Ungheria (Ungaria)
Carlo Martello indica a D. l'U. come quella terra che 'l Danubio riga / poi che le ripe tedesche abbandona (Pd VIII 65-66), dandoci un quadro abbastanza preciso della geografia della regione. Essa è abitata dagli ‛ Ungari ' che appartengono alla grande famiglia dei popoli che parlano lingue derivate da quella dello jo (VE I VIII 4).
D. dimostra di avere una buona conoscenza della situazione storica della regione quando esclama, nell'enumerare i principi ingiusti nel cielo di Giove, O beata Ungheria, se non si lascia / più malmenare! (Pd XIX 142), alludendo con ogni probabilità ai contrasti che ostacolarono l'ascesa al trono di Carlo Roberto d'Angiò. Secondo il Sapegno, invece, quest' espressione, collegata a quella immediatamente seguente relativa alla Navarra, ha un valore esortativo intendendosi che l'U. deve difendersi dal malgoverno della casa francese; ma quest'interpretazione contrasta con l'atmosfera affettuosa di cui D. ha circondato la figura di Carlo Martello, iniziatore della dinastia angioina in U. - per quanto non riuscì mai a prender possesso del regno (Fulgeami già in fronte la corona / di quella terra che 'l Danubio riga, Pd VIII 64-65) -, e di riflesso quella del figlio Caroberto; e inoltre contraddice la realtà storica contemporanea alla stesura del canto: infatti il regno di Caroberto fu l'inizio di un periodo di prosperità nel regno ungherese (si vedano le voci ANDREA III; Carlo Martello d'angiò; Carlo Roberto d'angiò).
Nel 35 a.C. i Romani conquistarono il territorio compreso tra la Sava e il Danubio, abitato in precedenza dagl'Illiri e quindi dai Celti, fondando la provincia della Pannonia. Il dominio romano fu consolidato in seguito da Traiano fra il 101 e il 105 d.C., ma durante la crisi dell'Impero quelle provincie danubiane furono invase prima dai Goti, poi dagli Unni nel sec. V, dagli Avari nei secc. VII e VIII. Verso la fine del sec. IX sembrò che gli Slavi potessero stabilirvisi, allorché irruppe dai Carpazi una popolazione di stirpe ugro-finnica, i Magiari, seminomadi, di lingua uralica, divisi in sei tribù, guidati da Árpád, capo della tribù Magjar, la più importante, da cui il nome del popolo. Con il principe Geza (971-997) s'iniziò l'unificazione del popolo, ma spetta a s. Stefano (997-1038) il merito di aver dato leggi e ordinamenti. Questi, sposando Gisela, figlia di Enrico II di Baviera, si pacificò con l'Occidente, vinse le resistenze interne e ricevette missionari che lo coadiuvarono nel convertire il suo popolo al cristianesimo, ponendo così le basi della monarchia cristiana in Ungheria.
Con la morte di Stefano il regno fu travagliato da pericolose discordie, finché con s. Ladislao (1077-1095), superati i contrasti interni, fu ripreso lo slancio espansivo con l'occupazione della Slovenia (1089) e della Croazia (1091). Colomanno suo successore (1095-1116) conquistò alcune città e isole dalmate, coinvolgendo il suo regno in secolari conflitti con Venezia e quindi con Bisanzio. La politica di espansione, tuttavia, logorò il potere regio e nel 1222 Andrea II con la Bolla d'oro affrontò la riforma dello stato, fissando lo statuto nobiliare feudale ungherese. Durante il governo di Bela IV (1235-1270) l'invasione dei Tartari (1241) scosse profondamente il regno, che poté risollevarsi solo alcuni anni dopo. Nel 1301 con la morte di Andrea III si estinse la dinastia degli Árpád, originando così successioni difficili e contrastate. Grazie ai legami familiari che già all'epoca di Bela IV erano stati stretti fra gli Árpád e gli Angiò di Napoli, mediante il matrimonio di Maria, sorella di Ladislao IV, con Carlo II lo zoppo, nel 1308 dopo aspre lotte poté salire al trono Carlo Roberto d'Angiò.
La fortuna di Dante in Ungheria. - È logico che nell'ambiente degli Angioni ungheresi, alla corte del figlio di Caroberto, Luigi d'Angiò detto ‛ il Grande ', rifiorisse il ricordo di D., che nel Paradiso si era dichiarato amico di Carlo Martello. Intorno al 1353 un milite ungherese - che aveva preso parte alle spedizioni napoletane fatte da Luigi d'Angiò per vendicare l'assassinio del fratello minore Andrea compiuto ad Aversa - volle espiare i misfatti che aveva commessi nell'Italia meridionale con un pellegrinaggio alla grotta di San Patrizio in Irlanda. Il milite ungherese, chiamato Krizsafánfia György (Giorgio, figlio di Krizsafán), vide fra i sogni febbrili avuti nella grotta una figura femminile meravigliosa; e questa figura ha indubbiamente tratti comuni con Beatrice, soprattutto in quanto gli diede l'illusione di volerlo sollevare dallo stato di abiezione profonda in cui egli era caduto. Il Viaggio del milite Giorgio produsse un'ondata di ‛ visioni ' d'oltretomba, che evidentemente rispondevano ai problemi tempestosi di un'età di transizione, e che sono quelli riconoscibili anche nel poema dantesco.
Agl'inizi del sec. XV un altro cavaliere ungherese, notabile della corte dell'imperatore Sigismondo, Lörinc Tari, avendo perduto una persona a lui molto cara, dubitò della sorte dell'anima e decise di fare un pellegrinaggio con l'intenzione di terminarlo alla grotta di San Patrizio.
Tuttavia il primo segno del culto di D. in U. può esser fatto risalire al secondo decennio del sec. XV. Giovanni Bertoldi da Serravalle, recatosi al concilio di Costanza, tradusse in latino la Commedia (gennaio-maggio 1416), dedicando la versione a Sigismondo re di Ungheria, e accompagnandola con un ampio commento (composto tra il febbraio 1416 e il gennaio 1417) di tendenza ghibellina, derivato da quello di Benvenuto (v. BERTOLDI, Giovanni).
Un altro elemento del culto di D. è costituito da un codice prezioso della Monarchia oggi alla biblioteca del museo Nazionale di Budapest (cod. 212) offerto originariamente - secondo la congettura di Iózsef Kaposi - ad Alberto Il d'Asburgo, re di Germania. Il codice venne esemplato intorno alla fine del 1438 o agl'inizi del 1439, e fu probabilmente messo assieme in Boemia. Circostanza piuttosto significativa è che il testo dantesco è accompagnato da profezie gioachimite.
Altri momenti della fortuna di D. in U. ci conducono già all'ambiente del Rinascimento ungherese. Non molto più tardi Giano Pannonio (1434-1472), la più insigne figura dell'Umanesimo ungherese, alunno della scuola di Guarino veronese, in un suo poema eroico, Panegirico su Jacopo Antonio Marcello, rappresentò il protagonista del suo poema, eroe desideroso di scoprire un mondo nuovo nel mare dell'Occidente, modellandolo sull'Ulisse dantesco. Alla corte di Mattia Corvino il Pannonio trovò un ambiente quanto mai favorevole a D.: il gruppo neoplatonico della corte, infatti, era in attiva corrispondenza con Marsilio Ficino, prediligeva D., studiandone la Monarchia, che proprio il Ficino aveva tradotto in volgare. Un umanista della corte, Galeotto Marzio (1427 - 1497 circa), fu profondamente influenzato in varie sue opere dal Convivio dantesco. Un altro umanista della corte, Aurelio Brandolino Lippo (1440-1497), nell'opera De Comparatione rei publicae et regni mette in rilievo alcune affinità tra la Monarchia e la Commedia.
Alla biblioteca reale, la cosiddetta Bibliotheca Corvina, appartenne un codice sontuosamente illustrato della Commedia, attualmente all'Egyetemi Könyvtár (Ital. I, già Lat. 33). Nel Libello sulla dignità degli Apostoli (1521) si trova la prima citazione di D. in lingua ungherese (Pd XXII 46-48). Degl'inizi del sec. XVII è il successivo dato importante della fortuna di D. in U.: Jànos Rimay e ancora prima il suo maestro, Bálint Balassi, il primo poeta ungherese di rilievo europeo, si richiamano a D. quale modello supremo di poesia d'amore in lingua volgare. Le ragioni di tale ammirazione vanno ricercate nell'interesse suscitato dal De vulgari Eloquentia, in quel tempo già conosciuto.
A parte alcuni episodi di trascurabile importanza, una vera e propria eclissi nella fortuna di D. si ebbe in U. dal secolo XVII fino agl'inizi del XIX. Ma il rinato interesse per l'opera di D., favorito in Italia dalla nuova ideologia romantica e risorgimentale, promosse di riflesso anche in U. un nuovo fervore di studi. Luigi Kossuth fu un lettore attento della Commedia e della Monarchia; Sándor Petöfi, che può considerarsi il più grande poeta ungherese del sec. XIX, ammirò in D. il creatore dell'Inferno e il poeta del Veltro. Negli scritti di István Széchenyi è messa in risalto la capacità del poeta dell'Inferno nel rendere la dolorosa condizione umana, la pena causata a sé stessi dagli uomini o da una potenza straniera che opprime la patria. Contemporaneo al risveglio dell'interesse per il D. più propriamente ‛ politico ' è lo sforzo di alcuni studiosi per tradurre i testi danteschi e interpretarli storicamente ed esteticamente. Gábor Döbrentei tradusse per primo in prosa (1806) i canti I e V dell'Inferno e brani dal III, dal IV e dal XIX. Nelle riviste del Risorgimento ungherese cominciano ad affiorare giudizi storici ed estetici sulla Commedia.
Le prime traduzioni ad alto livello delle opere di D. in ungherese sono dovute però a un altro poeta, Ferenc Császár, di origine fiumana. La sua traduzione della Vita Nuova è degna di ogni attenzione perché possiede alto valore artistico; e importante è la " lettera " di Ferenc Toldy premessa alla traduzione, che ci presenta un D. che conclude il Medioevo e conduce all'Età Nuova: è appunto questa la concezione che diventerà dominante nella dantologia ungherese. Il Császár tradusse anche i primi sette, il XXXIII e parte del XV canto dell'Inferno.
Le prime traduzioni integrali della Commedia in ungherese di Gyula Bálinth in esametri (1868-76), l'altra di János Angyal (1878) risultarono inadeguate. Il primo traduttore all'altezza del grave compito fu Károly Szász (1872-1885, 1891). Ultima in ordine di tempo (1966) l'ottima traduzione dei canti I-V dell'Inferno a opera di Sándor Weöres. Da ricordare le poesie di János Arany (Dante, 1852; A kis pokol; Arany tradusse anche le prime terzine dell'Inferno, 1856); il saggio di Jenö Péterfy, occasionato dalla traduzione dello Szász (1886). Del 1913 è la traduzione di Mihály Babits (Komédiája Elsöresz: A pokol) pubblicata in più riprese fino al 1923 e diventata un'opera classica della letteratura ungherese. La traduzione del Babits sembra più tortuosa dell'originale, più nervosa, non arriva alla robustezza di D., eppure la flessibilità della lingua, la tecnica straordinaria di rima, la fedeltà al testo e, al tempo stesso, la libertà creativa rendono questa traduzione esemplare. Ad essa è da collegare la successiva fortuna di D. in Ungheria.
Tra le monografie, notevole è anzitutto quella di József Kaposi, Dante Magyarországon (cit. in bibl.); e ugualmente importante è l'album pubblicato in occasione del sesto centenario della morte di D., Dante-Emlékkönyv, szerkesztette Reiner János (Budapest 1924), in cui si trovano alcuni saggi molto importanti, quelli per es. di Gyözö Concha, Dantis Florentini de Monarchia libri tres e quello di Jenö Kastner, Dante realizmusa (Il realismo di Dante).
Anche altre opere di D. furono tradotte in ungherese: la Monarchia, da György Balanyi (1921), La Vita Nuova, da Zoltán Ferenczi (Budapest 1921), poi ripetutamente da Zoltán Jékely (ibid. 1944). La prima edizione integrale delle opere di D. in un volume venne pubblicata la prima volta nel 1962 e la seconda volta nel 1965 a c. di Tibor Kardos, nelle traduzioni di Mihály Babits, Gyözö Csorba, Zoltán Jékely, Amy Károlyi, László Mezey, Mihály András Rónai, Géza Sallay, Mihály Szabó, Dénes Szedö, György Végh, Sándor Weöres.
Il frutto più notevole della filologia dantesca in U. è il volume preparato per il settimo centenario dantesco: D. a középkor és a renaissance között (D. tra Medioevo e Rinascimento), Budapest 1966, la cui concezione si attiene alla tradizione ungherese di considerare D. ultimo genio sintetico del Medioevo che apre il Rinascimento. I collaboratori dell'opera sono: Imre Bán, Ferenc Baranyi, Vittore Branca, Fredi Chiappelli, László Gáldi, Tibor Kardos, Jenö Koltay-Kastner, Giorgio Padoan, Giuseppe Petronio, György Rába, László Rajnai, Zoltán Rózsa, Géza Sallay, Mihály Szabó, József Szauder.
Bibl. - J. Kaposi, Dante Magyarországon, Budapest 1911; K. Ternay, D. e la sua opera nella poesia ungherese, in " Idea " II (1950) 4-8; ID., D. nella letteratura e nella storia d'Ungheria, in " Il Veltro " II (1958) 39-42; T. Kardos, La genesi della traduzione moderna della D.C. in U., in " Studi d. " XLVIII (1971) 167-183.