Terrorismo
di Luciano Pellicani
Terrorismo
sommario: 1. Il terrorismo globale. 2. Fondamentalismo e terrorismo. 3. Una guerra di civiltà. 4. La cultura dei diritti di fronte al terrorismo. □ Bibliografia.
1. Il terrorismo globale
Con lo spettacolare attacco al World Trade Center di New York è apparso sulla scena un nuovo soggetto politico: il terrorismo globale. E, con esso, un nuovo tipo di guerra: la guerra asimmetrica. Sino all'11 settembre 2001, la guerra era stata, di regola, un duello esistenziale fra Stati, ognuno dei quali cercava, attraverso l'uso sistematico della forza militare, di imporre la propria volontà al nemico. Ma nella guerra iniziata con la distruzione delle Twin Towers il nemico non è uno Stato; è un attore sui generis - invisibile, diffuso ed elusivo - che non usa la forza militare, di cui non è in possesso, bensì la violenza terroristica. E si tratta di una violenza che non conosce frontiere, né norme giuridiche o morali da rispettare. Per definizione sregolata, la violenza del terrorismo globale ha un preciso scopo psicologico: creare un clima di paura generalizzata. Essa si inserisce in un contesto - la moderna civiltà industriale - nel quale la gente, proprio a motivo del sistema di sicurezze di cui gode, vive di paure. Infatti, come ha scritto il generale Fabio Mini, "la fruizione della ricchezza ha portato la paura della povertà, la fruizione dell'integrità ha portato la paura della promiscuità, la fruizione della natura come bene di consumo ha portato la paura dell'inquinamento, la fruizione della privacy ha portato la paura dell'intrusione, la fruizione della logica e della razionalità ha portato la paura della religione e della fede, la fruizione dell'unità etnica e nazionale ha portato alla paura dell'immigrazione, della diversità e dell'integrazione, la fruizione della pace ha portato la paura della guerra" (v. Rapetto e Di Nunzio, 2001, p. 317). A queste paure, si è aggiunta - a partire, per l'appunto, dall'11 settembre - la paura della violenza terroristica, che non minaccia solo i cittadini americani, ma tutti i popoli d'Occidente e persino quelli della dār al-Islām, rei di aver abbandonato di fatto la 'via di Allah' e, dunque, ancor più colpevoli degli stessi 'infedeli'. Nell'universo etico-religioso dell'Islam, infatti, l'apostasia è un peccato inescusabile, che va punito con la morte.
Due sono le ragioni che rendono particolarmente temibile la dichiarazione di guerra lanciata da al-Qā᾿ida. La prima è che i suoi attivisti sono dei 'veri credenti' che aspirano al martirio, dunque pronti a morire per la causa con la quale si sono identificati anima e corpo - il che rende affatto impotente la tradizionale azione di contrasto delle forze incaricate di garantire la sicurezza dei cittadini, basata sulla deterrenza e sul calcolo razionale dei costi-benefici. La seconda ragione è che i terroristi-suicidi possono, in un futuro più o meno prossimo, entrare in possesso delle armi di sterminio di massa che la civiltà tecnologica ha reso disponibili: le armi atomiche, le armi chimiche (le mostarde solforose, il VX, il sarin, la clorina, il cianuro idrogenato), le armi biologiche (il botulino, la peste, il vaiolo), nonché le 'armi prossime venture', come sono state battezzate le infezioni generate da virus o altri agenti di recente scoperta, dei quali il più noto è quello della 'mucca pazza'. Si tratta di uno spettro di possibili minacce a dir poco inquietante. È stato calcolato, per fare solo un esempio, che mezzo chilo di tossina botulinica è in grado di sterminare un miliardo di persone: un'ipotesi agghiacciante, a fronte della quale la strage dell'11 settembre potrebbe quasi sembrare un episodio insignificante. Ma, in realtà, tale non è stato. Si può senz'altro dire che, con il trauma causato dall'attacco al World Trade Center, è iniziata l'era del terrorismo globale, senza frontiere e senza regole; ed è iniziata altresì la politica americana delle guerre preventive, tesa a eliminare i regimi politici sospettati di sostenere, finanziariamente e logisticamente, le sette estremistiche di matrice islamica nate con il dichiarato scopo di condurre la guerra santa contro l'Occidente.
Vero è che il terrorismo non rappresenta una novità. Numerosi, in effetti, sono stati, lungo tutto il XX secolo, i gruppi nazionalisti radicali che hanno fatto ricorso alla violenza terroristica per realizzare i loro obiettivi. E non rappresenta neanche una novità la figura del terrorista-suicida. Nello Sri Lanka da tre decenni operano le Tigri Tamil, che vantano il più alto tasso di missioni suicide del mondo e che hanno fatto del 'culto del suicidio' una sorta di religione nazionale. E in Palestina, a partire dagli anni ottanta, gli attentati suicidi organizzati da gruppi terroristici - Ḥamās, Ǧihād, al-Aqṣā - si sono susseguiti con impressionante regolarità. Estremisti per quel che riguarda i mezzi adoperati, tali gruppi lo sono anche per quel che riguarda il fine ultimo che si propongono: annientare lo Stato di Israele, 'nemico di Dio' e reo di aver usurpato il territorio su cui si è illegittimamente insediato, costringendo gli Arabi a vivere nella umiliazione permanente.
Ma, con lo spettacolare attentato dell'11 settembre, è emersa un'assoluta novità storica: 'l'Internazionale del terrorismo'. Tale, infatti, risulta essere al-Qā᾿ida, sia per i suoi obiettivi che per la sua organizzazione e per le armi che minaccia di usare. L'obiettivo dei gruppi terroristici tradizionali è sempre stato - e continua a essere - molto specifico: la conquista dell'indipendenza nazionale, costringendo il nemico ad abbandonare il territorio conteso. Di ben altre dimensioni sono gli scopi che si propongono i militanti di al-Qā᾿ida: non solo la liberazione dei Luoghi Sacri dell'Islam (La Mecca, Medina e Gerusalemme) dalla impura presenza degli infedeli, ma anche - anzi, soprattutto - l'annientamento, attraverso lo scatenamento su scala planetaria della guerra santa, del Grande Satana, identificato con gli Stati Uniti, massima potenza dell'empia civiltà occidentale, materialistica e senza Dio.
L'internazionalizzazione del terrorismo islamista è iniziata a partire dagli anni ottanta. In Egitto come in Algeria, in Palestina come nell'Arabia Saudita, sono sorti gruppi di ghāzī - guerrieri della fede - animati da un doppio proposito: purificare la dār al-Islām, espellendo gli infedeli e punendo gli apostati, e realizzare con la spada l'islamizzazione del mondo intero. Fra questi gruppi, fermamente determinati a trasformare la Terra in uno smisurato campo di battaglia, quello fondato da Osama bin Laden (Usāma Ibn Lādin) si è conquistato la fama di essere il centro di pianificazione della guerra globale contro gli Stati Uniti a partire dalla fatwā emessa il 23 febbraio 1998. In questa fatwā, colui che la stampa occidentale ha battezzato lo 'sceicco del terrore', dopo aver denunciato la politica imperialista di Washington quale "chiara dichiarazione di guerra contro Dio, e il suo Messaggero, e i musulmani", lanciò una vera e propria chiamata alle armi, così formulata: "Noi, con l'aiuto di Dio, chiediamo a ciascun musulmano che crede in Dio e desidera le Sue ricompense di obbedire all'ordine di Dio di uccidere gli americani e confiscare il loro denaro, dovunque e in ogni occasione in cui si trovi. Chiediamo anche agli ᾿ulamā', ai dirigenti, ai giovani e ai soldati musulmani di lanciarsi contro le sataniche truppe statunitensi e contro i sostenitori del Diavolo che si alleano con loro" (v. Introvigne, 2001, p. 109).
Concepita come braccio armato del Fronte islamico mondiale per la lotta contro i crociati e gli ebrei, al-Qā᾿ida ha reclutato i suoi attivisti soprattutto fra i muǧāhidīn che combatterono l'Armata Rossa, costringendola ad abbandonare l'Afghanistan. Al vertice della sua struttura, rigidamente gerarchica, si trova lo stesso Osama bin Laden, coadiuvato da un consiglio (maǧlis al-shūrā) e da quattro comitati di coordinamento delle unità operative, costituite dalle cellule, insediate in ben 4 continenti. Composte da cinque o sei elementi - accuratamente selezionati, intensamente indottrinati e 'professionalizzati' grazie a un severo dressage -, le cellule non sono collegate fra di loro, di modo che la scoperta di una di esse non permette di risalire alle altre. Inoltre, le cellule possono contare sui 'dormienti', ossia su quei militanti che, avendo condotto per anni e anni una vita 'normale', sono assolutamente insospettabili e pronti a uscire dal loro letargo non appena il maǧlis lo ordini. Nelle cellule - microcosmi morali sapientemente mimetizzati e pertanto difficilmente individuabili - ogni elemento ha una specifica competenza. Il selezionatore, che ha la funzione di garantire il reclutamento dei nuovi militanti; l'addetto alla propaganda, che diffonde i messaggi, i documenti ideologici e i manuali operativi utilizzando Internet; il finanziatore, che ha il compito di garantire un costante flusso di risorse materiali; l'ispettore, che sorveglia la condotta dei militanti; infine, l'emiro, che, in nome e per conto del maǧlis, esercita un potere assoluto. Le cellule operative, dirette dal nucleo direttivo, costituiscono il primo cerchio della struttura organizzativa di al-Qā᾿ida. Esiste anche un secondo cerchio, formato dalle altre organizzazioni islamiste con le quali Osama bin Laden ha stabilito rapporti di collaborazione e mutua assistenza; e un terzo cerchio, una sorta di riserva tattica, composta dai reduci delle 'guerre sante' non attivi, ma pronti a mobilitarsi. Infine, molti indizi inducono a sospettare che esista un quarto cerchio, comprendente quegli Stati del mondo islamico che, con i loro servizi segreti, aiutano, finanziariamente e logisticamente, lo 'sceicco del terrore' e i suoi seguaci.
Del tutto logico, data la natura degli obiettivi che al-Qā᾿ida persegue in nome di Allah, che la vita dei militanti sia regolata in modo rigoroso dai principî religiosi e che lo spazio riservato al privato sia ridotto ai minimi termini. Il militante è un individuo che ha rotto ogni legame col mondo che lo circonda - empio e corrotto - e che si è trasformato in un monaco-terrorista, totalmente dedicato alla sacro-santa missione di combattere gli infedeli e gli apostati ovunque essi si trovino. Non solo non ha paura della morte, ma considera il sacrificio della propria vita un dovere religioso o, addirittura, un privilegio: immolandosi, diventa uno shahīd, un 'martire della fede', un testimone della Verità divina, rivelata dal Profeta. Il che costituisce una potente gratificazione psicologica e alimenta l'orgoglio ascetico, tipico dei gruppi settari che, animati dall'ideale della purezza, si considerano i portatori di un messaggio di salvezza.
2. Fondamentalismo e terrorismo
L'esplosione del terrorismo globale è stata la manifestazione estrema di un fenomeno sviluppatosi negli ultimi decenni in quasi tutti i paesi del mondo islamico: il fondamentalismo. Si tratta di un fenomeno assai complesso, nel cui seno operano, talvolta in competizione fra di loro, numerose sette con una specifica identità ideologica e organizzativa; le quali, tuttavia, hanno un fine in comune, ossia la restaurazione della piena vigenza normativa della sharī'a (la Legge Sacra, eterna e immutabile) e la purificazione del mondo, contaminato dalle idee e dai (dis)valori dell'Occidente. L'idea-forza che anima le sette fondamentaliste è che esistano due partiti - e solo due - coinvolti in una guerra permanente: il partito di Dio ( Ḥizb-Allāh) e il partito di Satana ( Ḥizb al-Shayṭān). E si tratta di una guerra mortale, che dovrà concludersi con la vittoria, totale e definitiva, del primo sul secondo; dunque con il trionfo planetario della Vera Religione, destinata a regnare su tutta quanta l'umanità.
Per intendere la natura della sfida di fronte alla quale oggi si trova l'Occidente, è essenziale fare chiarezza sulla Weltanschauung contenuta nel Sacro Libro al quale si richiamano i militanti della guerra santa.
Il messaggio profetico di Maometto - ultima e definitiva Rivelazione - si basa su una visione del mondo nettamente dicotomica e bellicista. Infatti, il Rasūl Allāh (il messaggero di Dio) non si limita a dividere il mondo in due territori - la dār al-Islām e la dār al-kufr, vale a dire la Casa della Vera Religione e la Casa della miscredenza; afferma a più riprese che fra questi due territori non vi può essere pace fino a quando l'Islam non avrà trionfato, fino a quando, cioè, il territorio della miscredenza non sarà stato conquistato dai 'veri credenti'. Talché la dār al-kufr è anche la dār al-ḥarb, la Casa della guerra. E si tratta di una guerra santa, di una guerra voluta da Dio. Come tale, essa è una "missione di Verità" tesa a "distruggere la falsità" nel mondo intero, poiché - come recita un celebre ḥadīth - "Dio ha rimesso la Terra ai musulmani".
La guerra santa, dunque, contrariamente a quello che certi studiosi - preoccupati di non essere accusati di etnocentrismo - si sono impegnati a dimostrare contro l'evidenza della lettera e dello spirito del Corano, fu concepita da Maometto come un dovere religioso. Tant'è che un ḥadīth dice che "il ǧihād è il monachesimo dell'Islam" e che coloro che combattono sulla "via di Dio" - i ghāzī - sono destinati a entrare immediatamente nel Paradiso. E non si tratta solo di una guerra difensiva, bensì di una guerra offensiva, di una guerra imperialista, che cesserà solo quando la "religione della Verità" trionferà su tutto il pianeta Terra, poiché il suo fine ultimo è quello di costituire una sola comunità organizzata sotto un'autorità carismatica, unica interprete e custode esclusiva della sharī'a: la umma islamiyya. Sul punto, le parole del Corano sono inequivocabili: "Quando il tuo Signore disse, per rivelazione, agli angeli: io sarò con voi, rendete saldi quelli che credono, io getterò il terrore nel cuore di quelli che non credono, e voi colpiteli sulle nuche (decapitateli) e recidete loro tutte le estremità delle dita. Questo dovranno soffrire, perché essi si sono opposti a Dio, e chiunque si oppone a Dio e al suo apostolo, sappia che Dio sarà violento nel punirlo. Questo è il vostro castigo, verrà detto loro, subitelo, perché per i miscredenti è destinato il tormento del fuoco" (Il Corano, VIII, 12, 13, 14). "Uccidete i politeisti, ovunque li troviate, prendeteli prigionieri, assediateli e opponetevi ad essi […]. Combatteteli dunque; Dio li punirà, per mano vostra" (Il Corano, IX, 5 e 14).
Alla luce di queste parole, la chiamata alle armi contro il mondo occidentale, miscredente ed empio, lanciata dall'Internazionale del terrore non può essere considerata uno stravolgimento del messaggio di Maometto. È vero che la lettura fondamentalista del Corano è apertamente e vivacemente contestata all'interno della comunità islamica. Ed è altresì vero che i movimenti fondamentalisti non esitano a usare il terrorismo persino contro i governi della dār al-Islām, rei di assecondare i disegni imperialistici del Grande Satana. Sta di fatto che nel Corano si trova teorizzata a chiare lettere la guerra santa, il ǧihād contro la miscredenza, sino al trionfo planetario della Vera Religione (Dīn ḥanīf). In aggiunta - a dispetto del fatto che l'Islam condanna apertamente il suicidio - esiste un precedente storico altamente significativo: la setta di assassini suicidi fondata dal Vecchio della Montagna che, fra il XII e il XIII secolo, terrorizzò il Medio Oriente. Un precedente al quale, sia pure indirettamente, si è richiamato nell'aprile del 2002 lo sceicco Muḥammad Sayyid Tantāwī, il quale, dalla cattedra della prestigiosa Università di al-Azhar del Cairo, ha dichiarato che le "operazioni di martirio" sono la "forma più alta delle operazioni di ǧihād" e che esse devono essere considerate un "comandamento islamico".
Quale che sia il tasso di ortodossia del fondamentalismo islamista, esso ha creato il terreno di coltura del terrorismo globale, poiché ha riattivato quegli elementi escatologici e millenaristici del messaggio coranico che gli ᾿ulamā' - interpreti e custodi della sunna - avevano tenuto in uno stato di ibernazione. Insistendo sulla divisione del mondo in due partiti - il partito di Dio e il partito di Satana - implacabilmente nemici l'uno dell'altro e destinati a scontrarsi in una battaglia di significato cosmico-storico, esso ha giustificato la violenza terroristica. Di più: l'ha elevata al rango di imperativo categorico e di missione religiosa. Tant'è che, in quella che è considerata la principale fonte ispiratrice del fondamentalismo islamista - All'ombra del Corano di Sayyid Quṭb, massimo teorico dell'associazione al-Ikhwān al-muslimūn (i Fratelli Musulmani), fondata nel 1928 dall'egiziano Ḥasan al-Bannā' - si legge: "L'Islam è chiamato per necessità al combattimento, se vuole assumere il comando e la guida del genere umano […]. Essere musulmano significa essere un guerrierio (muǧāhid), una comunità di guerrieri permanentemente in armi, pronti a mettersi a disposizione della volontà di Dio, ogniqualvolta Dio lo richieda, poiché Egli solo è il vero capo in battaglia. Beninteso l'Islam aspira alla pace, ma a causa delle aggressioni che esso subisce si trova costretto a scendere sul terreno della guerra e a utilizzare la forza militare […]. Il ricorso alla guerra è innanzitutto un esercizio morale e spirituale per i credenti che si sono impegnati: ci si mette alla prova per far emergere virtù morali solide; la guerra ci libera dalle passioni vane di questo mondo e aiuta a cambiare interiormente l'animo umano preparandolo alla morte eventuale in battaglia. Il ǧihād, infine, favorisce la riforma morale della comunità umana intera, la quale, attraverso il sacrificio dei combattenti, attesta che l'Islam è chiamato a comandare sull'intera umanità […]. I combattenti che cadono in battaglia sono martiri della fede: essi, infatti, sono sostenitori di Dio, non perché hanno dato prova sul campo di battaglia della fedeltà a Dio sacrificando la loro vita, ma perché hanno messo in pratica la Legge di Dio; il combattimento per Dio (ǧihād) non ha altro scopo che Dio stesso: imporre l'ordine divino nel mondo terreno […]. Perciò i martiri della fede non muoiono veramente; essi continuano a vivere, cambiando solo forma di vita, come Gesù, figlio di Maria, che non è morto definitivamente sulla croce" (v. Pace e Guolo, 1998, pp. 136-137).
Naturalmente, una siffatta concezione del musulmano come guerriero di Dio, pronto a sacrificare la propria vita per il trionfo della fede, postula la presenza di un nemico assoluto. E, in effetti, nella costruzione ideologica dei fondamentalisti gli Stati Uniti sono visti come la 'capitale del demonio', che usa il suo potere mediatico per diffondere gli immorali costumi della società laica. Essa non solo è una 'società senza Dio', materialista nelle sue più intime fibre; è anche il Grande Satana, che aspira al dominio del mondo. La sua espansione planetaria significa il dilagare della miscredenza e, quindi, la regressione dell'umanità allo stato di oscurità ed empietà precedente la Rivelazione coranica. Contro l'Occidente, che, avendo voltato le spalle a Dio, ha imboccato la 'via del nulla', il fondamentalismo islamico lancia una chiamata rivoluzionaria alle armi avente come obiettivo la distruzione dei valori e delle istituzioni della civiltà occidentale, percepita - e stigmatizzata - come una forma di vita collettiva dominata da 'forze sataniche'. È appena il caso di sottolineare che la demonizzazione dei nemici dell'Islam - degli Stati Uniti e dei loro alleati, ivi compresi i governi 'apostati' che, pur dichiarandosi musulmani, di fatto hanno imboccato la via della degradante imitazione delle forme di vita dell'empia società senza Dio - non solo legittima l'uso terroristico della violenza, ma lo sacralizza, trasformandolo in un comandamento divino.
3. Una guerra di civiltà
Quando, nel 1995, fu dato alle stampe Lo scontro delle civiltà, non pochi intellettuali 'politicamente corretti' accusarono il suo autore, Samuel Huntington, di essere un ideologo attivo della guerra preventiva contro l'Islam. Eppure Huntington non aveva fatto altro che prendere atto che, con l'instaurazione della Repubblica islamica in Iran (1979), era apparsa sulla scena una forza spirituale - il fondamentalismo islamico - intenzionata sia a purificare la dār al-Islām dalla contaminante presenza di valori e di costumi occidentali, sia a condurre una lotta di dimensioni planetarie per liberare i popoli da quella che l'ayatollah Khomeini aveva definito la 'prigione del Grande Satana'. Una forza spirituale che, già negli anni ottanta, aveva preso a travalicare i confini dell'Iran, generando una galassia di sette e di movimenti determinati a condurre la guerra santa contro la materialistica 'società senza Dio'. Ciò risulta con la massima chiarezza dalle dichiarazioni fatte dall'algerino 'Abbās al-Madanī, leader del Fronte Nazionale di Liberazione: "La crisi morale è la conseguenza logica e inevitabile del laicismo e del materialismo. Questo paradosso istituito e imposto all'umanità dall'Occidente cieco e zoppicante, è stato all'origine della profonda rottura che si è prodotta fra rivelazione e ragione. In effetti l'Occidente ha rinnegato la rivelazione, venerato la ragione e adorato la materia […]. È l'Islam che ci ha liberati da Roma. L'Islam è oggi la nostra bussola, per liberarci dai tentativi intellettuali occidentali: l'Islam rimane il nostro scudo nella grande mischia della lotta tra le civiltà […]. Non ci si può impegnare in una lotta di queste dimensioni senza civiltà di riferimento" (v. Fouad Allam, 1999, p. 284). Ancora più radicale la dichiarazione fatta dallo sceicco 'Umar Bakrī Muḥammad, il fondatore dello Ḥizb al-Taḥrīr (Partito di liberazione islamico) con base a Londra: "Il popolo americano deve rivedere la propria politica estera o si vedrà rispedire a casa i propri figli in bara […]. L'esistenza di Israele è un crimine. Israele deve essere eliminata […]. Il nostro dovere è di lavorare per instaurare uno Stato islamico in ogni parte del mondo, anche in Gran Bretagna" (v. Dershowitz, 2002; tr. it., p. 214).
Le ragioni profonde dell'insorgenza dei movimenti islamisti e della loro determinazione a condurre con tutti i mezzi - incluso il terrorismo - la guerra contro l'Occidente diventano trasparenti alla luce della teoria dell'aggressione culturale elaborata da Arnold Toynbee nell'ottavo volume del suo opus magnum, A study of history. Tale teoria sottolinea che la potenza radioattiva della civiltà moderna è tale da sottoporre le altre civiltà a una sorta di bombardamento culturale che non può non alterare le loro tradizionali forme di vita e generare una dolorosa crisi di identità. Ciò è stata espresso come meglio non si potrebbe in un articolo apparso nel 1930 sull'autorevole rivista egiziana "al-Fath": "Considerato nel suo insieme, il territorio dominato dal colonialismo è piccolo; un giorno verrà in cui il possessore del suolo si troverà in condizione di recuperare ciò che gli è stato rubato. Ma che gli invasori possano colonizzare il cuore degli uomini e delle donne, ecco il danno ultimo, la catastrofe finale. Il pericolo reale ci viene dalla guerra spirituale che l'Europa conduce metodicamente contro l'anima degli Orientali in generale e dei musulmani in particolare, con l'aiuto delle sue opere di filosofia, dei suoi romanzi, del suo teatro, dei suoi film e della sua lingua. Il fine di questa azione concertata è di natura psicologica: strappare i popoli orientali dal loro passato" (cit. in von Grunebaum, 1969, p. 138.
E, in effetti, tutto è accaduto come era stato previsto da "al-Fath": il colonialismo politico-militare è uscito di scena, ma non è affatto uscito di scena il colonialismo culturale, che costituisce una permanente minaccia per l'anima dei popolo orientali. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che la moderna civiltà occidentale ha una oggettiva vocazione imperialistica: grazie ai formidabili mezzi di comunicazione - primi fra tutti, la televisione e Internet - è in grado di dilagare ovunque, abbattendo tutte le frontiere e penetrando profondamente nella vita quotidiana del suo 'proletariato esterno'. Accade così che i popoli della dār al-Islām si trovano alle prese con una cultura allogena che tende a sommergerli con il suo impressionante flusso di tecniche, di merci, di messaggi, di immagini, di simboli e di valori. Il risultato è che si espande a macchia d'olio quello che è il nucleo spirituale della modernità: la secolarizzazione, vale a dire il 'disincanto del mondo', il quale, per la fede, è un veleno letale. È per questo che i musulmani si sentono 'assediati' da una potenza che, animata da una smisurata volontà di espansione, attacca il cuore della loro identità culturale, che è costituito dalla religione. Una religione che è una concezione totale, a vocazione universale, che coinvolge tutti gli aspetti della vita e che non tollera rivali di sorta. Essa è Kalām Allāh - la voce di Dio - e, come tale, esige che ogni cosa fisica e morale sia sottoposta alla sua giurisdizione. La sovranità è cosa esclusiva di Dio, talché chi abbandona la legge di Dio per un'altra fatta dagli uomini commette un inescusabile atto di idolatria, che va punito nel modo più severo.
È appena il caso di sottolineare che, in una tale concezione della Rivelazione, l'idea di una distinzione fra la sfera del sacro e la sfera del profano è inconcepibile; e altrettanto inconcepibile è la separazione fra la religione e la politica, che rappresenta uno dei tratti costitutivi della civiltà moderna. Lo Stato, per i musulmani ortodossi, non può non essere uno Stato confessionale, uno Stato che si fa carico di far rispettare la parola di Dio e che utilizza tutte le sue formidabili risorse per combattere l'idolatria ovunque essa si annidi. E, dal momento che, a motivo dell'aggressione imperialistica del Grande Satana, l'idolatria dilaga non solo nel mondo occidentale, ma anche nella dār al-Islām, i 'veri credenti' hanno una missione di purificazione spirituale e di rigenerazione morale che investe praticamente il mondo intero, assoggettato alle 'forze sataniche' che operano per allontanare gli uomini dalla 'via di Allāh'. Non sorprende, pertanto, che il fondamentalismo islamico sia stato definito da Alexandre Del Valle (v., 2002) il "terzo totalitarismo". In effetti, il suo obiettivo è lo stesso che animò la rivoluzione comunista e la rivoluzione nazionalsocialista: l'annientamento, su scala planetaria, dei valori e delle istituzioni della Città secolare. La quale non può non essere percepita dai fondamentalisti come una presenza al tempo stesso invadente e contaminante. Tanto più che essi sono animati dalla certezza che la loro religione - le parole sono di Sayyid Quṭb - "è davvero un annuncio universale di liberazione dalla schiavitù imposta da altri uomini e dalle proprie passioni, la proclamazione che solo a Dio appartiene la sovranità e la signoria del mondo" e che essa è "una dichiarazione di guerra totale contro ogni potere umano, in qualsiasi forma si presenti e qualunque ordinamento adotti, un conflitto senza quartiere aperto ovunque siano degli uomini ad arrogarsi il potere, in una forma o nell'altra e dove quindi si pratichi in qualche modo l'idolatria […]. L'Islam proclama che l'autorità usurpata a Dio deve essere restituita a Lui e gli usurpatori, cioè coloro che governano in base a leggi che stabiliscono essi stessi facendosi signori di altri e riducendoli in schiavitù, devono essere scacciati. In breve, significa distruggere il regno dell'uomo per edificare il Regno di Dio sulla Terra" (v. Branca, 1997, p. 198).
Certamente, gli attivisti del ǧihād non sono che una esigua minoranza; ma, altrettanto certamente, essi esprimono e interpretano il diffuso risentimento che anima i musulmani nei confronti dell'Occidente. E questo accade perché la loro re-azione non è una mera manifestazione di fanatismo, bensì la violenta risposta di un mondo che, investito dalle radiazioni culturali della 'imperialistica' civiltà moderna, avverte che è in gioco la sua stessa identità spirituale e che, dopo aver proclamato la superiorità morale delle sue forme di vita, imperativamente fissate dalla Rivelazione coranica, si chiude a riccio nella sharī'a, in un disperato tentativo di impedire che la sua anima venga conquistata dall'ultimo avatāra del paganesimo: la Città secolare.
4. La cultura dei diritti di fronte al terrorismo globale
A motivo della possibilità di fare ricorso ad armi di distruzione di massa, il terrorismo globale può creare una situazione di emergenza permanente con prospettive catastrofiche, per fronteggiare la quale la cultura giuridica delle democrazie liberali rischia di subire una profonda alterazione. È altamente probabile, infatti, che le misure di emergenza che i governi saranno indotti a prendere per contrastare efficacemente l'Internazionale del terrore porteranno alla limitazione delle libertà e dei diritti dei cittadini, e non saranno limitazioni temporanee, poiché in una guerra asimmetrica, quale è quella scatenata da al-Qā'ida, non esiste né un 'recapito di ritorno', né una data a partire dalla quale sia possibile dire che essa è terminata. Del resto, la tentazione a far ricorso a misure eccezionali per garantire la sicurezza collettiva si è prontamente manifestata all'indomani dell'attentato dell'11 settembre. Il ministro statunitense della Giustizia, John Ashcroft, ha annunciato una politica di 'detenzione aggressiva', in base alla quale qualsiasi individuo sospettato di connessione con i terroristi sarà arrestato anche per trasgressioni di lieve entità e detenuto a tempo indeterminato. Dal canto suo, il presidente George W. Bush ha chiesto che i non-cittadini statunitensi sospettati di legami con il terrorismo siano processati dai tribunali militari. Richiesta quanto mai grave, dal momento che uno dei criteri adottati dalla giustizia militare è che tutti coloro che, per un motivo o per un altro, sono sospettati di nutrire in segreto l'intenzione di causare danni agli Stati Uniti possono essere radunati e detenuti in un campo di concentramento. Un altro criterio tipico della giustizia militare è che possono essere prese in considerazione prove ottenute con perquisizioni illegali e persino confessioni estorte facendo ricorso a pressioni fisiche e mentali particolarmente severe. Il che significa che, nelle mani delle autorità militari, i principî etici e giuridici che stanno alla base della moderna civiltà dei diritti e delle libertà corrono grave pericolo e possono persino essere sistematicamente calpestati. In particolare, corre grave pericolo la tassativa proibizione dell'uso della tortura: una proibizione solennemente sancita dalla Convenzione di Ginevra e sottoscritta da tutti gli Stati liberal-democratici e, dunque, avente valore di legge.
Gli Stati Uniti hanno, sì, adottato la Convenzione, ma con una precisa riserva: che essa è da considerarsi vincolante solo nella misura in cui sia coerente con l'ottavo emendamento. In aggiunta, alcune sentenze emesse da corti americane hanno dichiarato che l'ottavo emendamento non proibisce la tortura, qualora essa sia impiegata per salvare vite umane. Esiste, pertanto, la possibilità che alle agenzie deputate a garantire la sicurezza nazionale sia conferito il potere discrezionale di usare metodi e mezzi estremi. Un potere, peraltro, già riconosciuto di fatto, se è vero - come è vero - che da anni la CIA 'restituisce' i terroristi catturati a Stati amici, nei quali la tortura è ampiamente utilizzata, mentre la Casa Bianca segue la politica del 'non vedo e non sento'. Il che costituisce l'ennesima conferma di una costante storica: che, in una società che si sente minacciata da nemici (interni o esterni), emergono tentazioni e pratiche in netto contrasto con il cuore assiologico della civiltà occidentale, che è la cultura dei diritti. Come è ampiamente dimostrato dall'uso della tortura che i governi francesi autorizzarono durante la guerra coloniale combattuta in Algeria nella seconda metà degli anni cinquanta, dalle brutali procedure utilizzate dalla polizia carceraria dell'Irlanda del Nord a partire dalla promulgazione del Prevention of terrorism act (1974) e da quelle, parimenti lesive dei diritti umani, cui ha fatto ricorso lo Stato di Israele nella sua quotidiana azione di contrasto degli attacchi suicidi di Ḥamās e al-Aqṣā.
Come era logico che accadesse, il trauma dell'11 settembre ha riacceso la pubblica discussione sulla liceità della tortura di fronte alla minaccia costituita dall'esistenza, nella stessa società americana, di un vasto serbatoio di potenziali terroristi. L'FBI, un paio di mesi dopo l'attacco alle Twin Towers, fece sapere che, a motivo dei vincoli giuridici vigenti, non era stato possibile ottenere informazioni da coloro che erano stati arrestati; e fece altresì sapere che la gravità della situazione era tale da rendere, prima o poi, inevitabile il ricorso a metodi straordinari. Cosa, del resto, già verificatasi in passato. In tutte le situazioni di emergenza nazionale, i governi americani si sono sentiti autorizzati a violare i principî della civiltà giuridica; e lo hanno fatto con il sostegno dell'opinione pubblica; anzi, in alcuni casi, sono stati gli opinion-makers a chiedere misure eccezionali. Non sorprende, pertanto, che, alla fine del 2001, il "Wall Street Journal" abbia pubblicato un editoriale nel quale sono stati denunciati gli "eccessi del sistema giudiziario penale in vigore negli Stati Uniti", con i suoi rigorosi "criteri di ammissibilità delle prove" e con le sue "regole di esclusione delle prove illecite". Di qui la preoccupazione espressa da molti giuristi e filosofi che una delle conseguenze della guerra contro il terrorismo potrebbe essere l'istituzionalizzazione - di fatto, se non proprio di diritto - di pratiche lesive non solo dei principî morali che sono alla base della civiltà occidentale, ma anche della libertà dei cittadini. Come, per esempio, il monitoraggio delle comunicazioni private, che oggi le sofisticate tecnologie disponibili rendono facilmente attuabile. Il che significherebbe la materializzazione dello spettro del Grande Fratello, che tutto controlla, vede e sente; e che, in aggiunta, può imprigionare, condannare e persino torturare chi, a suo insindacabile giudizio, costituisce un pericolo per la sicurezza collettiva. Di fronte a una tale inquietante prospettiva, il celebre avvocato americano Alan M. Dershowitz, dopo aver ricordato che la "strada della dittatura è sempre stata lastricata dei motivi di necessità addotti dai responsabili della sicurezza di una Nazione" (v. Dershowitz, 2002; tr. it., p. 155), ha invitato i suoi connazionali a tenere costantemente presente la risposta data dal generale Alberto Dalla Chiesa a chi gli suggeriva di torturare i brigatisti detenuti per salvare la vita di Aldo Moro: "La democrazia italiana può sopravvivere alla perdita di Moro, ma non può sopravvivere all'introduzione della tortura".
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