad. it. in Il montaggio, 1992², pp. 19-52).
In questa eterogeneità, tuttavia, sono riconoscibili motivi che possono essere collegati di fatto a situazioni intuitivamente 'più teatrali' o 'più cinematografiche' o 'più letterarie' o 'più pittoriche' o 'più musicali'. Così, un fatto storico, di per sé, mette in gioco un forte elemento narrativo; e ci sono film il cui nucleo originario è l'intuizione di una sola immagine (certe forme di sperimentazione, ma non solo); come pure accade che l'osservazione della vita può essere una scenetta colta dal vivo, e il suo colore all'origine di una commedia teatrale o cinematografica.
Già dunque da questo livello intuitivo iniziale l'elemento della specificità non sembra escluso. E nel cinema, prima ancora della fase della regia, fortemente specifica, già la sceneggiatura carica di valenze specifiche il tema, in dipendenza di fattori quali la previsione della messinscena, e dunque la considerazione delle modalità tecnico-linguistiche del cinema, e la rilevanza dei generi cinematografici. La commedia cinematografica è più vicina al suo equivalente teatrale di quanto non lo sia un film sperimentale di Hans Richter, il quale è più vicino alla pittura; mentre è difficile trovare un equivalente teatrale del film di fantascienza con effetti speciali (la meraviglia della scena barocca, per es., rispondeva a condizioni percettive ed emozionali piuttosto diverse).
Il livello drammaturgico profondo, anche quando appare aspecifico, tende dunque molto presto a risolversi in una formalizzazione che avviene lungo una linea specifica di linguaggio. Nel cinema, l'immediatezza di questo passaggio è più o meno pronunciata a seconda dei casi. In alcuni, come per es. nelle sperimentazioni del periodo tedesco di Richter, sembra logico ipotizzare che questa specificità appartenga già all'intuizione originaria del film (un puro gioco spazio-temporale che sarebbe impensabile fuori del cinema); in altri (per es. la commedia) sembra invece che le mediazioni che portano dall'intuizione alla forma specifica siano più numerose e sicuramente rilevanti.
Se lo si affronta dal punto di vista dell'arte dell'attore, il discorso sul passaggio dal momento generativo profondo di un testo (dramma o sceneggiatura che sia) al momento della specificità di linguaggio rimette in gioco le differenze tra le pratiche di regia e riconduce all'impostazione formale del rapporto tra cinema e t. che si è vista nella distinzione tra classico e moderno.In linea generale può dirsi che il rapporto convenzione/natura, nell'attore cinematografico, appare ribaltato rispetto a quanto accade per l'attore teatrale (v. attore e attrice). Ciò dipende dal modo in cui le coordinate spazio-temporali e le condizioni percettive che definiscono la funzione spettatoriale dei due linguaggi agiscono sulla recitazione degli attori.
Al tempo reale del t. si contrappone il tempo narrativo del cinema; alla realtà fenomenica che lo spettatore esperisce a t. si contrappone l'immagine virtuale che lo spettatore vede sullo schermo cinematografico. Alle condizioni percettive del t., di per sé stesse 'naturali', corrisponde una fortissima convenzionalizzazione che parte dallo stesso spazio scenico e si estende allo stile di recitazione; mentre alle condizioni percettive fortemente irrealistiche e convenzionalizzate del cinema corrispondono il fuori campo di una realtà fenomenica illimitata e una recitazione tendente a 'fenomenizzare' la visione, annullando in tal modo la virtualità dell'immagine cinematografica. La forte fungibilità dell'attore rispetto ai due linguaggi, teatrale e cinematografico, che si trova nel cinema statunitense, è probabilmente dovuta alla lezione di Konstantin S. Stanislavskij assunta e diffusa dall'Actors Studio: lezione che tende appunto a rendere evanescente il confine tra convenzione e 'realtà' nella recitazione teatrale, riducendo, sotto questo profilo, le differenze tra i due linguaggi. Ed è per questo che si può parlare del cinema classico hollywoodiano come di quello in cui più accentuata appare l'identificazione tra t. e cinema, dal punto di vista sia dell'intuizione generativa dello spettacolo sia della sua specificazione di linguaggio. È come se una certa convenzione teatrale, che fa perno su una recitazione 'naturalistica', si estendesse alla scrittura del film.
Questa identificazione sembra tuttavia venir meno non appena si considerano gli sviluppi del metodo di Stanislavskij nel t. del corpo di Jerzy Grotowski o di Barba, e non appena, nel cinema, ci si allontana dal modello classico per prendere in considerazione le varie forme di sperimentazione cui il linguaggio cinematografico è stato sottoposto nel corso di un secolo di vita.
La figura dell'attore, che nel découpage classico realizza almeno in parte la sovrapponibilità dei due linguaggi, è la medesima che si pone, nelle forme più spinte di sperimentazione, come lo spartiacque decisivo tra i due. La 'quotidianità' della recitazione, il suo tendenziale annullarsi, nel cinema moderno, si oppone alla forte e particolarissima convenzionalità della performance, per es., di Ryszard Cieslak, che trascina lo spettatore in un percorso psicologico del tutto inscindibile dal suo essere spettatore di teatro.
Fuori del découpage classico (e del cinema delle avanguardie storiche) la zona di sovrapposizione va cercata piuttosto in quella sensazione di assistere a un 'evento' che caratterizza la condizione spettatoriale nell'un caso e nell'altro: nel cinema moderno come spinta a oltrepassare il limite della virtualità, nel t. del corpo come piena sensazione in atto. Nel caso di queste pratiche è dunque il carattere di work in progress, di happening, che si ripropone ancora una volta come il vero punto di contatto tra cinema e teatro.
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