Terzo Mondo
di Jean-Baptiste Duroselle, Eugène Berg eGian Tommaso Scarascia Mugnozza
TERZO MONDO
Terzo Mondo di Jean-Baptiste Duroselle, Eugène Berg
sommario: 1. Un tentativo di definizione: a) definizione rispetto al mondo bipolare; b) definizione rispetto alla decolonizzazione; c) definizione rispetto allo sviluppo; d) prospettive metodologiche. 2. Formazione ed evoluzione del Terzo Mondo: a) dal 1945 al 1955; b) dal 1955 al 1960; c) le promesse degli anni sessanta; d) gli anni settanta: lotte e promesse. 3. Le grandi potenze di fronte al Terzo Mondo: a) gli Stati Uniti; b) l'Europa occidentale; c) l'URSS; d) la Cina. 4. I mezzi d'azione del Terzo Mondo: a) la violenza; b) l'opinione pubblica internazionale e le Nazioni Unite; c) il non allineamento; d) raggruppamenti fra Stati. 5. I conflitti all'interno del Terzo Mondo: a) il Terzo Mondo e i grandi conflitti; b) i conflitti locali. 6. Il ruolo del Terzo Mondo: a) un nuovo tipo di nazionalismo; b) nuova struttura del sistema mondiale. 7. Sintesi e conclusione. □ Bibliografia.
1. Un tentativo di definizione
L'espressione ‛Terzo Mondo' è stata coniata dal demografo francese A. Sauvy che le attribuì inizialmente solo un valore giornalistico (articolo su ‟France Observateur" del 14 agosto 1952). La risonanza di questa espressione fu immediata poiché essa corrispondeva all'atmosfera del momento (costituzione del gruppo dei paesi asiatici, rivoluzione dei colonnelli in Egitto, guerra d'Indocina, ecc.) e il termine, malgrado la sua imprecisione, ebbe una diffusione quasi universale e fu adottato da tutte le lingue: in inglese Third World, in spagnolo tercer mundo, in tedesco dritte Welt, in russo tretij mir. Quella di Terzo Mondo è una nozione composita: raggruppa paesi con una storia in gran parte comune, aventi una comunanza di destino economico, e che globalmente condividono una visione comune del mondo. Di qui la necessità di definirla in rapporto al mondo bipolare, alla decolonizzazione e allo sviluppo.
a) Definizione rispetto al mondo bipolare
Non si poteva parlare di Terzo Mondo prima del 1914, quando otto grandi potenze, di cui sei europee, si spartivano praticamente tutto il potere e si univano in alleanze non ideologiche, ma di interesse (le democrazie inglese e francese con l'autocrazia zarista). E nemmeno se ne poteva parlare nel periodo tra le due guerre, quando le sette grandi potenze riconosciute si dividevano in tre gruppi: le democrazie (3), i regimi fascisti (3), il regime sovietico (1). La diffidenza reciproca fra i tre gruppi era completa e si potevano immaginare tre tipi di coalizioni: da ultimo prevalse quella tra le democrazie e l'Unione Sovietica, che ha vinto la guerra.
Alla fine della guerra, la Francia e l'Italia avevano dimostrato di non essere più delle grandi potenze (nel senso di Clausewitz, ossia Stati che sono in grado di garantire la propria sicurezza contro qualsiasi avversario preso isolatamente). La Germania e il Giappone, potenze effettive, avevano perduto questa condizione come conseguenza della sconfitta totale. Il Regno Unito, in modo meno esplicito, scopriva poco a poco di non avere più lo status di grande potenza. Rimanevano l'URSS, che effettuò lentamente la sua smobilitazione, e gli Stati Uniti, che mantennero fino al settembre 1949 il monopolio nucleare: ambedue paesi immensi e dalle immense risorse.
Era prevedibile che, in un mondo così organizzato, tutti i piccoli paesi sarebbero divenuti, per scelta consapevole o per forza, satelliti di uno dei due grandi. Si produsse invece un fenomeno imprevisto: ai vecchi Stati neutrali tradizionali (la Svizzera, la Svezia), assai più vicini al campo occidentale che al campo sovietico, se ne aggiunsero dei nuovi, che dichiaravano - con scandalo dei due grandi - di voler rimanere ‛non allineati', e di voler costituire delle ‛zone di pace'. Il viaggio del maresciallo Tito in India, Birmania ed Egitto, alla fine del 1954, cioè subito dopo la soluzione del problema di Trieste con l'accordo del 5 ottobre, attirò l'attenzione del mondo intero su questa nuova posizione.
Da questo punto di vista il Terzo Mondo potrebbe essere definito come l'insieme dei paesi che rifiutano di collocarsi nell'uno o nell'altro dei due campi e si considerano estranei al conflitto Est-Ovest. Da questa definizione dovrebbero essere esclusi quei paesi europei i quali, pur situandosi fuori dal conflitto Est-Ovest, sono di fatto delle ‛democrazie occidentali' (Finlandia, Svezia, Austria, Svizzera, Irlanda). Si troverebbero esclusi però anche un certo numero di paesi che hanno contratto delle alleanze con l'una o l'altra delle grandi potenze. Sarebbe così per alcuni paesi alleati degli Stati Uniti, quali l' ‛Irāq (fino al 1958), l'Iran e il Pakistan (fino al 1979), le Filippine (fino al 1978), Formosa e la Corea del Sud. Potrebbe essere lo stesso per un certo numero di paesi socialisti come la Corea del Nord, il Vietnam, il Laos, la Cambogia, Cuba, l'Etiopia, l'Afghānistān e lo Yemen del Sud. Ma in concreto il criterio politico, e cioè la posizione dei diversi paesi nei confronti del conflitto Est-Ovest, non è sufficiente a definire il Terzo Mondo. Se la maggioranza dei paesi non allineati appartiene al Terzo Mondo, il movimento complessivo non si riduce, nella sua concezione, a questa rigida appartenenza geografica. Così pure non tutti i paesi del Terzo Mondo sono paesi non allineati. Tra non allineamento e Terzo Mondo vi sono legami di appartenenza reciproca, di basi sociali ed economiche comuni, ma non vi è totale identità.
b) Definizione rispetto alla decolonizzazione
La decolonizzazione è un fenomeno antico (interessò gli Stati Uniti già nel 1783, Haiti nel 1794, l'America Latina a partire dal 1821) che si è sviluppato poco nel periodo tra le due guerre mondiali (l' ‛Irāq nel 1930, l'Egitto nel 1936) e in seguito ha bruscamente rivoluzionato il sistema mondiale in una quindicina d'anni. Anche se non è necessario descrivere qui il fenomeno analiticamente (v. decolonizzazione), è chiaro però che vi è un nesso tra paesi liberati dal vincolo coloniale e Terzo Mondo, a patto, naturalmente, che si escludano i paesi coloniali di vecchia data, divenuti in seguito delle potenze occidentali (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Islanda e Unione Sudafricana, limitatamente alla popolazione bianca) o sostenuti dall'Occidente (Israele).
J. Lacouture sembra considerare proprio questo nesso quando scrive: ‟Per ‛Terzo Mondo' noi intenderemo l'insieme degli Stati che nel XX secolo si sono liberati sia dalla colonizzazione, sia da un'alienazione economica e politica così profonda da tenerli al di fuori del corso attivo della storia" (v. Parodi, 1971, p. 466). La seconda parte della definizione permette di includervi anche quei paesi deboli che le circostanze storiche hanno sempre protetto dalla colonizzazione ‛diretta': la Liberia in Africa; lo Hedjaz, l'Arabia Saudita, lo Yemen, l'Iran, l'Afghānistān, la Thailandia in Asia. Noi respingiamo, tuttavia, il limite che Lacouture fissa al XX secolo, perché esso esclude dal novero dei paesi appartenenti al Terzo Mondo l'America Latina (a meno che questa non rientri nella classificazione in virtù della sua ‟alienazione economica e politica").
Nelle opere scientifiche sono state frequentemente adottate le espressioni equivalenti ‛Stati nuovi' o ‛Stati giovani' o ‛paesi di nuova indipendenza', tutte giudicate più significative, almeno sul piano politico, del termine ‛Terzo Mondo' (v. Duroselle e Meyriat, 1962, e i contributi del 1964).
c) Definizione rispetto allo sviluppo
Anche se usato già durante gli anni trenta (Tennessee Valley Authority) il termine ‛sottosviluppo' è comparso nella sua forma attuale nella letteratura economica solo dopo il 1945. Senza dubbio il sottosviluppo deriva dalla disgregazione degli imperi: in effetti, finché i paesi che noi chiamiamo sottosviluppati erano soggetti alla sovranità, al protettorato o al mandato di una madrepatria, la loro economia era in larga misura dipendente da quella di quest'ultima, quale che fosse il sistema commerciale e doganale adottato (patto coloniale, porto franco, dazi preferenziali, ecc.). È stato in un certo senso l'accesso all'indipendenza che ha ‛rivelato' le conseguenze della situazione economica antecedente, in quanto i nuovi Stati si sono trovati ad affrontare, almeno in teoria, la gestione della loro politica economica. Di qui le accese polemiche sulle responsabilità della madrepatria per il basso livello di vita esistente, sullo sfruttamento operato dalla madrepatria o dai suoi coloni e su chi ne abbia tratto profitto. Le risposte a questi interrogativi sono varie e contraddittorie: tutta la madrepatria? (ma si ammette oggi che quasi tutte le colonie hanno rappresentato dei costi); alcuni commercianti e coloni? (è certamente vero che molti di essi si sono arricchiti nelle colonie); certi borghesi indigeni, definiti compradores dalla letteratura comunista? (in effetti i più ferventi sostenitori della sovranità straniera si trovavano tra loro).
Quali che ne siano state le cause, il fenomeno del sottosviluppo è uno dei più considerevoli della nostra epoca. Le organizzazioni internazionali hanno un bell'adottare il termine pudico di ‛paesi in via di sviluppo' (developing countries): l'esperienza degli ultimi trent'anni mostra che persiste un solco profondo tra i paesi sviluppati e i paesi in sviluppo.
La tipologia classica presentata da W. Rostow traccia un quadro d'insieme che è più utile allo studioso di scienze politiche che non all'economista. Questa tipologia distingue cinque stadi: a) paesi di economia tradizionale; b) paesi in una situazione di ‛pre-decollo' (pre-take off); c) paesi in decollo (take off); d) paesi industrializzati; e) paesi a elevato consumo di massa (high mass consumption) o welfare states.
È evidente che solo i paesi compresi nelle prime tre categorie sono i paesi del sottosviluppo. È noto che quest'ultimo si caratterizza per il livello molto basso delle risorse e delle capacità produttive disponibili per la maggioranza della popolazione. Su più di 4 miliardi di abitanti del globo, da 800 a 900 milioni circa vivono ancora con una razione alimentare che supera di sole 1.500 calorie il livello della fame. Da ciò derivano innumerevoli conseguenze tra cui le più gravi sono: una speranza di vita inferiore ai quarant'anni, mentre nelle economie del benessere supera i settant'anni; una natalità eccessiva (2,5-3% all'anno) che, di anno in anno, annulla i progressi economici complessivi; un analfabetismo molto diffuso (800 milioni di esseri umani sono analfabeti); un'assenza di competenza tecnica che obbliga al ricorso agli esperti stranieri o porta a male utilizzare le tecniche disponibili. Questo concetto di competenza tecnica è così importante che, secondo Rostow, il passaggio dallo stadio b (fase di predecollo) allo stadio c (decollo) è possibile soltanto quando esista nel paese in questione un milieu abbastanza consistente e informato di esperti.
È dunque possibile collegare la nozione di Terzo Mondo a quella di sottosviluppo (v. tabella).
I dati sopra elencati vanno naturalmente accettati con le solite riserve: statistiche incomplete a causa della mancanza di tecnici specializzati, prodotti di raccolta o di piccola coltivazione familiare che non entrano nel calcolo del reddito nazionale, ecc. Nell'elenco non figurano la Grecia e la Turchia, paesi membri dell'Alleanza Atlantica, e si possono considerare ai limiti l'Argentina e l'Uruguay (paesi quasi interamente di razza bianca) e il Cile (paese di meticci), che sono in pieno decollo. Infine, alcuni paesi, malgrado le apparenze, sono in realtà sottosviluppati: i paesi produttori di petrolio, Libia, Venezuela e soprattutto il Kuwait, il cui reddito nazionale pro capite supera quello degli Stati Uniti! Un paese, la cui ricchezza proviene da una sola risorsa distribuita in modo estremamente ineguale, può far bella figura nelle statistiche senza che ciò abbia un reale significato.
Disponiamo dunque di un elenco quasi esatto dei paesi sottosviluppati e possiamo dire che il sottosviluppo rappresenta il principale criterio per stabilire l'appartenenza di un paese al Terzo Mondo. Conviene inoltre continuare a tener presenti l'aspirazione al neutralismo e i ricordi di una recente decolonizzazione. Alla definizione sopra citata di J. Lacouture, egli stesso aggiungeva: si tratta di paesi ‟che, pur avendo conquistato l'indipendenza e avviato, con più o meno successo, il processo di sviluppo e modernizzazione, restano alla ricerca di una vera ideologia" (v. Parodi, 1971, p. 446).
Da questo insieme di considerazioni desumiamo, senza pretendere che sia perfetta, la seguente definizione e la proponiamo come base di discussione e come punto di partenza per le nostre riflessioni future: il Terzo Mondo è l'insieme degli Stati che, liberatisi nel corso del XIX e del XX secolo dal vincolo coloniale diretto o indiretto, soffrono ancora di alienazioni imposte loro dalla sovranità straniera, dal razzismo e dallo sfruttamento economico estero e che si rifiutano di seguire i modelli offerti dai paesi sviluppati dell'Est e dell'Ovest, mentre sono attratti da una ideologia peculiare, la cui base è il non allineamento.
d) Prospettive metodologiche
È chiaro che la nascita e lo sviluppo del Terzo Mondo hanno rivoluzionato radicalmente il quadro preesistente delle relazioni internazionali ed è su questa rivoluzione che dobbiamo cercare di fare il punto.
Ma, d'altro canto, il Terzo Mondo, nonostante alcuni caratteri comuni, presenta infinite varietà di situazioni e ogni situazione è un caso particolare. Non dimentichiamo che abbiamo raggruppato insieme Stati in via di sviluppo perché sovrappopolati (India) o perché troppo poco popolati (Nigeria, Ciad); paesi che hanno conquistato l'indipendenza con una guerra prolungata (Algeria) e altri che l'hanno ottenuta in seguito al consenso rassegnato della madrepatria (quasi tutta l'Africa Nera); paesi con un'unica razza e un'unica lingua (Giordania, Arabia Saudita) e paesi con più lingue (India, Filippine); paesi in cui l'unità nazionale è basata sulla religione (Pakistan) e paesi con diverse religioni e il cui Stato si proclama laico (India); paesi di popolazione bianca (Uruguay, Costa Rica), nera (Haiti, Africa Nera), gialla (Sud-Est asiatico), mista di Bianchi e Indios in varie proporzioni (Messico, Perù), o di Bianchi, Indios e Neri (Venezuela, Brasile); paesi con violenti contrasti sociali (Perù), o società rese pressoché omogenee dalla rivoluzione (Algeria, Cuba, Guinea e, in una certa misura, il Messico); paesi di estensioni vastissime (Brasile, Zaire, India) e paesi minuscoli (Isole Maurizio, Nauru). E bisognerebbe aggiungere le differenze che derivano dall'influenza esercitata dagli antichi colonizzatori, dal sistema politico, dall'esistenza di una classe di intellettuali tradizionali (mandarini, ulémas) o dall'assenza di una classe di questo tipo (America Latina, Africa Nera, ecc.).
Si sarebbe portati, di conseguenza, ad analizzare ogni paese singolarmente e trarne poi delle conclusioni generali. Questo procedimento, attraente in teoria, sarebbe irrealizzabile in pratica. In questa sede conviene, a nostro giudizio, studiare solo i fenomeni generali lasciando da parte i casi particolari. È il solo modo per arrivare a modelli e a tipologie, fermo restando che ogni Stato ha una propria caratterizzazione determinata. Qui non ci interessano i singoli casi, ma le convergenze.
2. Formazione ed evoluzione del Terzo Mondo
Il Terzo Mondo è nato essenzialmente dalla decolonizzazione, la cui tappa più importante è successiva alla seconda guerra mondiale. A ondate successive si formano nuove costellazioni di Stati indipendenti, che si aggiungono al vecchio complesso dell'America Latina: il Medio Oriente arabo e il Sud-Est asiatico tra il 1945 e il 1950, il Nordafrica, eccetto l'Algeria, tra il 1951 e il 1956, l'Africa Nera a partire dal 1957 (Ghana, ecc.). In Vietnam e in Algeria il fenomeno si accompagna a guerre lunghe e aspre. Le date essenziali sono il 1955, anno in cui si svolge la simbolica Conferenza di Bandung e ha luogo l'ammissione in blocco (package deal) alle Nazioni Unite, e il 1962, data in cui diviene indipendente l'Algeria, che di tutte le colonie era quella che aveva la maggiore percentuale di coloni.
a) Dal 1945 al 1955
In questo decennio comincia a manifestarsi l'esistenza del Terzo Mondo. Ma la vita internazionale è allora dominata dal conflitto Est-Ovest: guerra fredda, guerra di Corea (giugno 1950-luglio 1953). La guerra coloniale per eccellenza, quella d'indocina (dicembre 1946-luglio 1954), è percepita come un elemento del conflitto Est-Ovest; i Francesi riescono a ottenere dagli Americani un aiuto economico e militare crescente e nel giugno 1950 il presidente Truman proclama che la lotta dei Francesi è una componente della lotta anticomunista nel mondo. Quella che è essenzialmente la lotta dei Vietnamiti per l'indipendenza è artificiosamente inserita nella guerra fredda, portando così gli Americani - pur di sentimenti anticolonialisti - a sostenere una potenza coloniale contro la sollevazione di una sua colonia.
Allo stesso modo, il ruolo preponderante assegnato alla politica di contenimento del comunismo porta gli Americani a moderare in tutto il mondo la loro simpatia per l'indipendenza delle colonie. Gli Stati Uniti hanno bisogno di alleati e questi ultimi hanno degli imperi (Inghilterra, Francia, Portogallo): quindi, finché l'ordine non è in pericolo, è preferibile che questi alleati non vengano molestati. Unica eccezione i Paesi Bassi, che nel 1948-1949 hanno dovuto cedere a una forte pressione americana e interrompere la loro politica di spedizioni punitive. In realtà, dove non era garantito l'ordine, gli Americani cercavano di dimostrare che essi incoraggiavano ogni forma di nazionalismo non comunista; essi stessi nel 1946 diedero alle Filippine l'indipendenza, un'indipendenza, peraltro, che conferiva loro enormi privilegi (basi, tariffe, diritto di residenza).
Tuttavia, se la guerra fredda nasconde la nascita del Terzo Mondo, quest'ultima beneficia di uno sviluppo che J. Freymond ha chiamato ‟l'interazione cumulativa". Man mano che dal processo di decolonizzazione nascono i nuovi Stati, essi manifestano una profonda solidarietà nei confronti dei popoli ancora dipendenti, uniscono i loro sforzi e combattono in favore di un'accelerazione della decolonizzazione. Dopo ogni successo il loro numero e, quindi, la loro forza e il loro ottimismo si accrescono e la loro energia aumenta.
La prima manifestazione palese di questa azione si ebbe con la Libia. Il Consiglio dei ministri degli Affari Esteri, che aveva preparato il trattato di pace con l'Italia del febbraio 1947, non riuscì ad accordarsi sul destino delle colonie italiane e affidò alle Nazioni Unite il compito di risolvere il problema. I dibattiti del 1949 all'Assemblea generale sono particolarmente interessanti, perché segnano una svolta nella situazione generale. La prima soluzione sottoposta all'Assemblea generale, nel maggio 1949, era essenzialmente di tipo coloniale, ed era il risultato di lunghe trattative tra Inglesi, Italiani e Francesi. Si trattava del piano Bevin-Sforza, che divideva la Libia in tre trusteeships: la Cirenaica, affidata all'Inghilterra, la Tripolitania all'Italia, e il Fezzan alla Francia. Perché fosse adottato, era necessaria una maggioranza dei due terzi. Ma il progetto non ebbe che 26 voti a favore con 17 voti contrari e 8 astensioni. Tra gli avversari del progetto, oltre all'URSS e ai suoi alleati, ci furono i paesi arabi e altri paesi di nuova indipendenza. Dopo questa risposta negativa, si passò dalla soluzione tradizionale a una soluzione più audace; il 21 novembre 1949 l'Assemblea generale decise che entro il primo gennaio 1952 la Libia sarebbe divenuta indipendente.
Era una decisione d'importanza capitale, proprio perché la Libia era allora uno dei paesi arabi meno sviluppati. Fino a quel momento, molti dirigenti nazionalisti dei paesi coloniali si erano rassegnati all'idea che potessero accedere all'indipendenza solo i paesi opportunamente preparati a essa, in particolare attraverso la formazione di élites. Giudicare l'indipendenza come la migliore soluzione per un paese così poco preparato come lo era allora la Libia significava ammettere che l'indipendenza è di per sé un bene e che è sempre immediatamente ottenibile, se la potenza coloniale è costretta a cedere.
Si moltiplicano, così, le azioni in questo senso intraprese dai nuovi Stati, siano o non siano membri delle Nazioni Unite. Si erano già verificati dei tentativi a livello regionale: le rivendicazioni della Lega Araba; la conferenza asiatica riunita da Nehru a Delhi nel 1949 per ottenere l'indipendenza dell'Indonesia; la conferenza panamericana all'Avana nel marzo 1949 per esaminare il problema dei possedimenti europei (britannici, olandesi, francesi) nell'emisfero occidentale. Da questo momento in poi si tratterà di controversie di portata mondiale.
Non stupisce che tali controversie abbiano, negli anni cinquanta, particolarmente interessato la Francia: l'indipendenza della Libia aveva dato un impulso formidabile alle rivendicazioni nazionaliste in Algeria, in Tunisia e in Marocco. Senza entrare nei dettagli e per limitarci all'interazione cumulativa, osserviamo che a partire dal 1951 l'Assemblea generale sarà investita tutti gli anni da mozioni dei paesi arabi, riguardanti questi tre paesi, che riscuoteranno sempre la solidarietà delle nazioni sottosviluppate. Facciamo un solo esempio: la decisione, adottata nell'ottobre 1952 dalla Commissione politica dell'ONU, di porre prioritariamente all'ordine del giorno dell'Assemblea generale le questioni marocchina e tunisina. Vi furono 34 voti a favore, 20 contrari e 6 astensioni. L'analisi del voto rivela che votarono contro 8 paesi dell'Europa occidentale, 3 Dominions sviluppati (Canada, Nuova Zelanda, Sudafrica) e Israele, con l'appoggio di 8 paesi latino-americani; si astennero l'Australia, la Grecia, la Norvegia e 3 paesi latino-americani. Ma tra i 34 voti contrari alla posizione francese c'erano, oltre ai 5 voti dei paesi comunisti e a quello degli Stati Uniti, i voti di tutti i paesi africani, arabi e asiatici del Terzo Mondo (18), di 9 paesi latino-americani e della Iugoslavia.
La crescente solidarietà dei paesi da poco emancipati sfocerà nel grande rivolgimento del 1955.
b) Dal 1955 al 1960
Si può considerare il 1955 come l'anno, non della nascita del Terzo Mondo, ma della sua presa di coscienza e ciò, innanzitutto, a causa della Conferenza di Bandung.
Essa fu preceduta, nell'aprile del 1954, da una Conferenza tenuta a Colombo per affrettare la conclusione della pace in Indocina (Birmania, Ceylon, India, Indonesia, Pakistan). Proprio a Colombo venne deciso di tenere l'anno seguente in Indonesia una grande Conferenza afro-asiatica (non limitata però al gruppo afro-asiatico dell'ONU).
Il primo ministro indonesiano, Ali Sastroamidjojo, dichiarò: ‟È giunto il momento in cui i popoli indipendenti d'Asia e d'Africa hanno preso coscienza del loro nuovo compito nel destino dell'umanità [...]. Non vogliamo essere dominati né con l'ideologia, né con la forza, quale che sia la fonte da cui la dominazione proviene" (‟Le Monde", 25 aprile 1955). In linea di principio, potevano essere invitati solo i paesi indipendenti dell'Africa e dell'Asia. In realtà non fu invitato nessuno Stato bianco: quindi nemmeno l'URSS, nonostante eserciti la sovranità su metà dell'Asia. Oltre ai 5 paesi promotori, parteciparono 24 Stati: 8 arabi (Arabia Saudita, Egitto, ‛Irāq, Giordania, Libano, Libia, Sudan, Yemen); 3 dell'Africa Nera (Etiopia, Liberia e Costa d'Oro, futuro Ghana, allora non ancora indipendente); 10 Stati sottosviluppati dell'Asia meridionale e sudorientale (Afghānistān, Cambogia, Iran, Laos, Nepal, Siria, Vietnam del Nord, Vietnam del Sud, Filippine, Thailandia). A questi vanno aggiunti 3 Stati che, per diversi motivi, non vanno inclusi nel Terzo Mondo: Giappone, Cina Popolare e Turchia. Per ottenere la partecipazione dei paesi arabi non era stato invitato lo Stato d'israele; e così, per ottenere quella della Cina Popolare, non era stata invitata la Cina di Formosa. C'erano inoltre alcuni osservatori inviati da Cipro, dalla Palestina, dalla Tunisia, dall'Algeria e dal Marocco.
La Conferenza (18-24 aprile 1955) fu caratterizzata dalla ferma resistenza degli Stati filo-occidentali (Pakistan, Filippine, Thailandia), che cercarono di far votare una risoluzione ostile alla colonizzazione russa. Invece, si realizzò l'accordo sui ‛cinque punti', di origine buddhista, che avevano già permesso una coesistenza pacifica tra India e Cina: 1) rispetto dell'integrità territoriale e della sovranità di ciascuno Stato; 2) non aggressione; 3) non ingerenza negli affari interni di ciascun Stato; 4) uguaglianza e vantaggio reciproco; 5) coesistenza pacifica.
In realtà, questi principi non erano del tutto originali e se ne poteva trovare il fondamento già nella Carta delle Nazioni Unite.
La vera importanza di Bandung non sta nelle risoluzioni votate dall'Assemblea, spesso piene di compromessi (tranne che sull'anticolonialismo). Sta invece nel nuovo spirito che la Conferenza rivela. ‟È finita l'epoca in cui le potenze occidentali controllavano i nostri destini - affermò Chou En-Lai -. I popoli d'Asia e d'Africa debbono oggi prendere il loro destino nelle proprie mani" (cfr. Documents of international affairs, Oxford 1955, p. 408). I delegati rappresentavano 1.400.000.000 di esseri umani, più della metà della popolazione mondiale dell'epoca. ‟Noi - disse Sukarno - possiamo mobilitare tutta la forza spirituale, morale e politica dell'Asia e dell'Africa" (v. Kahin, 1956, pp. 45-46).
L'altro grande avvenimento del 1955, collegato d'altronde all'impressione suscitata da Bandung, fu il package deal. Per molti anni l'URSS e gli Stati Uniti avevano utilizzato il loro diritto di veto per bloccare, con vari pretesti, l'ammissione di alcuni nuovi membri, cosicché, nel 1955, vi erano ben 21 paesi candidati. Nel giugno di quell'anno l'URSS accettò il principio dell'ammissione in blocco, e gli Stati Uniti, per parte loro, proposero la rinuncia al diritto di veto sulle ammissioni. Il 14 dicembre l'Assemblea generale ammetteva 16 nuovi membri, portando così il numero dei propri membri da 60 a 76. Solo sei dei nuovi ammessi erano paesi del Terzo Mondo, ma la porta era ormai aperta all'ingresso quasi automatico di nuovi Stati. In effetti, quasi tutte le candidature ulteriori saranno di paesi ex coloniali pervenuti all'indipendenza; di qui l'aumento del numero complessivo dei membri: 80 nel 1956, 103 nell'ottobre 1961, 128 nel 1970, 155 nel 1981. Di questi 155 una larga maggioranza (122) appartiene al ‛gruppo dei 77' (v. § c) e quindi al Terzo Mondo.
Presa coscienza di se stesso, adulato dall'URSS e dagli Stati Uniti durante il disgelo, il Terzo Mondo, benché diviso su una molteplicità di questioni, è compatto sul problema della decolonizzazione, e riporterà una serie di vittorie sensazionali: l'indipendenza del Marocco e della Tunisia nel 1956; quella del Ghana - e, dopo di esso, di una lunga serie di Stati dell'Africa Nera - nel 1957; quella della Malaysia nello stesso anno. Suez, sconfitta politica bruciante per la Francia e l'Inghilterra, sembra chiudere per sempre l'epoca delle spedizioni punitive e della politica delle cannoniere. La crisi del Congo Belga conduce al trionfo finale della maggioranza delle Nazioni Unite, favorevole al mantenimento dell'unità di questo vasto Stato. Infine, se è vero che l'indipendenza dell'Algeria, il 1° luglio 1962, deve molto al realismo del generale de Gaulle, è vero anche che questo realismo è provocato in parte dalla reazione quasi unanime dell'opinione pubblica mondiale.
Forti di questi successi, i più autentici rappresentanti del Terzo Mondo, quelli che praticano il non allineamento rifiutando ogni alleanza militare con uno dei due blocchi e ogni base straniera nel loro territorio, partecipano a Belgrado, dal 1° al 5 settembre del 1961, alla Conferenza dei paesi non allineati su invito di Tito, di Nasser e di Nehru. I paesi partecipanti erano 25: oltre ai 3 promotori, 6 paesi del Sud-Est asiatico (Afghānistān, Birmania, Cambogia, Ceylon, Indonesia, Nepal), 5 paesi del Medio Oriente (Arabia Saudita, Cipro, ‛Irāq, Libano, Yemen), 3 paesi dell'Africa settentrionale (Algeria, Tunisia, Marocco), 7 paesi dell'Africa Nera (Congo ex belga, Etiopia, Ghana, Guinea, Mali, Somalia, Sudan), 1 paese latino-americano (Cuba) e inoltre alcuni osservatori inviati dal Brasile, dall'Ecuador e dalla Bolivia. Gli inviti erano stati fatti in modo scrupoloso: nessun paese alleato degli Stati Uniti e nessun paese alleato dell'URSS (Vietnam del Nord, Corea); neppure la Libia e la Giordania, che avevano basi americane o inglesi; non il Laos considerato filo-occidentale, né i paesi francofoni dell'Africa Nera, legati alla Francia da accordi di cooperazione.
Erano presenti tutti i grandi leaders del neutralismo: oltre a Tito, Nehru e Nasser, vi erano il re Hassan II del Marocco, l'arcivescovo Makarios di Cipro, il presidente Nkrumah del Ghana, Sékou Touré della Guinea, Sukarno dell'Indonesia.
c) Le promesse degli anni sessanta
Nel 1960 si realizzò una svolta incontestabile per il Terzo Mondo. Con l'accesso all'indipendenza di tutti i territori africani sotto sovranità francese, 17 nuovi Stati entrano all'ONU. Alla maggioranza anticomunista diretta dagli Stati Uniti, che aveva dominato sino a quel momento nell'organizzazione mondiale, si sostituisce un orientamento anticolonialista che peserà sempre più sulla scena mondiale. L'azione del Terzo Mondo prende diverse strade: la liberazione in forza del diritto, la rivendicazione economica, l'organizzazione della solidarietà.
Vengono adottati diversi testi che instaurano nuove forme di diritto. Il più importante tra questi è la risoluzione 1.514 (XV), approvata il 14 dicembre 1960 con 90 voti a favore, nessuno contrario e 9 astensioni (Portogallo, Australia, Belgio, Repubblica Dominicana, Francia, Spagna, Unione Sudafricana, Regno Unito e Stati Uniti), relativa alla concessione dell'indipendenza ai paesi o ai popoli coloniali, che diverrà la Carta della decolonizzazione. Secondo tale risoluzione, tutti i popoli hanno diritto all'autodeterminazione e non si può prendere a pretesto la loro mancanza di preparazione in campo politico, economico o culturale per ritardarne l'accesso all'indipendenza. Vengono poi creati meccanismi sempre più impegnativi per l'applicazione di questa Dichiarazione, in particolare il Comitato dei 24 o Comitato per la decolonizzazione.
Contemporaneamente comincia a presentarsi con forza la rivendicazione economica. Approvando la Dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza, l'Assemblea generale dell'ONU poneva l'accento sull'accelerazione del progresso economico e sociale dei paesi poco sviluppati, e fissava fin d'allora, come obiettivo dell'aiuto, la cifra dell'1% del reddito nazionale dei paesi sviluppati.
La Conferenza di Belgrado segnalava l'esigenza di una grande conferenza economica mondiale; nasceva così il gruppo dei paesi in via di sviluppo (noto sotto il nome di ‛gruppo dei 77') firmatari di una mozione che richiedeva la convocazione della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e sullo sviluppo. Tale Conferenza (UNCTAD, United Nations Conference for Trade and Development) ebbe finalmente luogo a Ginevra da marzo a giugno del 1964.
d) Gli anni settanta: lotte e promesse
Alla fine degli anni sessanta, l'euforia dei primi tempi d'indipendenza comincia a far posto a valutazioni più negative. Gli sforzi internazionali per lo sviluppo segnano il passo: il primo decennio d'impegno non raggiunge i suoi obiettivi, l'Alleanza per il progresso ristagna. Gli sforzi di organizzazione regionale dell'Europa appaiono limitati (Convenzione di Yaoundé del 1963, rinnovata nel 1969). Le riunioni dell'UNCTAD si svolgono in un'atmosfera di crescenti divisioni. I primi segni della crisi monetaria internazionale, cominciata già nel 1967-1968, fanno sentire i loro effetti. Si assiste a una continua degradazione dei rapporti di scambio, con un indebitamento crescente del Terzo Mondo, la cui parte nel commercio mondiale diminuisce notevolmente.
Numerosi conflitti avvelenano il clima internazionale (guerra del Vietnam, conflitto arabo-israeliano) e nel Terzo Mondo si moltiplicano le lotte interne. La distensione Est-Ovest, iniziata nel 1969 con l'Ostpolitik del Cancelliere Brandt e sancita dal riavvicinamento spettacolare sovietico-americano del 1972, dà al Terzo Mondo l'impressione di essere tenuto fuori da queste evoluzioni internazionali. Esso cerca quindi di adottare una strategia orientata a riequilibrare in tempi lunghi il complesso dei rapporti internazionali. Dal 1970, quando si consolida a Lusaka il movimento dei paesi non allineati, s'impone una duplice presa di coscienza. Si stabilisce una solidarietà tra i paesi arabi nelle loro rivendicazioni nei confronti di Israele, e tra i paesi africani nella loro lotta contro il colonialismo portoghese, il razzismo e l'apartheid. Tutti avvertono la necessità di porre l'accento sul miglioramento della situazione economica, e ad Algeri, nel 1973, i capi di Stato e di governo riuniti per il IV Vertice dei paesi non allineati lanciano la loro rivendicazione di un nuovo ordine economico internazionale. Ma è la coesione dell'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) che consentirà a questa rivendicazione di assumere l'ampiezza desiderata. Fino ad allora l'OPEC, creata nel 1960 da sette paesi esportatori di petrolio, aveva avuto il ruolo puramente difensivo di impedire nuovi ribassi del prezzo del petrolio. Dopo la rivoluzione libica del 1969 acquista un peso nuovo e, a poco a poco, riesce a influire sulla fissazione del prezzo di listino (posted price) del petrolio (accordo di Teheran del dicembre 1971). In seguito poi al nuovo conflitto araboisraeliano dell'ottobre del 1973, si verifica un fatto senza precedenti: i paesi dell'OPEC quadruplicano il prezzo del greggio che, nel gennaio 1974, passa da 2,18 a 11,65 dollari il barile. Ciò si traduce in un formidabile trasferimento di potere e di beni finanziari: da questo momento un piccolo gruppo di paesi del Terzo Mondo comincia a controllare una parte notevole del destino economico del mondo.
Questa nuova posizione del Terzo Mondo nel sistema mondiale non è però priva di ambiguità. Il Terzo Mondo si presenta sempre unito quando si tratta di fronteggiare i paesi industrializzati soprattutto dell'Ovest. Ma la sua differenziazione economica, come si è visto, cresce rapidamente. Le organizzazioni internazionali faranno a poco a poco delle distinzioni tra alcuni paesi dell'OPEC (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qaṭar e Libia), poco popolati e dotati di riserve finanziarie considerevoli, e gli altri paesi dell'OPEC fortemente popolati (Indonesia, Nigeria, Algeria). A partire dalla metà degli anni settanta emerge un gruppo di una decina di paesi di nuova industrializzazione, essenzialmente asiatici (Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea del Sud) o latino-americani (Argentina, Brasile, Messico), per i quali le esportazioni industriali raggiungono o superano la metà delle esportazioni totali. Il gruppo dei paesi a reddito intermedio (da 300 a 1.000 dollari pro capite) presenta al suo interno maggiori contrasti. Quanto ai paesi più poveri, il loro gruppo comprende una quarantina di paesi, in genere condizionati da pesanti handicaps strutturali.
Un ulteriore fattore di divisione che merita di essere segnalato è il moltiplicarsi dei conflitti all'interno del Terzo Mondo (v. cap. 5, § b), con le tracce durature che essi lasciano.
D'altra parte, a partire dagli anni 1978-1979 comincia a emergere un complesso di elementi sfavorevoli: il ritorno della tensione Est-Ovest (conseguente agli avvenimenti dell'Afghānistān), il persistere della crisi economica mondiale, la scomparsa dei leaders tradizionali (Boumedienne, Tito) o le contestazioni di cui sono oggetto quelli oggi più attivi (Castro, Gheddafi). Tutti questi fattori agiscono nel senso di un frazionamento del Terzo Mondo, al punto che certi specialisti o uomini politici sono arrivati a negare la sua unità.
3. Le grandi potenze di fronte al Terzo Mondo
La nascita e lo sviluppo del Terzo Mondo si spiegano in parte con l'ascesa al rango di ‛superpotenze' dei due grandi Stati anticolonialisti e con il declino delle vecchie potenze coloniali. Il fenomeno che ci si attendeva verso il 1940, e cioè la sostituzione di nuove potenze coloniali alle antiche, non si è verificato (a differenza di ciò che avvenne nel 1919, quando molti paesi si sostituirono alla Germania). Anche l'idea tradizionale, in base alla quale un aumento dell'estensione territoriale determina un aumento della potenza, ha subito una notevole evoluzione. Ciò non significa che il Terzo Mondo, una volta divenuto indipendente, sia rimasto estraneo al conflitto delle sfere di influenza. La ricerca di sbocchi, di fonti privilegiate di materie prime, di basi militari e, soprattutto, di appoggi politici nel conflitto Est-Ovest ha spinto le grandi potenze, e persino quelle medie, a penetrare con i mezzi più diversi nel Terzo Mondo.
a) Gli Stati Uniti
Benché si trovassero in partenza in una posizione delicata, poiché erano a un tempo anticolonialisti e alleati con le principali potenze coloniali, gli Americani hanno svolto nei confronti del Terzo Mondo una politica caratterizzata dalla coerenza e dalla continuità nell'applicazione di un certo numero di principî essenziali: una politica, peraltro, sempre più criticata. Essa ha avuto due fonti: l'esperienza latino-americana della ‛dottrina Monroe' e della good neighbour policy (‛politica di buon vicinato') e la strategia del contenimento, adottata a partire dal 1947 dal presidente Truman.
La dottrina Monroe (1823), che mirava a impedire agli Europei l'intervento sul continente americano, non era stata cancellata ma, piuttosto, completata dalla good neighbour policy, inaugurata da F. D. Roosvelt nel 1933. Al non intervento imposto agli Europei in America Latina gli Stati Uniti affiancavano la promessa di non intervenire militarmente essi stessi, come avevano fatto nel 1898 nella zona dei Caraibi e nel Messico. Benché mostrassero di voler ormai trattare le repubbliche americane su una base di uguaglianza, gli Americani vi esercitavano un'immensa influenza attraverso gli investimenti di capitale, che permettevano ai loro ambasciatori, spesso legati alle grandi compagnie, di esercitare forti pressioni per imporre la loro volontà.
La politica del contenimento partiva dall'idea che, se non era possibile ‛liberare' i satelliti dell'URSS, si poteva almeno impedire che crescesse il loro numero. Messo in atto inizialmente nell'Europa occidentale e meridionale, il containment fu esteso da D. Acheson (1949-1953) ai territori vicini alla ‛cortina di ferro', territori in cui Acheson voleva stabilire delle situazioni di forza. Gli Americani non esitarono a intervenire in Corea nel giugno 1950. Poi, con la presidenza Eisenhower, con John Foster Dulles e con l'ammiraglio Radford, fu sviluppato il concetto che il pericolo non riguardava solamente i paesi di frontiera, che potevano subire delle aggressioni convenzionali, ma riguardava il mondo intero minacciato dalla sovversione comunista. Con la dichiarazione di Caracas del marzo 1954 si arrivò così a ristabilire in un certo senso il diritto di intervento americano in America Latina. In seguito a ciò, gli Americani sono intervenuti indirettamente (e con successo) contro il regime di sinistra di Arbenz in Guatemala (1954); sono intervenuti indirettamente (ma senza successo) nell'affare della Baia dei Porci, a Cuba, nell'aprile 1961; sono intervenuti direttamente (e con successo) nel 1965 nella Repubblica Dominicana.
Questa idea dell'intervento diretto ha trovato persino una versione strategica nella teoria delle ‛rappresaglie massicce' lanciata dall'ammiraglio Radford. Uno dei suoi principi basilari era la cosiddetta instant retaliation: se il comunismo opera un'aggressione in qualche luogo, si dovrà rispondere in un qualsiasi punto della periferia del mondo comunista. È vero che gli interventi americani fuori dall'emisfero occidentale sono stati rari (in Libano, nel luglio 1958) ma, almeno nel caso del Vietnam, hanno acquistato una portata mondiale. Gli Americani hanno cercato di impedire al Vietnam del Sud di passare nell'altro campo inviando un numero sempre maggiore di consiglieri militari, e poi di soldati, e fornendo un enorme appoggio strategico e logistico.
Dal canto suo, Foster Dulles, che aveva manifestato il suo interesse per il Terzo Mondo con i suoi numerosi viaggi in paesi di tale area, spinse all'estremo la teoria detta del mondo libero. Secondo tale teoria il mondo libero è costituito da tutti i paesi non soggetti al comunismo. Per la mentalità manichea di Dulles il neutralismo in quanto tale è un male; non ci sono vie di mezzo: chi non è ‛con noi' (cioè alleato) è ‛contro di noi'. Di qui la profonda ostilità di Dulles al neutralismo di Nehru e di Nasser che - nel caso di quest'ultimo - condusse gli Americani a ritirare il loro aiuto per la costruzione della diga di Assuan. Di qui, soprattutto, il tentativo, coronato da scarso successo, di reclutare alleati non più tra i paesi industrializzati, come aveva fatto Dean Acheson - Patto Atlantico, ANZUS (Australia, Nuova Zelanda, United States), alleanza con il Giappone -, ma tra i popoli del Terzo Mondo. È noto che i soli paesi che accettarono l'alleanza con l'Occidente furono: 1) quelli del patto di Bagdad (per il Terzo Mondo: l' ‛Irāq fino al 1958, l'Iran e il Pakistan fino al 1979); 2) quelli dell'Organizzazione del Trattato per l'Asia sudorientale, SEATO - South-East Asia Treaty Organization (per il Terzo Mondo: il Pakistan, la Thailandia e le Filippine, ex colonia, alleata agli Stati Uniti fin dal 1951); 3) quelli legati con patti bilaterali (la Corea del Sud, Formosa e, in una certa misura, il Vietnam del Sud). La dottrina Eisenhower (1957) sul Medio Oriente non fu accettata in modo durevole da nessun paese arabo.
Un'altra conseguenza dell'applicazione del contenimento a un Terzo Mondo in genere neutralista è stata la situazione moralmente contraddittoria in cui sono venuti a trovarsi gli Stati Uniti che, con il pretesto di lottare contro la sovversione comunista, accordavano il loro appoggio a dittature impopolari e del tutto antidemocratiche (ad esempio Duvalier e poi suo figlio a Haiti, Somoza in Nicaragua, ecc.) ovvero organizzavano, tramite la CIA, dei colpi di Stato per instaurare regimi di questo tipo (quello del colonnello Phoumi nel Laos, quello che rovesciò Sukarno in Indonesia, quello in Cile nel settembre 1973). Gli Stati Uniti, di conseguenza, trovano molte difficoltà a dare di sé un'immagine favorevole, a offrire un modello; gli Americani, insomma, non riescono a convincere il Terzo Mondo a seguirli né sul piano politico né sul piano economico. Nonostante il desiderio di farsi amare dai popoli del mondo intero, nonostante il sostegno che hanno generalmente dato alla decolonizzazione, nonostante la loro tendenza sempre più accentuata a far operare l'ONU anziché intervenire essi stessi (per esempio in Congo), gli Americani sono talmente ricchi e potenti che trovano notevoli difficoltà a comunicare con le popolazioni indigenti del Terzo Mondo. Loro intermediari sono dei governi anticomunisti, ma spesso corrotti, che contribuiscono ad accrescere la loro impopolarità (cfr. The ugly American, di Lederer). La complessa questione del Vietnam si è configurata prevalentemente come la lotta del potente e ricchissimo imperialismo bianco contro un piccolo popolo di razza gialla, sottosviluppato ma indomabile.
Uno degli strumenti dell'influenza esercitata dagli Americani in Europa è stato quello degli ‛aiuti', che con il Piano Marshall si era rivelato di grande efficacia. Era possibile applicare questo sistema anche nei paesi sottosviluppati? Il punto 4 del messaggio di Truman (20 gennaio 1949) annunciava ‟un nuovo ambizioso programma, volto a mettere a disposizione delle aree sottosviluppate, per il loro progresso e il loro sviluppo, i benefici derivanti dal nostro sviluppo scientifico e dal nostro progresso industriale". Il programma di aiuti all'estero (originariamente definito come Economic Cooperation Administration, o ECA, divenuto in seguito Mutual Security Administration, o MSA, e infine dal 1961 Agency International Development, o AID), si è orientato sempre più verso il Terzo Mondo.
In valore assoluto l'aiuto pubblico degli Stati Uniti allo sviluppo è il primo nel mondo e raggiunse una media annua di circa 3,2 miliardi di dollari durante gli anni sessanta (cioè lo 0,32% del PNL americano). Da allora è aumentato in termini assoluti, toccando nel 1978 il tetto di 5,66 miliardi di dollari (0,27% del PNL), per poi ridursi progressivamente secondo una tendenza accentuatasi con l'amministrazione Reagan.
Dalla fine della seconda guerra mondiale l'aiuto pubblico americano ha cambiato destinazione, legandosi in certo modo alle fluttuazioni della politica mondiale e quindi della politica estera degli Stati Uniti. Dall'Europa (Piano Marshall 1948-1952) è passato all'Estremo Oriente, poi al Sud-Est asiatico per via dei conflitti coreano e vietnamita, poi al Medio Oriente (dottrina Eisenhower del 1957) e all'Africa (questione del Congo). Nell'agosto del 1961 il presidente Kennedy lanciò per l'America Latina l'Alleanza per il progresso che doveva tradursi in un aiuto fissato in 20 miliardi di dollari in dieci anni.
Attualmente la ripartizione dell'aiuto pubblico bilaterale è determinata da quella dei tre programmi principali che lo compongono. Tale aiuto è fortemente concentrato nei paesi del Vicino Oriente, tanto che Egitto e Israele ricevono il 44% dei versamenti bilaterali. Una certa importanza ha pure raggiunto l'aiuto al Portogallo e alla Turchia. Per il resto, cioè la maggior parte dell'aiuto alimentare e l'aiuto ai progetti e ai paesi in via di sviluppo a basso reddito, i principali beneficiari sono il Bangladesh, l'India e l'Indonesia. Il programma di aiuto allo sviluppo continua a essere orientato essenzialmente verso l'agricoltura, lo sviluppo rurale e l'alimentazione, la pianificazione demografica, la salute, l'educazione e la valorizzazione delle risorse umane; infine un posto sempre crescente viene dato all'energia. Il coordinamento dei diversi programmi bilaterali e multilaterali di cooperazione attuati dagli Stati Uniti è stato rinforzato nel 1979 dalla creazione della International Development Cooperation Agency (IDCA).
Di contro, gli investimenti americani privati all'estero raggiungevano nel 1974 i 137,2 miliardi di dollari, di cui 29 miliardi nei paesi in via di sviluppo.
Dal punto di vista politico, gli aiuti hanno l'obiettivo di rafforzare i paesi che si oppongono alla minaccia comunista. Gli Stati Uniti rifiutano gli aiuti ai paesi giudicati troppo vicini al blocco comunista, mentre li intensificano ai loro alleati. Tuttavia, in particolari situazioni, un paese alleato può essere trascurato a favore di un paese non allineato, che si trovi a essere direttamente minacciato (nel 1962 gli aiuti all'India minacciata dalla Cina hanno suscitato il malcontento del Pakistan, alleato degli Stati Uniti).
Sul modello del Piano Marshall del 1947 sono stati effettuati alcuni tentativi da parte degli Stati Uniti per fornire aiuti unilaterali a un gruppo di nazioni. I due tentativi principali, teorizzati con la dottrina Eisenhower per il Medio Oriente del 1957 e soprattutto con l'Alleanza per il progresso, creata da Kennedy in favore dell'America Latina (con l'eccezione di Cuba) nell'agosto del 1961 alla Conferenza di Punta del Este, sono in larga misura falliti.
Nel complesso, gli aiuti amencani hanno suscitato nel Congresso dubbi crescenti circa la loro efficacia e sono, di conseguenza, diminuiti sensibilmente dopo il 1960: sia in valore assoluto (da 2,6 a circa 1,4 miliardi di dollari) che in percentuale rispetto al PNL.
Gli Stati Uniti hanno anche molti assistenti tecnici nel Terzo Mondo. Il Peace Corps, creato da Kennedy nel 1961, ha avuto come obiettivo (più o meno centrato a seconda dei casi) quello di permettere a giovani volontari americani di aiutare le popolazioni diseredate vivendo la loro stessa vita.
Durante gli anni settanta l'atteggiamento degli Stati Uniti verso il Terzo Mondo ha subito alcune evoluzioni. Il trauma provocato dall'impegno in Vietnam ha scoraggiato per molti anni ogni velleità di intervento diretto. Questa politica di arretramento rispetto alle posizioni del periodo antecedente è stata delineata nella dottrina di Guam del presidente Nixon (luglio 1969), conosciuta come politica di ‛vietnamizzazione'. Secondo tale impostazione, tocca ai paesi direttamente interessati fare gli sforzi necessari in materia di sicurezza, mentre gli Stati Uniti si limiteranno a fornire aiuti materiali e finanziari. Questo atteggiamento ha prodotto in seguito scacchi clamorosi per la potenza americana (successo del Movimiento Popular de Libertaçao de Angola - MPLA - nel 1976, caduta di Somoza in Nicaragua nel luglio del 1979) ed è stato oggetto di critiche crescenti. L'accentuarsi del conflitto Est-Ovest, le critiche di una larga parte dell'opinione pubblica nei confronti del carattere unilaterale della distensione, il successo dell'URSS nel Terzo Mondo (Angola, Mozambico, Vietnam, Cambogia, Yemen del Sud, Etiopia, Afghānistān) hanno indotto Washington a rivedere la posizione degli Stati Uniti verso i paesi del Terzo Mondo. Il progetto per una ‛Forza di pronto intervento', il nuovo interesse per il controllo di basi fisse, la ricerca di un consenso strategico nel Vicino Oriente si iscrivono in questa diversa linea politica dell'amministrazione Reagan.
b) L'Europa occidentale
Il distacco dei possedimenti d'oltremare non ha distolto l'attenzione delle potenze europee dalle loro antiche colonie. Sussistevano troppi legami economici, politici o culturali perché si potesse cancellare il lungo periodo di storia comune e le ex madrepatrie hanno quindi mantenuto molteplici rapporti con i nuovi Stati. La Gran Bretagna, più pragmatica, ha saputo utilizzare con discrezione e duttilità il quadro del Commonwealth per una concertazione politica e alcune azioni comuni, anche se l'atmosfera è stata turbata da divergenze d'opinione a proposito della Repubblica Sudafricana (apartheid, vendita di armi) e dalla secessione della Rhodesia.
La Francia ha conservato legami abbastanza stretti con i suoi antichi possedimenti, soprattutto in Africa. Se la Communauté française, istituita nel 1958, non resistette al costituirsi di nuovi Stati sovrani, continuò tuttavia a esserci una stretta concertazione tra questi e la Francia stessa. A partire dal 1973 è stata instaurata la prassi di un incontro annuale dei capi di Stato o di governo dei paesi africani con il presidente della Repubblica Francese. All'inizio questi incontri riunivano solo i territori francofoni, poi furono estesi ai paesi di lingua portoghese e anche agli altri paesi africani desiderosi di associarsi.
L'aiuto della Francia si caratterizza per essere notevolmente concentrato sui paesi della zona francofona e per la preponderanza degli interventi in materia di istruzione e di formazione professionale, di sanità e di servizi pubblici. In Francia non vi è nessun organismo coordinatore incaricato di definire una politica multilaterale di aiuti, compito che spetta invece ai diversi ministeri interessati (Cooperation et Développement, Relations extérieures ed Économie et Finances). Diversi organismi finanziari intervengono in tale settore. L'aiuto globale della Francia nel 1980 è stato di 4 miliardi di dollari, cioè lo 0,62% del PNL, ed è il secondo in valore assoluto e il quinto in valore relativo. L'aiuto bilaterale francese è caratterizzato da una forte prevalenza di aiuti gratuiti (quasi il 90% degli impegni), viene fornito in gran parte sotto forma di assistenza tecnica ed è prevalentemente diretto verso il settore rurale e verso quello dell'energia, con una ripartizione geografica assai stabile. Un po' meno della metà va ai Dipartimenti e Territori d'oltremare, il 30% ai paesi africani, l'8% al Maghreb e il resto (13%) agli altri paesi. Questa concentrazione geografica degli aiuti è stata criticata e in conseguenza è stato aumentato progressivamente il flusso degli aiuti in altre direzioni.
Gli aiuti della Gran Bretagna sono amministrati dall'Overseas Development Administration (ex Ministero per lo Sviluppo d'oltremare) che ora dipende dal Ministero degli Esteri (Foreign Office). Nel 1980 l'ammontare degli aiuti è stato di 1,78 miliardi di dollari, cioè lo 0,34% del PNL. Il 95% di questi aiuti è gratuito e diretto verso più di 100 paesi, ma i beneficiari principali sono i paesi poveri dell'Africa e dell'Asia meridionale: Egitto, Kenya, Tanzania, Zambia, Bangladesh, India, Pakistan.
In occasione della firma del Trattato di Roma i sei paesi della Comunità Economica Europea decisero di contribuire tutti insieme allo sviluppo di alcuni paesi sottosviluppati - noti con il nome di États Africains et Malgaches Associés (EAMA) - i quali, nell'accedere all'indipendenza, hanno negoziato una nuova associazione (Convenzione di Yaoundé del 1963, rinnovata poi nel 1969). Tali accordi contrattuali comportavano disposizioni commerciali e finanziarie (Fondo europeo di sviluppo, FES).
Questa politica geograficamente limitata fu estesa in occasione dell'allargamento della CEE nel 1972 e adattata alla realtà e ai bisogni dei paesi del Terzo Mondo. Fin dal 1969 la Convenzione di Arusha era stata firmata dal Kenya, dall'Uganda e dalla Tanzania; nel 1972 anche l'Isola Maurizio si associava alla Convenzione di Yaoundé. Nello stesso anno fu adottata la decisione di attuare una politica globale di cooperazione, negoziata con gli interessati, politica che portò alla firma degli accordi di Lomé (febbraio 1975) a cui aderirono 46 paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico (Stati ACP). Questa politica contrattuale regionale presenta le seguenti caratteristiche originali: a) gli accordi riguardano tutti i mezzi d'intervento (finanziari, commerciali, tecnici, strutturali) e rispondono ai diversi bisogni dello sviluppo; b) essi sono inseriti nei trattati internazionali ratificati dai singoli parlamenti e costituiscono un obbligo giuridico per l'Europa; c) i paesi beneficiari decidono in prima persona l'utilizzazione degli strumenti di questa cooperazione e la loro libertà viene rispettata.
La disposizione più innovatrice della Convenzione di Lomé è l'adozione di un sistema di stabilizzazione dei proventi dell'esportazione (STABEX) degli Stati ACP. Questo sistema compensa le perdite di proventi dovute a una diminuzione della domanda per i prodotti esportati, e svolge quindi un ruolo analogo a quello di un'assicurazione sulla disoccupazione. La Convenzione di Lomé è stata estesa e ampliata nel 1979, e alla data del 1981 interessa più di 60 Stati. Oltre a quest'azione a livello regionale allargato la CEE attua diversi interventi: accordi commerciali di diversi tipi con paesi dell'Asia o dell'America Latina, sistema comunitario di tariffe preferenziali generalizzate, aiuto finanziario e tecnico, aiuto alimentare e diversi interventi specifici d'urgenza.
In complesso l'aiuto della CEE nel 1980 fu di più di 12 miliardi di dollari, ossia quasi la metà dell'aiuto dei paesi dell'OCSE (26 miliardi).
c) L'URSS
A differenza degli Stati Uniti, che hanno reagito empiricamente alla nascita del Terzo Mondo utilizzando solo l'esperienza dell'America Latina, i Sovietici disponevano di una ben definita teoria e hanno quindi adottato una politica che si potrebbe definire dogmatica fino al giorno in cui sono stati costretti a trasformarla profondamente.
La strategia coloniale stabilita dal Komintern al suo II Congresso (luglio-agosto 1920) si basava sull'affermazione che la rivoluzione del mondo industriale europeo e quella del mondo coloniale avevano eguale importanza. Il I Congresso dei popoli d'Oriente, svoltosi a Baku nel settembre 1920, decise di promuovere la rivoluzione coloniale, ma, in accordo con la tesi dell'indiano M. N. Roy, si ritenne che soltanto il proletariato dei paesi coloniali poteva guidare tale rivoluzione. Malgrado il carattere estremamente minoritario di questo proletariato operaio, fu adottata la seguente tesi: ‟Le masse dei paesi arretrati, guidate dal proletariato cosciente dei paesi capitalisti sviluppati, arriveranno al comunismo senza passare per i diversi stadi dello sviluppo capitalistico" (v. Duroselle e Meyriat, 1962, p. 18). Si accordava quindi fiducia a un fronte operai-contadini, si eliminava la borghesia nazionale dalla lotta e si dava infine il primato alla rivoluzione occidentale. È indubbio che, almeno fino al 1952, Stalin ha atteso le grandi crisi economiche cicliche che dovevano annientare il mondo capitalista: ciò spiega l'estrema prudenza della politica sovietica nei confronti del Terzo Mondo - considerato come secondario - fino al 1954-1955. I paesi neutrali, come l'India o l'Egitto, furono attaccati con estrema violenza.
Nel 1955 il nuovo atteggiamento dell'URSS, che accetta il package deal alle Nazioni Unite (v. cap. 2, § b), prefigura la rivoluzione dottrinaria del 1956. Rilevano due studiosi di problemi sovietici: ‟Il XX Congresso del Partito Comunista Sovietico, che si è riunito nel febbraio del 1956, ha affrontato il problema di far uscire l'URSS dal vicolo cieco politico in cui la teneva racchiusa il rigorismo delle definizioni ideologiche staliniane, soprattutto per quel che concerne i rapporti con i paesi del Terzo Mondo di recente indipendenza" (v. Carrère d'Encausse e Schram, 1965, p. 398). Nel suo rapporto Chruščëv argomenta che i paesi asiatici ‟intervengono ora nell'arena mondiale in qualità di Stati sovrani o di Stati che difendono con tenacia il loro diritto a una politica estera indipendente". Essi devono ancora conquistare l'indipendenza economica, ma l'indipendenza politica ne è la prima condizione. L'URSS è pronta ad aiutarli ‟senza contropartite di ordine politico o militare", a differenza, beninteso, dell'aiuto americano, che è ‟imperialista". Essendo le forme del passaggio al socialismo ‟sempre più differenziate", si ammette quindi che la borghesia nazionale (in opposizione alla borghesia compradora) è un alleato essenziale del proletariato per l'emancipazione politica. In altri termini, da quella data l'URSS si sforza di migliorare le sue relazioni con i paesi di recente indipendenza, anche se con governo borghese. Così, al XX Congresso Chruščëv parla a favore dell'India, dell'Indonesia, della Birmania, dell'Egitto, della Siria, del Libano, del Sudan e moltiplica poi i suoi viaggi in diversi paesi del Terzo Mondo. Al XXII Congresso (ottobre 1961) egli attacca il Pakistan, alleato degli Occidentali, che ‛sperpera' i due terzi del suo bilancio per obiettivi militari; elogia Cuba (dove Castro comincia a proclamarsi comunista) e presenta una lista accuratamente calcolata di Stati amici: India, Indonesia, Birmania, Cambogia, Ceylon, RAU, ‛Irāq, Guinea, Ghana, Mali, Marocco, Tunisia, aggiungendo prudentemente ‟ecc."
Da quel momento la politica sovietica nei confronti del Terzo Mondo è caratterizzata dai seguenti elementi: a) appoggio morale a ogni paese in conflitto con una potenza occidentale; b) fornitura a buon mercato di armi - non proprio moderne - a certi paesi arabi (in particolare Egitto, Siria, ‛Irāq, Algeria), all'India e, soprattutto dopo il 1965, al Vietnam del Nord; c) distribuzione calcolata di un aiuto molto inferiore quantitativamente a quello americano e qualitativamente molto diverso.
L'aiuto sovietico è di due tipi: doni spettacolari (ospedali, scuole tecniche, biblioteche, aerei per i leaders politici, ecc.) e prestiti risultanti da ‛accordi di cooperazione economica e tecnica'. Questi accordi sono quasi tutti dello stesso tipo: prestiti per 12 anni a interessi molto bassi (2,5%), con l'obiettivo di creare industrie di Stato (acciaierie, centrali elettriche, eccezionalmente anche impianti di irrigazione, per esempio in Guinea). Gli aiuti sono vincolati, servono cioè a importare macchinari sovietici che verranno poi montati da tecnici sovietici, aiutati dalla manodopera del paese. Questi tecnici se ne vanno dopo aver terminato il lavoro e le attrezzature restano di proprietà del paese beneficiario (fa eccezione, per esempio, la grande acciaieria di Bhilai, in India, dove i tecnici sono rimasti). Il rimborso viene effettuato in larga misura con materie prime.
L'aiuto dell'URSS è rimasto praticamente stazionario durante gli ultimi trent'anni e non si è adattato all'evoluzione dei bisogni dei paesi in via di sviluppo. L'importo dei versamenti netti di tale aiuto è sempre stato modesto rispetto al potenziale economico dell'URSS, ed è anzi diminuito negli ultimi anni. È assai difficile farne una valutazione in quanto i paesi del COMECON non pubblicano statistiche sui loro aiuti e, inoltre, separano i paesi socialisti - come Cuba e il Vietnam - dagli altri paesi in via di sviluppo. Dal 1970, includendo questi paesi e la Corea del Nord, i versamenti annui dell'URSS assommano in media a 850-900 milioni di dollari ma, se si escludono i paesi socialisti, la parte restante non supera i 200 milioni annui. L'aiuto sovietico è stato tradizionalmente concentrato su un numero abbastanza ristretto di paesi, principalmente nel Medio Oriente e nell'Asia meridionale. I paesi beneficiari più importanti, esclusi Cuba e il Vietnam, sono stati l'Afghānistān, l'Algeria, l'Iran, l' ‛Irāq, la Siria e la Turchia, e in passato l'Egitto e l'India. Le condizioni finanziarie per questo aiuto sono state notevolmente più rigorose di quelle dei paesi dell'OCSE o dell'OPEC. D'altra parte esso è fortemente orientato verso i progetti industriali e quelli per infrastrutture che assorbono più dei 3/4 dell'aiuto totale.
Durante gli anni settanta l'URSS ha sviluppato all'interno del Terzo Mondo una notevole presenza, che si è tradotta in successi incontestabili, malgrado alcune sconfitte.
Nel Medio Oriente l'URSS ebbe all'inizio alcuni insuccessi. Nel luglio del 1972 in Egitto - poco dopo la firma, nel maggio 1971, del trattato di amicizia sovietico-egiziano, primo di una serie che sancirà i nuovi legami di Mosca con il Terzo Mondo - il presidente Sadat espulse i consiglieri sovietici prima di iniziare - senza il loro appoggio - la guerra dell'ottobre 1973. L'aiuto sovietico era stato limitato e di breve durata, in quanto Sadat si era rivolto assai presto verso gli Stati Uniti che, secondo lui, erano la sola potenza arbitra della pace nella regione (accordo di Camp David nel settembre 1978 e di Washington nel marzo 1979). Nel Sudan un colpo di Stato filocomunista fu duramente represso nel luglio 1971. L'URSS dovette quindi prevedere la dissoluzione dei partiti comunisti e la collaborazione su base individuale dei comunisti con i gruppi locali. Questa formula dei ‛fronti nazionali' fu applicata in Siria e nell'‛Irāq. La politica di pace del presidente Sadat, il suo isolamento nel mondo arabo, l'intransigenza di Israele offrirono all'URSS nuove occasioni favorevoli, consentendole di stringere nuovi rapporti con regimi prima ostili (Libia) e di rafforzare i legami con gli amici tradizionali (Algeria, Siria, Yemen del Sud).
È però in Africa che i successi dell'URSS furono maggiori. La rivoluzione portoghese dell'aprile del 1974 e la caduta del negus in Etiopia provocarono delle agitazioni che l'URSS, con l'aiuto di Cuba, seppe sfruttare abilmente. L'aiuto dato al MPLA si dimostrò fruttuoso e si svilupparono buoni rapporti anche con il Mozambico. Nel Corno d'Africa, dove la Somalia, suo ex alleato, era alle prese con l'Etiopia rivoluzionaria per via dell'Ogaden, l'URSS nel novembre 1977 operò un capovolgimento delle alleanze.
Ormai l'URSS ha in Africa delle amicizie basate su regimi a partito unico che hanno scelto la via di un socialismo più scientifico di quello dei loro predecessori; inoltre, la presenza di circa 40.000 soldati cubani dà una certa garanzia di durata. Attraverso questi alleati l'URSS è in grado di esercitare un'influenza maggiore anche nell'Africa australe, regione strategica nella quale la Namibia e la Repubblica Sudafricana tengono vive numerose ragioni di contrasto.
In Asia l'URSS non si è concessa tregua nel promuovere il raggruppamento dei paesi che potevano appoggiare la sua volontà di arginare la spinta cinese. I suoi rapporti con il Vietnam da buoni divennero privilegiati a partire dal 1978, quando Hanoi ruppe con Pechino. Nella stessa epoca, aprile 1978, una rivoluzione di palazzo insediò a Kabul un regime comunista che, esposto a conflitti interni e a una crescente resistenza della popolazione, provocò l'intervento dei sovietici in Afghānistān nel Natale 1979. Questo intervento armato sovietico in un paese del Terzo Mondo ha deteriorato alquanto l'immagine di Mosca, soprattutto nei paesi musulmani.
All'inizio degli anni ottanta le posizioni dell'URSS nel Terzo Mondo appaiono comunque assai solide. Tuttavia, senza che si possa parlare di riflusso, esse sembrano aver toccato alcuni limiti: innanzitutto provocano ormai un certo sospetto nel Terzo Mondo, e inoltre hanno suscitato una dura reazione da parte degli Stati Uniti. L'URSS cercherà quindi probabilmente di consolidare ciò che ha acquisito prima di lanciarsi in nuove operazioni sempre più pericolose.
d) La Cina
I comunisti cinesi, e in particolare Mao Tse-tung, hanno elaborato nei confronti del Terzo Mondo una teoria molto diversa da quella dei Sovietici, anzi opposta. Fino al 1955 avevano condiviso le idee sovietiche e in seguito anche l'appoggio sovietico al neutralismo delle ‛democrazie nazionali', ma successivamente arrivarono alla conclusione che queste democrazie dovevano essere dirette dal proletariato e che la violenza era il solo mezzo efficace per raggiungere l'emancipazione.
Mao Tse-tung, nel 1964, distinse due ‛zone intermedie': la prima equivalente al Terzo Mondo secondo la nostra definizione, la seconda comprendente i paesi industrializzati europei, il Canada e il Giappone, anch'essi sfruttati dagli Stati Uniti. Il ‛primo mondo' era costituito, naturalmente, dalle superpotenze (Stati Uniti e Unione Sovietica).
Nel 1966, al X Plenum del PCC, questa teoria venne meglio precisata: l'URSS, ansiosa di stabilire una forma di ‛coesistenza pacifica' o di distensione, tradiva il movimento operaio e il pensiero di Lenin. La distinzione tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, in realtà, non esiste. ‟Vi sono da una parte i proletari e la Cina, dall'altra tutti gli altri. La Cina si proclama il difensore della lotta di classe a livello internazionale in un mondo in cui contano solo le lotte rivoluzionarie. Il concetto di zona intermedia si è allargato fino a dissolversi in quello di un blocco omogeneo attorno a Pechino. [...] Gli amici sono gli Stati rivoluzionari e i semplici proletari riuniti in partiti non al potere" (v. Richer, 1971, p. 13). In queste condizioni è naturale che il PCC abbia cercato di assumere il controllo sui partiti comunisti e che l'URSS vi si sia opposta con tutte le sue forze, ottenendo un pieno successo con i partiti piu importanti, ma senza un'uguale fortuna con i partiti minori.
Durante questi ultimi trent'anni la Cina ha dato un importante aiuto allo sviluppo, con impegni che raggiungono un totale di 7 miliardi di dollari e i cui importi annui hanno oscillato secondo l'evoluzione politica attuatasi in Cina e nei paesi in via di sviluppo. Limitato all'inizio ai paesi comunisti vicini e ad altri paesi del Sud-Est asiatico, l'aiuto si è esteso a partire dall'inizio degli anni sessanta, e questa tendenza si è accentuata nella prima metà degli anni settanta quando numerosi paesi africani, alcuni paesi dell'America Latina e Malta sono stati aggiunti ai beneficiari.
Le condizioni finanziarie dell'aiuto cinese sono state sempre molto favorevoli per i paesi interessati. Esso si è orientato verso programmi di breve o media portata, soprattutto nell'industria leggera o alimentare, o verso alcuni progetti di infrastrutture. Questo aiuto è stato spesso elogiato come particolarmente adatto ai bisogni dei paesi in via di sviluppo, in quanto si giova di una tecnologia semplice o intermedia combinata con un'utilizzazione intensiva della mano d'opera. Ma mentre a metà degli anni settanta i versamenti annui raggiungevano circa 350 milioni di dollari, a partire dal 1978 sono notevolmente diminuiti riducendosi a circa 100 milioni di dollari.
Al termine della rivoluzione culturale (IX Congresso del PCC, aprile 1969) la politica cinese verso il Terzo Mondo perde la sua unità e le motivazioni dottrinali e politiche del periodo precedente. Le preoccupazioni della Cina si imperniano sempre più su una denuncia implacabile e costante della politica sovietica, qualificata come ‛nuovo egemonismo', ‛social-imperialismo' o ‛sciovinismo'. Da ciò deriva un riavvicinamento progressivo agli Stati Uniti, al Giappone e all'Europa occidentale e un'attenzione minore verso le forze rivoluzionarie del Terzo Mondo; Pechino adotta quindi un atteggiamento più sfumato, guidato essenzialmente dai suoi interessi strategici. Questo si verifica in primo luogo nell'Asia sudorientale: diffidenza nei riguardi dell'India, giudicata troppo filosovietica, sostegno del Pakistan, rifiuto di riconoscere la scissione del Bangladesh (1971-1972), rottura e guerra con il Vietnam (1978-1979), progressiva riconciliazione con i paesi dell'ASEAN (Association of South-East Asia Nations).
In Africa la Cina perde alcune delle sue amicizie e riduce il suo appoggio politico, economico e militare. Nel Vicino Oriente intrattiene rapporti con tutti gli Stati e non mette più in primo piano la lotta dei movimenti palestinesi. In America Latina la sua influenza resta debole. Il desiderio della Cina di modernizzare la sua economia, la sua apertura verso l'estero, il suo ingresso negli organismi multilaterali (1980, BIRS, Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo), l'abbandono del principio maoista di contare sulle proprie forze fanno sì che la politica cinese dello sviluppo non eserciti più la stessa attrazione ideologica che esercitava in passato.
4. I mezzi d'azione del Terzo Mondo
Abbiamo visto precedentemente attraverso quali procedimenti e secondo quali schemi - empirici o teorici - i paesi potenti o ricchi cerchino di attirarsi la simpatia, l'appoggio o anche l'alleanza del Terzo Mondo. Ma l'indipendenza politica per uno Stato consiste anche nel poter prendere, sul piano della politica estera, delle decisioni autonome. È normale quindi che, singolarmente o collettivamente, i paesi del Terzo Mondo abbiano cercato di tutelare e sviluppare un'indipendenza acquisita di recente. La maggior parte di questi paesi è però ancora debole: la potenza militare, per la totalità di essi, è minima rispetto a quella degli Stati Uniti o dell'URSS. Tuttavia, l'attuale sistema internazionale offre al Terzo Mondo numerosi mezzi d'azione, ideologici, economici, politici, ed esso, sempre oggetto di grande interesse, tende soprattutto a divenire arbitro del proprio destino.
a) La violenza
La nascita del Terzo Mondo è coincisa con una prodigiosa diffusione della violenza. Indubbiamente le reazioni dei deboli contro i forti sono sempre esistite nella storia umana e la guerriglia ne è il simbolo (v. guerriglia). Ma, mentre prima del 1940 i teorici militari la consideravano complementare rispetto alle operazioni convenzionali, l'esperienza di Lenin, di Lawrence, di Mao Tse-tung, dei maquis, della resistenza antinazista ha messo in primo piano nella teoria militare la guerra sovversiva, i suoi aspetti psicologici, le sue tattiche, la sua strategia. I successi ottenuti hanno rafforzato la teoria.
I tipi di violenza a disposizione dei paesi in via di sviluppo e poco industrializzati, che non possiedono quindi, salvo eccezioni, armi convenzionali in grandi quantità (a meno che non ricevano un aiuto eccezionale, diretto e massiccio, da parte di una delle due grandi potenze), si sono sempre più precisati. Le vittorie della guerra sovversiva ormai non si contano più. Si è anche assistito, nel caso del Vietnam, a una coordinazione sempre più stretta fra la guerra sovversiva dei Vietcong e la guerra convenzionale del Vietnam del Nord. Le forme di violenza che si prospettano ai paesi del Terzo Mondo, sia per emanciparsi, sia per resistere a un occupante o a un governo ostile, sono comunque assai varie: 1) guerriglia di tipo cubano: i guerriglieri moltiplicano le incursioni dalle sierras inaccessibili prima di invadere le città e conquistare il potere (strategia dei focolai di guerriglia); 2) guerriglia rurale (cinese e vietnamita), in cui l'osmosi fra contadino e combattente è quasi perfetta; 3) guerriglia urbana con attentati (per esempio in Marocco, dal 1953 al 1955, o i tupamaros in Uruguay); 4) sequestro di ostaggi, soprattutto con la variante dei dirottamenti di aerei (in numero crescente dal 1968, per opera delle organizzazioni palestinesi).
Limitiamoci a ricordare le condizioni che regolano l'efficacia della guerra sovversiva: 1) esistenza di masse miserabili, ma sufficientemente coscienti della loro miseria per costituire una costante riserva per il reclutamento di piccoli gruppi di combattenti. Lo sviluppo, con il suo seguito di comodità, rende le popolazioni inadatte alla sovversione; 2) utilizzazione sistematica del terrore da parte dei rivoluzionari nei confronti dei loro stessi compatrioti, per soffocare e reprimere spietatamente le dissidenze e le esitazioni; 3) irrilevanza dei risultati oggettivi ottenuti rispetto a quelli psicologici (due o tre attentati al giorno in una città bastano a creare un'atmosfera di terrore e d'insicurezza); 4) consapevolezza del fatto che la mobilità è più importante della creazione di basi solide. Con un forte avversario convenzionale le zone liberate sono estremamente vulnerabili. È quindi di gran lunga preferibile colpire un po' dovunque, in modo che l'avversario ignori sempre come e dove verrà colpito; 5) infine, applicazione del principio secondo il quale la potenza convenzionale vince solo con la resa senza condizioni dell'avversario, mentre il rivoluzionario vince se resiste. Secondo l'espressione di Raymond Aron: ‟Forse l'alternativa principale, al livello della strategia, è vincere o non perdere. Una strategia può tendere a una vittoria decisiva sulle forze armate del nemico, per dettare poi al nemico inerme le condizioni di pace. Ma, quando i rapporti di forze escludono una tale eventualità, i comandanti militari possono anche porsi l'obiettivo di non perdere, scoraggiando la volontà di vittoria della coalizione più forte".
b) L'opinione pubblica internazionale e le Nazioni Unite
L'opinione pubblica internazionale esiste o è soltanto la giustapposizione, più o meno armoniosa, delle differenti opinioni pubbliche nazionali, divise per natura o per destino? Qualunque sia la risposta a questo interrogativo che divide sociologi e teorici delle relazioni internazionali, è incontestabile che le Nazioni Unite esercitano un ruolo di tribuna per la propagazione d'una certa corrente di pensiero sul piano internazionale.
Nel 1981, dei 154 membri dell'organizzazione mondiale 122 appartenevano al ‛gruppo dei 77', detenendo dunque la maggioranza dei due terzi ed esercitando un'influenza determinante in caso di voto o di proposte d'azione. La storia dell'ONU è costellata di voti fondamentali, con cui il Terzo Mondo ha imposto il suo punto di vista: condanna dell'intervento franco-britannico a Suez nel 1956, Dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza (1960), sulle relazioni pacifiche tra Stati (1970), sulla concessione dello statuto di osservatore permanente all'OLP (1974) e anche sulla formula controversa relativa all'assimilazione del sionismo a una forma di razzismo (1975). Alcuni statisti come H. Kissinger hanno denunciato gli effetti di questa ‛maggioranza automatica', ma in realtà si dimentica che se il Terzo Mondo è unito nella ricerca e nella difesa di alcuni grandi principî (sovranità degli Stati, non ingerenza, libera scelta del sistema economico e sociale, diritto allo sviluppo), resta tuttavia diviso su numerosi problemi regionali come il Sahara occidentale, i problemi del Corno d'Africa e il Vicino Oriente.
I paesi del Terzo Mondo non hanno adottato sempre un atteggiamento uniforme verso i grandi conflitti che si sono succeduti sulla scena internazionale dal 1945 e che hanno offerto l'occasione di mettere alla prova la loro solidarietà e la loro capacità di adottare posizioni comuni. La ‛guerra fredda' ha dato vita al gruppo dei paesi non allineati, i quali hanno cercato di tenersi fuori dalle dispute delle grandi potenze per evitare il peso eccessivo degli armamenti. Analogamente il movimento di decolonizzazione è stato l'occasione per una solidarietà che ha trasceso i continenti, le ideologie e gli interessi economici: è stata, infatti, proprio l'ideologia anticoloniale che, nel 1950, ha determinato la coalizione del gruppo dei paesi afroasiatici, movimento culminato nella Conferenza di Bandung del 1955. Questo rifiuto del colonialismo o del neocolonialismo ha unito, a poco a poco, i paesi del Terzo Mondo in una vasta coalizione che in seguito ha dato vita al movimento dei paesi non allineati.
L'ostilità dei paesi africani si è manifestata nei confronti del Portogallo - impegnato fin dagli anni 1960-1961 in una lunga guerra coloniale nella Guinea Bissau, in Angola e nel Mozambico - e nei confronti della Repubblica Sudafricana, colpevole di lasciar sussistere una situazione di tipo coloniale (apartheid) e di rifiutare l'emancipazione della Namibia (ex Africa del Sud-Ovest, ribattezzata così nel 1968). I paesi arabi si sono trovati sempre uniti sul terreno della lotta contro Israele; la loro umiliazione dopo la severa disfatta della guerra dei sei giorni (giugno 1967) ha alimentato un movimento compatto di rivendicazione per ottenere la restituzione dei territori occupati da Israele.
A partire dal 1970 si è stabilito un legame tra le rivendicazioni dei paesi arabi e gli obiettivi perseguiti dai paesi africani in organismi come l'OUA (Organizzazione dell'Unità Africana) o nel movimento dei paesi non allineati. La guerra dell'ottobre 1973 ha sigillato questa alleanza che era stata preceduta da una serie di rotture diplomatiche tra i paesi africani e Israele. I paesi latino-americani e asiatici si sono a loro volta allineati con gli Arabi e gli Africani nelle questioni essenziali, e inoltre la fine della guerra del Vietnam, che aveva opposto per anni i filoamericani dell'ASEAN ai filosovietici e ai non allineati, come l'India e la Cambogia, ha suscitato nuove speranze di pace e di equilibrio in questa regione tanto ferita.
Per alcuni anni, saldati tra loro dalla comune rivendicazione di un nuovo ordine economico, i paesi del Terzo Mondo hanno saputo mantenere una certa unità che però, dalla metà degli anni settanta, non ha resistito al progressivo degradarsi delle relazioni Est-Ovest e al moltiplicarsi dei conflitti locali.
c) Il non allineamento
Una grande corrente politica, nata negli anni della guerra fredda, ha esercitato un'influenza determinante sul Terzo Mondo, e particolarmente nell'ambito delle Nazioni Unite: il movimento dei non allineati. Tale movimento fu dapprima una protesta degli Stati giovani, appena apparsi sulla scena internazionale, contro i tentativi delle grandi potenze di dividere il mondo come loro conveniva; ma fu anche un tentativo di emancipazione nei confronti delle antiche potenze coloniali. L'atteggiamento di alcuni paesi (Iugoslavia, India ed Egitto) cominciò a manifestarsi quando essi adottarono una linea indipendente nei confronti del conflitto coreano. Tito, Nasser e Nehru, riuniti a Brioni in Iugoslavia nel luglio del 1956, gettarono le basi di un movimento di concentrazione delle forze che si consolidò poi agli inizi degli anni sessanta (Conferenza di Belgrado, settembre 1961; del Cairo, ottobre 1964). Ma sarà durante gli anni settanta che il non allineamento, arricchendo il suo programma con rivendicazioni economiche miranti a trasformare il sistema economico mondiale, acquisterà il suo effettivo vigore e sarà maggiormente ascoltato. Cresce il numero dei paesi non allineati che vi aderiscono: 25 nel 1961, 43 nel 1964, 53 nel 1970, 83 nel 1973, 95 nel 1979, 97 nel 1981, senza contare una decina di osservatori e altrettanti delegati dei paesi invitati.
Il non allineamento, malgrado alcune ambiguità, rappresenta l'abbozzo di un nuovo sistema internazionale e appare come un atteggiamento nuovo. Esso differisce dalla neutralità classica, che significa solo astensione in caso di guerra, e non è neppure isolazionismo, perché i suoi protagonisti intendono, invece, agire concretamente sulla scena internazionale. I non allineati non intendono costituire un qualsiasi terzo blocco: essi rappresentano innanzitutto una forza morale (Nehru), sono la coscienza dell'umanità (Tito), sono il sindacato dei poveri (I. Nyerere), esprimono l'unità nella diversità (K. Kaunda). Il presidente algerino H. Boumedienne, che presiedette il movimento dei non allineati dal 1973 al 1976, nel suo discorso inaugurale della Conferenza di Algeri (3 settembre 1973) dichiarò: ‟Più che un punto di incontro il non allineamento dimostra di essere un polo di attrazione per l'insieme del Terzo Mondo e per altri paesi. Il suo apporto costituisce indubbiamente il principale fattore di una positiva evoluzione dei rapporti internazionali".
Durante gli anni sessanta, a causa degli scontri della guerra fredda, il non allineamento pone dapprima l'accento sui principi della coesistenza pacifica attiva, sulla ricerca della pace attraverso il negoziato, sulla creazione di zone di pace (Nehru), sulla conciliazione internazionale, contro l'installazione di basi militari straniere e la formazione di blocchi militari.
I nuovi Stati vogliono in primo luogo affermarsi sulla scena internazionale ed essendo deboli si uniscono. E quest'azione si esercita, per eccellenza, nell'ambito delle Nazioni Unite, dove si propaga la loro dottrina e si formano le loro concezioni.
Le rivendicazioni economiche non tardano. Si parlava già di aiuto e di assistenza tecnica a Bandung nel 1955; nel 1964, al Cairo, si reclamerà la creazione di un Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo economico. Nascerà così l'UNDP (United Nations Development Program). La formulazione di un ampio programma economico si attua nel corso degli anni, come risultato delle successive Conferenze sul commercio e sullo sviluppo (UNCTAD) di Nuova Delhi, 1968, e di Santiago del Cile, 1972, e porta all'appello di Algeri in favore di un nuovo ordine economico internazionale (settembre 1973), ampliato in occasione della crisi energetica e ratificato dalle Nazioni Unite nella prima Assemblea generale straordinaria dedicata ai problemi dello sviluppo e della cooperazione economica internazionale (aprile-maggio 1974).
Queste rivendicazioni del Terzo Mondo, volte a riequilibrare i rapporti economici mondiali, suscitano un continuo dialogo in seno ai molteplici organi dell'ONU (UNCTAD, FAO, UNOID - United Nations Organization for Industrial Development -, ILO), noto sotto il nome di ‛dialogo Nord-Sud', riguardante i mercati delle materie prime, il commercio, il finanziamento dello sviluppo, l'agricoltura e l'alimentazione, l'energia. Ma nonostante queste iniziative, i progressi si manifestano lentamente e l'aiuto internazionale ristagna: espresso in percentuale del PNL, l'aiuto pubblico nel 1980 è lo stesso del 1970, e cioè 0,35% del PNL dei paesi industrializzati dell'OCSE (20 miliardi di dollari). L'aiuto dell'OPEC (5 miliardi di dollari) è proporzionalmente più importante (3% del PNL) e quello dei paesi dell'Est è molto inferiore (1,5 miliardi, 0,08% del PNL).
L'esperienza effimera della CCEI (Conferenza per la Cooperazione Economica Internazionale), che raggruppa un numero limitato di paesi industrializzati (8) e di paesi in via di sviluppo (19), risponde solo in piccola misura alle speranze del Terzo Mondo. Nel giugno 1977 essa si aggiorna con la richiesta di un aiuto urgente in favore dei paesi più poveri. Da allora il ‛dialogo Nord-Sud' si svolge a un livello più tecnico. L'idea (suggerita dal Rapporto Brandt) di un progetto d'incontro Nord-Sud limitato ai vertici fece strada e approdò all'incontro di Cancun (ottobre 1981), che riunì 22 capi di Stato o di governo del Nord e del Sud e al quale - cosa del tutto nuova - partecipò il primo ministro cinese. Quest'incontro fu occasione di utili scambi sulle priorità dell'azione internazionale (agricoltura e alimentazione, energia, finanziamento dello sviluppo) ma non approdò ad alcun risultato concreto.
Il Terzo Mondo resta favorevole al lancio di ‛negoziati globali' che però, anche nel 1982, rimane molto problematico.
d) Raggruppamenti fra Stati
Poiché l'unione fa la forza, i paesi del Terzo Mondo hanno naturalmente cercato, per vie diverse, di creare forme di coalizione - di estensione e durata variabili - più o meno strette e riguardanti obiettivi molto differenti (economia, cultura, politica, ecc.). Ne enumeriamo qui i tipi principali.
1. Unioni di Stati. È in Africa, continente tra i più balcanizzati, e nel mondo arabo che si assiste al maggior numero di tentativi di fusione di Stati o di creazione di ‛federazioni'. Ma in pratica tutti hanno fallito per contese personali, antagonismi ideologici, o per il peso dei nazionalismi o dei particolarismi. L'unione Guinea-Ghana, proclamata nel novembre 1958, non nacque neppure, non essendo stata prevista nessuna struttura giuridica per tentare di avvicinare tra loro due Stati non confinanti e di diverso livello economico. Il progetto di una Federazione del Mali, che doveva raggruppare il Senegal, il Dahomey, il Sudan e l'Alto Volta, si rivelò effimero e legò soltanto il Senegal e il Sudan fino al 1960. La Repubblica Araba Unita (RAU), proclamata il 1° febbraio 1958 tra l'Egitto e la Siria, si ruppe nel settembre 1961 quando Damasco eliminò i filonasseriani e recuperò la sua libertà.
Solo la Repubblica di Tanzania costituita, nell'aprile 1964, con una federazione tra il Tanganica e lo Zanzibar, ha resistito alla prova del tempo. Questa riuscita è dovuta alla personalità del leader in carica (J. K. Nyerere) e alla sopravvivenza per un lungo periodo di particolarismi locali; solo nel 1977 è stato creato un partito unico per tutta la Tanzania.
I progetti arabi di unificazione sono stati molto numerosi e hanno coinvolto soprattutto la Libia, il cui capo di Stato, il colonnello Gheddafi (Mu'hammar al-Qadhdhāfī) ha cercato di ricostituire l'unità araba, come successore di Nasser. Ma nessuno di tali progetti ha avuto un'effettiva realizzazione.
2. Gruppi di affinità politica o linguistica. Gli Stati del Terzo Mondo si sono raggruppati in maniera più o meno regolare e profonda, secondo i loro orientamenti politici o ideologici, per servire come quadro di riferimento per operazioni di assistenza tecnica ('gruppo di Colombo', nel 1950, nell'Asia sudorientale), o per procedere a raggruppamenti più vasti su scala continentale ('gruppo di Brazzaville', nel 1960, tra Stati africani ‛moderati'; ‛gruppo di Casablanca', nel 1961-1962, tra sei Stati progressisti).
Oggigiorno i gruppi di carattere politico hanno perso la loro utilità in seguito alla creazione di organismi meglio strutturati. Si può così distinguere in America Latina il ‛gruppo del Cono sud' (regimi militari autoritari: Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay) e il ‛gruppo dei paesi democratici' (Patto andino).
I gruppi a carattere linguistico ormai non esistono più (come l'Unione dei paesi francofoni, fondata nel 1967 in sostituzione dell'Unità africana e malgascia).
3. Grandi organizzazioni regionali. Il ‛continentalismo' sembra rispondere meglio ai bisogni dei paesi in via di sviluppo appartenenti a una stessa regione. La ‛Lega araba' fu il primo esempio di organizzazione regionale. Creata nel marzo 1945, prima ancora della firma della Carta di San Francisco, servì da modello agli altri raggruppamenti di questo tipo. Formata all'origine da 7 membri, conta ora (1981) 21 Stati dopo l'ingresso della Somalia, nel 1974, e della Repubblica di Gibuti nel 1976 (v. panarabismo).
Il panafricanismo ha dato origine nel maggio 1963 all'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA), che nel 1981 contava 51 membri, cioè la totalità degli Stati del continente a eccezione della Repubblica Sudafricana.
In America Latina l'Organizzazione degli Stati Americani (OAS) comprende anche gli Stati Uniti. Nell'ottobre del 1975 si è formato un raggruppamento su base economica, il SELA (Sistema Económico Latino-Americano).
L'Asia per la sua vastità geografica e le sue divisioni ideologiche non ha organismi regionali. L'ASEAN, sorta dal Trattato di Bangkok del 1967, raggruppa solo 5 paesi: Indonesia, Thailandia, Filippine, Singapore e Malaysia.
4. Gruppi di azione economica. I paesi del Terzo Mondo, produttori di materie prime soggette a forti fluttuazioni a causa dell'organizzazione dei mercati mondiali, hanno sempre cercato di raggrupparsi per difendere meglio i loro interessi. Il migliore esempio di questa nuova forza acquisita dal Terzo Mondo sulla scena internazionale è rappresentato dall'OPEC, creata a Bagdad nel settembre 1960 dai 5 principali Stati esportatori (Arabia Saudita, Venezuela, Kuwait, Iran e ‛Irāq). Fino alla fine degli anni sessanta, l'OPEC si è essenzialmente limitata a regolare il regime contrattuale che legava gli Stati produttori e le grandi compagnie petrolifere. All'indomani del colpo di Stato del colonnello Gheddafi in Libia, l'OPEC si impegnò a conquistare il controllo dei prezzi. L'operazione ha cominciato a ottenere successo fin dagli accordi di Teheran (febbraio 1971) ed è stata completamente ultimata in occasione della guerra arabo-israeliana dell'ottobre 1973 (decisione di Kuwait del 16 ottobre 1973). In poche settimane il prezzo di un barile di petrolio (158 litri), che fino al 1970 era rimasto per anni a meno di 1,80 dollari per passare poi a 2,12 e a 2,42 dollari (1971-1972), arrivò a 11,65 dollari. Ne derivarono un profondo sconvolgimento nel sistema economico mondiale e la necessità di tener conto di una fonte di energia divenuta ormai molto più costosa. Un nuovo e limitato gruppo di Stati (13, di cui 4 o 5 poco popolati: Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Libia) arrivò così ad accumulare enormi eccedenze finanziarie. Tuttavia il dominio completo del mercato del petrolio non fu mai raggiunto dai paesi dell'OPEC: sia a causa delle divergenze che li opponevano tra loro, sia per gli sforzi fatti per sostituire o ridurre il consumo di questa fonte di energia e per le nuove scoperte.
Altre associazioni di produttori sono state create per il caffè, il cacao, il rame (CIPEC, 1967) e la gomma, e si sono moltiplicate dopo il successo dell'OPEC: Associazione di produttori latino-americani di zucchero (1974), Associazione internazionale del mercurio (1974), della bauxite (1974), degli esportatori di banane (1974), del minerale di ferro (1975) e del tungsteno (1975). Tuttavia, contrariamente all'OPEC, la maggior parte di queste associazioni comprendono anche paesi produttori sviluppati.
5. Gruppi d'integrazione economica; Mercati Comuni. Prendendo esempio dal movimento d'integrazione economica dell'Europa, numerosi paesi in via di sviluppo hanno cercato di costituire delle unioni doganali o delle zone di libero scambio per accrescere i loro scambi interni e favorire la loro espansione industriale approfittando di mercati più estesi. Questo movimento ha avuto successo in America Latina negli anni sessanta e un po' più tardi, malgrado alcune delusioni, si è esteso in Africa e in misura minore in Asia.
Le prime esperienze d'integrazione ebbero luogo in America Latina sotto l'influsso delle teorie sullo sviluppo (desarollismo) dell'Economic Commission for Latin America (ECLA): il Mercato Comune dell'America Centrale (1960), che istituì un'unione doganale tra le cinque repubbliche centroamericane; l'Asociación Latinoamericana de Libre Comercio (ALALC), creata nel 1960 tra sette Stati, che punta in particolare sugli accordi di complementarità industriale; la Caribbean Free Trade Association (CARI FTA), creata nel 1965 e trasformata nel 1974 in Caribbean Common Market and Community (CARICOM), che istituisce anch'essa un'unione doganale tra una decina di Stati.
Il miglior esempio di integrazione economica nel continente americano è il Patto andino, istituito con la Carta di Cartagena (maggio 1969), che raggruppa Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador e Perù, e dal 1973 anche il Venezuela. Oltre l'unione doganale, i suoi membri ricercano una vera integrazione industriale e hanno adottato un atteggiamento comune nei confronti degli investimenti esteri. Ma proprio a causa di un disaccordo su quest'ultimo punto il Cile ha abbandonato il Patto nel 1976 e la Bolivia ha minacciato di fare altrettanto nel 1980.
In Africa il movimento d'integrazione economica ha dato origine a una molteplicità di organizzazioni spesso effimere: Organisation Africaine et Malgache de Coopération Économique (OAMCE), Union Africaine et Malgache de Coopération Économique (UAMCE) nel 1961. Nel 1981 sussistevano le seguenti organizzazioni: la Communauté Économique de l'Afrique de l'Ouest (CEAO), che nel 1974 ha sostituito l'Union Douanière des États de l'Afrique de l'Ouest (UDEAO) e che raggruppa sei Stati; l'Union Douanière et Économique de l'Afrique Centrale (UDEAC) creata nel 1964 da quattro Stati. L'organizzazione più importante è l'Economic Community of West African States (ECOWAS), creata nel 1975 dai quindici Stati della sottoregione, che mira a creare un'unità doganale entro quindici anni.
I paesi arabi non sono riusciti a completare il loro progetto di mercato comune varato nel 1964; si sono perciò costituiti altri organismi più limitati come l'Organizzazione degli Stati del golfo sorta nel 1976.
In Asia va ricordata la già menzionata ASEAN, che nel 1975 decise di ridurre progressivamente le barriere doganali.
5. I conflitti all'interno del Terzo Mondo
Finora abbiamo analizzato il Terzo Mondo come un tutto, sottolineando le caratteristiche comuni delle sue diverse componenti piuttosto che ciò che le divide. Tuttavia, tra i 122 Stati che lo compongono sussistono numerosi conflitti, ideologici, economici o politici. Tra gli alleati dell'Ovest e gli alleati dell'Est, i paesi non allineati possono essere filoo-ccidentali (come l'Arabia Saudita, l'Egitto, il Marocco) o filo-orientali (come l'Angola, l'Etiopia, il Nicaragua), o possono trovarsi in una delle infinite posizioni intermedie. Senza pretendere di tracciare un quadro completo, cercheremo di mettere in luce il ruolo del Terzo Mondo nei grandi conflitti (Vicino Oriente, Indocina, ecc.) e di fornire una classificazione dei conflitti di minore importanza (se commisurati su scala mondiale) tra paesi del Terzo Mondo.
a) Il Terzo Mondo e i grandi conflitti
Il conflitto del Vicino Oriente non è estraneo al conflitto Est-Ovest, poiché coinvolge gli Stati Uniti e l'URSS, oppone i paesi arabi a Israele e crea numerosi problemi ai paesi arabi stessi: rassegnarsi e trattare con Israele? ammettere l'esistenza di una nazione palestinese? ecc. L'atteggiamento del Terzo Mondo di fronte a tale conflitto è contrastante. Consideriamo per esempio la situazione del 1967, in occasione della sessione straordinaria dell'ONU dopo la guerra dei sei giorni. Come dice M. Hippolyte (Le conflit israëlo-arabe et l'action des Puissances): ‟Nella misura in cui è possibile valutare la portata degli interventi all'ONU, si può affermare che, in linea generale, i membri dell'Assemblea hanno giudicato che nessuno doveva godere dei frutti dell'aggressione e che, di conseguenza, Israele doveva evacuare i territori occupati, ma che, di contro, questo paese aveva il diritto di attendere dall'ONU la garanzia delle sue frontiere e il riconoscimento del suo diritto di passaggio pacifico per lo Stretto di Tirān".
b) I conflitti locali
Tra i paesi del Terzo Mondo si sono sempre determinati numerosissimi casi di conflitti con due o tre partecipanti. Quasi tutti sono stati e sono connessi a problemi di frontiera, legati al modo in cui l'indipendenza è stata conquistata o accordata, e cioè con delimitazioni di confine che risalgono al periodo coloniale. Molto spesso i nuovi paesi hanno ritenuto che i loro diritti fossero stati violati e, come facevano un tempo gli Europei, hanno rivendicato questo o quel pezzo di territorio come suolo nazionale, con le stesse motivazioni usate a suo tempo in Europa: diritti storici, frontiere strategiche, lingua, religione, volontà degli abitanti (spesso presunta), necessità economiche, ecc. Ma vi sono anche conflitti connessi alla presenza in uno stesso paese di più popolazioni, presenza che è fonte di gravi agitazioni, soprattutto se un gruppo etnico svolge rispetto a un altro un ruolo economico dominante. Più rari sono invece i conflitti connessi a rivalità economiche o a diversità di regime. Vi sono poi, come già è stato ricordato, conflitti di tipo separatista (Katanga, Biafra, Bangladesh, Eritrea) che raramente approdano a separazioni pacifiche come quella di Singapore dalla Malaysia nel 1965. Ricordiamo infine il movimento kurdo, che mira a creare un Kurdistan indipendente con territori turchi, iraniani e soprattutto iracheni.
1. Conflitti di frontiera. Ricordiamo alcuni esempi significativi. In Africa: la rivendicazione di una larga parte del Sahara algerino e della Mauritania da parte di alcuni gruppi politici marocchini, con incidenti nell'ottobre 1963 (guerra delle sabbie) e ripresa di scaramucce nel 1976 in occasione del conflitto per il Sahara occidentale; il conflitto tra la Somalia, l'Etiopia e il Kenya (1977-1978) a proposito dei territori rivendicati dalla Somalia (Northern Frontier District in Kenya, Ogaden in Etiopia).
In America Latina non vi sono stati grossi conflitti territoriali dopo la guerra del Chaco (1932-1938). È, come dice L. Manigat, ‟l'era del congelamento dei conflitti" (Les conflits en Amérique Latine. Stabilisation ou aggravation?, 1971, p. 1260). Vi sono stati invece numerosi incidenti, come il conflitto tra Honduras e Nicaragua del 1969 (che verteva su una questione di frontiera), il contenzioso Cile-Argentina a proposito del Canale Beagle a partire dal 1976, e quello tra Perù e Bolivia del 1980.
Nel Sud-Est asiatico: il conflitto del Belucistān, tra l'Afghānistān, dove vivono 6 milioni di Beluci e il Pakistan, dove ne vivono 5 milioni (l'Afghānistān è intenzionato a creare un Belucistān unificato ma dipendente); il conflitto della Malaysia, costituita nel 1963 con l'unione di Singapore e degli antichi protettorati britannici del Borneo settentrionale (Sabah e Sarawak) alla Federazione della Malesia. L'Indonesia, cui appartiene il Borneo meridionale, rivendica una parte di quello settentrionale, mentre le Filippine rivendicano il Sabah. Ma il conflitto più importante è stato certo quello del Kashmir, tra l'India e il Pakistan. Il territorio oggetto di conflitto, con una popolazione in maggioranza musulmana, era governato da un mahārāja indù e questa situazione ha provocato, nel 1965 e nel 1971, la guerra tra i due paesi.
2. Conflitti derivanti dal contatto tra gruppi etnici diversi. I più gravi si presentano nel Sud-Est asiatico. La formidabile emigrazione cinese in tutta la regione ha fatto sì che, tra i cinesi residenti all'estero, molti durante gli anni sessanta e settanta aderissero alle tesi maoiste (Thailandia del Nord, Laos, e in via secondaria Birmania, ribelli Nagas e Mizos dell'India nordorientale).
Gli incidenti più gravi non sono tuttavia connessi al problema del comunismo, ma semplicemente ai contatti razziali: in Malaysia la popolazione è composta per il 38,4% da Cinesi, per il 49,5% da Malesi, e per il 10,8% da Indiani. Poiché i Cinesi in genere controllano l'economia, i conflitti razziali degenerano spesso in esplosioni brutali e sanguinose (per esempio nel 1969).
In Ruanda, e in seguito nel Burundi, si sono verificati dei massacri reciproci tra le due razze prevalenti, gli Hutu e i Watutsi.
3. Conflitti economici. La maggior parte dei conflitti economici che investono i paesi del Terzo Mondo sono connessi alla ripartizione delle risorse naturali e in primo luogo del petrolio dei fondi marini, che pone delicati problemi di limitazione delle acque territoriali. Un esempio di questo tipo di conflitti è quello che ha opposto Colombia e Venezuela per la delimitazione delle rispettive acque territoriali nel Golfo del Venezuela e che ha assunto notevoli proporzioni con la scoperta delle ricchezze petrolifere, al punto che, nel 1970-1971, si è temuta addirittura l'eventualità di un conflitto armato.
Conflitti di questo tipo si sono moltiplicati a partire dal 1973, quando il prezzo dell'oro nero ha compiuto un balzo eccezionale.
Altri conflitti del genere insorgono tra gli Stati rivieraschi a proposito dei fiumi (Brasile-Argentina, India-Bangladesh per il Gange).
4. Conflitti connessi all'ostilità tra regimi diversi. È il caso dei conflitti del 1950 e del 1963 tra la Repubblica Dominicana e Haiti, del conflitto del 1959 tra Costarica e Nicaragua, dei conflitti del 1972 tra Uganda e Tanzania, tra Yemen del Nord e Yemen del Sud. ‟Su un elenco di otto conflitti interni, in senso stretto, all'America Latina (esclusi quindi i conflitti in cui entrano gli Stati Uniti) sette hanno avuto come base un'eterogeneità, o incompatibilità, di regimi politici tra le parti in conflitto" (cfr. Manigat, op. cit., pp. 1262-1263).
Un caso particolare fu quello della ‛guerra del football' che, nel luglio 1969, oppose Honduras ed El Salvador provocando 500 morti e la rottura per un decennio delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.
I conflitti determinati da opposizioni di tipo ideologico o politico si sono moltiplicati nella seconda metà degli anni settanta. È il caso della guerra tra il Vietnam e la Cambogia per il rovesciamento del regime dei Khmer rossi (febbraio 1979), o della guerra tra la Tanzania e l'Uganda (1978-1979), che ha visto la caduta di Amin Dada nell'aprile del 1979.
6. Il ruolo del Terzo Mondo
I mezzi d'azione che abbiamo prima analizzato ricordano sostanzialmente quelli che i piccoli paesi hanno sempre usato per moderare le ambizioni dei grandi. Solo il non allineamento e un uso nuovo della violenza danno un aspetto diverso a questi mezzi d'azione.
Ma il ruolo del Terzo Mondo dipende, più che da questi mezzi, dalla sua stessa esistenza e dalla sua natura, del tutto originale e (fatta eccezione per l'America Latina) assolutamente senza precedenti nel XIX secolo.
a) Un nuovo tipo di nazionalismo
La nascita del Terzo Mondo ha rafforzato in modo considerevole l'elemento essenziale delle relazioni internazionali del XX secolo: lo Stato-nazione. Nel momento in cui nei paesi occidentali si assisteva a un certo declino dell'ideologia nazionalistica e allo sviluppo dell'antimilitarismo e del pacifismo, la lotta per l'indipendenza dei paesi coloniali ha provocato nella maggior parte del mondo una formidabile rinascita del nazionalismo più acceso. I numerosi tentativi internazionalisti - siano di origine sovietica o cinese o anche a carattere religioso - non sono riusciti a ridurre né tanto meno a sopprimere la volontà di esistenza e di indipendenza nazionale dei nuovi paesi.
Il paradosso è rappresentato dal fatto che il sistema degli Stati-nazioni viene rafforzato da paesi che, nella maggior parte dei casi, sono ancora nazioni e Stati imperfetti. Ciò è però normale se si tiene conto che si tratta di formazioni nuove.
A. Nazioni imperfette. A questo riguardo il Terzo Mondo può essere diviso nelle cinque grandi categorie sotto elencate.
1. Un certo numero di antichi regni tradizionali, che esistevano già prima della colonizzazione e che sono stati sottoposti a protettorati o sono rimasti indipendenti (Marocco, Tunisia, Egitto, Etiopia, in Africa; Iran, Afghānistān, Thailandia, Cambogia, in Asia). Questa categoria tradizionale ha risentito fortemente del mutare dei tempi e molte monarchie sono cadute (Egitto 1952, Afghānistān 1973, Etiopia 1974, Iran 1979). La legittimità monarchica serve sempre meno come cemento dell'unità nazionale.
2. Paesi che prima della colonizzazione non erano unificati e che sono stati unificati dal colonizzatore. È il caso, ad esempio, del Madagascar, dove prima della conquista francese del 1895 gli Hova degli altipiani, di origine malese, non erano riusciti a dominare tutte le popolazioni africane del resto dell'isola. Ed è ancor più il caso dell'India, quale l'avrebbero voluta nel 1947 il Partito del Congresso e gli Inglesi. (La creazione del Pakistan, ‛paese dei puri', non ha consentito di conservare l'unità del subcontinente indiano). È anche il caso dell'Indonesia e delle Filippine, dove l'unità è stata una creazione degli Olandesi e degli Spagnoli, e in seguito degli Americani.
3. Paesi decolonizzati da molto tempo, dove si sono stabilite tradizioni comunitarie e in cui la volontà di convivere è nata col tempo. È il caso dell'insieme delle repubbliche latino-americane, da Haiti (repubblica nera e di dialetto francese) fino al Brasile (multirazziale, ma di lingua unica portoghese) e, soprattutto, è il caso delle 19 repubbliche spagnole che, invece di restare unite, si sono divise in entità diventate progressivamente nazioni (17 fra il 1825 e il 1830, Cuba nel 1898, Panama nel 1903).
4. Paesi dove la decolonizzazione conquistata con la forza ha cementato un'unità nazionale fino a quel momento assai dubbia. Il miglior esempio è l'Algeria. Anche se vi furono segni di nazionalismo nel XIX secolo (rivolta del 1870 in Cabilia), è stata certo una minoranza quella che ha scatenato la guerra d'indipendenza il 1° novembre 1954. Da ciò il suo valore esemplare di ‛rivoluzione nazionale'. È anche il caso delle colonie portoghesi dell'Africa meridionale (Rhodesia, Zimbabwe).
5. In tutti gli altri paesi l'indipendenza è stata concessa entro frontiere risultanti non dalla realtà etnica o geografica, ma dalle esigenze della vecchia amministrazione coloniale, o da vecchi trattati fra potenze coloniali, o anche da linee di occupazione militare, nel caso delle due Coree e dei due Vietnam.
Nel caso poi dell'indipendenza dell'Africa Occidentale Francese (AOF) e dell'Africa Equatoriale Francese (AEF), lo smembramento della prima in otto Stati e della seconda in quattro non è stato il risultato di manovre francesi, ma della risoluta opposizione di due paesi ricchi, Costa d'Avorio e Gabon, a forme d'indipendenza realizzate nell'ambito di grandi federazioni.
Nei territori africani già francesi e britannici non vi è alcuna unità etnica (si pensi agli Ewe, divisi tra il Togo ex britannico, annesso al Ghana, e il Togo ex francese divenuto indipendente). La stessa situazione si ritrova nel Medio Oriente arabo, dove le frontiere degli Stati coincidono spesso - a eccezione della Palestina - con le frontiere degli antichi mandati. Nel Sud-Est asiatico si può difficilmente immaginare uno Stato più artificiale dell'attuale Malaysia: multirazziale, geograficamente dispersa e privata di Singapore, ove la maggioranza cinese ha voluto essere indipendente.
In questi paesi - oltre ai conflitti nazionali cui abbiamo ora accennato - si assiste al formarsi di una volontà di vivere in comune, di un sistema di tradizioni e di immagini, di una iconografia, secondo l'espressione di J. Gottmann, che li trasformano progressivamente in nazioni. Il leader togolese Sylvanus Olimpio ha sintetizzato perfettamente questa realtà dicendo che, anche se i nuovi Stati non avevano scelto le loro frontiere, era necessario che essi creassero, all'interno di queste frontiere, il sentimento nazionale. Nella maggior parte dei casi, questo è quanto sta accadendo.
B. Stati imperfetti. Se la nazione è la vasta comunità che aspira a vivere insieme, lo Stato è l'apparato della sovranità e del potere, dalla sua testa - il capo dello Stato, il governo - fino alle sue ramificazioni, i funzionari e in particolare coloro che detengono la forza: militari e poliziotti.
Occorre ammettere che, esclusa l'America Latina, nella maggior parte del Terzo Mondo gli Stati sono ancora imperfetti. Rari sono i paesi che sono riusciti a istituire un sistema democratico (per es. come in India) in cui le libere elezioni sono la fonte del potere. La caratteristica essenziale del Terzo Mondo resta l'instabilità che determina la possibilità permanente di colpi di mano militari.
I regimi militari sono dunque maggioritari nel Terzo Mondo. I regimi civili instaurati da tempo sono poco numerosi o anch'essi instabili. In America Latina alcuni paesi sono riusciti a instaurare dei regimi di tipo democratico (Colombia, Messico, Venezuela o Costarica), ma anche in questi casi predomina la regola del ‛partito unico', come nel Messico, dove, sotto l'apparenza di una molteplicità di partiti, vi è in realtà un partito unico, il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI). Tuttavia, almeno da quarant'anni, il Messico ha sempre osservato la regola secondo la quale un presidente non poteva essere rieletto.
All'altro estremo si può citare il caso di Haiti, dove F. Duvalier si è autonominato presidente a vita e, alla sua morte, nel 1971, ha trasmesso il potere a suo figlio JeanClaude.
Nella maggior parte dei paesi latino-americani l'esercito è sempre pronto a correggere le decisioni di un suffragio universale, d'altra parte imperfetto, con dei pronunciamientos in generale reazionari, ma talvolta di sinistra (Perù 1968). Di fronte a questo sistema di caudillismo e di pronunciamiento, esistono altre forze emergenti: sindacati, intellettuali liberali, ecc., e in alcuni paesi certe trasformazioni si possono operare. Questo, d'altra parte, è uno degli aspetti dello sviluppo. Il Brasile, in cui il regime militare assicura una lenta democratizzazione della società, ne rappresenta il caso più tipico.
Nell'Africa Nera, sotto la copertura di costituzioni liberali, domina quasi ovunque un potere presidenziale a capo di un partito unico, che dispone di un'autorità arbitraria. Essendo gli eserciti piccoli, è spesso possibile per un qualsiasi colonnello o capitano impadronirsi del potere occupando con truppe fedeli i principali edifici amministrativi. I paesi africani stabili sono abbastanza rari: la Guinea di Sékou Touré, il Camerun di A. Ahidjo, la Costa d'Avorio di F. Houphouët-Boigny, il Senegal di L.-S. Senghor.
Fra i paesi arabi, l'Egitto gode dal 1952 di una effettiva stabilità, mentre la Siria ha conosciuto fino al 1971 innumerevoli colpi di Stato. Il Libano ha conservato uno dei rari governi relativamente democratici del Terzo Mondo, ma nel luglio del 1958 era stato necessario un intervento dei marines americani per salvarlo dal colpo di Stato e dal 1975 la guerra civile ha distrutto questo equilibrio precario. In Giordania re Hussein è sempre riuscito a sventare gli innumerevoli complotti diretti contro di lui.
Nel Sud-Est asiatico il colpo di Stato è un po' meno frequente e sostituito spesso dall'assassinio di ministri, ma alcuni paesi (Pakistan, Thailandia, Bangladesh) lo sperimentano più di altri. In Indonesia poi, nel 1965, è stato in parte provocato dall'intervento della CIA americana.
L'imperfezione dello Stato è qui caratterizzata dall'incapacità di tenere sotto controllo tutto il territorio, nel quale i ribelli, sia di particolari gruppi etnici, sia comunisti, occupano zone in rivolta. La Birmania, la Thailandia, le Filippine (con gli Hukbalahaps) sono buoni esempi di questa situazione, senza contare beninteso il Laos e la Cambogia, che furono coinvolti direttamente nella guerra del Vietnam.
b) Nuova struttura del sistema mondiale
In confronto al sistema internazionale dell'anteguerra, dominato dal ‛concerto europeo', quello degli anni ottanta appare straordinariamente più complesso. Al grande ‛scisma' Est-Ovest si è sovrapposto un conflitto Nord-Sud, latente dal 1955 e rivelatosi sulla scena mondiale a partire dal 1973. Ma sarebbe artificiale opporre in modo netto paesi ricchi e paesi in via di sviluppo. La carta del mondo comporta numerosi criteri di riavvicinamento d'ordine politico, ideologico o religioso, che trascendono queste divisioni puramente geopolitiche. La maggioranza degli Stati del Terzo Mondo, nazioni ieri in formazione, hanno ormai accesso alla cittadinanza internazionale e hanno conquistato a poco a poco posizioni di potere o d'influenza grazie alla loro azione collettiva all'ONU e negli organismi loro propri (OPEC).
7. Sintesi e conclusione
Malgrado la sua crescente eterogeneità, le sue disparità economiche, le sue differenze politiche, ideologiche, culturali ed etniche, la dispersione del suo territorio tra Stati-continenti, micro-Stati o isolotti minuscoli, il Terzo Mondo resta a pieno diritto una categoria della vita internazionale. Certamente le differenze esistenti al suo interno sono più importanti di quelle degli altri due mondi; ma questi sfuggono forse alla diversità?
Un'esplosione demografica (circa 2,4% all'anno), una crescita globale dal 1950 del 5,5% all'anno e del 3% pro capite, mentre i paesi industrializzati hanno registrato in due secoli solo una progressione del 2% per abitante: sono queste, da trent'anni, le principali caratteristiche del Terzo Mondo.
Certo questa progressione nasconde di fatto delle forti disparità: una trentina di paesi, che raggruppano più di un miliardo di uomini, hanno avuto in realtà solo una debole crescita (1% all'anno); l'Africa Nera e il subcontinente indiano costituiscono il ‛duro nocciolo' della povertà che sussisterà sino alla fine del secolo (v. povertà).
Sul piano dello sviluppo, due idee si sono fatte strada da un decennio e sono ormai largamente condivise. La prima è che la crescita globale non rifletta necessariamente una situazione migliore: conviene cercare piuttosto di rispondere ai bisogni fondamentali della popolazione in materia di alimentazione, salute, educazione, abitazione e servizi di base. Questa problematica, prospettata fin dal 1972 dal presidente della Banca Mondiale R. MacNamara, ha avuto a poco a poco una larga diffusione. I valori del PNL pro capite esprimono sempre meno delle realtà significative. Bisogna sforzarsi di aumentare la speranza di vita, il livello di educazione e l'alimentazione. Due ostacoli sembrano decisivi sul cammino del benessere: la cattiva alimentazione e la crisi energetica. In materia alimentare le prospettive non sono molto incoraggianti: in media dal 1960 al 1980 la produzione alimentare dei paesi in via di sviluppo è cresciuta del 2,8% all'anno, mentre la popolazione cresceva al tasso del 2,4%; nei paesi più poveri si è avuta una diminuzione pro capite dello 0,4% all'anno. Mentre i tre continenti del Terzo Mondo negli anni trenta esportavano circa 10 milioni di tonnellate di cereali, e all'inizio degli anni cinquanta erano ancora praticamente autosufficienti, nel 1977-1978 le loro importazioni nette superavano i 60 milioni di tonnellate all'anno. Le prospettive dal 1980 al 2000 non sono molto più favorevoli. Da ciò la necessità di sforzi maggiori, sia sul piano internazionale che interno, per stimolare la produzione agricola e alimentare.
I paesi in via di sviluppo incidono solo per una piccola parte (15%) sul consumo di energia commerciale. Ma tale parte registra una notevole crescita: dal 1960 al 1970, mentre il consumo dei paesi sviluppati si è raddoppiato, quello degli altri si è triplicato. In futuro il Terzo Mondo sarà il grande consumatore di energia, soprattutto petrolio, e ciò aggraverà fortemente il suo deficit commerciale e mobiliterà investimenti crescenti per la ricerca e lo sfruttamento di nuove fonti di energia.
Il secondo concetto, che ha una sempre maggiore udienza, si riferisce allo sviluppo endogeno: finora i paesi del Terzo Mondo hanno accresciuto le loro esportazioni industriali (in una decina di nuovi paesi industrializzati) utilizzando soprattutto i loro vantaggi comparativi (basso costo della mano d'opera), ma questo ha provocato delle reazioni protezionistiche da parte dei paesi sviluppati colpiti dalle esportazioni di prodotti tessili, di capi d'abbigliamento o di prodotti meccanici semilavorati, e ha determinato anche differenze economiche crescenti tra i paesi in via di sviluppo. Ne è derivata una presa di coscienza dell'opportunità di far fronte in modo migliore ai bisogni interni e di realizzare dei raggruppamenti economici su scala continentale.
La persistenza della crisi economica e l'indebitamento crescente (580 miliardi nel 1980, mentre gli aiuti internazionali tendono a stagnare) rendono talvolta drammatiche le prospettive per un buon numero dei paesi più poveri del Terzo Mondo. ‟Da ciò il balzo in avanti che si richiede per assicurare la loro sopravvivenza" (v. Brandt, 1980).
A queste difficoltà economiche strutturali si aggiungono numerosi interrogativi d'ordine politico, culturale o ideologico. I paesi del Terzo Mondo presentano una forte instabilità politica, sono esposti a molti conflitti esterni e sono oggetto degli appetiti delle grandi potenze. Le costrizioni esterne sono ancora pesanti: uno scarto crescente tra di essi e all'interno delle loro società, una solidarietà frammentata e sovranità minacciate. Tuttavia gli elementi di ottimismo sembrerebbero dover prevalere. La rinascita culturale avanza e si assiste a poco a poco a una liberazione di molti paesi dal ruolo di satelliti. Già nel campo dell'arte, del pensiero e anche della scienza si formano delle élites locali che portano un loro contributo. In molti paesi si assiste anche a cambiamenti che talvolta si effettuano con il rifiuto delle influenze esterne (rinnovamento islamico in Iran nel 1979), ma che in concreto si traducono in una migliore integrazione dei singoli rispetto ai bisogni del loro paese.
Certo gli eccessi commessi (gulag nel Vietnam, esodo delle élites, masse di rifugiati) segnano duramente alcune esperienze e uccidono molti miti rivoluzionari ben radicati. Ma questi, fortunatamente, restano casi abbastanza isolati. In definitiva, il Terzo Mondo non può non muoversi verso un ruolo più importante sulla scena mondiale. L'esercizio di responsabilità nuove all'ONU e nell'ambito di istituzioni monetarie e finanziarie rinnovate (FMI, BIRS) dovrà contribuire a forgiare un mondo più giusto e meglio equilibrato. C'è però ancora un lungo cammino da percorrere per arrivare a questa meta e forse, a quel punto, il Terzo Mondo si sarà dissolto dando vita a una società di Stati più diversificati. Ma queste proiezioni a lungo termine sono ancora molto ipotetiche. Il Terzo Mondo è una categoria specifica del campo internazionale e le sue diversità interne non costituiscono necessariamente degli ostacoli a una sua qualche unità. (V. anche sottosviluppo).
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Risorse agroalimentari di Gian Tommaso Scarascia Mugnozza
sommario: 1. Introduzione. 2. Sviluppo demografico e produzione alimentare: a) l'incremento della popolazione mondiale; b) l'incremento della produzione alimentare; c) consumi; d) sottoalimentazione e povertà; e) previsioni dello sviluppo demografico; f) popolazione, consumi e produzione agricola. 3. Le risorse agroalimentari attuali e previste: a) attuali produzioni agricole e zootecniche; b) i cereali; c) produzioni prevedibili e autoapprovvigionamento dei paesi emergenti. 4. I principali fattori della produzione agroalimentare: a) le specie animali e vegetali; b) il clima; c) il terreno; d) l'acqua; e) i fertilizzanti; f) i presidî fitoiatrici; g) le sementi selezionate; h) la meccanizzazione; i) la disponibilità di energia. 5. Vincoli ecologici esocioeconomici della produzione agroalimentare: a) tra XX e XXI secolo: condizionamenti e decollo dell'agricoltura nei paesi emergenti; b) la collaborazione internazionale. 6. Ricerca scientifica e tecnologica: a) ruolo e caratteristiche della ricerca agricola nei paesi emergenti; b) strutture nazionali; c) assistenza e cooperazione internazionale; d) il sistema CGIAR; e) stanziamenti; f) indirizzi di sviluppo. 7. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'approvvigionamento di cibi attraverso la caccia, la pesca e la raccolta di sostanze commestibili prodotte dalle piante selvatiche ha costituito, nei lunghi e oscuri tempi della preistoria, nell'oltre un milione di anni dall'ominazione, la risorsa alimentare dell'umanità. Per una notevole parte della sua esistenza Homo sapiens è stata una specie debole e minacciata di estinzione, non avendo il controllo delle fonti di nutrizione né delle cause di malattie e non essendo in grado di coprirsi e ripararsi adeguatamente. Era - dunque - una specie marginale, miracolosamente sopravvissuta grazie all'intelligenza che le ha permesso di imporsi alle altre specie e di trovare modi di adattamento e di intervento sull'ambiente.
La lenta ma progressiva crescita e diffusione degli aggregati umani e l'alterazione delle condizioni ambientali, con limitazione delle disponibilità di caccia, pesca e raccolta, obbligarono l'umanità a cercare fonti di approvvigionamento meno aleatorie, e a tentare coscientemente di piegare la biosfera ai propri fini. L'attenzione dedicata al fenomeno della germinazione dei semi, conseguita all'osservazione che semi deposti sul terreno germinavano dando piante e frutti, e la constatazione che era possibile domesticare e allevare animali ricavandone senza sforzi e rischi alimenti d'alto valore nutritivo, oltre che lavoro, sono eventi capitali dell'invenzione dell'agricoltura, veramente il primario (anche in termini di cronologia e di essenzialità) fra i settori di attività degli esseri umani.
È trascorso appena l'1% dell'esistenza del genere umano dall'introduzione dell'agricoltura, ma con essa è nata la storia della civiltà. Sebbene quel 75% di esseri umani che vive nelle enormi aree urbane spesso ignori o sottovaluti i problemi della produzione agricola, quasi credendo che i cibi si originino sulle scaffalature dei supermercati, il ruolo attuale del settore primario all'interno di uno Stato e nelle sue relazioni internazionali è un dato di fatto incontrovertibile: per esempio, nel paese dall'economia più forte, gli Stati Uniti, le esportazioni di prodotti agricoli, e in particolare di cereali (grano e granturco), sono da anni di gran lunga la più rilevante voce degli scambi commerciali, ammontante, nel 1980, a oltre 45 miliardi di dollari.
Ai fini e per i limiti della presente trattazione, possono essere considerate risorse alimentari le produzioni vegetali e animali derivanti dall'esercizio dell'attività agricola e suscettibili, direttamente o attraverso processi più o meno complessi di trasformazione e conservazione, di nutrire e sostentare l'umanità.
Eppure, a oltre 10.000 anni dall'invenzione dell'agricoltura e della domesticazione di piante e di animali, centinaia di milioni di individui ancora soffrono la sottoalimentazione e la fame. La lotta contro questa delittuosa situazione richiede un intenso e accanito impegno dell'intelligenza umana per utilizzare e approfondire le conoscenze sugli organismi animali e vegetali, sugli eventi e sugli interventi che regolano la disponibilità di risorse alimentari. A questo proposito è significativo rilevare che sia in Eurasia sia nelle Americhe già le comunità primitive dedicarono la maggior attenzione a piante in grado di assicurare una equilibrata dieta di glucidi e proteine: cereali (frumento, riso, orzo) e leguminose (ceci, fave, piselli, lenticchie) nel Vecchio Mondo, mais o radici commestibili (per es. manioca) e leguminose (fagioli, in particolare) nel Nuovo.
2. Sviluppo demografico e produzione alimentare
a) L'incremento della popolazione mondiale
Si congettura che, agli albori della coltivazione delle piante e dell'allevamento degli animali, la biosfera non fosse in grado di sostentare complessivamente più di 10, forse 15 milioni di individui. L'aumento del potenziale alimentare terrestre, per il perfezionarsi dei metodi agronomici e zootecnici, ha consentito l'incremento della popolazione umana che, nei circa otto millenni successivi, è verosimilmente raddoppiata 4 volte raggiungendo, all'inizio dell'era cristiana, i 250 milioni. Si avviava cosi la tendenza al reciproco rafforzamento dell'incremento demografico e della produzione agroalimentare, dal momento che l'incremento demografico, esercitando una crescente pressione sulle risorse alimentari, costringe l'uomo a modificare ulteriormente la biosfera per il proprio fabbisogno. Ed ecco che, mentre il successivo raddoppiamento si è verificato dopo 16 secoli (nel 1650), un ulteriore raddoppiamento è stato registrato soltanto dopo altri 2 secoli, grazie anche, per esempio nel Nordeuropa, alla maggior disponibilità di cibo per l'introduzione della coltura della patata. Nel 1850 - dunque - il genere umano comprendeva già 1 miliardo di individui. Con la scoperta della natura e delle cause delle malattie e con la nascita della moderna medicina, l'alto tasso di natalità non risultava più bilanciato dall'alto tasso di mortalità, e la diminuzione di quest'ultimo - soprattutto di quello infantile - preparava il grande balzo demografico. E così il secondo miliardo è stato raggiunto dopo appena 80 anni, ossia nel 1930, poco prima - cioè - della scoperta di antibiotici e vaccini: questi, riducendo spettacolarmente la mortalità, hanno contribuito a far sì che in un lasso di tempo inferiore a 50 anni (1975) si arrivasse a 4 miliardi di persone. Secondo le previsioni, un ulteriore raddoppio si avrà verso il 2020-2030, mentre già nel 2000 la popolazione umana dovrebbe superare i 6 miliardi (v. tab. I).
b) L'incremento della produzione alimentare
La produzione alimentare ha irregolarmente tenuto il passo con lo sviluppo demografico: carestie e fame hanno frequentemente imperversato in vari periodi e in tutti i continenti. E se negli ultimi decenni l'agricoltura, grazie anche al suo sviluppo tecnologico, ha registrato notevoli incrementi produttivi, le disponibilità di derrate non hanno influito a sufficienza sul livello di nutrizione degli abitanti dei paesi più poveri. Le cause sono molteplici: gli infimi bilanci di vari paesi emergenti; il loro lento decollo economico; gli inadeguati stanziamenti ad hoc da parte degli Stati ricchi; le carenze nel trasporto e nella distribuzione delle derrate; le difficoltà nell'accettare i modelli alimentari delle economie sviluppate; gli squilibri nelle relazioni commerciali fra paesi sviluppati, ed esportatori di prodotti industriali a prezzi spesso assai remunerativi, e paesi in via di sviluppo, esportatori di materie prime agricole e industriali a prezzi spesso assai bassi e variabili. Purtroppo, i problemi dell'alimentazione - produzione efficiente, disponibilità, distribuzione appropriata - sono per il genere umano problemi endemici, varianti nel tempo e nello spazio per natura e dimensione.
Bisogna tuttavia riconoscere che, in particolare negli anni sessanta e settanta e nonostante il forte incremento della popolazione mondiale, lo sviluppo annuale della produzione agricola è stato costante (v. tab. II), cosicché anche l'andamento dei livelli dei consumi alimentari è risultato praticamente regolare e senza prolungate e catastrofiche carestie. Ma è bastata una flessione (la prima dopo vent'anni) di nemmeno il 3% della produzione agricola mondiale, per la siccità in India e in Africa e le avverse condizioni climatiche in URSS nell'annata 1972-1973, con i conseguenti massicci acquisti sovietici negli Stati Uniti, a provocare una crisi nel mercato internazionale delle derrate. Ciò sta a dimostrare quanto sia esiguo l'attuale grado di prevenzione da disastri di pericolose proporzioni.
Contro un incremento annuo medio del 2,3% nella produzione agricola globale dei paesi sviluppati per il periodo dal 1961-1965 al 1976-1978, i paesi in via di sviluppo (inclusa la Cina) hanno ottenuto - secondo rilevazioni della Food and Agriculture Organization (FAO) - incrementi annui del 2,6%. Ma poiché contemporaneamente la popolazione delle medesime regioni è passata da poco più di 2 miliardi a 2 miliardi e 850 milioni, con un tasso annuo di incremento intorno al 2,4%, gli aumenti globali di produzione hanno appena tenuto il passo con l'aumento complessivo della popolazione; essi non sono riusciti però a far fronte all'aumento della domanda connesso alla crescita dei redditi e non hanno praticamente influito sul livello dei consumi pro capite. Di conseguenza, le ineguaglianze fra paesi sviluppati ed emergenti nei consumi di derrate si sono mantenute pressoché inalterate rispetto a quelle di 20 anni addietro: permangono vistose e dell'ordine del 50% in più a favore dei paesi sviluppati.
c) Consumi
Nei paesi sviluppati - rispetto a un fabbisogno calcolato da una Commissione della FAO e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità in 2.600 kilocalorie/giorno per l'uomo e 2.300 per la donna - le kilocalorie/giorno per persona sono mediamente superiori a 3.000, con una crescita annua (dal 1963 al 1975) dello 0,5% (e precisamente da 3.160 a 3.365); invece, per 90 paesi in via di sviluppo, in cui si raccoglie il 98% della popolazione vivente in tutti i paesi emergenti (Cina esclusa), la disponibilità di calorie/giorno è passata da 2.140 a 2.210, con una crescita di appena 0,3% all'anno. Crescita insignificante, ove si consideri che in molti paesi emergenti, specialmente dell'Africa e dell'Asia, a causa della forte diversificazione nella distribuzione del reddito e quindi dei profondi divari nel potere d'acquisto, il consumo calorico medio dovrebbe portarsi su valori del 10-20% superiori ai livelli minimi FAO, se anche le categorie più povere potessero disporre della dieta minima.
d) Sottoalimentazione e povertà
Nel 1969-1971 i paesi emergenti facevano registrare 360 milioni di persone gravemente sottonutrite - disponendo di una razione energetica inferiore al bisogno di mantenimento, calcolato come MB (metabolismo energetico di base) × 1,2 - mentre nel 1974-1976 ne contavano circa 415 milioni, pari al 22% della popolazione totale, per il 13% d'età inferiore ai 16 anni. Tragico rilievo questo, poiché è noto che, salvo in caso di carestie eccezionali, gli adulti non muoiono per insufficiente nutrizione, anche se vitalità, salute, capacità di lavoro ne vengono enormemente ridotte; al contrario, i bambini malnutriti sopravviventi sono più soggetti alle malattie infettive e ai loro postumi e subiscono ritardi e insufficienze nello sviluppo fisico e mentale. Questo decimo del genere umano che, come avanti detto, sopravvive in grave stato di denutrizione, è concentrato soprattutto in Africa centrale e in Asia orientale e meridionale, mentre l'America Latina e il Medio Oriente sono - mediamente - appena al di sopra del minimo critico, anche se con una preoccupante tendenza al declino in vari paesi. E la Banca Mondiale prevede che nel 2000 gli individui in grave stato di denutrizione saranno sul miliardo e 300 milioni.
Nel 2000, come già detto (v. tab. I), le proiezioni prevedono che la popolazione mondiale raggiungerà i 6 miliardi di persone, di cui 5, cioè il 79% della popolazione globale, nei paesi emergenti, rispetto al 66% del 1950 e al 72% del 1975. L'incremento percentuale annuo, dall'1,8% del 1975, dovrebbe attestarsi intorno all'1,7% nel 2000; in particolare, per i paesi emergenti dal 2,2% nel 1975 si dovrebbe scendere al 2% nel 2000, mentre nei paesi sviluppati si passerebbe dallo 0,7 allo 0,5%. Nonostante questa tendenza al decremento in assoluto, dai 75 milioni di nuovi individui da sfamare per anno si giungerà presto ai 100 milioni; il 20% di questo incremento annuale sarà localizzato nei paesi più poveri della Terra. Si ha ragione di temere che alla fine del secolo ancora il 10% delle popolazioni asiatiche e il 25% di quelle della fascia saheliana soffriranno, a causa della miseria, di fame o di denutrizione. In proposito, è illuminante l'analisi di quattro recenti carestie (v. tab. III), tre delle quali non sono state provocate da carenze di derrate nel paese.
Le categorie indigenti sono state le più colpite, in quanto la povertà individuale ha impedito l'approvvigionamento familiare, e la miserevolezza del bilancio nazionale ha ostacolato la costituzione di scorte e l'attuazione di sistemi di distribuzione (magazzini, strade, mezzi di trasporto, ecc.) che favorissero le comunità rurali disperse sul territorio. Anche per tale ragione, in questi come negli altri paesi del Terzo Mondo, il problema di un urgente e significativo aumento della produzione agricola è strettamente collegato con la necessità di procurare ai gruppi più indigenti un incremento di reddito sufficiente a garantire il nutrimento. E poiché la fame e la povertà sono state giustamente definite la peggior fonte di inquinamento dell'ambiente, costringendo le popolazioni colpite a un irrazionale sfruttamento delle risorse naturali, ecco che il problema delle produzioni agroalimentari deve essere visto in connessione non soltanto con l'incremento demografico, ma anche con la salvaguardia delle risorse naturali e dell'ambiente (v. cap. 5), con lo sviluppo economico e con l'ambiente sociale e culturale dei paesi emergenti. Prendendo il prodotto interno lordo come indicatore, grossolano ma comunque il più adatto allo scopo, dello sviluppo economico e sociale, si presume che a livello mondiale esso possa crescere del 145% fra il 1975 e il 2000; ma la quota pro capite secondo stime effettuate negli Stati Uniti (v. tab. IV) crescerebbe appena del 53% (da 1.473 dollari nel 1975 a 2.311 nel 2000) a causa naturalmente dell'incremento demografico. La media pro capite ammonterebbe, nei paesi emergenti, a 587 dollari, con il dramma di quote ancora inferiori ai 200 dollari per paesi come India, Pakistan e Bangladesh, mentre nei paesi sviluppati ascenderebbe a 8.484 dollari, con punte di oltre 11.000 dollari per i paesi più industrializzati.
e) Previsioni dello sviluppo demografico
Benché la correlazione tra sviluppo demografico e sviluppo economico, culturale e sociale sia storicamente provata, talché la popolazione non può essere considerata una variabile indipendente dai cambiamenti sociali, l'influenza di questi ultimi sarà verosimilmente modesta fino alla fine del presente secolo (la popolazione mondiale, infatti, continuerà a crescere rapidamente), per divenire abbastanza sensibile soltanto dopo il 2000. Al riguardo vari studi, compresa l'indagine OCSE Facing the future (1979), suggeriscono che l'umanità, superati gli 11 miliardi nel 2050, si stabilizzerà successivamente sui 12 miliardi o, come ammesso da altri, tra i 12 e i 25-30 miliardi, ancorché alcuni esperti non escludano un massimo di 50 miliardi di individui. Ma il rapporto Resources and man (1969) dell'Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti avverte che il pianeta potrebbe sostenere con qualche grado di conforto soltanto una popolazione intorno ai 10 miliardi di persone, mentre il sacrificio delle libertà e delle scelte individuali e la denutrizione della grande maggioranza degli esseri umani renderebbe altamente improbabile il superamento della soglia di 30 miliardi di abitanti. Intorno e oltre questi livelli i rapporti tra il genere umano e il resto dell'ecosistema (alimenti, energia, materie prime, ambiente fisico), per la limitazione delle risorse terrestri e per la conseguente impossibilità di sostenere l'efficienza delle tecnologie produttive (v. cap. 5), produrrebbero irreversibili, tragiche crisi. La catastrofe demografica non sembra, però, ineluttabile. Si prevede infatti già dai primi anni del XXI secolo, grazie al miglioramento del benessere, dei livelli di salute e dello sviluppo, una tendenza al rallentamento della crescita della popolazione mondiale. È certo, però, che i prossimi 20-40 anni saranno molto difficili o i più difficili: i problemi causati dalla rapida crescita della specie umana si combineranno con quelli risultanti dalla grande diversità di situazioni tra i vari paesi e dalla fortemente squilibrata distribuzione dei redditi all'interno dei paesi in via di sviluppo.
f) Popolazione, consumi e produzione agricola
Sembra opportuno a questo punto osservare che i vari e complessi aspetti della produzione di derrate non possono essere unicamente analizzati nei rigorosi termini di una estrapolazione su dati statistici relativi alle attuali tendenze; non possiamo - cioè - non far riferimento alle certamente meno prevedibili conseguenze di scelte e di inattesi cambiamenti nelle condizioni sociopolitiche, economiche e culturali, quali ad esempio il miglioramento nelle infrastrutture, i cambiamenti istituzionali, la maggior quantità di ricerca e sviluppo, le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, ecc. Con riguardo a quest'ultimo fattore (v. anche cap. 6) è da tener fin da ora presente che la soglia del limite fisico allo sviluppo della produzione agricola (determinata da erosione del suolo, fattori biotici e abiotici avversi, richiesta energetica, deterioramento dell'ambiente, ecc.) può variare con il progresso delle tecnologie influenti sul bilancio economico ed energetico degli allevamenti vegetali e animali, con l'introduzione di sistemi di produzione ecologicamente compatibili, con la messa a punto di agroecosistemi abbastanza elastici per un lungo arco di tempo, ecc.
Secondo vari studiosi, la produzione mondiale di alimenti fino al 2000 può crescere a un tasso annuale del 2,2%, che è nettamente superiore all'incremento demografico (1,8%). Questo valore, calcolato assumendo la diffusione e l'ulteriore progresso delle tecnologie agricole avanzate ma in gran parte dipendenti da combustibili fossili, è grosso modo eguale ai migliori incrementi produttivi annuali registrati negli ultimi lustri, incluso il periodo della ‛rivoluzione verde'. Escludendo peggioramenti delle condizioni climatiche, la produzione agroalimentare nel 2000 dovrebbe quindi essere del 90% superiore a quella del 1970, che fu pari a 2.850 milioni di tonnellate, assicurando, mediamente, il 15% di incremento dei consumi pro capite. Purtroppo, nel medesimo periodo gli squilibri permarranno notevoli. Infatti si presume che - seguendo le dominanti tendenze spontanee - i consumi pro capite nei paesi sviluppati cresceranno del 21%, a meno che non si determini una riduzione sia di sovraconsumi (in base ad appropriati suggerimenti dietetici in difesa della salute), sia di irragionevoli sprechi, consentendo il recupero di quantitativi, forse significativi, di derrate. Ma nei paesi in via di sviluppo i consumi cresceranno appena del 9%, e si avranno enormi differenze fra regioni e fra paesi, ed entro i paesi fra le varie classi di reddito, poiché si stima che il prezzo del cibo nel 2000 sarà il 95% in più del 1970, in buona parte in conseguenza dell'accresciuta dipendenza dai combustibili fossili. Secondo le proiezioni, i maggiori incrementi di consumi pro capite (circa il 25%) si dovrebbero verificare in America Latina e in Estremo Oriente; incrementi molto modesti o praticamente nulli sono previsti per l'Asia meridionale, il Medio Oriente e il Nordafrica, mentre una riduzione dei già bassi consumi pro capite dovrebbe purtroppo verificarsi nell'Africa centrale e subsahariana. L'International Food Policy Research Institute (IFPRI) ha recentemente calcolato (nel 1977) per i prodotti agroalimentari di base (cereali nonché tuberi, radici e legumi, convertiti in equivalenti cereale in termini di calorie) le proiezioni al 1990 delle produzioni, dei consumi e dei deficit nei paesi in via di sviluppo (esclusa la Cina e i paesi a economia pianificata), assumendo per la produzione annuale l'incremento recentemente registrato nelle medesime regioni (2,4%). Complessivamente, il deficit del 1975, pari a 20 milioni di tonnellate, permarrebbe tale nel 1990 soltanto nell'ipotesi di un livello di consumi analogo a quello del 1975, ma supererebbe i 100 milioni di tonnellate nel caso di consistenti miglioramenti di reddito della popolazione.
Limitatamente ai paesi più poveri, dove la quota pro capite del prodotto interno lordo è di appena qualche centinaio di dollari e il tasso di natalità molto alto, analoghe analisi dell'IFPRI indicano che i 12 milioni di tonnellate di deficit del 1975 diverrebbero, nel 1990, 35 milioni nell'ipotesi di consumi pro capite fermi al livello del 1975, e 80-85 milioni di tonnellate in caso di miglioramenti del reddito. Queste cifre confermano che il nocciolo del problema alimentare mondiale è costituito dalla drammatica condizione dei paesi più poveri.
In definitiva al settore agricolo, che dovrebbe nei prossimi venti anni produrre tanto cibo quanto ne è stato prodotto dagli albori dell'agricoltura a oggi, spetta di dimostrare se le tesi malthusiane dell'inevitabilità della fame, per una crescita del genere umano superiore all'offerta di alimenti, possano essere ribaltate anche nelle difficilissime situazioni dei prossimi decenni. La sfida deve essere accettata, poiché soltanto attraverso l'affrancamento dal bisogno più elementare si potrà giungere a garantire a ciascuno - nell'impegno di tutti per il raggiungimento di una sincera affratellante solidarietà umana, ma anche nella lucida consapevolezza della interdipendenza mondiale - l'effettiva promozione verso decenti condizioni di vita materiali e spirituali, e quindi il godimento di tutte le libertà.
3. Le risorse agroalimentari attuali e previste
a) Attuali produzioni agricole e zootecniche
La produzione mondiale di risorse alimentari nel 1980, desunta da fonti della FAO e suddivisa per grandi gruppi di prodotti, è riportata nella tab. V. La diversità delle risorse alimentari, il differente contributo di ciascuna e l'origine agricola della maggior parte di esse sono evidenti. Infatti i prodotti della pesca, destinati sia al consumo umano sia alla produzione di oli e farine, pur garantendo un rilevante apporto proteico alla dieta, non possono fornire un concreto contributo alla soluzione del problema dell'alimentazione mondiale. Dopo una costante crescita del prodotto pescato negli anni cinquanta e sessanta (conseguendo il raddoppio in un solo decennio), intorno al 1970 si è registrata una riduzione, dovuta soprattutto a una brusca flessione verificatasi nelle raccolte dai mari sudamericani, cui sono seguite produzioni tanto lentamente quanto irregolarmente crescenti. Per i prossimi anni si prevede una disponibilità di prodotti della pesca (acquacoltura compresa) crescente a un tasso comparabile a quello della popolazione mondiale, ma pur sempre insufficiente a contribuire sostanzialmente alla nutrizione dell'umanità, tanto più che oltre un terzo del pescato viene usato come olio o farina per l'alimentazione del bestiame.
Dalla terra, dunque, dalla coltivazione delle piante e dall'allevamento degli animali proviene al presente il 98% dei prodotti destinati direttamente, o indirettamente attraverso trasformazioni per via microbiologica (formaggi, vino, birra, ecc.), all'alimentazione del genere umano.
Fondamentale è il ruolo dei cereali: grano, riso, mais, orzo, avena, miglio, segale, e altri minori, rappresentano poco meno della metà (44%) di tutta la produzione agroalimentare (v. tab. V). Gli altri gruppi di prodotti contribuiscono nelle seguenti misure: i tuberi e le radici commestibili (patata, igname, manioca, patata dolce, ecc.) per il 13,5%; il latte (con i derivati calcolati in equivalente di latte fresco) per il 13%; le colture orticole per circa il 10%; le colture arboree e arbustive da frutto (uva, agrumi, banane, pomacee, ecc.) per oltre l'8%; la carne (bovina, ovina, suina) per circa il 4%.
I cereali più importanti, anche perché coltivati su tutta la Terra, sono: il grano, con una produzione al 1980 di quasi 450 milioni di tonnellate, ricavate da circa 240 milioni di ettari e non raramente in situazioni ambientali difficili; il riso e il mais, ciascuno con produzioni vicine ai 400 milioni di tonnellate, ottenute coltivando rispettivamente 145 milioni e 131 milioni di ettari. Seguono l'orzo, con una produzione di 162 milioni di tonnellate su 83 milioni di ettari, e, con quantitativi minori, gli altri cereali. È probabile che i rapporti tra le diverse colture cerealicole non mutino significativamente nei prossimi lustri, salvo - forse - una celere e consistente affermazione del triticale, la prima nuova specie agricola finora costituita dall'ingegno umano.
b) I cereali
La preponderante importanza dei cereali è dovuta a una favorevole combinazione di caratteristiche: un'elevata capacità genetica di adattamento alle condizioni ambientali, un alto valore calorico, un buon contenuto proteico, un basso contenuto di umidità delle granaglie che ne facilita la conservazione e il trasporto. Essi - come media mondiale - procurano infatti il 52% delle calorie della dieta, percentuale che sale al 62% nei paesi in via di sviluppo, e forniscono il 50% del totale delle proteine direttamente utilizzate dall'uomo. Ma il contributo dei cereali raggiunge circa i 3/4 del contenuto energetico e proteico della dieta umana se si considera che una parte cospicua (40% circa) della produzione cerealicola viene usata, soprattutto nei paesi ricchi, per l'alimentazione del bestiame, da cui si ricavano derrate ad alto valore proteico come carne, uova, latte e derivati. Per altro verso, si deve notare che le colture cerealicole occupano, nella maggior parte dei paesi, il 60-70% dell'area coltivata e impiegano - sotto forma di fertilizzanti, antiparassitari, macchine e altri mezzi tecnici - un'alta quota dell'energia usata per la produzione agricola. Ne consegue che i problemi di questo gruppo di colture e le previsioni sulla produzione e sulla domanda sono emblematici per la produzione mondiale di derrate e sono di centrale importanza nella valutazione dei limiti fisici alla futura crescita dell'umanità.
Secondo le previsioni elaborate negli Stati Uniti, nel 2000 la produzione cerealicola si attesterebbe intorno ai 2 miliardi e 300 milioni di tonnellate. Questa tendenza risulta confermata anche da recenti calcoli dell'OCSE (v., 1979; v. tab. VI) sulla domanda mondiale di cereali, sia per il consumo umano diretto, sia per l'alimentazione di animali destinati alle produzioni zootecniche. Dai dati della tab. VI, elaborati in relazione ai già esposti aumenti di popolazione (v. cap. 2) e a un innalzamento del reddito anche nei paesi del Terzo Mondo, si ricava che nel 2000, fatta uguale a 100 la produzione del 1977, la domanda complessiva di cereali nei paesi avanzati rimarrebbe sostanzialmente stazionaria, a causa del decrescente consumo umano, compensato, però, da un crescente uso di cereali per l'alimentazione animale. Al contrario, nei paesi in via di sviluppo la domanda dovrebbe salire progressivamente rimanendo alta fino alla fine del secolo, particolarmente in funzione dell'aumento demografico. Così, la Cina dovrebbe raddoppiare (210%) e altri paesi perfino triplicare la produzione in confronto al 1977, senza con ciò garantire alle classi più povere (v. cap. 2) un adeguato livello nutritivo se dovessero persistere grosse disparità di reddito.
c) Produzioni prevedibili e autoapprovvigionamento dei paesi emergenti
La complessità del problema dell'aumento della produzione delle risorse alimentari, e dei cereali in particolare, nei paesi in via di sviluppo trova una lampante rispondenza in recenti previsioni della FAO (v., 1979) sul grado di autoapprovvigionamento di tali paesi.
Per 90 paesi emergenti, che raccolgono il 98% della popolazione delle regioni in via di sviluppo (Cina esclusa), in relazione a ipotesi di aumento demografico e di reddito analoghe a quelle del citato studio dell'OCSE, gli indici relativi all'autoapprovvigionamento dei cereali e degli altri principali gruppi di prodotti agroalimentari per gli anni 1990 e 2000 sono riportati nella tab. VII. Complessivamente, il grado di autoapprovvigionamento per i cereali tende a decrescere in maniera contenuta (dal 92 al 90%), grazie alla presenza di paesi esportatori di grano come l'Argentina, o di riso come vari paesi asiatici; ma la riduzione è molto sensibile per l'Africa e per l'Asia sudoccidentale. Circa i prodotti di origine animale, l'America Latina dovrebbe migliorare le sue esportazioni, mentre l'insufficienza si accentuerebbe molto più nettamente per l'Africa e l'Asia sudoccidentale che per l'Estremo Oriente.
È naturale pensare che il deficit di prodotti agroalimentari in varie aree del pianeta possa essere controbilanciato con massicci interventi di commercializzazione e distribuzione delle derrate eccedenti in altre regioni. E ancora una volta è significativo il caso dei cereali. Mentre, secondo il modello degli scambi commerciali di cereali valido nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, soltanto l'Europa occidentale risultava sostanziale importatrice, oggi non solo l'Europa occidentale ma praticamente tutto il mondo dipende dalle produzioni e dalle esportazioni del Nordamerica e, in minor misura, dell'Australia e dell'America Latina.
In sintesi, l'aumento della domanda di alimenti, il calo nei livelli di autoapprovvigionamento, la certezza dell'espansione demografica, l'incertezza dell'incremento del reddito e della sua equa diffusione, la necessità di assicurare salutari livelli nutrizionali, il dovere di salvaguardare le limitate disponibilità di risorse naturali e le capacità di assorbimento dell'ecosistema, le difficoltà di mercato e di distribuzione e la responsabilità di costituire sufficienti riserve alimentari rendono particolarmente acuto il problema di un incessante aumento della produzione di risorse agroalimentari non solo nei paesi emergenti, ma anche - in una visione integrata del sistema ‛Terra' - nei paesi avanzati. In questo contesto si giustifica una carrellata, prevalentemente riferita ai paesi del Terzo Mondo, sui principali fattori della produzione agricola (v. cap. 4) e sui mezzi di intervento che soprattutto la scienza e la tecnica possono procurare (v. cap. 6).
4. I principali fattori della produzione agroalimentare
La produttività delle piante agrarie e degli animali domestici è condizionata da fattori - quali clima, terreno, acqua - sui quali l'uomo può intervenire con varia efficacia. Determinante, invece, è l'intervento umano sui mezzi atti a incrementare o salvaguardare la produzione, come fertilizzanti, mangimi, presidî fitoiatrici, macchine e impianti, sementi selezionate, ecc. E ancora dalle scelte dell'uomo, in funzione, cioè, del suo livello culturale, dell'organizzazione sociale e degli indirizzi di politica economica, dipende il ruolo in agricoltura di fattori quali le disponibilità di lavoro, di capitali e di energia, la ricerca scientifica, la realizzazione di tecnologie operative appropriate, il trasferimento delle innovazioni al settore produttivo. Prima di accennare al ruolo dei principali fattori della produzione agricola e zootecnica, in riferimento ai paesi del Terzo Mondo, può essere utile un sommario richiamo ai soggetti stessi della produzione, cioè le piante e gli animali.
a) Le specie animali e vegetali
Il numero delle specie animali e vegetali usate per l'alimentazione umana si è venuto, nel corso dei secoli, progressivamente e stranamente restringendo; la dipendenza da poche specie è ormai netta e potrebbe anche essere fonte di gravi pericoli in caso di improvvisi insuccessi. Il processo, probabilmente irreversibile, è dovuto al fatto che la crescente domanda di derrate è più facilmente soddisfatta diffondendo quelle specie che la domesticazione e la selezione hanno reso più produttive e più remunerative in termini di fatica fisica e di capitale investito, e sulle quali l'ulteriore lavoro di miglioramento, per le conoscenze scientifiche accumulate e per le metodologie messe a punto, presenta maggiori garanzie di successo. In pratica, su oltre 350.000 specie vegetali esistenti in natura, ben 3.000 delle quali oggetto di coltivazione, appena 30 producono annualmente non meno di 10 milioni di tonnellate ciascuna: frumento, riso, granturco, patata, orzo, patata dolce, manioca, soia, uva, sorgo, avena, canna da zucchero, segale, agrumi, cocco, cotone (olio), mele, arachidi, igname, cucurbitacee, cavoli, cipolle, fagioli, piselli, girasole (olio), mango. Anzi le prime quattro (frumento, riso, granturco, patate), ciascuna con una produzione di oltre 300 milioni di tonnellate annue, superano il prodotto complessivo di tutte le altre.
La grande variabilità presente nelle specie sopraelencate e la conseguente ampia adattabilità a condizioni ambientali differenti, unitamente all'intenso lavoro di miglioramento genetico (anche se condotto empiricamente fino a circa un secolo fa), inducono a considerarle prioritarie nella diffusione geografica e nella intensificazione colturale.
È classico il caso della patata che, importata nelle pianure dell'Europa centrosettentrionale dall'America andina, ha contribuito in modo rilevante ad accrescere le riserve alimentari consentendo un netto incremento demografico; meno noto, ma non trascurabile, il caso del sorgo, introdotto con le prime navi negriere dall'Africa in America settentrionale e da qui in tutti gli altri continenti. Esempi recenti sono offerti dai frumenti, colture tipiche dei climi temperati e mediterranei, la cui espansione verso i tropici ha avvantaggiato le economie dell'India e dei paesi vicini, del Sudan, del Brasile, ecc. La soia, già affermata negli Stati Uniti, ove era stata introdotta dalla Cina, si è rapidamente diffusa in Brasile. L'uso del tropicale mais come cereale foraggero si va estendendo verso i climi temperati e freddi (con un avanzamento di 800 km del limite settentrionale del suo areale negli ultimi lustri), e vi sostituisce le locali graminacee foraggere, meno produttive. Il girasole, originario delle pianure meridionali degli Stati Uniti, sta assumendo importanza sempre crescente in ogni continente ed è ormai tra le principali fonti di olio vegetale.
Andamenti analoghi si osservano per le specie animali in produzione zootecnica. Sei gruppi (suini, bovini domestici, pollame, ovini, bufali, equini) producono complessivamente quasi 600 milioni di t annue di carne, uova, latte e derivati, e dai primi due, quasi paritariamente, deriva l'80% dell'intera produzione mondiale. Queste cifre provano che anche negli animali l'adattabilità a diverse condizioni ambientali e la forte selezione per caratteristiche di pregio favoriscono la diffusione delle specie e razze più evolute. Ad esempio, il continente nordamericano è debitore al Vecchio Mondo di tutte le specie di interesse zootecnico, eccezion fatta per il tacchino.
In definitiva, mentre è necessario l'intervento dell'uomo per migliorare l'adattamento alle condizioni ambientali delle regioni in via di sviluppo delle specie animali e vegetali oggi più significative per la produzione mondiale di derrate, si deve sottolineare l'urgenza di riprendere e intensificare i lavori di domesticazione e di miglioramento delle specie autoctone delle suddette regioni. Ciò è urgente affinché non venga irreparabilmente distrutto un patrimonio di specie vegetali oggi non economiche forse soltanto per carenza di selezione, ma verosimilmente depositarie di pregevoli caratteristiche agroalimentari e quasi certamente ben adatte ai locali ecosistemi, e di specie animali forse ottime utilizzatrici di foraggi anche scadenti e di pascoli.
b) Il clima
Nel clima, concetto che racchiude l'insieme delle condizioni atmosferiche e meteorologiche (luminosità, temperatura, precipitazioni, umidità atmosferica, venti), sono compresi elementi assolutamente determinanti per la vita. Fondamentale infatti è l'energia solare, unica risorsa libera e rinnovabile, sorgente prima di tutti i fenomeni e regolatrice di tutte le energie della vita sulla superficie terrestre. L'energia solare converte biologicamente (nel processo fotosintetico operato dalle strutture e dai costituenti delle piante verdi) risorse naturali - come l'aria (ossigeno e diossido di carbonio), l'acqua e tracce di minerali - in materia organica vegetale, e in questa biomassa essa si accumula. L'energia solare è l'unica forma di energia diffusa e ‛decentralizzata' su tutta la Terra e, attraverso l'uso diretto o indiretto tramite la biomassa, può favorire forme di sviluppo ‛decentrato', alternativa all'attuale ‛centralizzazione dello sviluppo'.
Al contrario, il fattore climatico più dannoso per la produzione agricola e zootecnica è l'insufficienza di precipitazioni, come dimostrato nel 1972 e 1979 in India, nel 1974 negli Stati Uniti, nel 1976 in Europa, e con i lunghi e drammatici periodi di siccità che hanno colpito le zone saheliane a cavallo degli anni sessanta.
Sensibile influenza sulla produzione vegetale hanno anche la distribuzione temporale della piovosità, spesso concentrata in periodi in cui è scarso l'accrescimento vegetativo (per es. in inverno) e carente invece nei periodi critici per lo sviluppo e la produzione delle colture, e l'eccesso di precipitazioni, come nel caso delle zone tropicali umide, dove le piogge sono spesso superiori all'evaporazione, con conseguenti allagamenti e ristagni d'acqua nocivi alle piante coltivate. Purtroppo, il clima è difficilmente controllabile, anche se l'uomo ha sempre tentato di modificarlo o di sormontarne le limitazioni e i danni alle coltivazioni e agli allevamenti. Tuttavia l'uomo può, entro certi limiti, modificare il comportamento di piante e animali nei confronti del clima, accrescendo l'adattabilità mediante manifestazione - favorita da idonei interventi selettivi - del potenziale di variazione genetica esistente nelle specie.
Lo studio del clima e delle sue componenti, le interazioni fra clima e attività umana, le previsioni e i sistemi di rilevamento, anche mediante satelliti meteorologici, possono procurare utili indicazioni per l'inventano delle coltivazioni e delle foreste, per la valutazione delle risorse idriche, per la scelta delle colture, per la previsione delle produzioni e per interventi in difesa delle stesse (dall'irrigazione alle lotte antiparassitarie, dalla lotta antigrandine alle protezioni frangivento e antincendio, ecc.). È dunque necessario approfondire la conoscenza dei fenomeni climatici prima che modificazioni del clima dipendenti dalle attività umane (disboscamento, irrigazione, urbanizzazione, inquinamento, crescente concentrazione di CO2, ecc.) possano sensibilmente influire, a livello regionale e globale, sulla produzione agroalimentare.
c) Il terreno
Il terreno, bene non rinnovabile, è una risorsa primaria per l'agricoltura, data la necessità - per accrescere la produzione - di estendere le aree coltivate in conseguenza della natura dispersa dell'energia solare e del limitato livello di efficienza della sua conversione biologica. Esso può essere migliorato ma anche danneggiato dall'intervento dell'uomo. Lavorazioni attente, impiego di concimi organici e di ammendanti, drenaggio, sovescio, scelta delle colture e rotazione delle medesime, correzione della struttura fisica e della capacità idrica del suolo hanno permesso in questi ultimi secoli il miglioramento dei terreni, soprattutto nelle regioni oggi ad agricoltura avanzata. Al contrario, errate lavorazioni, eccessivi carichi zootecnici, incauti disboscamenti, carenza di drenaggio, favorendo l'erosione idrica ed eolica e l'innalzamento dei livelli di salinità e alcalinità, hanno provocato e provocano degradazione e perdita di terreni agricoli per la cui formazione sono occorse decine di migliaia di anni. Per desertificazione, cioè distruzione del manto vegetale e dello strato di terreno fertile per cui il suolo diviene inadatto a semine o pascolo, si perdono globalmente ogni anno 6 milioni di ettari (3,2 milioni di ettari di pascoli, 2,5 di seminativi e 125 mila ettari irrigui). Le aree desertiche del pianeta, che oggi ammontano a 800 milioni di ettari, potrebbero espandersi del 20% entro il 2000. La riduzione delle lavorazioni (o della profondità delle lavorazioni per alcune colture), là dove può essere adottata senza danni per la produttività, è forse la tecnologia che meglio contribuisce al contenimento dell'erosione e del degrado della fertilità. Si noti che negli Stati Uniti nel 1978 oltre 20 milioni di ettari sono stati oggetto di lavorazioni minime, e tre milioni di ettari sono stati coltivati a mais, frumento e soia in assenza di lavorazioni.
Un'altra non trascurabile causa di riduzione delle aree agricole risiede nella loro destinazione a usi non agricoli. L'urbanizzazione causa nei paesi dell'OCSE una perdita annuale delle terre coltivate che va dallo 0,1 allo 0,8%. E il fenomeno è ormai evidente anche nei paesi emergenti, tant'è che per esempio in Egitto la superficie irrigata è la stessa da 20 anni nonostante le aree di nuova irrigazione conseguenti alla costruzione della diga di Assuan; la causa sta nelle esigenze derivanti dall'espansione demografica.
Le superfici attualmente coltivate ammontano complessivamente a 1,5 miliardi di ettari, mentre oltre 3 miliardi di ettari, cioè quasi un quarto delle terre emerse e libere da ghiacci, sono potenzialmente coltivabili. La maggior parte di questa vasta riserva si trova in Africa e in America Latina, ma il suo eventuale sfruttamento è spesso limitato da condizioni ambientali sfavorevoli e dalla carenza di appropriate tecnologie di utilizzazione.
Nella tab. VIII sono riportate le proiezioni al 2000 degli aumenti di superficie coltivata nelle regioni in via di sviluppo: per i paesi sviluppati e per quelli a economia centralizzata la situazione, tra recuperi e sottrazioni, rimane in equilibrio. Perciò, dati i modesti incrementi di superfici coltivabili anche in conseguenza degli alti costi, la disponibilità pro capite di terreno coltivabile a causa dello sviluppo demografico dovrebbe scendere da quasi 0,5 ettari del 1975 a 0,25-0,30 nel 2000, a detrimento soprattutto dei paesi meno sviluppati. Questa stima trova conferma nelle previsioni elaborate dalla FAO su 90 paesi del Terzo Mondo. Dalla tab. IX si deducono anche grosse differenze geografiche, come per esempio tra l'America Latina, con rilevanti potenzialità di nuove terre coltivabili (+54%), e l'Asia sudoccidentale, regione di antichissima agricoltura dove il suolo è già stato largamente e lungamente sfruttato e dove, conseguentemente, l'incremento di produttività può derivare principalmente dall'intensificazione colturale e dall'aumento delle rese per unità di superficie (+92%). E infatti, in linea generale, si ritiene che la messa a coltura dei nuovi territori può garantire meno di un terzo (+28%) dell'atteso aumento annuale di produzione agricola, mentre gli altri due terzi dovrebbero appunto derivare da processi di intensificazione colturale, da un maggior numero di raccolti sulla stessa superficie nello stesso anno, dall'ottimizzazione nell'uso dei mezzi di progresso tecnico (acqua, fertilizzanti, sementi elette, ecc.).
d) L'acqua
L'acqua, risorsa rinnovabile stimata sufficiente per i bisogni della popolazione umana, è però in gran parte inaccessibile o irregolarmente distribuita, talché solo una sua attenta gestione può assicurare l'adeguato soddisfacimento delle esigenze agricole e di quelle industriali e urbane, sempre più in competizione con le prime. Dall'agricoltura proviene il più alto volume di domanda d'acqua dolce: oltre l'80% di tutta l'acqua dolce utilizzata negli Stati Uniti è impiegata in agricoltura, oltre il 90% in Messico e India. Nel 1970 l'agricoltura pluviodipendente ha utilizzato 11.500 km3 di acqua, mentre 2.600 km3 sono stati impiegati per l'irrigazione di poco più del 10% delle terre coltivate (230 milioni di ettari).
Le piante consumano quantità diverse di acqua per produrre un chilo di materiale edule. Da un recente studio si ricava che in Israele il sorgo produce kg 1,72 di granella per ogni metro cubo di acqua disponibile, il frumento kg 1,23, l'arachide kg 0,65. Ma anche la produttività di una stessa coltura varia in relazione all'ambiente e all'acqua disponibile. Essa infatti è funzione diretta del rapporto tra l'evapotraspirazione potenziale (che è determinata dal clima e particolarmente dall'umidità dell'atmosfera, dall'intensità luminosa e dalla ventosità) e l'evapotraspirazione reale (cioè quella regolata dall'acqua effettivamente presente nel terreno).
I metodi di impiego delle acque a scopo irriguo si sono perfezionati attraverso pratiche secolari, e l'efficienza dell'utilizzazione dell'acqua da parte delle piante progredisce correlativamente alle conoscenze della fisiologia delle piante e dei rapporti terreno-acqua-pianta. Risparmi sensibili si possono conseguire regolando in modo appropriato i periodi e le quantità di somministrazione, mentre sono state ridotte le perdite dovute all'evaporazione nei climi aridi.
Alle opere irrigue si deve spesso accompagnare una buona rete di drenaggio, onde evitare i disastri della saturazione e sommersione di superfici agricole e la degradazione di terreni per incremento di salinità e alcalinità. Già oggi circa metà dei terreni irrigui sono in vario grado danneggiati da fenomeni di ristagno, di alcalinità e di salinità che, soltanto nel Terzo Mondo, determinano una perdita annuale dello 0,2% dell'area irrigata. Una saggia politica di gestione del fattore acqua in agricoltura non può limitarsi all'acqua di irrigazione, ma deve anche considerare l'uso dell'acqua disponibile in situ, specialmente nelle zone semiaride in conseguenza della modesta o mal distribuita piovosità. L'aridocoltura, cioè l'elaborazione di consoni agroecosistemi, potrebbe sensibilmente migliorare la produttività delle centinaia di milioni di ettari che, nei vari continenti, non possono disporre di impianti irrigui.
Le aree irrigue potrebbero ampliarsi notevolmente: si prevede che entro la fine del secolo più di 1/5 dei terreni coltivati (pari a 300 milioni di ettari) potrebbe essere irrigabile, le nuove zone irrigue ricadendo in buona parte nei territori dei paesi in sviluppo. Ma in molti di quei paesi (Nordafrica e Asia sudoccidentale, per esempio) in cui si può far ricorso alle acque sotterranee, la disponibilità di energia per il sollevamento e pompaggio già oggi costituisce un fattore gravemente limitante. D'altra parte, nei paesi a clima monsonico, con le precipitazioni annuali concentrate in poche settimane, la costosa costruzione di dighe per la regolazione delle piene, e quindi per la conservazione dell'acqua, è indispensabile. Infine, l'uso delle acque fluviali è condizionato dalla diversa distribuzione della portata dei fiumi nei diversi continenti e all'interno delle varie zone climatiche di ogni continente. Infatti circa 1/3 del flusso di tutti i fiumi del mondo scorre nel Sudamerica (la cui superficie è il 15% di quella dell'intero pianeta), mentre l'Africa, col 23% della superficie del globo, può contare solo sul 12% del flusso fluviale.
Lo sforzo che viene compiuto per aumentare le aree suscettibili di irrigazione è notevole. Dati FAO indicano che negli anni 1960-1970 oltre la metà degli investimenti per lo sviluppo agricolo nel Terzo Mondo è stata destinata a progetti di irrigazione, volti da un lato ad accrescere le disponibilità di acqua e a migliorare la gestione delle risorse idriche nelle zone aride e semiaride, e dall'altro a prevenire con opere di drenaggio gli eccessi idrici nei tropici umidi, che interessano più della metà delle rimanenti risorse mondiali di terra arabile o potenzialmente arabile. Nei piani di incremento della produttività, la gestione delle risorse idriche potrebbe risultare il fattore più limitante dello sviluppo di paesi del Terzo Mondo, in conseguenza dei crescenti costi di realizzazione dei progetti di sviluppo idrico e di esercizio degli impianti di pompaggio.
e) I fertilizzanti
I fertilizzanti chimici sono una delle fonti di sostanze nutritive per le piante e rappresentano il mezzo più efficace per ottenere rapidamente incrementi produttivi. Dei molti elementi minerali necessari per la vita vegetale i più importanti, come è noto, sono l'azoto (e i soli concimi azotati rappresentano circa il 50% della produzione mondiale di fertilizzanti), il fosforo e il potassio. La domanda di fertilizzanti sarà in forte crescita nei prossimi lustri. Se - come già detto - si vuole raggiungere nel 2000 il raddoppio della produzione agroalimentare ottenuta negli anni settanta, si deve prevedere quasi una triplicazione del consumo di fertilizzanti (dagli 80 milioni di tonnellate del 1973-1975 a 225 milioni nel 2000).
È interessante esaminare le proiezioni al 2000 dei consumi medi di fertilizzante per ettaro. Dalla tab. X risulta che l'impiego unitario previsto nei paesi del Terzo Mondo permarrà basso, mediamente 80 kg per ettaro contro i 145 kg della media mondiale, con un minimo di appena 25 kg per ettaro per la maggior parte dei paesi africani. Nel valutare queste cifre si tenga anche presente che normalmente nelle aree irrigue, per la maggior produzione ricavabile, l'impiego di fertilizzanti è almeno il doppio di quello delle aree a piovosità naturale.
f) I presidî fitoiatrici
Approssimativamente si stima che malattie fungine e batteriche, erbe infestanti, insetti, nematodi e roditori provochino distruzione di prodotti agricoli nella misura, economicamente molto rilevante, di circa il 35%. Pertanto la protezione sanitaria delle piante e degli animali si impone in considerazione degli incrementi produttivi ricavabili, specialmente nei climi tropicali. Ad esempio, si calcola che le produzioni di patate, frutta e manioca potrebbero raddoppiare se si coltivasse materiale esente da infezioni virali e se si applicassero in campo e in magazzino le appropriate misure di difesa. Sono ormai di comune dominio le conseguenze di un incauto impiego di antiparassitari nel selezionare razze resistenti di parassiti, nel distruggere i nemici naturali dei parassiti e nel provocare, attraverso residui, tossicità anche nell'uomo e, in generale, inquinamento dell'ambiente (v. pesticidi). In California, ad esempio, 17 delle 25 specie di insetti più dannosi sono ora resistenti a uno o più pesticidi, mentre la scomparsa di predatori naturali di parassiti causa la distruzione di prodotti agricoli per molti milioni di dollari all'anno. Con l'obiettivo di contenere tali rischi riducendo l'uso di antiparassitari di sintesi chimica si motiva la crescente attenzione ai metodi di difesa biologica e ai sistemi di lotta integrata. L'integrazione fra i trattamenti chimici, l'utilizzazione di endoparassiti e di altri fattori biotici, le pratiche agronomiche, gli studi epidemiologici e il rafforzamento della resistenza genetica delle piante ai parassiti possono permettere di contenere l'infestazione, limitando così il ricorso alla lotta chimica. Tuttavia, se si vogliono ottenere maggiori produzioni attraverso processi di intensificazione colturale e di espansione delle superfici coltivate, sarà necessario un aumento nell'uso degli antiparassitari che viene valutato, per i 90 paesi in sviluppo oggetto di indagine da parte della FAO, nell'ordine del 4,6% annuo tra il 1980 e il 2000. L'analisi riportata nella tab. XI non comprende i diserbanti il cui uso nei paesi emergenti, ancora modesto e difficilmente quantificabile, è previsto in rapida espansione.
g) Le sementi selezionate
La disponibilità di sementi selezionate (o di altre parti di pianta per le specie che non si moltiplicano per seme) è la condizione indispensabile per la diffusione delle varietà elette e rappresenta il primo elemento di una strategia di progresso agricolo. Sebbene si preveda un sostanziale incremento nell'uso di sementi selezionate nei paesi in via di sviluppo, con un raddoppio nel 2000 del quantitativo normalmente commercializzato (quasi 11 milioni di tonnellate), si ammette, tuttavia, che in molte regioni del Terzo Mondo, e specialmente nelle aree ad agricoltura di sussistenza, continuerà l'impiego di sementi riprodotte dall'agricoltore stesso.
È dunque lampante la necessità di sviluppare celermente ricerche di miglioramento genetico e di moltiplicare la produzione industriale sementiera e vivaistica nei paesi emergenti.
I programmi di miglioramento genetico (dalla selezione clonale all'incrocio, dalla mutagenesi alla sintesi di nuove specie, fino al trasferimento di singoli segmenti di DNA tra individui della stessa specie o di specie lontane tramite tecniche di ingegneria genetica) devono essere adottati in tutti i paesi emergenti, indirizzati secondo gli obiettivi che lo sviluppo agricolo partitamente propone e applicati a una più ampia gamma di piante e animali, ancbe se riguardanti limitate e localizzate produzioni alimentari (v. genetica: Applicazioni).
Per il conseguimento di questi scopi è pregiudiziale la salvaguardia delle risorse genetiche delle piante agricole e forestali, degli animali in produzione zootecnica, delle specie affini e/o di potenziale valore utilitario. Queste risorse naturali, accumulatesi nei lunghi tempi dell'evoluzione e della domesticazione, costituiscono il deposito di variabilità genetica cui si deve attingere per ogni specie e ogni programma di miglioramento genetico. Nonostante che queste riserve siano state largamente erose in conseguenza del rapido estendersi dell'agricoltura commercialmente competitiva, nella quasi totalità dei casi esse sono ancora largamente esistenti e recuperabili nella fascia intertropicale e quindi in regioni in via di sviluppo; si impongono pertanto una programmazione e un coordinamento internazionali delle azioni in difesa del germoplasma. Così si salvaguarderanno, per il benessere del genere umano, i materiali necessari alla costituzione delle nuove varietà di animali e di piante, la cui maggior produttività deve essere conseguita con un più economico uso di risorse e di mezzi tecnici e con un minor fabbisogno energetico.
h) La meccanizzazione
Il progresso dell'agricoltura moderna è largamente dipendente dalla meccanizzazione. Ma un suo brusco incremento nei paesi emergenti, oltre a essere incompatibile con il graduale avanzamento tecnico dell'agricoltura e con l'evoluzione professionale ed economica degli agricoltori e soprattutto dei piccoli coltivatori, provocherebbe gravi ripercussioni sulle strutture socioeconomiche, per l'esclusione dal settore primario di masse di lavoratori sospinte verso la disoccupazione. Pertanto, nei prossimi anni saranno ancora sensibili le quote di lavoro tradizionalmente procurate dalla manodopera e dagli animali. Dalla tab. XII risulta che la quota della meccanizzazione dovrebbe passare dal 5% del totale della forza motrice impiegata nel 1980 al 13% nel 2000, con forti differenze regionali, in particolare a favore dell'America Latina dove già oggi è alta la meccanizzazione (che dal 19% giungerebbe al 38%); in Africa e in Asia orientale, invece, la meccanizzazione arriverebbe a costituire soltanto l'8% del totale della forza impiegata. È interessante notare che la quota del lavoro umano - pur crescendo in valore assoluto - dovrebbe rimanere praticamente invariata a causa dell'aumento delle aree coltivabili, della diffusione dell'irrigazione e delle tecniche di produzione intensiva. Scenderebbe invece la quota degli animali da tiro, complessivamente dal 29% al 20%, in genere per la sostituzione con i molto più potenti trattori, i quali, dai 2,3 milioni di unità nel 1980, dovrebbero aumentare fino a 10 milioni nel 2000. In alcune regioni, ad esempio nel subcontinente indiano, la riduzione nell'uso di animali da lavoro sarà provocata dalla necessità di recuperare terre alla produzione di derrate alimentari e di fronteggiare la crescente domanda di prodotti zootecnici.
i) La disponibilità di energia
La diffusione della meccanizzazione richiama l'attenzione sul crescente consumo di energia commerciale, derivata cioè dai combustibili fossili usati sia come carburanti e lubrificanti sia per la produzione dell'elettricità necessaria per soddisfare le esigenze di vita delle popolazioni rurali e i fabbisogni delle aziende agricole, per fabbricare fertilizzanti, antiparassitari, erbicidi e mangimi, per irrigare, per gestire impianti di conservazione e trasformazione dei prodotti agricoli, ecc.
L'energia è dunque una risorsa essenziale per l'agricoltura, la quale però è fonte, al tempo stesso, di risorse energetiche. Infatti dalle biomasse ricavate dalle colture ‛energetiche' (manioca, canna da zucchero, ecc.), dalle produzioni forestali (legno e scarti), dai sottoprodotti e residui delle coltivazioni delle industrie agricole e degli allevamenti zootecnici si ottengono - attraverso processi di estrazione per fermentazione alcolica o per digestione anaerobica o per combustione, ecc. - combustibili solidi (carbone), gassosi (metano), liquidi (alcool), fertilizzanti, ecc., che possono procurare all'agricoltura mondiale, e particolarmente a quella di molte regioni in sviluppo, sensibili economie.
Il livello dei consumi di energia commerciale per le attività agricole delle regioni in sviluppo è basso. Secondo dati della Banca Mondiale, nel 1980 si è registrato un consumo per abitante rurale di 0,08 tep (tonnellate equivalenti di petrolio) in confronto a circa 1,2 tep nei paesi avanzati. E nel Terzo Mondo, con differenze da paese a paese, l'agricoltura può soddisfare dal 20% al 90% delle esigenze energetiche dello stesso settore primario e del mondo rurale. In molti paesi emergenti è assai importante il legname da combustione (il cui consumo mondiale annuo, quasi esclusivamente in zone rurali, è di circa 850 milioni di tonnellate, corrispondenti a 170 milioni di tep); secondo dati della FAO, si prevede che la richiesta di legname da combustione crescerà al ritmo del 2,2% all'anno cosicché nel 2000 si dovrebbe registrare una domanda superiore del 25% alle disponibilità. Si calcola che nelle regioni saheliane per la raccolta di legna vengano impiegate 360 giornate lavorative per famiglia, mentre le aree circostanti alcune città sono ormai spoglie di alberi e arbusti per raggi di 50-100 km. In zone dell'Africa occidentale una famiglia cittadina spende fino al 20-30% del suo reddito per procurarsi legname.
Alla crescente insufficienza di legname da ardere in varie regioni sottosviluppate si rimedia con letame e altri residui vegetali. Si calcola che complessivamente si brucino da 150 a 400 milioni di tonnellate di letame all'anno, sottraendo così al terreno un prezioso fertilizzante organico. Nel 1970 in India un terzo dell'energia non commerciale consumata proveniva dal letame e da residui vegetali. In questa grave situazione il ricorso ai biocombustibili, cioè al potenziale energetico immagazzinato nelle piante verdi per bioconversione della diffusa e gratuita energia solare, e l'uso diretto della stessa energia solare e di altre fonti rinnovabili (idrica, eolica) potrebbero soddisfare quote rilevanti della domanda energetica nei paesi emergenti.
Con le economie derivanti sia da una diffusa distribuzione di tali impianti sul territorio, nelle comunità agricole e nelle aziende, sia da una progressiva indipendenza dai costosi combustibili fossili, può risultare favorita anche l'adozione di tecniche agricole, di impianti agroindustriali, di sistemi di sviluppo in buona misura autonomi da un punto di vista energetico.
La sostituzione di colture per risorse alimentari con colture ‛energetiche' può essere conveniente in certi paesi autosufficienti per produzioni agricole ma deficitari in energia, come ad esempio Filippine, Thailandia, Kenya, Sudan, Turchia, Colombia, ecc.; ma in altri, come Stati Uniti, Argentina, Brasile, ecc., che sono anche fra i maggiori esportatori di derrate, un forte sviluppo di colture energetiche avrebbe pericolose conseguenze sul mercato mondiale delle derrate.
5. Vincoli ecologici e socioeconomici della produzione agroalimentare
a) Tra XX e XXI secolo: condizionamenti e decollo dell'agricoltura nei paesi emergenti
L'aumento della produzione agroalimentare, fondamentale esigenza dello sviluppo della società umana, richiede un crescente impiego delle risorse naturali, purtroppo (v. cap. 4) in gran parte limitate e non rinnovabili. Risorse come il terreno, l'acqua, la variabilità genetica delle piante e degli animali utili all'uomo, ecc. possono essere compromesse da una irrazionale conduzione dell'esercizio colturale, zootecnico, forestale, con conseguente degradazione dell'ambiente.
Solo l'impiego di tecnologie appropriate, l'adozione di agroecosistemi più bilanciati e meno fragili, la messa a punto di interventi agronomici non inquinanti, l'applicazione di processi di disinquinamento possono impedire che le attività agricole lato sensu, unitamente ad altri interventi legati alla crescita del genere umano (scarichi e residui urbani e dell'industria, ecc.), producano effetti dannosi e irreversibili sulla realtà fisica, chimica, biologica ed ecologica del pianeta.
Sulla linea del rapporto del Club di Roma del 1972 intorno ai limiti dello sviluppo, il problema capitale è di accertare se la crescita della popolazione e dell'economia mondiale possa, in un futuro più o meno prossimo, essere ostacolata e scontrarsi con i vincoli derivanti dalle limitate disponibilità delle risorse naturali e dalle limitate capacità di assorbimento dell'ecosistema e, nel caso, di definire le misure compatibili e gli sforzi necessari per superare tale situazione.
Per quanto concerne le risorse naturali necessarie per produrre le quantità di derrate richieste dalla crescente popolazione umana, secondo il già citato studio dell'OCSE (v., 1979) la situazione per i prossimi tre o quattro decenni si profila preoccupante e molto difficile, ma non eccessivamente pericolosa. Infatti, se è vero che l'erosione del suolo o lo sviluppo urbano distruggono terreni già a coltura, esistono in regioni del Terzo Mondo larghe riserve di terreni potenzialmente coltivabili e vaste aree possono essere convertite - anche nei paesi sviluppati - da produzioni estensive (per es. pascoli) a coltivazioni intensive, o utilizzate per più raccolti nello stesso anno. D'altro canto, la diffusione e l'ottimizzazione dell'uso dei mezzi di progresso tecnico dovrebbero favorire l'aumento delle rese per ettaro. Inoltre, come abbiamo già rilevato (v. cap. 2), il rallentamento della crescita demografica del Terzo Mondo dovrebbe cominciare a delinearsi nel medesimo lasso di tempo, nonostante l'ancora tumultuoso aumento della popolazione prevedibile in varie regioni del pianeta.
È dunque nel prossimo trentennio o quarantennio che si deve provocare il ribaltamento della situazione attuale contrassegnata dal marchio della povertà, una povertà che emerge sia dalle differenze tra le classi sociali di uno stesso paese sia dal crescente divario tra i redditi dei paesi arretrati e dei paesi avanzati. In sostanza, per la soluzione del problema dello sviluppo, dell'equilibrio sociale, dell'ordine internazionale, del benessere occorre una forte crescita globale della produzione di derrate alimentari e un'equa distribuzione delle medesime tra le nazioni come tra i gruppi sociali di uno stesso paese, in armonia con la domanda che l'aumento della popolazione e del reddito potrà creare. E la soluzione, che molto deve contare sull'esercizio dell'umana solidarietà, sarà tanto più effettiva e duratura quanto più, riuscendo a conseguire produzioni agricole commercialmente valide, migliorerà il bilancio delle nazioni oggi più povere e crescerà il reddito dei gruppi e degli individui più indigenti; in tal modo aumenterà la capacità delle nazioni e degli individui di provvedere al fabbisogno alimentare senza stretta dipendenza da aiuti internazionali.
L'essenza della soluzione sta dunque nel realizzare nei paesi più poveri il passaggio da produzioni agricole spesso nemmeno di sussistenza a un'agricoltura commerciale e all'agroindustria. Il contemporaneo miglioramento della produzione e della distribuzione delle materie prime agricole e delle derrate promuoverà incrementi di redditi, equità sociale, stabilità politica.
In breve, la condizione indispensabile per il decollo del Terzo Mondo, come afferma anche T. Schultz, premio Nobel 1979 per l'economia, è lo sviluppo dell'agricoltura, e ciò è vero soprattutto per le regioni più povere. E infatti, senza un incremento dei redditi agricoli i governi saranno costretti a impegnare le risorse per fronteggiare situazioni di emergenza, le condizioni sanitarie e nutrizionali continueranno a deteriorarsi, l'immigrazione urbana diverrà incontenibile, lo sviluppo industriale non decollerà. E poiché è irrealistico presumere che i piani di sviluppo industriale nei paesi emergenti possano procurare impieghi produttivi per i 300 milioni di individui oggi disoccupati o sottoccupati, e per gli altri 700 milioni che verosimilmente ingrosseranno i ranghi dei lavoratori nel 2000, i programmi nazionali e di cooperazione internazionale non devono trascurare o posporre progetti di promozione dei settori dell'agricoltura e dell'agroindustria che possono dare un grosso contributo all'occupazione e alla lotta contro la povertà.
b) La collaborazione internazionale
L'evoluzione e le scelte economico-sociali del Terzo Mondo non possono prescindere da massicci investimenti che richiederanno l'attenzione e la collaborazione dei paesi sviluppati, poiché l'interdipendenza ecologica, economica, culturale fra regioni e continenti è destinata a crescere. Ad esempio, se la CEE, gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia vorranno mantenere alti i propri redditi, anche agricoli, avranno bisogno di un vivace mercato con il Terzo Mondo. Al riguardo si ritiene che, entro la fine del secolo, la struttura del mercato mondiale di materie prime agricole dovrebbe cambiare considerevolmente. Infatti si prevede una riduzione del 25% negli scambi tra i paesi dell'OCSE e del 50% fra i paesi a economia centralizzata, mentre i paesi emergenti dovrebbero raddoppiare gli scambi con il resto del mondo. Nei prossimi anni si dovrebbe, dunque, costituire, anche perché moralmente doveroso, un sistema di cooperazione internazionale che consideri l'economia e la società mondiale come un sistema dalle parti organicamente collegate, riconoscendo, pur nella diversità dei popoli, delle culture, dei sistemi politici ed economici, l'unità della specie umana. Un nuovo ordine economico deve correggere gli attuali squilibri e ineguaglianze, consentire ai paesi più poveri di svilupparsi, rafforzare la capacità d'iniziativa e l'autonomia di tutti i paesi oggi emergenti, assicurando a ciascuno un livello di benessere e di prosperità proporzionato alle aspettative e alle realistiche possibilità. In breve, se si opererà con saggezza e lungimiranza, questi tre-quattro decenni a cavallo del 2000 rappresenteranno la fase di transizione e di passaggio verso un mondo in cui l'incremento demografico, la povertà, la fame finalmente regrediranno.
Successivamente, nel corso del XXI secolo la popolazione mondiale dovrebbe arrivare a stabilizzarsi (v. cap. 2) su valori verosimilmente non inferiori a 12 miliardi e sperabilmente non superiori ai 25-30 miliardi di individui. La già citata indagine dell'OCSE (v., 1979) ammette che la catastrofe potrebbe essere evitata, e potrebbe essere assicurato il sostentamento della popolazione mondiale, a condizione di moltiplicare per 30, grazie a una continua e sempre più costosa ottimizzazione dell'agricoltura convenzionale, l'attuale disponibilità di granaglie, che ha già superato il miliardo e mezzo di tonnellate. Si perverrebbe così, secondo alcuni studiosi, alla metà circa della massima produzione globale teoricamente ottenibile. Fortunatamente, per nessuna pianta o animale il tetto produttivo è stato ancora raggiunto. È però improbabile che l'ulteriore combinazione di interventi genetici e tecnologici e di fattori naturali procuri progressivi aumenti di produzione senza che si verifichino incrementi a tassi decrescenti ma a costi crescenti, specie nelle piante già ad alti livelli produttivi perché oggetto di lunghi e attenti studi.
Il futuro del pianeta e della specie umana potrebbe risultare più propizio con l'avvento, su scala industriale, delle biotecnologie applicate al settore agroalimentare che, innovando in forme e processi oggi imprevedibili il metabolismo produttivo delle piante e degli animali, o sviluppando tecnologie di trasformazione della biomassa anche tramite microrganismi geneticamente manipolati, potranno consentire la costituzione di materie prime alimentari anche non convenzionali. E mentre è impossibile dire se queste tecniche risulteranno più o meno costose degli attuali metodi di produzione di derrate, è lecito ritenere che esse saranno meno legate alle limitazioni fisiche che vincolano la produzione delle tradizionali risorse agroalimentari.
Questi profondi e auspicabili cambiamenti nell'agricoltura, sia all'inizio che nel corso del XXI secolo, sono inestricabilmente connessi con i maggiori problemi sociali ed economici mondiali. In definitiva, il progresso dell'agricoltura e delle produzioni alimentari nei paesi emergenti risentirà fortemente delle scelte sociopolitiche e di ripartizione delle risorse economiche adottate dai singoli paesi, nonché dell'entità e qualità degli investimenti previsti dai programmi di cooperazione internazionale; infatti considerevoli investimenti e notevoli incrementi nei consumi di energia e di materie prime e nell'impiego dei mezzi produttivi si rendono necessari per mettere a coltura nuovi territori, per aumentare le aree dotate di impianti irrigui, per disporre dei fattori tecnici necessari a diffondere le coltivazioni e a intensificare le produzioni per unità di superficie, per sviluppare l'agroindustria e, in più lontana prospettiva, anche le nuove tecnologie bioindustriali. Per conseguire questi obiettivi è indispensabile la ricerca scientifica e tecnologica, cui converrà quindi fare riferimento.
6. Ricerca scientifica e tecnologica
a) Ruolo e caratteristiche della ricerca agricola nei paesi emergenti
La scienza, in quanto ricerca volta all'acquisizione di conoscenze con vario grado di applicabilità, e la tecnologia, che - basata sulla prima - produce innovazioni biologiche, meccaniche, istituzionali da trasferire ai produttori, si avviano a svolgere un ruolo essenziale e determinante nel settore delle risorse agroalimentari dei paesi in via di sviluppo.
Il progresso scientifico e tecnico dell'agricoltura è il fattore che ha innescato nella grande maggioranza dei paesi i processi di trasformazione e di sviluppo economico e sociale. Dall'introduzione dell'irrigazione (circa 7-8.000 anni or sono) e dell'aratro ligneo a chiodo (circa 6.000 anni fa), fino alle tecniche di coltivazione e di rotazione approntate intorno al XVIII secolo in Europa, e alle innovazioni biologiche, chimiche, meccaniche elaborate in questi ultimi 100-150 anni, le nuove tecnologie agricole hanno permesso di accrescere la produzione di derrate alimentari e, simultaneamente, di liberare lavoro e capitali per attività non agricole. Nell'ultimo secolo, poi, i notevoli incrementi di produttività agricola registrati nei paesi economicamente piu avanzati derivano essenzialmente dall'applicazione di forme di progresso tecnico e dalla diffusione di tecnologie agricole, gli uni e le altre approntati attraverso una organizzata ricerca scientifica. Mentre gli aumenti di produttività - come esposto nelle pagine precedenti - sono funzione dell'interazione di molti fattori, sociali, economici, ecologici, culturali, le differenze di produttività e di redditività che si riscontrano tra le agricolture dei paesi sviluppati e non sviluppati sono - almeno parzialmente - da imputare all'entità e al grado di efficienza delle strutture nazionali di ricerca agricola e dei sistemi di trasferimento delle innovazioni.
Nei paesi in via di sviluppo l'esigenza di progressi da conseguire nel breve e nel medio periodo può condurre spesso a preferire il trasferimento diretto o l'adattamento di metodologie già affermate e applicate altrove. Scelta più corretta e, alla lunga, più proficua si rivela invece l'approntamento di nuove tecnologie, ricavate dallo sviluppo e dall'applicazione di appositi studi e ricerche riguardanti gli aspetti fondamentali della produttività di piante e di animali, effettuati nelle condizioni agroclimatiche e pedologiche peculiari dei paesi emergenti. In effetti, principi e metodologie di base sono universalmente applicabili; non così molte tecnologie, in particolare quelle biologiche. Situazioni differenti per cause agroecologiche, etnologiche, socioeconomiche e culturali richiedono interventi tecnici diversi. E le differenze, così nelle specie vegetali e animali come nelle condizioni climatiche e pedologiche, tra le zone temperate in cui prosperano i paesi sviluppati e le zone tropicali umide o quelle aride in cui praticamente rientrano i paesi in via di sviluppo, sono tanto marcate che le ricerche volte all'incremento della produttività delle risorse agricole delle prime sono sostanzialmente inapplicabili alle seconde. Soltanto tecnologie appropriate, e in armonia con le specifiche situazioni ambientali, possono consentire il massimo rendimento delle piante agricole, degli animali domestici e dei vari fattori che ne controllano la produzione.
Un approccio sistematico nella pianificazione e nell'esecuzione dei programmi di ricerca innovativa e nell'adattamento e trasferimento dei risultati alla pratica operativa può abbreviare i tempi della tradizionale sequenza, che comincia con lo studio e la ricerca in laboratorio, o nei campi, nelle stalle e negli impianti sperimentali, prosegue con la sperimentazione, la dimostrazione pratica e la comparazione economica, completandosi, in caso favorevole, con la diffusione e l'adozione delle nuove tecniche da parte degli operatori. E tali nuove tecnologie devono risultare veramente appropriate e accette agli agricoltori e alle popolazioni. Ad esempio, se il legname è la fonte energetica impiegata dalle comunità rurali per usi domestici (per la cottura delle vivande o per il riscaldamento), o se la forzalavoro deriva prevalentemente dall'uomo stesso e dagli animali, è opportuno approntare metodi e tecniche che accrescano la disponibilità di prodotti forestali per uso combustibile o di prodotti foraggeri per l'alimentazione del bestiame, di cui si vuol migliorare il rendimento.
In sintesi, l'urgenza e l'entità del problema, la necessità di innovare più che di imitare richiedono interventi nazionali e internazionali.
b) Strutture nazionali
È essenziale, dunque, che i paesi dispongano di propri servizi di ricerca agricola, i quali abbiano non soltanto la capacità di modificare e ottimizzare tecnologie già mature e mutuate da altri paesi, ma di sperimentarne e adottarne di nuove e più confacenti, definibili sulla base di studi e di ricerche ad hoc. Spetta a essi, in funzione dei ritrovati della ricerca, proporre soluzioni per il progresso agricolo, la cui influenza sull'economia e sulla struttura sociale del paese può essere profonda.
È questo il caso della scelta di priorità fra interventi sul territorio (per es. privilegiare i comprensori irrigui o quelli a piovosità naturale, i terreni ad alta intensità produttiva o quelli marginali), della scelta fra tipi di produzione (per es. cerealicoltura o zootecnia, colture alimentari o colture industriali per l'esportazione), della scelta fra indirizzi di trasferimento tecnologico (tecnologie meccaniche e chimiche ad alto contenuto di capitali rispetto a tecnologie ad alto impiego di manodopera oppure a tecnologie di tipo intermedio). Naturalmente, tali strutture richiedono adeguati investimenti in apparati, impianti e attrezzature; proporzionate risorse umane con vario grado di preparazione, di competenza e di esperienza; attivi sistemi di informazione; efficienti metodi di organizzazione e di gestione; buoni collegamenti con similari istituzioni straniere e internazionali.
Ma la prevenzione verso la ricerca, ritenuta troppo onerosa e lenta nel fornire risultati pratici, e nei confronti dell'insegnamento superiore, accusato di creare delle élites, ha ritardato lo sviluppo di strutture nazionali di ricerca agricola; a questa, però, le classi politiche e dirigenti del Terzo Mondo guardano ormai con maggior scrupolo e attesa, grazie al crescente convincimento che la ricerca e la cultura scientifica sono fattori indispensabili per la crescita civile ed economica della società e che proprio l'analisi dei problemi del settore primario, nello specifico contesto territoriale, è la garanzia di uno stabile successo così dei grandi programmi di riforma agraria come delle varie misure di promozione delle produzioni agricole e alimentari.
Con gli anni settanta l'impegno dei paesi emergenti a favore di strutture governative di ricerca e sperimentazione appare finalmente in crescendo. Da un censimento effettuato dall'IFPRI nel 1982 in 67 paesi comprendenti l'88% delle popolazioni delle regioni in via di sviluppo, Cina esclusa, si ricava (v. tab. XIII) che gli investimenti per i servizi nazionali di ricerca agricola sono passati, a valori monetari costanti riferiti al 1975, da quasi 400 milioni di dollari nel 1970 a oltre un miliardo nel 1980, con un incremento percentuale annuo del 10,5% Ed è incoraggiante osservare che tali investimenti, nel 1980, corrispondono allo 0,5% del prodotto agricolo lordo complessivo dei paesi in esame, raggiungendo così l'obiettivo indicato dalla Conferenza mondiale dell'alimentazione di Roma del 1974.
Anzi, rispetto a un investimento pari all'1% del prodotto agricolo lordo, valore che grosso modo contraddistingue i paesi industrializzati, alcuni paesi (Malesia, Nigeria, Colombia, Messico) si vanno a esso approssimando, mentre altri (Argentina, Venezuela, Brasile, Kenya) lo hanno già superato. Ma la maggioranza dei paesi in via di sviluppo è ancora lontana da investimenti di entità significativa, tanto più che la Banca Mondiale presume che nelle regioni emergenti si dovrebbe reinvestire in ricerca intorno al 2% del prodotto agricolo lordo.
Anche l'organico del personale di ricerca (v. tab. XIII) è aumentato (esclusa sempre la Cina il cui organico, sulla base di dirette informazioni, dovrebbe essere all'incirca uguale a quello di tutti gli altri paesi emergenti), salendo dalle 18.700 unità del 1970 alle 33.700 del 1980, con una crescita media annuale del 6,1%. È stata così superata la cifra di 29.000 addetti previsti dalla Banca Mondiale come obiettivo da raggiungere nel 1984. Ma la situazione è solo apparentemente positiva. Non soltanto il livello scientifico è generalmente insufficiente per la scarsezza di personale altamente qualificato, ma anche la distribuzione dei quadri è molto ineguale. Vi è carenza di personale soprattutto nelle regioni subsahariane, del Sud- e Centroamerica e dei Caraibi. L'81% del personale di ricerca si raccoglie in dodici paesi: India, Brasile, Pakistan, Bangladesh, Thailandia, Indonesia, Messico, Nigeria, Argentina, Filippine, Corea del Sud, Malesia (v. tab. XIV). Anzi, in cinque di questi paesi (Brasile, Argentina, India, Nigeria, Messico) si concentra attualmente il 64% dei ricercatori e il 62% degli investimenti.
L'insufficienza di personale qualificato è un dato molto preoccupante, poiché non si costruisce una società moderna senza un'adeguata preparazione delle forze interessate nella produzione. Un ulteriore massiccio lavoro di formazione e di qualificazione si impone, poiché, con riferimento ai dati disponibili per 51 paesi che raccolgono oltre l'80% delle popolazioni in sviluppo (sempre esclusa la Cina), si prevede per il 1990 di dover disporre di oltre 107.000 addetti alla ricerca a livello almeno del primo diploma universitario (la tab. XV espone le necessità per regione), il cui costo di preparazione ammonterebbe a 3,5 miliardi di dollari.
In breve, anche per carenze nei meccanismi di programmazione e di collegamento tra domanda e offerta di ricerca, il rendimento degli organismi nazionali di sperimentazione agraria, sovente affetti da eccessiva centralizzazione, o da frammentazione delle responsabilità fra troppe amministrazioni, o da dispersione delle risorse e sottodimensionamento delle strutture, è in generale gravemente carente; né, peraltro, risultano migliori le prestazioni dei servizi di istruzione universitaria e di assistenza tecnica agli agricoltori. Nei paesi industrializzati il numero di addetti ai servizi di assistenza tecnica e divulgazione per ogni 1.000 abitanti rurali è, in media, pari a 1,27, mentre il numero dei tecnici (diplomati, laureati) è pari a 0,775; nel Terzo Mondo tali rapporti scendono a 0,26 e 0,064, rispettivamente.
La ragione sta nel fatto che molti paesi emergenti, raggiunta l'indipendenza negli ultimi 30-40 anni, hanno dovuto formare ex novo le strutture di ricerca, poco giovando le istituzioni scientifiche create nel periodo coloniale perché generalmente finalizzate verso le materie prime agricole destinate all'esportazione. E anche la rete di sedi universitarie, spesso molto recenti, potrà risolvere il problema degli organici scientifici e tecnici, reso più acuto dal rimpiazzo del personale straniero, soltanto nei tempi lunghi richiesti per la formazione di ricercatori professionalmente qualificati, scientificamente preparati, sufficientemente esperti nelle scelte dei temi, nell'elaborazione dei programmi e nella realizzazione dei progetti di ricerca. Infatti in molti paesi in via di sviluppo gli istituti sperimentali non sono ancora sufficientemente predisposti ad affrontare ricerche che richiedano un equilibrato apporto di discipline diverse e una sistematica integrazione di conoscenze tecniche, economiche e sociali. Anzi, in quelli meno sviluppati e più poveri i servizi scientifici di ricerca, quelli di istruzione e formazione del personale e quelli di assistenza tecnica si trovano spesso in difficoltà nell'eseguire programmi anche relativamente semplici, come per esempio l'integrazione tra produzioni erbacee e arboree, tra produzioni vegetali e animali, tra produzione, conservazione e trasformazione dei prodotti agricoli, tra produzione, mercato e distribuzione delle derrate alimentari, ecc. Eppure, segnatamente in tali paesi più che negli altri è viva la necessità di conseguire obiettivi, sia pur limitati, e di informare ed educare le popolazioni rurali in considerazione del fatto che in una agricoltura di sussistenza, e quindi molto povera, gli agricoltori evitano di accettare le innovazioni perché comportano una quota di rischio. In tali condizioni versano alcune decine di paesi, come quelli dell'Africa saheliana e meridionale e delle isole assurte all'indipendenza, e diversi tra quelli con popolazione poco numerosa, nei quali le ridotte finanze nazionali impediscono l'organizzazione e la gestione di un consistente sistema di ricerca agraria. Per questi paesi, il cui scarso peso demografico, territoriale, economico e politico purtroppo raramente richiama l'attenzione e la cooperazione internazionale, la soluzione potrebbe trovarsi nella collaborazione con istituti regionali ovvero nell'associazione con un capace servizio di ricerca di un grosso paese vicino, a sua volta inserito nella rete scientifica internazionale.
c) Assistenza e cooperazione internazionale
Nonostante gli indubbi segni di crescente impegno da parte dei governi, i livelli quantitativi e qualitativi della ricerca nei paesi emergenti sono generalmente scarsi e lentamente modificabili. E poiché la ricerca si fa con gli uomini, con gli intelletti, con le strutture, con i finanziamenti, mai come in questo caso la collaborazione internazionale e l'assistenza dei paesi sviluppati sono motivate. Esse sono necessarie: per accumulare un patrimonio di conoscenze sui problemi del settore agroalimentare che sia la base per un razionale, economico e sempre meno empirico sviluppo delle attività produttive; per svolgere ricerche finalizzate al miglioramento, soprattutto nei paesi più arretrati, delle produzioni più tipiche e importanti; per costituire o potenziare le strutture di ricerca, di sviluppo, di trasferimento e di assistenza tecnica; per contribuire alla formazione e qualificazione del personale. A quest'ultimo proposito, per ottenere contemporaneamente l'avanzamento tecnico-scientifico e la maturazione delle capacità e competenze umane, bisogna aiutare le amministrazioni dei paesi in sviluppo a integrare la ricerca accademica universitaria con i programmi nazionali agricoli.
Nei paesi industrializzati, speciali amministrazioni governative o comunque pubbliche (agenzie, dipartimenti, commissioni, istituti, ecc.) e anche fondazioni private hanno il mandato di favorire - con interventi bilaterali o multilaterali - la crescita economica dei paesi emergenti mediante la cooperazione e l'assistenza allo sviluppo dei diversi settori dell'attività umana, comprese le iniziative tecnicoscientifiche.
Nel campo della ricerca scientifica e tecnologica applicata al settore primario, l'assistenza di tipo bilaterale consiste, di massima, in rapporti diretti tra paese sviluppato ed emergente sotto forma di accordi a vario livello (di governo, tra organismi tecnici, istituzioni scientifiche, imprese pubbliche e private, ecc.) per indagini, consulenze e studi su piani di valorizzazione dei fattori della produzione agroalimentare (v. cap. 4), per l'invio di gruppi di esperti e di docenti incaricati dell'organizzazione di servizi scientifici, tecnici e di istruzione, per la realizzazione di istituti di sperimentazione, per la programmazione ed esecuzione di progetti di ricerca.
L'intervento multilaterale, invece, si manifesta di massima nel congiunto sostegno di più paesi a iniziative predisposte e gestite da organizzazioni internazionali o sovranazionali. Alcune di queste operano nei vari settori dell'economia, incluso il settore primario e la connessa ricerca scientifica e tecnologica, come, ad esempio, la Banca Mondiale a Washington e le varie banche di sviluppo regionale, l'Agenzia dell'ONU per i programmi di sviluppo (UNPD), l'Agenzia dell'ONU per i programmi di difesa dell'ambiente (UNEP), l'Agenzia dell'ONU per la promozione culturale (UNESCO) e il suo programma MAB (Man and Biosphere), l'istituto dell'ONU per la formazione e la ricerca (UNITAR) a Ginevra, l'Università delle Nazioni Unite a Tokyo, la Comunità Economica Europea con il Fondo europeo di sviluppo e con la Convenzione di Lomé, sottoscritta da una sessantina di paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico, i cui stanziamenti sono destinati per il 40% allo sviluppo agricolo dei paesi firmatari. Altri organismi, invece, sono stati appositamente creati per pilotare, ovviamente anche con l'ausilio della scienza e della tecnica, l'aumento delle disponibilità mondiali delle risorse agricole e alimentari, come ad esempio: l'Organizzazione dell'ONU per l'Agricoltura e l'Alimentazione (FAO) a Roma, il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) a Roma, il Consiglio Mondiale per l'alimentazione (WFC) a Roma, il Gruppo Consultivo per la Ricerca Agricola Internazionale (CGIAR) a Washington, l'Istituto interamericano di scienze agricole a S. José di Costarica, il Centro regionale dell'Asia nordorientale per la formazione e la ricerca in agricoltura a Laguna (Filippine), l'Associazione per il progresso delle scienze agrarie in Africa ad Addis Abeba, il Centro tecnico di cooperazione agricola previsto dagli accordi di Lomé della CEE, la Commissione per le Applicazioni delle Scienze all'Agricoltura, alle Foreste e alla Pesca (CASATA) del Consiglio Internazionale delle Unioni Scientifiche (ICSU), ecc.
Con riferimento all'insufficienza di personale scientifico altamente qualificato, incolmabile nei tempi brevi, sembra opportuno precisare il contributo dei paesi sviluppati a questa politica d'intervento. Pur mancando di accurati censimenti, da rapporti della FAO e del CGIAR si desume che almeno 5.000 studiosi dei paesi avanzati operino nei paesi in sviluppo; altre stime indicano che in 10 paesi europei circa 10.000 esperti sono addetti a programmi di assistenza oltremare, con una distribuzione abbastanza ampia, ma alquanto focalizzata verso le contrade francofone dell'Africa, dei Caraibi e delle isole del Pacifico.
d) Il sistema CGIAR
Fra gli organismi unicamente rivolti alla ricerca scientifica e tecnologica il più significativo è, verosimilmente, il CGIAR (Consultative Group on International Agricultural Research). Lo contraddistinguono l'originalità della concezione e la flessibilità organizzativa, la globalità degli obiettivi strategici della ricerca e la consistenza della rete di strutture realizzate, la pluralità dei sostenitori e l'entità del bilancio, la celerità nell'aggredire i problemi e nel promuovere nuove iniziative, la frequenza nei controlli e nelle revisioni dei programmi, la qualità e la provenienza del numeroso personale ingaggiato, la capacità di creare grossi centri di cultura scientifica in zone arretrate, il vasto rapporto con le comunità tecnico-scientifiche dei paesi avanzati e il supporto a quelle del Terzo Mondo, cui fa da battistrada con la validità scientifica e il valore economico dei risultati ottenuti.
I 13 istituti internazionali sotto l'egida del CGIAR (v. tab. XVI), in cui oggi lavorano oltre 7.000 persone di cui 600 ricercatori seniores reclutati da più di 40 paesi sviluppati ed emergenti, operano secondo strategie di ricerca finalizzata. L'attività più ricorrente consiste: nel selezionare varietà elette delle principali colture di interesse per il Terzo Mondo, di cui migliorano anche le produzioni zootecniche; nel razionalizzare i sistemi colturali, le tecniche agricole e l'impiego di mezzi di progresso tecnico, in relazione alle condizioni ecologiche e socioeconomiche e all'utilizzazione - non devastatrice - di risorse naturali come il terreno, il germoplasma e l'acqua, pluviale o d'irrigazione; nello sviluppare metodologie sperimentali e all'occorrenza nell'effettuare la ricerca di base, dato che la ricerca finalizzata, qualunque ne sia lo scopo e la scala, è virtualmente costretta da ostacoli e difficoltà che richiedono studi di natura più fondamentale. Inoltre, essi sono collegati con scuole e istituti sperimentali dei paesi emergenti e li immettono nei circuiti internazionali; promuovono corsi di specializzazione per ricercatori del Terzo Mondo; diffondono le informazioni tecniche e i risultati pratici anche attraverso i servizi nazionali di assistenza e divulgazione.
Gli istituti sono praticamente autonomi, in quanto retti da consigli di amministrazione responsabili della gestione finanziaria e programmatica e composti da membri prescelti per le capacità personali e, pertanto, non rappresentanti i paesi o le agenzie costituenti il CGIAR. Con periodicità quinquennale i programmi dei singoli istituti, così come dell'intero sistema, vengono revisionati sulla base di rapporti predisposti dal Comitato consultivo del CGIAR, appoggiato presso la FAO e composto da esperti selezionati nella comunità tecnico-scientifica internazionale. Nella propria autonomia gli istituti possono anche promuovere, usufruendo di finanziamenti supplementari, programmi cooperativi con altri istituti del gruppo o con laboratori di paesi avanzati o emergenti. Possono così guidare e concentrare gli sforzi di gruppi di specialisti su problemi chiave (per es. di patologia, di genetica, di fisiologia, di pedologia) che ostacolino o limitino la produttività di una coltura o il rendimento di un agroecosistema. Il rapporto con la comunità scientifica internazionale da un lato, e con quelle dei paesi emergenti dall'altro, consente, in definitiva, la migliore valorizzazione delle risorse in uomini e mezzi e dei ritrovati scientifici e pratici degli istituti del CGIAR.
e) Stanziamenti
È stato riferito precedentemente che gli investimenti nella ricerca agricola sostenuti da 67 paesi, comprendenti quasi il 90% delle popolazioni del Terzo Mondo esclusa la Cina, ammontavano nel 1980 a oltre 1 miliardo di dollari (a valore 1975). Poiché la spesa annuale mondiale per la ricerca agricola è calcolata al presente sui 5 miliardi di dollari, la partecipazione dei paesi emergenti è intorno al 20%, sebbene essi rappresentino quasi il 60% delle terre emerse e oltre il 75% del genere umano. Anche per questo motivo, dunque, è imperativa la cooperazione dei paesi avanzati alle iniziative tecnico-scientifiche volte ad aumentare il livello di vita delle popolazioni rurali. Orbene, il contributo dei paesi avanzati, che aveva subito un calo negli anni sessanta, ha ripreso a salire nel decennio seguente; secondo calcoli dell'IFPRI (v. tab. XVII), relativi a quasi tutti i paesi donatori a economia di mercato (mancano i dati per i paesi a economia di Stato), dai 303 milioni di dollari del 1976 (a valore costante 1975) si è passati nel 1980 a 582 milioni di dollari, con un raddoppio nel quinquennio e un incremento di quasi il 18% all'anno. In verità, posto che la ricerca innovativa dia buoni frutti nel medio-lungo periodo, dato che la situazione è ormai molto grave e i tempi, quindi, molto ristretti, e visto che la ricerca come l'istruzione sono poderosi fattori di crescita economica, un più intenso sforzo di cooperazione e di assistenza finanziaria nel settore della ricerca deve essere espresso da parte dei paesi ricchi, ivi compresi anche quei paesi del Terzo Mondo dagli opulenti bilanci. Secondo stime della FAO, gli stanziamenti ‛esterni' (devoluti cioè dai paesi avanzati) a sostegno di programmi di sviluppo agricolo supererebbero al presente (a valore 1975) i 6 miliardi di dollari all'anno. Ciò significa che la cooperazione internazionale alla ricerca agricola non arriva nemmeno al 10% del bilancio totale dell'assistenza alle varie forme di sviluppo agricolo, che a sua volta rappresenta il 17% degli stanziamenti (circa 35 miliardi di dollari l'anno) erogati per tutti i programmi di sviluppo in tutti i settori di intervento.
Dalla tab. XVII si ricava pure che globalmente i finanziamenti ‛esterni' si ripartiscono abbastanza equamente tra cooperazione bilaterale e multilaterale. Anzi, gli interventi bilaterali sono più correttamente ripartiti, con una doverosa attenzione per l'Africa anche se non sempre a favore dei paesi più bisognosi; infatti fondi adeguati per realizzare sistemi di ricerca nazionali sono stati forniti soltanto a pochi paesi: Senegal, Tanzania, Ghana, Mali, Alto Volta, Burundi, Lesotho ed Etiopia. Dagli interventi multilaterali risultano privilegiate l'Asia e l'America Latina; in effetti, nei maggiori paesi dei due suddetti continenti si concentrano rilevanti contributi e prestiti, in particolare tramite agenzie e banche di sviluppo, destinati soprattutto alla costruzione e all'attrezzatura di interi centri di ricerca o di loro grosse componenti. Complessivamente, attraverso la cooperazione bilaterale e multilaterale, i paesi avanzati sostengono al presente circa 1.000 progetti di ricerca. Le regioni che adesso abbisognano di una speciale assistenza sono soprattutto le isole del Pacifico, i Caraibi e il Centroamerica, il Sudafrica e il Sahel occidentale.
Nella tab. XVII sono anche riportati i versamenti per il CGIAR: essi costituiscono circa il 18% dei finanziamenti esterni e circa il 6% del totale degli investimenti erogati dai paesi emergenti e da quelli avanzati per la ricerca agricola nel Terzo Mondo.
f) Indirizzi di sviluppo
Molto verosimilmente i programmi di ricerca nei prossimi anni si svilupperanno secondo linee e priorità già note, con l'obiettivo di aumentare, con tecnologie a elevato impiego di manodopera più che ad alta intensità di capitali, la produzione di biomasse agricole per usi alimentari e non.
Dovrebbero essere approfonditi i complessi problemi della conservazione della fertilità dei terreni e della gestione delle risorse idriche sia per sistemi irrigui che per sistemi agricoli in regime di piovosità naturale. Si lavorerà per accrescere e rendere meno fluttuanti, anche con colture intercalari e avvicendamenti accelerati, quelle produzioni di cereali, di proteaginose, di oleaginose, di radici commestibili, di piante orticole e da frutto, che siano non solo le più diffuse ma anche le più adatte alle condizioni ambientali e alle abitudini alimentari dei consumatori. Per aumentare le disponibilità di carne e di altri prodotti di origine animale si dovrebbe fare maggior ricorso al miglioramento genetico e alla medicina veterinaria, incrementando altresì le produzioni foraggere e l'utilizzazione di sottoprodotti a fini alimentari. La ricerca forestale punterà verso le specie a rapida crescita anche in condizioni ambientali avverse, così da offrire nuovi strumenti per la difesa del suolo e per il contenimento della desertificazione, e una maggiore disponibilità di materie prime energetiche.
In sintonia con il grado di sviluppo socioeconomico e infrastrutturale, si dovranno elaborare appropriati metodi di conservazione delle produzioni vegetali e animali, e realizzare processi e impianti per l'espansione di un'attività agroindustriale trasformatrice delle materie prime alimentari e non.
Appare scontato che la cooperazione tra paesi e tra comunità tecnico-scientifiche dovrà essere continuamente incoraggiata, evitando però che diventi anarchica e controproducente per proliferazione e competizione tra donatori, per reiterazione di interventi, per sviluppo disordinato di progetti, per approssimazione e intempestività nelle scelte, per superficialità di controlli in corso d'opera, per imperizia e ritardi nel trasferimento dei ritrovati innovativi.
Per migliorare sostanzialmente il potenziale della ricerca agricola nei paesi emergenti, i servizi nazionali, i centri internazionali, i piani interregionali, le agenzie sovranazionali, i progetti bi- e multilaterali, le partecipazioni delle strutture scientifiche (pubbliche e private) dei paesi avanzati dovrebbero essere considerati come componenti di uno stesso, sia pur complesso, sistema, e i loro programmi progressivamente armonizzati.
La ricerca scientifica e tecnologica è un'arma indispensabile per fronteggiare una delle più formidabili sfide della nostra epoca, la cui posta è la sorte stessa dell'umanità. E le comunità tecnico-scientifiche agricole hanno grandi responsabilità: dall'avanzamento della scienza e della tecnologia alla capacità di interlocuzione e confronto con i responsabili delle azioni politiche. In fondo, il valore della ricerca agricola e il suo contributo alla soluzione dei problemi dello sviluppo del Terzo Mondo saranno misurati in ragione del reale incremento delle risorse agroalimentari. E, forse, sarà così anche recuperato e riconosciuto - contro la cultura dominante dovunque, nei paesi sviluppati come in quelli emergenti - il ruolo dell'agricoltura nell'attuale periodo storico del consorzio umano.
7. Conclusioni
Le disponibilità di risorse agroalimentari devono crescere incessantemente nei prossimi anni per tenere il passo con lo sviluppo demografico dei paesi emergenti, che si presume continuerà impetuoso per almeno altri tre o quattro decenni, e per contenere, e anzi ridurre, miseria, disoccupazione, denutrizione, fame.
Ma l'incremento costante della produttività del settore primario, attraverso l'ammodernamento tecnico e l'intensificazione della ricerca scientifica, si presenta più problematico proprio là dove è più necessario. Intervengono e si intrecciano carenze economiche e sociopolitiche, ritardi tecnico-scientifici e infrastrutturali, differenze culturali, frutto del mosaico di etnie e di costumanze, e situazioni agroecologiche profondamente diseguali. E con urgenza sono da trovare le risposte, le soluzioni ai problemi posti dalla miriade di condizioni diverse.
La diffusa e crescente consapevolezza della gravità della situazione consente di ritenere che l'opera degli agricoltori, dei tecnici e degli scienziati, e gli interventi delle classi politiche e direttive dei paesi in via di sviluppo, col sostegno di una convinta e generosa solidarietà dei paesi avanzati, rafforzeranno il settore primario, settore chiave dell'economia di tanti paesi emergenti. (V. anche alimentazione).
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