Tecnica
Come grande esperienza della modernità il cinema è insieme una macchina tecnologica e industriale e un'arte di tipo assolutamente nuovo. La sua struttura non solo ingloba le leggi e i meccanismi dell'industria, ma è condizionata in modo essenziale dalla tecnologia. Il cinema è arte della tecnologia, perché quest'ultima non investe solo i modi realizzativi, ma è la condizione stessa della sua esistenza e della sua realizzabilità. Il termine tecnica infatti implica nella tradizione critica anche un'accezione relativa alle procedure e ai metodi di composizione artistica e si estende quindi ai modi della scrittura narrativa come a quelli della configurazione pittorica, della scultura come della poesia, tutte discipline tradizionalmente estranee a ogni aspetto te-cnologico. Nel cinema quindi si tratta di distinguere tra t. e tecnologia: da un lato la t. è l'insieme dei saperi operativi, delle procedure e dei metodi di realizzazione dei film; dall'altro la tecnologia riguarda le apparecchiature e gli apparati meccanici, ottici, chimici, elettronici e, ora, digitali, implicati nella realizzazione e nella proiezione dei film. I due orizzonti naturalmente si intrecciano e si sovrappongono, perché per un verso l'apparato tecnologico condiziona i procedimenti tecnici per la realizzazione del film, e per un altro verso le esigenze delle t. produttive sollecitano lo sviluppo di ricerche tecnologiche ulteriori per consentire trasformazioni, miglioramenti e innovazioni. La complessa organizzazione del processo di produzione cinematografica, infatti, prevede insieme una proliferazione delle t. e una dilatazione della rilevanza della t. e della tecnologia. Il cinema attiva una serie di saperi operativi, di capacità pragmatiche e formalizzanti, che cooperano alla realizzazione del film e sono al tempo stesso coordinate e finalizzate da un'altra t., la più importante e la più riconosciuta, che è la t. della regia. Quest'ultima non può non essere insieme molteplice e poliedrica, variamente articolata ed è una t. nuova perché è impegnata a creare una nuova forma (audio) visivo-dinamica, un'immagine-movimento nel tempo, e comporta il coordinamento complessivo e radicale degli apporti tecnici specifici delle varie componenti. Queste t. sono insieme saperi, modi operativi, metodi produttivi, capacità strutturanti, in cui giocano professionalità e creatività diverse. In taluni casi, come per es. in quello della sceneggiatura e della musica prevalgono conoscenze interne ai linguaggi coinvolti. In altri invece le t. implicano una conoscenza diretta delle tecnologie impiegate nel cinema, affermando quindi un metodo produttivo del tutto particolare. Questa rilevanza della t. nel processo di produzione del film implica come conseguenza particolare e obbligatoria l'organizzazione del lavoro. La complessità del percorso necessario alla realizzazione del film infatti richiede la programmazione precisa e articolata delle fasi e delle funzioni specifiche. Le t. attivate si configurano come sistema e sono caratterizzate dal fatto di essere strutture che devono diventare un'altra struttura, cioè macchine destinate a produrre un'altra macchina, un'altra forma. Sono quindi t. finalizzate alla produzione di altro che realizzanoper mediazione e devono quindi rispettare i metodi interni e le finalità esterne, in un rapporto molto stretto di interazione sistematica.
Le prime esperienze di cinema si presentarono in maniere differenti negli anni immediatamente posteriori al 1895. La tecnologia del cinema consentì infatti modi di comunicazione diversi, che riflettevano le varie possibilità di impiego delle sue strutture: dal cinema come veduta ottica in movimento al cinema scientifico, dal cinema vaudeville al cinema documentario. L'affermarsi del cinema come macchina di produzione di un immaginario narrativo e spettacolare si consolidò nella seconda metà del primo decennio. Fu un'opzione in cui non erano le tecnologie e le t. a svolgere il ruolo essenziale, ma le risposte del pubblico e quindi le ragioni economiche. L'affermarsi del film come macchina per raccontare storie implicò il progressivo e lento perfezionamento di t. realizzative finalizzate alla rappresentazione. L'apparato cinematografico divenne una struttura produttiva che disegnava uno spazio funzionale rapidamente destinato alla tridimensionalità e disponeva figure antropomorfiche dinamiche dentro questo spazio. I sistemi di illuminazione, le t. di ripresa, le scale dei piani, i modi di recitazione vennero gradualmente rielaborati per garantirne la funzionalità alla produzione di rappresentazioni verosimili. Poi il perfezionamento delle t. e delle tecnologie determinò il formarsi di nuovi modi di realizzazione del film, in cui le articolazioni te-cnico-linguistiche delinearono progressivamente le forme della messa in scena. Le macchine utilizzate all'inizio furono il Cinématographe Lumière, il cinetoscopio di Thomas A. Edison, e le camere rielaborate da Robert W. Paul a partire dal progetto di Edison. Al di là dei modi della riproduzione del mondo, la mobilizzazione del punto di vista permise una variazione del visibile e un superamento dell'ottica percettiva del teatro. La pluralità dei punti di vista arricchì così le modalità del vedere e consentì un'articolazione di immagini spaziali diverse nel tempo. La mobilizzazione della macchina da presa creò infatti una trasformazione dinamica del vedere e produsse una visione mobile di corpi e di oggetti in movimento delimitando al tempo stesso la dislocazione dello spettatore nello spazio e la sua integrazione alla scena immaginaria. E mentre la panoramica permise l'allargamento e la modificazione della posizione di spazio percepita, la carrellata si configurò come un'appropriazione dello spazio che insieme avvicinava oggetti e corpi e dislocava lo spettatore stesso dentro lo spazio. B. Salt (1983) rammenta come nel 1897 fu inventata una testa mobile per il cavalletto che consentiva di effettuare panoramiche, anche se prima del 1904 erano poche quelle presenti nel cinema di finzione: solo dopo quell'anno cominciò a essere usata regolarmente per rivelare lo spazio e seguire il movimento del personaggio. Dal 1912 il carrello fu impiegato frequentemente e poté assumere due caratteri differenti: da un lato era un movimento a seguire i personaggi, dall'altro un modo di appropriazione dello spazio, una penetrazione guidata nell'universo profilmico. Dalle riprese di Auguste Lumière da un treno in corsa a Gerusalemme agli esperimenti della scuola di Brighton, ai trucchi per la mobilizzazione del visibile fantastico di Georges Méliès ai movimenti di macchina funzionali al racconto filmico di Edwin Stanton Porter, sino all'invenzione del carrello, il cinema predispose t. di ripresa che non solo erano funzionali al racconto e allo spettacolo, ma modificavano lo statuto e la logica del cinema. Un'innovazione tecnica divenne di per sé un elemento di attrazione, una figura di spettacolo che coinvolgeva e stupiva il pubblico.
Lo sviluppo della t. accompagnò l'evoluzione delle forme e dei modi della messa in scena in un rapporto interattivo in cui ora era la t. a influenzare la regia, ora erano le esigenze realizzative a stimolare la ricerca tecnologica. L'evoluzione delle t. di illuminazione per es. divenne essenziale per la configurazione dell'immagine, profondamente condizionata dai codici luministici. Fino al 1900-1902 la luce era quasi esclusivamente naturale. Edison cominciò a usare la luce artificiale dal 1900, Charles Pathé dal 1902. Dal 1903 l'uso della luce artificiale fu visibile nei film Biograph, dal 1905 in quelli Gaumont. Effetti di luce vennero potenziati con l'uso di specchi che riflettevano il sole. Dal 1907 si nascosero le fonti di luce o le si mascherarono fingendo che provenissero da una lampada in campo. Nello stesso anno sulla West Coast si cominciò a integrare la luce naturale con lampade ad arco, mentre in Italia fu più lento il ricorso alla luce artificiale e in Scandinavia, al contrario, oltre alle lampade ad arco si usarono corpi illuminanti con tubi al vapore di mercurio. Mentre negli Stati Uniti la Aristo si affermava come la ditta specializzata nella produzione di strumenti per l'illuminazione, dal 1912 i metodi di illuminazione divennero via via omogenei. Tra il 1907 e il 1913 si impose un uso espressivo della luce, mentre all'inizio era finalizzato a isolare i personaggi importanti. Dal 1914 nel cinema europeo la luce cominciò a essere usata per creare un'atmosfera e una tonalità particolari del visibile. I sistemi e le t. di illuminazione cambiarono in base agli effetti che si volevano raggiungere, secondo una logica interattiva che continuò a segnare nel Novecento i rapporti tra innovazione tecnologica e modificazione dello stile di messa in scena.
Gli anni Venti segnarono una svolta radicale nell'evoluzione della messa in scena e del linguaggio cinematografico, che perfezionò la scala dei piani, le dinamiche dei punti di vista (v. sguardo), le angolazioni di ripresa, le t. di montaggio e soprattutto i raccordi tra le inquadrature. Nuove macchine da presa perfezionate invasero il mercato: la Debrie Parvo, la Bell and Howell, la Akeley e la Mitchell si diffusero negli studi consentendo la produzione di immagini sempre più definite. In quegli stessi anni Venti in Europa le enormi potenzialità della t. cinematografica vennero sistematicamente sperimentate e sviluppate per arricchire le possibilità espressive e formali del film. La mancanza del sonoro labiale sincrono anziché essere una limitazione fu uno stimolo forte a elaborare t. comunicative più complesse e sofisticate. Negli Stati Uniti il cinema veniva realizzato all'interno di studi neri, che impedivano l'entrata della luce naturale. L'illuminazione era prodotta da luci ad arco, il cui raggio veniva rafforzato da un grande specchio spesso rotondo, collocato dietro il proiettore stesso. In Europa si mescolavano invece fonti naturali e artificiali, e la luce era usata in funzione espressiva con risultati di straordinaria intensità nelle esperienze del cinema tedesco espressionista (v. Espressionismo) e non, grazie anche ai contributi di grandi direttori della fotografia come Fritz Arno Wagner e Karl Freund, Carl Hoffmann e Willy Hameister, Guido Seeber e Günther Rittau. I contrasti tra luce e ombra, quelli tra penombra e buio creavano un'immagine assolutamente nuova, basata su un inedito dinamismo ricco di una forza rappresentativa e di una tensione figurativa di straordinario impatto, e si rivelavano dotati di una rilevanza significante, carica di valenze concettuali, tale da diventare una configurazione eidetica, un'immagine-idea che esprime il conflitto tra bene e male. Il progetto di comunicare idee attraverso le sole immagini filmiche segnò d'altronde in vari modi il cinema degli anni Venti, sviluppandosi attraverso alcune fondamentali sperimentazioni tecniche e proponendo modelli diversi che vanno dall'eidoplastica dell'Espressionismo e del caligarismo in particolare, alla figurazione eidetico-geometrica di Fritz Lang, e, in tutt'altro contesto, al montaggio intellettuale di Sergej M. Ejzen-štejn. Si tratta di percorsi e stili di messa in scena che seppero utilizzare le t. del cinema per allargare i confini della visione e della comunicazione. L'uso della sovrimpressione, per es., che era già diffuso fin dai primi anni del cinema, potenziò e sviluppò ulteriormente le capacità evocative del film, allargando le forme di comunicazione e aprendo ad altri orizzonti dell'esistente, a volte anche alle immagini fantasmatiche. Il carattere essenziale di questo nuovo visibile fu la metamorfosi, la trasmutabilità di un'immagine nell'altra, possibile da ottenere anche con la dissolvenza incrociata. Non furono solo le scenografie del caligarismo a ridisegnare i profili delle cose: furono anche, e con ulteriore efficacia visiva, gli obiettivi, le lenti, i filtri che potevano alterare e deformare il profilmico, annebbiare e deformare la visione, mostrare il volto informe del mondo. La t. del montaggio intensivo creò inoltre altri tipi di effetti, costruendo ora passaggi nella fluidità, scivolamenti del vedere, ora contrasti forti, contrapposizioni di alterità, forme antagonistiche tali da delineare nuovi percorsi visivi, nuove configurazioni a contrasto. La grande ricchezza delle t. del cinema diede vita a forme visivo-dinamiche assolutamente nuove, anche, e soprattutto, lavorando sulla dimensione antropomorfica.
Il passaggio al sonoro (v. colonna sonora e suono) si realizzò soltanto nella seconda metà degli anni Venti, anche se fin dal 1914 la Biograph aveva predisposto attrezzature tecniche in grado di effettuare la sonorizzazione del film. D'altronde fin dai primi anni del secolo erano stati tentati esperimenti di cinema sonoro sia negli Stati Uniti sia in Francia e persino in Italia. Nel 1926 la Bell Telephon e la Western Electric proposero alle case di produzione hol-lywoodiane il brevetto Vitaphone, che solo la Warner Bros. acquistò e sfruttò, dapprima con Don Juan (1926; Don Giovanni e Lucrezia Borgia) e poi con The jazz singer (1927; Il cantante di jazz), entrambi diretti da Alan Crosland. E mentre il primo presentava soltanto un accompagnamento musicale, il secondo proponeva anche alcune brevi sequenze dialogate, segnando di fatto l'avvento del cinema sonoro parlato. Risale al 1929 il primo film presentato come "parlato al 100%" Lights of New York di Bryan Foy, ma la produzione hollywoodiana era ancora divisa tra muto e sonoro. E fu molto forte l'opposizione dei cineasti e degli intellettuali, che si schierarono apertamente contro il cinema parlato (per tutto il dibattito v. muto e sonoro e sincronismo e asincronismo). La risposta del pubblico comunque fu ovviamente più importante del dibattito intellettuale e la più radicale trasformazione della storia del cinema si realizzò abbastanza rapidamente. Il passaggio al cinema sonoro non costituì in ogni modo un avanzamento della t. e delle possibilità espressive del film, ma al contrario una semplificazione dei procedimenti di messa in scena e un sostanziale appiattimento del cinema sul mondo fenomenico dell'intersoggettività. Tutta la ricchezza della sperimentazione visiva elaborata dal cinema muto maturo venne abbandonata in favore di una presunta naturalità dell'immagine, che divenne registrazione audiovisiva dei fenomeni, ripresa del set come scatola sonora. Il ruolo assunto progressivamente dal dialogo nei film determinò alcune modificazioni strutturali delle t. di messa in scena, da un lato imponendo una temporalità più rigida legata alle battute del dialogo e agli enunciati verbali, dall'altro ampliando la funzione del campo/controcampo, come t. di organizzazione del visibile nella scena dialogata. Queste procedure insieme ridussero la libertà di elaborazione del ritmo delle immagini e standardizzarono le esperienze di messa in scena, condizionate anche dalle esigenze dello star system di valorizzare il ruolo e il volto degli attori protagonisti. Alcuni autori europei cercarono di sviluppare forme audiovisive in cui il sonoro giocasse un ruolo rilevante anche sul piano della produzione del senso e dell'invenzione delle forme. René Clair e soprattutto Lang costruirono sequenze in cui il dialogo articola lo sviluppo delle immagini e apre una complessa partita con l'orizzonte visivo. Ma queste esperienze di allargamento delle possibilità tecnico-formali del sonoro restarono a lungo penalizzate e subordinate alle esigenze di una più banale rappresentazione sonora. Fu infatti la funzionalità narrativa e spettacolare a guidare la riorganizzazione della messa in scena definendo progressivamente un modello standard, caratterizzato dall'occultamento della t. e dall'affermazione di una serie di finalità e di procedure esattamente definite: la composizione invisibile, la verosimiglianza dello spazio in cui la posizione dei personaggi è sempre determinata, il découpage in funzione drammatica e psicologica, il montaggio analitico.
Le nuove macchine da presa predisposte per il cinema sonoro, spesso integrate da una protezione insonorizzante (blimp), assicuravano una resa audiovisiva e una perfezione di ripresa: la Mitchell NC o BNC, con blimp, divenne la macchina da presa per eccellenza del periodo classico, accanto alla Bell and Howell, alla Goldwyn BNC, alla Fox, mentre la Debrie continuò a essere molto diffusa in Europa nella sua versione sonora.I sistemi di illuminazione furono perfezionati per riflettere le esigenze narrative e rappresentative. La key light era la fonte di luce primaria, che definiva l'illuminazione dominante e il disegno delle ombre. La fill light laterale attenuava le ombre, ne perfezionava la configurazione, mentre la back light, collocata in alto alle spalle, stagliava gli attori sullo sfondo, distaccandoli dall'ambiente e delineandone l'integrità corporea. Il perfezionamento della resa visiva presentava un duplice carattere strutturale. L'illuminazione risultava funzionale allo sviluppo narrativo e ne rifletteva le esigenze di rappresentazione e le tonalità emozionali, ma era in ogni modo vicina ai codici luministici propri del genere, che potevano essere variati in misura ridotta, ma non stravolti: una commedia sofisticata non avrebbe mai potuto avere l'illuminazione contrastata del film noir. La funzionalità doveva prevalere sull'espressività, orientandone le possibilità e le configurazioni, pur senza cancellarla.
Gli anni Trenta videro il primo affermarsi del colore nel cinema, anche se immagini colorate attraversano tutta la storia del cinema muto. Fin dal 1896, infatti, vennero compiuti esperimenti di colorazione effettuata a mano direttamente sulla pellicola, e il cinema muto utilizzò t. diverse di produzione del colore. Le t. più usate erano la colorazione à pochoir, fatta con piccoli stampi che permettevano la distribuzione di più colori sul fotogramma, la tintura e il viraggio realizzati con l'immersione della pellicola in liquidi adeguatamente predisposti. La tintura implicava la distribuzione di un colore omogeneo sul fotogramma, mentre il viraggio, per selezione chimica, si depositava solo sui settori impressionati, cioè grigi e neri, della pellicola. L'impiego coordinato di tintura e viraggio consentiva la produzione di immagini con due colori. L'uso del colore aveva sia funzione espressiva, sia realistico-descrittiva. Al di là di queste t. di colorazione realizzate direttamente sul positivo, si sviluppò una ricerca tecnologica volta alla realizzazione di pellicole capaci di impressionare direttamente il colore: e se numerosi procedimenti brevettati non ebbero particolare successo, gli esperimenti compiuti con il sistema Technicolor e sviluppati a partire dal 1915, si imposero progressivamente. Produzioni di immagini a colori erano già state effettuate a metà degli anni Venti per segmenti di The black pirate (1926; Il pirata nero) di Albert Parker e di Ben Hur (1926) di Fred Niblo e prepararono l'affermazione degli anni Trenta. Walt Disney utilizzò il Techicolor a partire dal 1932 per il cartone animato Flowers and trees della serie Silly symphonies. Risale al 1935 Becky Sharp di Rouben Mamoulian, primo lungometraggio girato dalla camera three strips con il colore concepito in chiave drammatica. Gone with the wind (1939; Via col vento) di King Vidor costituisce il momento di piena affermazione spettacolare del colore, che raggiunse una definizione più precisa contribuendo a creare il nuovo modello cromatico-rappresentativo del cinema classico. La diffusione del cinema a colori fu in ogni modo molto lenta, sia negli Stati Uniti sia in Europa, e difficile fu anche la valorizzazione formale ed espressiva del colore, generalmente trattato come una componente del raddoppiamento del visibile. L'affermazione della sua espressività si sviluppò in esperienze anomale che puntavano a realizzare nuove configurazioni visive grazie al cromatismo. Nel segmento finale della seconda parte di Ivan Groznyi (terminata nel 1946, ma presentata al pubblico solo nel 1958, nota in Italia con il titolo La congiura dei boiardi) Ejzenštejn sperimentò il colore come un elemento essenziale nella costruzione di una nuova forma visiva, programmandone la scelta con la consapevolezza di dover creare un cromatismo dinamico, e sulla base di tre criteri: innanzitutto la pertinenza ambientale; quindi una 'generalizzazione emozionale', completamente autonoma rispetto agli oggetti di riferimento; infine una strutturazione definitiva della 'linea coloristico-drammaturgica', nella prospettiva di una configurazione cromatico-dinamica. Il superamento di una concezione passiva e mimetica del colore è rimasta tuttavia limitata a poche esperienze creative. Michelangelo Antonioni nel suo cinema ha elaborato due differenti avventure di reinvenzione del colore, che restano in ogni modo esperienze di grande rilievo. In Deserto rosso (1964) il colore è alterato, ridefinito in rapporto alla visione soggettiva della protagonista nevrotica. Il cromatismo è costruito per sottolineare la perdita di realtà, è variato, deformato in conformità con il suo difficile rapporto con il mondo: corrispondenze simboliche, analogie, plasticità segnano una concezione del colore assolutamente nuova. In Il mistero di Oberwald (1980), girato integralmente in alta definizione, il regista ha potuto sviluppare illuminazioni e cromatismi, senza nessun debito referenziale, attribuendo al colore una funzione emozionale. In One from the heart (1982; Un sogno lungo un giorno) Francis Ford Coppola usa ancora l'elettronica per creare una visione artificiale e fantasmagorica in cui i colori da un lato illustrano la ricchezza luministica della metropoli e dall'altro esprimono le situazioni psicologiche dei personaggi. In The last emperor (1987; L'ultimo imperatore) Bernardo Bertolucci, con la collaborazione creativa di Vittorio Storaro, costruisce ogni epoca della vita di Pu-Yi secondo una dominante cromatica, riscrivendo il visibile in modo del tutto nuovo.
Le trasformazioni del modo di messa in scena classico avvennero grazie all'elaborazione di differenti progetti, legati parimenti a una concezione diversa del cinema e all'uso di strumentazioni tecniche nuove e particolarmente avanzate. Da un lato in Europa Jean Renoir con La règle du jeu (1939; La regola del gioco) volle andare verso un cinema in grado di rafforzare la capacità riproduttiva del mezzo e affermare la consapevolezza linguistica della messa in scena, attraverso l'uso intensivo di long takes, di carrellate e di effetti di profondità di campo e di profondità di campo laterale. Dall'altro negli Stati Uniti con Citizen Kane (1941; Quarto potere) Orson Welles realizzò, in una forma più complessa, una trasformazione radicale del modo di fare cinema, smontando il modello classico in prospettive tecnico-formali molteplici. Per un verso sviluppò il piano-sequenza e il long take, realizzando riprese in continuità che restituiscono la durata e l'ambiguità degli eventi che lo spettatore deve interpretare. Per un altro verso utilizzò t. di ripresa e di montaggio quanto mai elaborate, che vanno dal montaggio intensivo a forte valenza eidetica dell'inizio alla forte formalizzazione dei sintagmi a graffa tali da sintetizzare eventi e cambiamenti della vita dei personaggi, dai movimenti di macchina complessi e variamente esibiti che sottolineano le possibilità espressive del cinema e della macchina da presa, ad angolazioni anomale di ripresa che ora diventano un segno esplicito dei rapporti psicologici tra personaggi, ora assumono un'ottica dal basso che potrebbe esprimere una sorta di punto di vista della morte nell'orizzonte del film. Ma gli effetti visivi di grande suggestione garantiti dalla straordinaria fotografia di Gregg Toland riflettono anche una sperimentazione tecnica particolare che si avvalse innanzitutto dell'uso di pellicole pancromatiche Kodak Super XX da 100 ASA di indubbia sensibilità. Toland utilizzò lenti trattate che gli permisero un controllo della luce, e obiettivi grandangolari a focale corta, di 24 e 28 mm, ma anche di 35 mm. La possibilità di tenere a fuoco personaggi dislocati a distanza diversa dalla macchina da presa modificò le modalità di rappresentazione del visibile permettendo una scrittura più ambigua e meno analitica. D'altronde anche Alfred Hitchcock nel 1948 poté girare Rope (Nodo alla gola o Cocktail per un cadavere), formato da otto inquadrature di 10 minuti l'una, in cui gli stacchi sono mascherati da una ripresa su una superficie opaca. Hitchcock poté realizzare una performance formale così sofisticata grazie al coordinamento della mobilità della macchina da presa con la mobilità delle scenografie e la funzionalizzazione del sistema di illuminazione. Lo sviluppo ulteriore del progetto del cinema moderno appare legato anche all'invenzione di macchine da presa più leggere, facilmente utilizzabili per riprese in esterno, e fu favorito dalla produzione di pellicole di ulteriore sensibilità, che raggiunsero negli anni Sessanta gli 800 ASA. Accanto alla Cameflex si affermarono le Arriflex, estremamente maneggevoli, le Eclair, la nuova Mitchell Mark II, la Bolex-Paillard e vari tipi di Panavision, più adatte a riprese tradizionali, ma capaci di garantire immagini di grande definizione. Nella trasformazione del modo di fare cinema un ruolo importante fu giocato in Europa da Jean Rouch e dai suoi film etnografici, ma anche narrativi, girati con apparecchiature leggere e funzionali. Rouch utilizzava macchine da presa a 16 mm, gonfiando poi l'immagine a 35 mm, e registrava il sonoro in presa diretta grazie all'uso del registratore Nagra, reinventando il cinema etnografico, anticipando e poi partecipando alla rivoluzione della Nouvelle vague. Con À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) Jean-Luc Godard esaltò tutte le possibilità delle nuove tecnologie. Il film è girato con una Cameflex molto maneggevole retta da Raoul Coutard garantendo una perfetta fissità, anche quando la macchina è tenuta a spalla nei travellings più elaborati. Le lunghe riprese sugli Champs Elysées o nell'agenzia di viaggio vennero effettuate incollando bobine da 18 m di Ilford HPS sino a ottenere un rullo di 120 m. Coutard utilizzò poi piccoli spot per ottenere una luce sobria, neutra, quasi da acquario, privata di ogni connotazione drammatica o espressiva, utilizzando una t. molto simile a quella del reportage e agli antipodi della fotografia elaborata degli studi, rinunciando all'uso del cavalletto sia per la macchina da presa sia per gli spot, ossia i riflettori che proiettano il fascio di luce in una zona molto ristretta. Mentre per l'illuminazione Coutard si limitava ad attaccare qualche photofloods al soffitto o a cambiare le lampadine del sistema di illuminazione esistente nei luoghi dove venivano effettuate le riprese. La rivoluzione di Godard e di Coutard fu radicale: in Le petit soldat (1960) Coutard usò la t. di fare rimbalzare sul soffitto la luce di una fila di lampadine legate alla parte superiore delle porte e delle finestre. Realizzò poi connessioni tra spazi attraverso un veloce movimento di macchina, che separa e unisce gli orizzonti dell'azione. Con la messa in scena di Godard e con le invenzioni di Coutard, si realizzò quindi una trasformazione radicale del modo di fare cinema e la caméra-stylo, teorizzata da Alexandre Astruc, divenne realtà. Parallelamente all'affermarsi del cinema moderno (v. modernità), alcune ulteriori innovazioni tecniche cambiarono il rapporto con lo spazio. L'invenzione dello zoom permise una modificazione molto più agevole della scala dei piani, creando una nuova mobilità della visione e una possibilità ulteriore della macchina da presa di avvicinarsi e di allontanarsi dagli oggetti ripresi. Obiettivi per effetti zoom erano già stati utilizzati negli Stati Uniti nel 1926-27 (Salt 1983), e in seguito nei primi anni Quaranta lo zoom venne usato saltuariamente soprattutto con macchine da presa a 16 mm. Nel 1954 la Zoomar Corp. introdusse una lente zoom per macchine da presa a 5 mm. In Francia fu prodotto un obiettivo Pan-Cinor che andava da 38,5 a 150 mm. Un uso sistematico dello zoom si sviluppò con la diffusione degli obiettivi Angénieux, che permettevano il passaggio da 12 a 120 mm. In film come Die Mädchen Rosemarie (1958; La ragazza Rosemarie) di Rolf Thiele, Era notte a Roma (1960) e Viva l'Italia! (1961), entrambi di Roberto Rossellini viene usato in maniera diversa lo zoom, a volte in correlazione con movimenti di macchina diversificati. Dal 1963 l'Angénieux produsse un obiettivo che consentiva il passaggio da 25 a 250 mm, con un massimo di apertura di 3,2, mentre dal 1964 anche la Panavision produsse zoom con una buona flessibilità, da 50 a 150 mm. Usato con camere Mitchell e Auricon, ma anche con Eclair e Cameflex lo zoom è stato invero considerato da molti autori uno strumento di eccessiva semplificazione tecnica, tale da permettere uno stile di facile spettacolarità; malgrado ciò è stato utilizzato non solo nel cinema di genere, ma anche da vari autori come John Schlesinger, Luchino Visconti, Claude Lelouch.
Più felici sono state invece le ricerche effettuate da registi come Stanley Kubrick e Robert Altman, che hanno usato le sperimentazioni tecnologiche per costruire nuove forme audiovisive. Kubrick sperimentò t. diverse di illuminazione con effetti di straordinaria suggestione. In Barry Lyndon (1975), realizzato con la fotografia di John Alcott, gli interni vennero illuminati con luce naturale grazie a teli translucidi sulle finestre, che permettevano di cogliere anche il venir meno della luce. Le sequenze a lume di candela risultano girate con un obiettivo speciale Zeiss, usato in precedenza per riprese astronomiche, con una pellicola Eastman a 200 ASA, senza integrazioni di luce artificiale, scelte che garantiscono una luminosità assolutamente particolare. Le immagini presentano una definizione non elevata con forti effetti arancio e rosa, determinati dalla luce a bassa temperatura. Il fuoco veniva cambiato in relazione alla recitazione degli attori ed era controllato grazie a un sistema video. Inoltre Kubrick usò lenti dall'ampio spettro, da 24 a 480 mm, soprattutto in esterni. Questo complesso lavoro di messa in scena crea una forma fluida e dinamica perseguita e realizzata anche da Altman, che ha fatto ricorso a tecnologie innovative con grande capacità di sperimentazione. In film come M*A*S*H (1970; M.A.S.H.), Nashville (1975), A wedding (1978; Un matrimonio), The player (1992; I protagonisti) Altman coordina movimenti della macchina da presa, uso dello zoom, in avvicinamento e in allontanamento, recitazione in movimento degli attori, per creare una nuova fluidità dinamica. Tale creazione di un mondo insieme più naturale e più artificiale, risulta ulteriormente potenziato dall'uso della louma e della steadycam (v. movimenti di macchina). L'uso di t. di controllo remoto per realizzare nuovi movimenti di macchina più complessi ed esattamente programmati è concretizzato grazie alla louma, che permette una grandissima mobilità nello spazio e un controllo a distanza della ripresa e del visibile con sistemi digitali. La steadycam, invece, inventata da Garrett Brown, è direttamente sorretta dall'operatore, quasi attaccata al suo corpo, ed è costituita da un braccio idraulico che consente movimenti di macchina impensabili con il carrello e il dolly. La mobilità del braccio, gli spostamenti spaziali sono controllati attraverso uno strumento pneumatico, che assorbe tutti i sobbalzi e le oscillazioni, permettendo dinamismi singolari. I lunghi travellings nei corridoi dell'Overlock Hotel in The shining (1980; Shining) di Kubrick o gli inseguimenti frenetici in Strange days (1995) di Kathryn Bigelow sono risolti con apparecchiature sofisticate e trasformano il cinema in una macchina capace di appropriarsi in qualsiasi modo di qualsiasi spazio. Questa potenza delle attrezzature di ripresa ha consentito un nuovo rapporto con il mondo visibile e ha permesso un'appropriazione totale del mondo, facendo del cinema una macchina in grado non solo di assorbire e di rivelare il cosmo, ma anche di creare una nuova 'cosmofania' meccanica. L'allargamento infine dei modi della ripresa e della produzione di immagini ha creato una nuova immagine-mondo, ampliando il visibile sino all'orizzonte dell'immaginato. Anche l'evoluzione delle tecnologie del sonoro (v. suono) ha puntato a determinare un'immersione profonda dello spettatore nel mondo fluido evocato dal film. La diffusione del suono garantita, per es., dal Dolby Stereo ha permesso un radicamento dello spettatore nello spazio-tempo del film e l'intensificazione sistematica di tutte le reazioni emotive in una sorta di immersione totale nelle sensazioni.
Oltre la moltiplicazione e il perfezionamento della visione esiste solo la sperimentazione estrema del falso che caratterizza gli effetti speciali. E il cinema degli effetti speciali si è affermato progressivamente non solo come nuova immagine del mondo, ma come orizzonte intensivo dell'iconosfera planetaria, modo di subordinazione dell'umano alla macchina simulativa. La realizzazione di tali effetti ha seguito negli ultimi decenni un'accelerazione di invenzioni e di opzioni sempre più sofisticate e ha rappresentato il punto di arrivo di una sperimentazione tecnologica che si è sviluppata durante tutta la storia del cinema. Naturalmente il cinema ha conosciuto, nel corso degli anni, molteplici tipologie di effetti speciali legate sia a caratteri strutturali diversi sia a precise procedure tecnologiche differenziate. Al di là del trucco dell'attore, che a volte permette configurazioni visive eccezionali, per quanto riguarda gli effetti speciali veri e propri è possibile distinguere diverse tipologie che possono essere raggruppate in tre grandi categorie tecniche: a) gli effetti speciali realizzati nel profilmico;b) gli effetti speciali realizzati integrando alterazioni del profilmico con procedure ottiche;c) gli effetti speciali ottici e/o digitali.
Indipendentemente dalle tecnologie impiegate, è comunque indubbia l'importanza ormai acquisita dagli effetti speciali, il fatto che si siano rivelati un vettore fortemente rappresentativo di un nuovo modo di fare film, un procedimento esemplare di una concezione iperspettacolare del cinema che punta alla produzione di processi emozionali surdeterminati. L'immagine realizzata con tali effetti è quindi subentrata all'immagine analogico-referenziale, ha disegnato un mondo di fantasmagoria e di artificialità, dilatando l'orizzonte del possibile sino alla dimensione dell'impossibile, cosicché dopo la modernità, e accanto al suo perdurare, il cinema appare ormai dominato proprio dall'universo degli effetti speciali che per molti versi hanno sancito la fine del vecchio cinema.
Oltre alle Bibliografie delle singole, specifiche voci cui si rimanda, v. in particolare: B. Salt, Film style and technology: history and analysis, London 1983, 1992²; V. Tosi, Il linguaggio delle immagini in movimento: teoria e tecnica del cinema e della televisione nella ricerca scientifica, nella didattica e nella divulgazione, Roma 1986; V. Tosi, Breve storia tecnologica del cinema, Roma 2001.