UNGHERIA
(ungh. Magyarország "stato dei Magiari"; fr. Hongrie; ted. Ungarn; ingl. Hungary; A. T., 59-60).
Sommario. - Geografia: Confini e posizione (p. 674); Rilievo (p. 674); Caratteri fisici delle regioni naturali del paese (p. 674); Clima (p. 675); Acque continentali (p. 675); Flora e vegetazione (p. 676); Fauna (p. 676); Popolazione (p. 676); Condizioni economiche (p. 679); Densità della popolazione e insediamento (p. 682). - Ordinamento dello stato: Ordinamento politico (p. 683); Culti (p. 684); Forze armate (p. 684); Finanze (p. 684); Ordinamento scolastico (p. 685). - Lingua (p. 685). - Letteratura (p. 686). - Arte (p. 691); Arte popolare (p. 695). - Musica (p. 695). - Storia (p. 696).
L'Ungheria è ora per superficie (93.073 kmq.) il 17° stato d'Europa (di cui è appena la centesima parte) e l'11° per popolazione (8,7 milioni d'ab.). Occupa la massima parte del Bassopiano Pannonico, si estende per breve tratto sulle colline carpatiche e comprende nel suo territorio gli ultimi contrafforti del sistema alpino.
In seguito al compromesso del 1867 (v. oltre: Storia) l'Ungheria era prima della guerra mondiale uno stato quasi indipendente (superficie 325.411 kmq.; popolazione 21 milioni di ab.) che si estendeva su una regione geografica ben delimitata (bacino medio del Danubio), con confini segnati da ostacoli naturali, la quale formava un'unità economica, dove le varie parti s'integravano a vicenda, tanto da formare un territorio che tendeva a raggiungere l'ideale dello stato autarchico, mentre invece mancava l'unità nazionale, dato che gli Ungheresi, che abitavano la regione centrale, erano appena la metà della popolazione totale, e a N. prevalevano Slovacchi e Ruteni, a E. Romeni, a S. popolazioni slave, e altrove minoranze diverse (Tedeschi, Polacchi, Italiani, Zingari). Perduta la guerra, i confini del nuovo stato vennero fissati dal Trattato del Trianon (4 giugno 1920), in seguito al quale l'Ungheria, ridotta a stato interno, ha perduto il 71,5% del territorio e il 63,5%, della popolazione del 1914, gran parte dei boschi, delle zone minerarie;. della rete ferroviaria, in modo che l'autarchia prebellica è scomparsa per dar luogo a uno stato ad economia prevalentemente agricola, con confini quasi del tutto artificiali (salvo per breve tratto sul Danubio e la Drava). Il principio di nazionalità, che avrebbe dovuto servire di base per segnare le frontiere, spesso non è stato osservato per dare agli stati vicini i nodi ferroviarî e quindi i mercati principali.
Confini e posizione. - Il confine con la Cecoslovacchia (570 km.) segue dapprima il Danubio, che costituisce una buona linea di difesa, quindi s'appoggia su un suo affluente di sinistra (Ipoly), per passare con andamento SO.-NE. nel bacino del Tibisco, di cui taglia alcuni dei maggiori affluenti (Sajó, Hernád, Bodrog) lasciando in territorio ungherese soltanto le colline più meridionali dei Carpazî Occidentali. Assume quindi un andamento generale NO.-SE., lambisce una prima volta il Tibisco presso il luogo dove questo fiume fa un ampio gomito e quindi, dopo averne seguito per qualche chilometro il corso, s'incontra col confine romeno (300 km.), che, tracciato completamente in pianura con decorso generale NE.- SO., lascia alla Romania gl'importanti nodi ferroviarî di Satu Mare, Carelii Mare, Oradea Mare, Arad, per incontrare a SE. di Seghedino la frontiera iugoslava. Questa (400 km.) ha una direzione prima E.-O., quindi SE.-NO.; la linea, tagliando la parte meridionale della pianura, passa prima il Tibisco, lascia agli Iugoslavi Subotica, supera il Danubio, per appoggiarsi quindi alla Drava (antica frontiera tra Ungheria e Croazia) abbandonando tuttavia in possesso iugoslavo un triangolo di terreno presso la zona di confluenza col Danubio. Lasciata la Drava segue il Mur, quindi volge a NO. e ad O. Con l'Austria la determinazione del confine (180 km.) ha dato luogo a una controversia, che è stata decisa dal plebiscito (dicembre 1921) che ebbe luogo in seguito alle decisioni della conferenza di Venezia (11-13 ottobre 1921). L'Ungheria ha conservato una parte di quei comitati occidentali che con nome recente (derivante dal gran numero di castelli) i Tedeschi chiamano Burgenland, cioè la città e i dintorni di Sopron. La forma dello stato risulta favorevole, dato che assomiglia ad un ellisse avente l'asse maggiore di 525 km. e il minore di 220. Budapest, che è la capitale, conserva una posizione centrale (a differenza di Vienna e Praga, che hanno posizione periferica), ma mentre prima comprendeva solo un 17° della popolazione, ora ospita un ottavo degli abitanti.
Il rilievo. - Tutta la regione che forma ora il Bassopiano Pannonico era in origine occupata da un altipiano di rocce antiche dell'era primaria, che i geografi ungheresi denominano Tisia (dal nome latino del Tibisco), mentre da altri è usato il termine di Massiccio Pannonico. Questi terreni, che nel Cretacico subirono un piegamento, a poco a poco, ma specialmente nel Miocenico, sprofondarono e vennero occupati dal mare, che dapprima era in comunicazione col Mediterraneo attraverso un canale (dando luogo a deposizioni marine che formano tuttora il rilievo di alcune colline tra Drava e Danubio), finché separatosene, costituì una conca chiusa, dove sfociavano i fiumi e i torrenti montani portandovi, oltre alle loro acque, sabbie e ciottoli in abbondanza. L'abbassamento della parte centrale fu accompagnato verso l'esterno da manifestazioni vulcaniche, che si aprirono la strada, tra Drava e Danubio, anche tra i ruderi superstiti dell'antica Tisia. Il movimento verso il basso si svolse in modo irregolare, più pronunciato a NE., molto limitato invece a O., dove affiorano ancora i calcari triassici che si sono depositati sulle rocce antiche, di cui si intravvede qualche resto. Il lago, nel quale venne a portare le sue acque anche il Danubio, dopo che ebbe eroso la soglia di Visegrád, diminuì sempre più d'estensione e perdurò a lungo solo nella parte centrale. L'alternarsi dei periodi glaciali e interglaciali accelerò nel bacino chiuso il processo di formazione di nuove terre e lo stesso avvenne quando, sopravvenuto un clima steppico, i fiumi cessarono la sedimentazione, mentre d'altra parte l'aridità del clima trasformò in sabbie i sedimenti più sottili che i venti (specie quelli di E.) depositarono creando una coltre di löss, frequente soprattutto alla periferia, mentre al centro prevalgono le sabbie fini, che talora formano delle dune. Segue un periodo piovoso, i fiumi riprendono la loro opera di demolizione e di sedimentazione, poi interviene l'uomo che regola le acque, fissa le dune e dà alla pianura l'aspetto attuale.
Caratteri fisici delle regioni naturali del paese. - L'Ungheria può venire suddivisa in tre regioni, che presentano caratteri orografici e climatici diversi: 1. Alföld; 2. colline dell'Ungheria settentrionale; 3. Pannonia.
1. L'Alföld o "terra bassa", posto a un'altezza media di 110 m., occupa la zona ad E. del Tibisco fino ai piedi delle colline di Transilvania, la regione tra Danubio e Tibisco, e anche una piccola zona (Mezőföld) tra Danubio e Balaton. La parte più meridionale e orientale fa parte ora della Romania e della Iugoslavia. La zona posta tra Danubio e Tibisco, che è detta anche Mesopotamia ungherese, è per la massima parte occupata da sabbie, con dune da poco fissate dall'uomo, alta una quarantina di metri rispetto ai due fiumi, priva d'un'idrografia superficiale, in modo da costituire una piattaforma monotona, spesso arida e con formazioni saline (steppa di Bugac); altrove, invece, mediante lo scavo di pozzi artesiani (iniziato a partire dal 1866) è stato possibile trovare l'acqua a poca profondità, trasformando in ridenti frutteti queste sterili plaghe (steppa di Kecskemét). Meno uniforme è la zona a E. del Tibisco, dove si possono distinguere diversi aspetti. L'angolo di NE. è una piattaforma alluvionale (Bodrogköz) un tempo paludosa, ora fertile e coltivata. Segue verso sud il Nyírség (paese delle betulle), vasta regione sabbiosa coltivata intensamente a N. a patate, al centro a tabacco, a S. a segale. Alla steppa di Bugac fa riscontro qui quella di Hortobágy, dove la vita pastorale si conserva nei suoi aspetti tradizionali. La restante regione tra Körös e Tibisco e tra Körös e Maros, con letti di fiumi abbandonati, meandri morti, coni di deiezione in parte demoliti, alluvioni, depositi di löss, è coltivata intensamente a grano. Per altre notizie v. alföld.
2. Tutta la parte settentrionale dell'Ungheria odierna tra Danubio e Tibisco è occupata da alcuni rilievi che gli Ungheresi designano complessivamente col nome di Felföld, cioè "terra alta". Questa zona carpatica pedemontana è formata da gruppi di colline, separati da valli percorse da linee ferroviarie importanti, con prevalenza ora di rocce vulcaniche (del Miocene), ora di rocce calcaree. L'angolo di NO., tra la curva del Danubio e l'Ipoly, è occupato dalle colline di Börszsöny (m. 939), dai dossi calcarei del Cserhát e di Karancs (m. 727); l'insieme forma un paesaggio poco movimentato, che l'alta valletta del Zagyva (affluente del Tibisco) separa dal gruppo trachitico di Mátra, dove è la più alta elevazione dell'Ungheria odierna (m. 1017); esso è molto boscoso ed esistono ancora manifestazioni vulcaniche secondarie, mentre presso il versante settentrionale si ricava un buon carbone. Le vallette di Tarna e di Eger separano i Mátra dal gruppo calcareo di Bükk, di poco più basso (m. 957), che presenta molti fenomeni carsici. All'Ungheria appartiene ancora, tra Hernád e Bodrog, la parte meridionale della dorsale di Tokaj-Eperies (Prešov) formata da potenti colate vulcaniche, trasformate poi in molli colline, ben coltivate.
3. La Pannonia (ungh. Dunántúl "Oltredanubio"; ted. Transdanubien) forma la regione collinosa posta tra la Drava, il Danubio, e le ultime colline del sistema alpino (Irottkö, m. 883), la quale, rispetto all'Alföld, si presenta come un territorio d'antico insediamento. Possiamo distinguere a N. il Piccolo Alföld, al centro la Selva Baconia con le colline di Vértes, Gerecse e di Pilis, a S. le colline di Mecsek. Del Piccolo Alföld (10 mila kmq.) è restata all'Ungheria soltanto la parte sud-occidentale. Formatosi dove confluivano in un grande lago i sedimenti del Danubio, della Rába, della Leita, del Váh e della Nitra, alto in media 138 m., costituisce una zona agricola molto importante, la prima che fosse colonizzata dagli Ungheresi al tempo della loro venuta in Europa, attualmente ben coltivata a grano e a barbabietole (grande proprietà). Ai piedi dei Monti della Leita, una zona più depressa e mal drenata è occupata dal Lago di Neusiedl (ungh. Fertö), di cui solo la parte meridionale è restata all'Ungheria. La Selva Baconia (ungh. Bakonyerdő) è costituita da resti dell'antica terra sommersa ed è caratterizzata da fratture, che si tagliano ad angolo retto, che separano una serie di gruppi collinosi, tra i quali si intercalano di frequente dei rilievi vulcanici, in modo da costituire il tratto d'unione tra il sistema alpino e i Carpazî (v. baconia, selva). Separate dalla soglia di Mór (m. 200) seguono le colline di Vértes (m. 479), formate da calcari e da dolomiti mesozoiche, continuate, oltre alla stretta di Tata, dalle colline di Gerecse (m. 633), piccolo contrafforte roccioso che scende verso il Danubio con una serie di terrazze. Presso il gomito del Danubio al di là di un'altra stretta sono le colline di Pilis (m. 757), montagna assai demolita. Infine la regione più prossima al Danubio e alla Drava a S. del Balaton, non troppo popolata, consta di una fertile piattaforma di löss, sovrapposta agli strati di sabbie e argille pontiche, pianeggiante, talora con qualche duna. Formano un gruppo isolato in mezzo a questi terreni le colline di Mecsek (presso Cinquechiese), costituite da graniti e da calcari in parte carsificati, alte 682 m.
Clima. - Data la sua posizione in una grande pianura circondata da catene montuose e lontana dal mare, al limite tra Europa Centrale e Orientale, dove si risentono ancora, per quanto attenuate, le lotte tra influssi oceanici (Atlantico) e continentali, l'Ungheria ha un clima caratterizzato da notevoli differenze di temperatura tra l'estate e l'inverno, scarsa piovosità, alterno contrasto dei venti di E. e di O. che regolano l'avvicendarsi delle alte e basse pressioni, ma soprattutto una grande variabilità, che diminuisce di molto il valore delle medie.
Quanto a temperature essa è compresa tra le isoterme annue di 9° e di 11°. In gennaio le temperature scendono molto basse e Budapest con −2°,3 ha una temperatura più rigida di Danzica, posta 7° più a N., mentre Trieste ha nello stesso mese una media di 6°. Invece nell'estate l'Ungheria è compresa tra le isoterme di 20°-23°; confrontate con quelle delle regioni mediterranee queste temperature non sono molto elevate, ma dànno invece, se messe a riscontro con le temperature di gennaio, un'escursione annua abbastanza sensibile.
Ma il carattere di maggiore continentalità viene al clima del Bassopiano Pannonico soprattutto dalle precipitazioni, che si aggirano sui 550-700 mm., con valori più alti per le zone collinose periferiche, specie quelle di SO., e minime invece intorno al Tibisco medio. Il massimo della piovosità si ha già al principio dell'estate (maggio e giugno) quando anche la temperatura aumenta, mentre in agosto la piovosità diminuisce; un massimo secondario si ha poi in ottobre e novembre, specialmente pronunciato nella piattaforma tra Danubio e Drava, che sente maggiormente gl'influssi mediterranei. Dal 12 al 14% delle precipitazioni cadono sotto forma di neve. Molto frequenti sono i temporali.
Acque continentali. - Mentre nell'anteguerra l'Ungheria costituiva un'unità idrografica omogenea, entro i limiti odierni possiede solo dei tronchi di fiume, ora tagliati dal confine presso le zone di confluenza (Danubio-Drava), ora nel corso inferiore e montano (Tibisco), ora costituenti la linea di frontiera. I fiumi attualmente in territorio ungherese hanno le seguenti lunghezze: Danubio, 428 km. (da Oroszvár alla frontiera; per 275 km. l'Ungheria è in possesso d'entrambe le rive, per 253 d'una sola); Tibisco, 597 km. (di cui 50 sono di confine); Drava, 157 km. (per una sola riva); Maros, 48 km.; Szamos, 49; Bodrog, 57; Körös, 115; Sió, 110.
Il Danubio (ungh. Duna) apertasi la strada attraverso la Porta ungarica (tra i Piccoli Carpazî e i Monti della Leita) sbocca dapprima nel Piccolo Alföld, dove deposita molto materiale e si dirama in diversi bracci; delle due isole da esso formate il Piccolo Schütt (Szigetköz) è ungherese, il Grande Schütt (slov. Velký Ostrov Žitný) cecoslovacco. Percorse pigramente queste prime pianure, il passo gli è ancora sbarrato da altre colline e deve aprirsi la strada in una forra, mordendo con le sue rapide le colline di Pilis e di Börzsöny, per sboccare alfine nel Bassopiano Pannonico, che attraversa appoggiandosi a una frattura posta al limite orientale della Pannonia con direzione nord-sud. La sua pendenza è debole e non potendo approfondire il suo letto divaga lento e si suddivide spesso con bracci laterali, che racchiudono isole lunghe talora 30-40 km. (S. Andrea [Szent Endre], Csepel), lambito spesso da una cortina di verdura (salici, canneti). Quanto a regime, poiché entrando in pianura esso ha ancora i caratteri di fiume alpino, le massime portate coincidono con i mesi estivi. Accanto al minimo invernale si nota però anche un secondo minimo autunnale, che va accentuandosi verso valle, mentre si attenua il massimo estivo. A Budapest la portata media è di 2080-2370 mc. al secondo. Per la regolazione del fiume e la sua canalizzazione (taglio dei meandri, chiusura dei rami laterali, costruzione di muraglioni) l'Ungheria dal 1867 al 1912 ha speso 330 milioni di corone. Caratteristiche diverse ha il Tibisco (v.).
L'Ungheria attuale possiede il più grande lago dell'Europa Centrale, il Balaton (v.), e inoltre la parte meridionale del lago di Neusiedl, presso l'angolo NO. del paese, fra le alluvioni del Danubio e della Rába. Profondo appena da 1 a 2 m., con lo specchio a 113 m. s. m., e una superficie media di 330 kmq., va soggetto a notevoli cambiamenti di livello, che sono probabilmente in rapporto non tanto con fenomeni carsici, quanto con le precipitazioni nel bacino. Verso oriente è in comunicazione con la regione di Hanság, prosciugata per mezzo d'un canale. Terzo per grandezza è il lago di Velence (kmq. 25,9), profondo al massimo 2 m. e per un terzo coperto da canneti, posto al limite settentrionale del Mezőföld. Numerosi laghi di steppa, monotoni, poco profondi, soggetti a variazioni sensibili, senza emissarî e quindi salati, si trovano specialmente tra Tibisco e Danubio.
Flora e vegetazione. - Dal punto di vista fitogeografico l'Ungheria va intesa in un senso più ampio di quello politico attuale e appartiene al distretto floristico dell'Europa centrale, benché l'Alföld venga attribuito alle steppe pontiche. Secondo recenti studî si possono distinguere nel territorio ungherese le seguenti provincie botaniche: Carpaticum, Moesicum, Pannonicum, Noricum, Illyricum, le quali si ripartiscono alla loro volta in un certo numero di settori.
Per quanto riguarda gli elementi costitutivi, nella flora ungherese si possono distinguere i seguenti gruppi:
1. Specie cosmopolite e avventizie: comprendono il 6,4% del totale (4,2% di cosmopolite, 2,2% d'avventizie); la maggior parte delle cosmopolite si trovano nell'Alföld ove rappresentano 8,1% del totale, alquanto meno si riscontra nei Carpazî orientali (5%); delle avventizie, nell'Alföld 3,3%, nei Carpazî occidentali 1,6%.
2. Specie europee e centroeuropee rappresentate: a) da tipi oloartici che s'incontrano nei dominî floristici oloartici dell'Europa, Asia e America Settentrionale; b) da specie eurasiatiche dell'Europa e Asia settentrionale; c) da tipi europei che si trovano solo in Europa.
Questi tre sottogruppi si trovano anche nella regione floristica mediterranea. Qui fra le specie vengono computate anche quelle che, stando fra i gruppi delle europee e delle continentali, s'incontrano generalmente solo nell'Europa orientale e si spingono fino alla centrale (tipi eurasiatici continentali).
In questo gruppo vi sono elementi medioeuropei costituiti da specie dell'Europa centrale che si spingono anche verso oriente nei territorî della Crimea e del Caucaso o verso sud (tipi centroeuropei mediterranei); una transizione col gruppo delle specie alpine è rappresentata dal gruppo centroeuropeo dei monti, le cui specie si trovano nella zona subalpina.
Le specie europee dominano in tutte le provincie della regione floristica centroeuropea e nei riguardi della flora ungherese rappresentano il 39,2% della flora indigena (30,9% di elementi europei, 8,3% di elementi centroeuropei). Nell'Alföld i due gruppi rappresentano il 65% del totale (di cui 53,40% di specie europee e centroeuropee) e da queste cifre si desume come il territorio della puszta, in base all'analisi della flora, non appartenga alle steppe pontiche.
3. Specie continentali: queste sono principalmente distribuite a oriente e nelle regioni sud-orientali dell'Europa e andando verso occidente il loro numero diminuisce. Quelle specie che anche in Asia posseggono una più vasta area, sono state considerate come specie eurasiatiche continentali.
Si distinguono peraltro le pure specie pontiche che vivono nelle steppe meridionali della Russia e dell'Ungheria e la cui diffusione principale si trova nella regione floristica pontica, le specie sarmatiche, che vivono nelle regioni della Russia centrale fra le steppe e le regioni subartiche dei boschi di Conifere, e le specie cassubiche, il cui centro di distribuzione si trova specialmente in Polonia e presso il Baltico. Gli elementi continentali formano il 14% della flora ungherese totale e sono naturalmente più diffusi nell'Alföld (19,6% comprese le specie pontico-mediterranee, 11,1% se soli).
4. Elementi floristici mediterranei: provengono dal Sud, come ad es. dalle regioni sempreverdi e montuose del Mediterraneo. Alcuni di questi tipi provengono in gran parte dall'Europa centrale (tipi mediterranei centroeuropei), altri invece oltrepassano i limiti del Mediterraneo. Le specie di questo gruppo raggiungono una particolare importanza (tenendo anche conto di quelle pontico-mediterranee e atlantico-mediterranee) nella flora del Banato meridionale (quivi il 10% corrispondente al 20,3% del totale), ma anche nell'Alföld (9,1% corrispondente al 19,2%), nella regione transdanubiana (9,1% corrispondente a 18,3%) e nella regione montuosa dell'Ungheria centrale (Osmatra; 8,9% corrispondente al 18,5%) e una certa quantità anche nei Carpazî occidentali (3,2%-10,4%). La flora mediterranea esercita una grande influenza nella costituzione del mondo vegetale ungherese (8,4-14,4%), anche nella flora dell'Alföld accanto ai tipi pontici quelli mediterranei esercitano un'influenza preponderante.
5. Elementi atlantici: hanno scarsa importanza; le specie euatlantiche mancano completamente, le subatlantiche penetrano profondamente nelle regioni centroeuropee verso oriente, le atlantiche subartiche e le atlantiche mediterranee, che s'incontrano anche nelle provincie floristiche del Mediterraneo occidentale, sono le più numerose (2,9%).
6. Elementi boreali o nordici: costituiscono un gruppo caratteristico che rappresenta l'1% della flora totale. Essi penetrano profondamente nell'Europa centrale dalle regioni artiche e subartiche e vivono nelle zone paludose e nei boschi di Conifere.
7. Elementi alpini: s'incontrano nelle alte montagne,. al disopra del limite degli alberi; si distinguono in specie alpine propriamente dette (endemismi delle Alpi e in Ungheria endemismi norici), specie alpine carpatiche (nelle alte montagne dell'Europa centrale dai Pirenei al Caucaso), specie alpine boreali che s'incontrano anche in Scandinavia e nelle regioni artiche e subartiche, specie alpino-artiche-altaiche e alpino-altaiche e finalmente specie pirenaico-carpatiche.
Nella provincia pannonica gli elementi alpini maricano quasi completamente, nei Carpazî orientali ve ne è quasi il 10,7%, negli occidentali 13,7%: in totale nella flora ungherese essi rappresentano il 10,2%.
8. Elementi balcanici: sono caratteristici e s'incontrano verso nord fino alla Podolia e verso sud-ovest fino all'Anatolia e al Caucaso; gli illirici o balcanici occidentali sono penetrati verso occidente (elementi illirico-alpini) o verso oriente (elementi illirico-balcanici) o verso settentrione (specie illirico-carpatiche).
Nell'Alföld (v.) la vegetazione presenta un particolare interesse. In essa, si possono distinguere i seguenti territorî fitogeografici:
Praematricum: boschi sabbiosi (Quereus robur e lanuginosa; Betula pendula); cespuglieti sabbiosi (Juniperus e Populus); puszte sabbiose con sviluppo soprattutto di Festuca vaginata; steppe salmastre, prati paludosi; alcuni boschi prativi. Vi sono poche forme endemiche pannoniche, pontiche, pochi elementi baltici. La zona dall'altra parte del Danubio e verso sud, coltivata, non presenta particolari caratteristiche fitogeografiche.
Titelicum: boschi di querce di Slavonia (Quercus robur) con altri elementi legnosi e legami mediterranei (Lonicera caprifolium, Tamus communis); steppe a löss con elementi mediterranei e pontici; alcune paludi. Nessun elemento endemico.
Deliblaticum: la puszta sabbiosa di Deliblat rappresenta una zona di transizione col Praemaesicum: boschi (Quercus lanuginosa, Juniperus). Esistono legami pontici e balcanici e molti piccoli endemismi.
Crisicum: boschi erbosi e paludosi, terreni palustri ora coltivati; presso il Tibisco con associazione di Glycyrrhiza echinata con Astragalus contortoplicatus, Vicia picta, Heliotropium supinum, Veronica supina. Quasi nessun endemismo (razze di Ononis).
Samicum: boschi sabbiosi di Quercus robur, Betula pendula con Iris hungarica, Daphne cneorum ecc.; puszte sabbiose senza Juniperus; boschi paludosi con molti elementi montuosi (Gigliacee, Orchidee, Trollius europaeus, Geranium palustre); paludi al confine dell'Alföld e prati palustri con terreni salmastri. Pochi endemismi; elementi pontici, baltici e carpatici; relitti postglaciali.
La flora dell'Alföld consta così di elementi europei centrali e occidentali che attraverso i Carpazî sono giunti fin lì, costituiti prima di tutto dalla vegetazione arborea e da quella che cresce nel sottobosco; in parte di elementi pannonici; poi di piante steppiche del Sud rappresentate da elementi mediterranei balcanici e finalmente di specie immigrate nei tempi storici.
L'Alföld che era un tempo una steppa boscosa naturale, è oggi una regione coltivata; in seguito a influenze storiche si è formata una steppa artificiale, il cui rivestimento vegetale solo in parte consta di associazioni originarie (paludi, stagni, prati paludosi, boschi asciutti e prativi, boschi paludosi, avanzi di steppe sabbiose, puszta sabbiosa e salmastra) e che mostrano formazioni vegetali d'origine secondaria, mentre in parte vi sono formazioni colturali (campi, pascoli, nuovi boschi specialmente di robinie e di querce). Tutto il territorio appartiene alla regione climatica della Quercus robur (Quercion roburis). I Mezőség sono un'antisteppa prossima alle steppe sabbiose dell'Europa orientale e appartenente alla stessa associazione climatica dell'Alföld.
Gli endemismi della flora ungherese sono numerosi e possono distinguersi in elementi carpatici e pannonici; essi sono circa 400 e rappresentano l'8% della flora totale. Quanto ai relitti essi sono terziarî, glaciali e xerotermici. Nel periodo postglaciale il carattere della flora ungherese è mutato per l'immigrazione delle specie pontiche e continentali.
Fauna. - Le fauna ungherese non offre caratteristiche peculiari, rientrando perfettamente nel complesso faunistico dell'Europa centrale e della regione balcanica. Le specie che compongono detta fauna sono quindi comuni alla fauna centro-orientale europea.
Fra i Mammiferi notiamo varî Pipistrelli, diversi Insettivori e Carnivori quali la volpe, il lupo, varie martore, molti Rosicanti. Fra gli Uccelli citeremo la beccaccia, l'occhione, la gallinella, varie ardee, molti gallinacei, rapaci, rampicanti, passeracei e palmipedi. Discreto il numero dei Rettili e degli Anfibî. Anche i Pesci d'acqua dolce sono ben rappresentati insieme con un'estesa schiera di Invertebrati terrestri e dulcacquicoli.
Popolazione. - Il primo censimento dell'Ungheria ha contato (1920) 7.990.202 abitanti mentre è stato calcolato che 7.615.117 ne abitavano lo stesso territorio nel 1910. Il secondo censimento della fine del 1930, ha contato 8.683.700 persone. L'accrescimento è stato quindi del 4,9% nel decennio 1910-20 e dell'8,7% nel decennio successivo. La densità è aumentata di conseguenza da 81,9 ab. per kmq. a 85,9 e a 93,3.
Quanto a movimento della popolazione, mentre il numero dei matrimonî annui per 1000 ab. è soltanto lievemente diminuito (da 9,2 nel quinquennio 1926-30 a 8,9 nel 1934), il numero dei nati segna invece una diminuzione molto sensibile, dato che si è passati dal 29,4 per mille nel quinquennio 1921-25 a 26,0 nel quinquennio successivo, per scendere a 21,9 nel 1934 (Budapest 15,3). Contemporaneamente si è avuta una notevole diminuzione delle morti (da 19,9 nel 1921-25 a 17,0 nel 1926-1930 e 14,5 nel 1934), ma l'accrescimento naturale della popolazione, del 9,5 per mille nel 1921-1925, e del 9,0 nel 1926-1930, scende nel 1934 a 7,4. La maggiore espansione demografica dei popoli vicini ha di recente fatto invocare la necessità di non scendere con le nascite a un livello inferiore a quello attuale.
L'Ungheria entro i confini fissati dal trattato del Trianon appare dal punto di vista etnico-linguistico uno stato notevolmente omogeneo, come risulta dai seguenti dati, relativi al 1930, nei quali si tiene conto della lingua materna:
Gli Ungheresi sono denominati comunemente anche Magiari; si ha infatti una duplice denominazione, generale l'una, che dà a questo popolo il nome della grande famiglia a cui appartiene (Ungheresi =Ugri), particolare l'altra, che designa più propriamente quel popolo della famiglia ugrica che ha occupato la pianura del Medio Danubio. Ora la popolazione presenta caratteri molto misti, nordici, orientali, alpini, dinarici, con tracce mongole (non superiori tuttavia al 4%). Gli antichi Ungheresi non erano mongoli, ma rappresentavano già una mescolanza fra il tipo ugro-finnico (capelli biondi e occhi azzurri) e il tipo turco-mongoloide (capelli neri), il primo dei quali ha trasmesso i principali caratteri culturali e somatici, il secondo l'organizzazione statale e militare. Generalmente bruni, di statura bassa (in media da 1,62 a 1,64), subbrachicefali (84,5), sono dotati di carattere meridionale, entusiasti, sensibili, sempre pronti ad accendersi per una nobile causa.
Gli Ungheresi hanno avuto per antenati una gente nomade, organizzata in tribù, la quale nello spostarsi dalla sua sede originaria, che era tra il medio corso del Volga e gli Urali, è venuta a contatto con un popolo poco numeroso, affine al turco, dal quale fu soggiogata. I vincitori si fusero coi vinti, ne appresero la lingua, ma diedero in cambio un'organizzazione militare e politica superiore, insegnando pure a perfezionare la pastorizia e l'agricoltura (come appare dal fatto che in ungherese i principali termini dell'agricoltura sono d'origine turca; v. oltre: Lingua). Nel Bassopiano Pannonico essi vennero in gruppi distinti e ai Magiari seguirono i Besseni, i Cumani (assai irrequieti), gli Iazigi (parenti degli Osseti del Caucaso). Tuttora si conservano dei gruppi isolati di popolazione con caratteri distintivi, come è il caso dei Sárköz (nel comitato di Tolna, tra le colline di Szekszárd e il Danubio, di fronte a Baja) che derivano dai Cumani, gli Ormánság (Barania di SO.) che sono probabilmente un residuo degli Avari, i Csököly (presso Kaposvár) che hanno qualche traccia tatara, e poi i Göcsej e gli Hetés (a occidente del Balaton, presso il confine iugoslavo), mescolamento di Avari e Peceneghi, i Palócz (nei comitati settentrionali) imparentati con i Cumani e, più noti di tutti, i Matyó dei dintorni di Mezőkövesd, dalla pelle bruna-giallastra e dalla statura bassa, nei quali si notano influenze tatare.
Di contro a un'uniformità abbastanza sensibile di clima e di struttura fisica, si osserva nel Bassopiano Pannonico una varietà abbastanza rilevante per quanto riguarda l'insediamento, tanto che è ben difficile trovare in un'altra regione d'Europa la coesistenza di tipi d'abitato così diversi. La spiegazione deve ricercarsi nelle vicende storiche dell'Ungheria durante gli ultimi secoli, che hanno visto dapprima lo spopolamento dell'Alföld e quindi la sua colonizzazione per opera di genti diverse, mentre invece le vicine zone della Pannonia e del Felföld hanno potuto mantenere intatte quelle caratteristiche che sono il risultato di una lunga evoluzione. Naturalmente è ben difficile indicare dei confini ben netti tra una forma e l'altra, mentre è possibile dare una classificazione dei tipi principali. Quello di gran lunga più interessante, anche perché si ritrova in Europa soltanto in questa regione, è il villaggio ammucchiato dell'Alföld, nel quale la pianta mostra una piazza centrale per lo più irregolarmente circolare, dalla quale si dipartono radialmente molte strade più o meno regolari, piuttosto strette. La forma circolare del villaggio, il limite netto tra il centro abitato e la campagna circostante, le tracce di mura trasformate di recente in via di circonvallazione, sono tutte conseguenze del carattere difensivo. Spesso si nota anche una strada circolare più interna, indice probabile che il villaggio si è successivamente allargato. Talora la pianta è meno regolare e risulta di forma stellata con vie che non corrono regolarmente al centro, ma si tagliano prima con altre. Un tipo affine è il villaggio di pianta approssimativamente rettangolare ("a ventaglio"), nel quale il centro è costituito da una strada che serve da piazza, dalla quale le strade si dipartono radialmente (es., Békéscsaba). Verso il limite meridionale di questo tipo (che coincide quasi con il confine dell'Ungheria attuale) è invece diffuso il villaggio regolare di colonizzazione recente, con le vie che si tagliano ad angolo retto, non più ammucchiato, ma esteso su più vasta superficie, sorto alla fine del sec. XVIII nelle regioni spopolate dall'invasione turca. Se invece ci si sposta verso N., nella regione dell'alto Tibisco si trova frequente il villaggio di strada, che è indice di colonizzazione slovacca. Nel Piccolo Alföld accanto a villaggi di colonizzazione recente si trovano villaggi ammucchiati e villaggi di strada. Infine in Pannonia il tipo più frequente è quello con una piazza centrale, di forma quadrata o rettangolare, composto di poche case.
Nei villaggi dell'Alföld la casa è costruita o con mattoni asciugati al sole (vályog) o d'un misto d'argilla e canne, tenute salde da alcuni assi (tömes fal) o d'un misto di terra e paglia (rakott fal). Essa è composta generalmente di tre vani contigui; la stanza festiva, che prospetta la strada e che è una specie di salotto riservato alle feste e alle visite, la cucina, la stanza posteriore d'abitazione. La cucina è a sua volta divisa in due parti, di cui una è adibita alle operazioni di cucina, mentre l'altra, presso la quale si apre la porta per accedere alla stanza festiva, forma una specie di vestibolo. Le dimore temporanee di campagna (tanya) comprendono generalmente un grande cortile, lungo il lato minore del quale si dispongono le stanze da letto, una stanza d'abitazione e una cucina, mentre davanti esiste di solito una veranda coperta. Frequente nelle campagne la csárda, edificio che serve come luogo di ritrovo, locanda, mercato.
La pastorizia è tra le occupazioni quella che conserva meglio alcuni elementi originarî. Nella puszta il bestiame vive per 7-8 mesi all'aperto allo stato brado, in modo non dissimile che nelle steppe asiatiche. Per le pecore esistono tuttavia dei ripari (karám), fatti a forma di T. La vita della puszta è tutta regolata da un complesso di norme tradizionali, dove i tratti folkloristici si mescolano con tracce residue d'un'economia ancestrale. Il custode di cavalli (csikós), che ha rango più elevato, veste di solito un camiciotto azzurro, un paio di pantaloni stretti, gli stivaloni (sul piede nudo), un cappello nero; porta addosso una cintura con tasche per il tabacco, tiene in mano una lunga frusta e sa adoperare il laccio che viene appoggiato al collo del cavallo. Di festa indossa una camicia, bianca, larga, con molte pieghe, un corsetto nero artisticamente guernito e con bottoni d'oro. D'estate si ripara dal vento e dal sole troppo cocente con dei cannicci o con un primitivo stecconato di assi, dove c'è posto per lavarsi e per dormire (cserény). I giovani preferiscono però riposare anche di notte all'aperto, avvolti nei mantelli. Nella stessa classe dei custodi di cavalli ci sono diverse categorie e il primo mandriano (főszámadó) si distingue dal guardiano di puledri (számadó bojtár) e da chi è adibito alla pulizia (lakos). Segue nella scala dei pastori il custode dei buoi (gulyás) che non va a cavallo, ma a piedi ed è munito d'un lungo bastone. Rango inferiore hanno il pecoraio (jahász) e il custode di maiali (kondás). Questi ultimi hanno minor bisogno di spostarsi e abitano quindi in capanne di argilla, con tetto di canne, senza finestre. I pecorai vestono un grosso mantello di cuoio (su-ba). Il 20 giugno di ogni anno presso un'osteria posta al limite orientale della puszta si svolge una celebre fiera. Molto in voga le danze e i canti popolari.
L'apicoltura è un'occupazione esercitata già da epoca antichissima, come la caccia, mentre invece la falconeria, un tempo diffusa nel paese, derivava dai contatti con popolazioni turche. Gli oggetti che si riferiscono alla pesca mostrano invece rapporti coi Finni. Ormai in disuso è la barca d'un solo tronco (lélekvesztö) e l'abitudine di costituire società di pescatori (halászbokrok) per suddividere le zone di pesca, mentre una specie di cesto (ihany) è tuttora in uso per la vendita del pesce nei mercati.
La foggia del vestire è stata in molti luoghi conservata, specie il vestito festivo, che spesso deriva da costumi antichi, come appare dal fatto che presenta somiglianze con le vesti delle popolazioni ugro-finniche che vivono lungo i fiumi Volga e Kama. Gl'indumenti più noti sono il largo mantello di pelo di pecora (szür), la giacca foderata di pelle, fatta col vello d'una pecora non tosata (ködmen), e la pelliccia foderata che copre tutto il corpo (bunda). Per la biancheria si adopera piuttosto la canapa che il lino. I lavori di cucitura sono di regola unicolori, per lo più rossi, talvolta azzurri o neri. Gli utensili di economia domestica sono di legno e vengono ornati artisticamente (soprattutto dai Siculi di Transilvania).
Secondo una recente statistica (preparata da J. Nagy), che tiene conto anche di quelli appartenenti ad altri stati, gli Ungheresi sarebbero in tutto 12.030.000, di cui 8 milioni nell'Ungheria attuale, 3.300.000 negli stati successori dell'Austria (un milione e mezzo in Romania, mezzo milione in Iugoslavia, oltre un milione in Cecoslovacchia, 20 mila nel Burgenland), 570 mila negli Stati Uniti e 160 mila in altri paesi.
Minoranze notevoli, tutelate da apposite norme, sono soltanto la tedesca, la slovacca e la serbo-croata. Esse non formano però dei gruppi compatti, ma vivono mescolate con il resto della popolazione, quasi sempre in gruppi non contigui ai territorî dei rispettivi stati nazionali. I Tedeschi, data la secolare unione con l'Austria, avevano nel passato grande influenza e a loro era dovuto il fiorire delle principali città (Budapest: 34,3% di Tedeschi nel 1880, ma solo 3,8% nel 1930). Alcuni erano venuti come coloni già al tempo degli Arpadi, ma la maggioranza affluì dopo la cacciata dei Turchi, prima come privati e poi, al tempo di Maria Teresa e di Giuseppe II, come coloni di stato. Dapprima venivano da regioni vicine (Bassa Austria, Moravia, Boemia) e trovavano sede nella Selva Baconia, poi vennero dei Bavaresi che si insediarono tra i M. Vértes e Cegléd. Seguirono coloni del Württemberg, Baden e Renania, che trovarono terreni liberi solo più a E. e più e S., mentre gli ultimi (dall'Alsazia e dal Hannover) dovettero recarsi nella Bačka e nel Banato. Ora circa 330 comuni hanno una maggioranza di popolazione tedesca. Gli Slovacchi sono quasi tutti piccoli agricoltori, che si trovano nei dintorni di Budapest e nei due comitati di Békés e di Csanád, tra Körös e Maros, presso il confine romeno. Terza per numero viene la minoranza serbo-croata; i Croati abitano in tre gruppi a SO. di Nagykanizsa, nei dintorni di Sopron e in Baranya, i Serbi sono per la massima parte in quest'ultima regione e nei comitati di SE. Risulta che il 75%, delle popolazioni che formano le minoranze conoscono l'ungherese, in modo che questa lingua è nota al 98% degli abitanti.
Meno omogenea che dal punto di vista etnico è l'Ungheria per quanto riguarda le confessioni religiose (v. appresso: Culti). Gli ebrei vivono di preferenza nelle città, dove formano circa un ottavo della popolazione (Budapest: 20,2% nel 1930) e occupano un posto molto importante nel commercio e nelle professioni liberali, tanto che non sono mancate delle misure restrittive contro di essi (numerus clausus per gli studenti israeliti nelle università).
La grande maggioranza della popolazione attiva trova lavoro nell'agricoltura (50,8% nel 1930). L'industria è al secondo posto tra le occupazioni, impiegando il 22,2% degli abitanti (1920: 18,1), in modo che l'Ungheria deve ormai considerarsi uno stato agrario-industriale.
Condizioni economiche. - Agricoltura e allevamento. - Stato agrario importante già prima della guerra mondiale, l'agricoltura è la base dell'economia ungherese, in quanto i raccolti, oltre a coprire di gran lunga il fabbisogno interno e ad alimentare alcune industrie, permettono una notevole esportazione. La superficie agraria è anzi di molto aumentata in rapporto alla superficie totale per la perdita di tutta la cintura montuosa, e anche se alcuni dei distretti più produttivi (Banato, Bačka) sono passati ad altri stati, le colture sono ancora lontane dall'aver raggiunto quel grado d'intensità che vieti di aumentare ancor più la produzione. Il 71,2% del territorio nazionale risulta coltivato in modo intensivo, di cui il 60,2% a campi, l'1,2% ad orti e giardini, il 2,2% a viti. I pascoli si estendono sul 10,6% del territorio, i boschi sull'1,8%, mentre il resto risulta incolto. Le condizioni sono nel complesso egualmente favorevoli nelle diverse regioni geografiche, essendo il terreno improduttivo dovunque altrettanto diffuso. Si può tuttavia notare che i campi risultano maggiormente estesi nell'Alföld (66,6%), come pure i pascoli (12,3%) e la vite (2,6%), mentre gli orti e i boschi occupano percentualmente più vaste superficie nella zona collinosa settentrionale. Nell'Alföld il bosco occupa solo il 4% della superficie, in Pannonia il 16,1%.
Nei riguardi della proprietà, le grandi tenute, la cui origine risale ancora alle donazioni fatte nel secolo XIII dai re, in ricompensa delle prestazioni dei nobili, si estendevano prima della guerra mondiale su un terzo del suolo coltivato ed erano nelle mani di 2-3000 individui, i cosiddetti magnati; la piccola proprietà, molto frazionata, possedeva i due quinti del terreno e il resto era suddiviso tra proprietà di estensione media. Cospicue erano anche le proprietà vincolate con fedecommessi, come pure quelle appartenenti ad enti religiosi. Fatto sta che nel 1914, tanto per ricordare un esempio, la famiglia Esterházy possedeva 231 mila ha. e aveva alle sue dirette o indirette dipendenze 700 mila persone (in maggioranza jobbágy "servi"). La riforma agraria (legge Szabó: autunno 1920), che appare assai più temperata che in altri stati, ha favorito l'acquisto di terre a chi si è reso benemerito del paese (invalidi, soldati valorosi), come pure agli operai agricoli, ai proprietarî di piccolissime aziende, agli artigiani. Chi non aveva nulla ha ricevuto delle proprietà aventi una superficie massina di 3 iugeri (i iugero = 0,575 ha.), quelli invece che già possedevano un po' di terreno hanno potuto arrotondare la loro proprietà fino a 15 iugeri. Lo stato si è procurato i terreni da ripartire sia per cessione a titolo di pagamento dell'imposta speciale sul patrimonio, sia per espropriazione o per acquisto. In questi ultimi anni è aumentato di molto il numero delle piccolissime proprietà, tanto che se ne contano ben 600 mila di superficie inferiore a 1 iugero, ma la grande proprietà, specialmente in Pannonia, resta tuttora molto diffusa, come prova il fatto che 581 proprietarî hanno tenute superiori a 2000 iugeri, e che un terzo circa della superficie agraria è nelle mani di 1130 grandi proprietarî (tenute di oltre 575 ha.).
Le colture principali sono le seguenti:
Il raccolto è rilevante e in sensibile aumento, ma rispetto alla grande monocoltura d'oltremare, l'organizzazione agricola è troppo frammentaria, mentre d'altro canto il contadino non riesce, e questo in parte anche a causa del clima instabile, a raggiungere le rese unitarie dell'Europa occidentale. La forte diminuzione dei prezzi di questi ultimi anni ha messo ancor più in difficoltà l'agricoltura ungherese.
L'allevamento del bestiame spinge a riservare estese superficie anche all'erba medica (1944 kmq.), alle vecce (1709), al trifoglio (1497), al mais da foraggio (748). La canapa (109 kmq.) trova condizioni favorevoli nei terreni asciutti dell'Alföld, il lino (155 kmq.) nelle zone umide della Pannonia. Il tabacco si estende su 164 kmq. (di cui 73 nel comitato di Szabolcs), il papavero su 179, la colza su 125, il girasole su 52. Gli ortaggi e i legumi, che sono stati riconosciuti molto ricchi di vitamine, trovano pure favorevoli condizioni di coltura e sono largamente esportati. La paprica (kmq. 47), spezia nazionale ungherese, si raccoglie di preferenza nell'Alföld (mercati importanti Seghedino e Kalocsa). La produzione di frutta (15,7 milioni di alberi da frutto) e di vino è superiore al consumo interno e alimenta una discreta esportazione. La coltivazione della vite si estende su una superficie di 2112 kmq., di cui 1070 nell'Alföld, 756 in Pannonia, 286 nei comitati collinosi del nord. Circa due terzi dei vigneti sono in pianura, il resto in collina, specialmente sui rilievi basaltici del Balaton e nei gruppi di Bükk e di Hegyalia (Tokaj).
Per i boschi l'Ungheria attuale, perduti i Carpazî, è una delle regioni più povere d'Europa, dato che la superficie forestale raggiunge appena l'11,8%. Vi è poi una notevole differenza a seconda delle diverse regioni, poiché il bosco occupa 3412 kmq. nelle alture umide del Felföld, 5966 kmq. in Pannonia (specie nei comitati di O. e di SO.) e solo 2365 nell'Alföld (in prevalenza acacie, pioppi canadesi, olmi e salici), con valori minimi nell'Alföld orientale, dove più spiccato è il carattere steppico del Bassopiano.
Ingente è invece in Ungheria il patrimonio di bestiame; tuttavia esso è stato molto danneggiato dalla guerra ed è ora ben lontano dal raggiungere sia come numero, sia come valore, le cifre del 1914.
L'allevamento bovino ha maggiore importanza in Pannonia (22,8 capi per kmq. e 311 per 1000 ab.) che nell'Alföld (rispettivamente 14,4 e 120). In Pannonia l'allevamento viene fatto in modo intensivo; i bovini si riparano in stalle, che ogni piccolo proprietario possiede anche allo scopo di ricavare il concime necessario alle colture agricole. Invece nell'Alföld l'allevamento è estensivo e si lascia a lungo il bestiame a pascolare all'aperto, specie in quelle zone sterili (puszta), dove per la scarsezza d'acqua o per gli affioramenti salini il terreno non è altrimenti utilizzabile. Note a questo riguardo sono soprattutto la puszta Hortobágy a O. di Debrecen (860 kmq.) e la puszta Bugac, a SO. di Kecskemét, dove tuttavia l'entità del bestiame a pascolo, avanzandosi ormai sempre più l'aratro ai margini di essa, tende a diminuire. Gli equini, ben noti per resistenza e forza, sono molto usati per il trasporto delle persone dai villaggi verso le tenute. In regresso risulta l'allevamento dei suini. Il massimo mercato di questi ultimi è a Köbánya presso Budapest. Centri di lavorazione della carne suina (lardo, salumi) sono Seghedino e Debrecen. Anche il numero delle pecore è moltissimo diminuito, per quanto in molte zone si offrano condizioni favorevoli all'allevamento. Connesso con l'agricoltura è poi l'allevamento di animali da cortile (galline, oche, anitre, colombi) che alimentano una forte esportazione, sia di uova e di penne, come di carne viva e morta. Gli alveari (210 mila) sono frequenti specialmente in Pannonia e lungo il Tibisco. L'allevamento del baco da seta è diffuso, per quanto in modo piuttosto limitato, specialmente nei comitati meridionali. Recente è l'estensione dei gelsi nei territorî collinosi del N., con cui si cerca di rimediare alla perdita di circa tre quarti del raccolto prebellico.
Pesca, caccia. - La pesca, un tempo assai diffusa nei bracci morti del Tibisco e del Danubio, è limitata ora quasi esclusivamente al Balaton (dove è rinomato il fogas: Lucioperca sandra) e ad alcune località dell'Alföld, dove l'allevamento viene fatto in modo razionale (peschiere). Nel Tibisco si pesca una specie di storione, da cui si ricava un gustoso caviale. La caccia ha ancora qualche importanza nelle zone paludose e nell'Alföld; basterà ricordare che ogni anno vengono abbattute un milione di lepri.
Miniere. - Di cave e di miniere entro gli attuali confini è rimasto un patrimonio limitato, che in questi ultimi anni si è cercato di valorizzare nel modo migliore. Complessivamente nel 1935 trovavano impiego nelle miniere 33 mila persone (37.500 coi dirigenti). Il prodotto di gran lunga più importante e che abbraccia come valore i due terzi della produzione è la lignite, di cui nel triennio 1932-34 sono stati estratti 55 milioni di quintali. Le miniere più importanti sono quelle della valle del Sajó e di Salgótarján nel Felföld e della Selva Baconia in Pannonia. Segue per importanza la produzione di carbone (7,3 milioni di quintali), di minerale d'alluminio (1,2 milioni di quintali), di minerale di ferro (600 mila quintali). Vengono prodotti ed estratti in minori quantità anche minerali di manganese, rame, piombo. Il ferro si trova a O. di Miskolc (presso Appony-Nekésseny), dove, esseudo in vicinanza dei giacimenti di carbone, ha dato luogo alla grande officina statale di Diósgyőr e a quelle di Ozd e Salgótarján. Il carbone, di buona qualità, per quanto di età non molto antica (Lias), si trova nei dintorni di Cinquechiese e ad Ajka a N. del Balaton. L'Ungheria è dotata quindi di risorse di combustibili fossili superiori a quelle italiane. Minore importanza ha l'estrazione di torba (grandi riserve nel Hanság, a Nagyberek presso il Balaton e nei comitati di Zala e di Somogy), di gas naturale (usato nell'Alföld per illuminazione e come carburante per macchine agricole), di pietre da costruzione (specie in Pannonia).
Attività industriale. - L'Ungheria possiede molte condizioni favorevoli per lo sviluppo dell'industria: mano d'opera a buon mercato, abbondanza di prodotti agricoli trasformabili, relativa vicinanza delle materie prime d'importazione più necessarie (carbone di Slesia, ferro d'Austria e di Slovacchia), buone e facili comunicazioni, vicinanza del mercato balcanico (che ha bisogno di macchine, soprattutto agricole), concentrazione delle maggiori imprese e dei capitali in una grande e attiva città (Budapest). Già prima della guerra mondiale l'Ungheria aveva cercato di trasformare la sua economia esclusivamente agricola in un'economia agrario-industriale, ma pur avendo a disposizione rilevanti quantità di minerale di ferro aveva trovato delle difficoltà nel fatto che la monarchia austro-ungarica formava un'unica barriera doganale e che quindi vi era la tendenza di specializzare la produzione nelle singole provincie in modo da ottenere l'autarchia (o quasi) per mezzo dello scambio tra regioni aventi una diversa struttura economica. Più di recente, costretta a sviluppare le sue industrie per diminuire le importazioni, ha potuto affermarsi in molti rami, mentre invece le antiche industrie, dipendenti dall'agricoltura, sono in declino. Attualmente l'Ungheria possiede 3400 stabilimenti industriali, che dànno lavoro a 236.500 persone.
L'industria agricola e dei generi alimentari ha le sue maggiori fonti di attività nei molini, zuccherifici, distillerie, fabbriche di birra e manifatture di tabacco. Esistono nel paese 470 molini, che hanno lavorato nel 1935 ben 13,4 milioni di quintali di cereali (in grande maggioranza frumento). La produzione di zucchero si aggira su 1,3 milioni di quintali; i maggiori zuccherifici (13 di numero) sono quelli di Szerecs (2300 operai) e di Mezőhegyes (1300). Accanto agli zuccherifici sono anche le maggiori fabbriche di alcool; innumerevoli distillerie minori sono poi sparse in tutto il paese, ma specialmente nell'Alföld a NE. di Debrecen. Le fabbriche di birra, che devono procurarsi all'estero, specie in Slovacchia, il luppolo, sono in tutto 10; la loro produzione complessiva risulta in sensibile diminuzione (600 mila hl. nel 1928-29 e 185 mila nel 1934-35). Un'industria tradizionale che nel dopoguerra appare in regresso è la lavorazione della carne suina, mentre in fiorente sviluppo è la lavorazione del tabacco (11 grandi manifatture che occupano 6200 persone). Prospettive favorevoli si presentano per l'industria dei metalli (macchine agricole, macchine per molini, macchine elettriche), per l'industria chimica (concimi, raffinerie di petrolio) e per l'industria tessile (che lo stato protegge con dazî e che può ormai coprire l'85% del fabbisogno interno).
Vie e mezzi di comunicazione. - Da un lato, essendo il paese pianeggiante e collinoso e posto proprio nella parte centrale del bacino, si hanno condizioni favorevoli, dall'altro la pianura manca di materiali e quindi il fondo stradale è spesso fangoso e polveroso. Perdute le belle strade della regione periferica, che servendo anche a fini militari erano state molto curate, l'Ungheria possiede ancora una rete di 22.500 km., di cui 4370 di strade nazionali. Gli autoveicoli sono 14.500, le motociclette 8900. Gli automezzi pubblici servono una rete di quasi 7000 km. La rete ferroviaria ha uno sviluppo di 8670 km. con soli 3,5 km. di gallerie, indice della limitata pendenza e degli scarsi ostacoli opposti dal terreno. All'odierna Ungheria, a differenza di quanto è avvenuto agli altri stati successori della Monarchia austro-ungarica, è restata la parte mediana d'una rete bene organizzata, con il suo centro naturale (Budapest). È tuttavia da tener presente che nella costruzione della rete, oltre allo scopo di avvicinare il più possibile le regioni periferiche alla capitale, si è badato talora piuttosto agli interessi dei latifondisti che ai bisogni dei villaggi, i quali distano spesso dalle stazioni qualche chilometro. La rete è del resto distribuita in modo abbastanza fitto: soltanto una piccola zona a NE. di Baja dista da ogni ferrovia più di 20 km., mentre il resto del paese si trova per la massima parte a una distanza inferiore a 10 km. Minore, ma non trascurabile importanza, ha il traffico per via d'acqua che ha a sua disposizione una rete di 1685 km., di cui più di metà navigabili per battelli di almeno 650 tonn. L'arteria che di gran lunga detiene il primato, anche perché navigabile a monte e a valle, è il Danubio (500 km.). Il traffico aereo, per il quale l'Ungheria ha una posizione alquanto periferica rispetto alla rete a maglie più strette dell'Europa Centrale, ha visto nel 1934 effettuare 640 mila km. in 3400 ore di volo; le linee principali sono la Vienna-Budapest e la Budapest-Belgrado.
Commercio. - L'Ungheria si è venuta a trovare con un'esuberante produzione di grano, di farine e di altri prodotti agricoli, con un notevole patrimonio di animali da carne e da lavoro, ma con scarse materie prime, con pochissimo legname, con un'attrezzatura industriale in progressivo sviluppo, ma ancora insufficiente a poter coprire il fabbisogno del paese. L'adattamento alle nuove condizioni si è potuto effettuare abbastanza celermente, pur attraverso crisi e difficoltà finanziarie, superate in un primo tempo con l'aiuto delle altre nazioni. Attualmente l'Ungheria è uno dei pochi stati d'Europa che chiude all'attivo gli scambî con l'estero.
Il valore dei traffici nel commercio estero dell'Ungheria si è svolto negli ultimi anni come segue:
Il progressivo miglioramento dipende in gran parte dall'aumentata esportazione di bestiame, dall'intensificata coltivazione e, in parte almeno, dall'irrobustimento della struttura industriale, fattori che hanno contribuito, assieme al saldo spirito nazionale, a fare dell'Ungheria uno degli stati più vitali fra quelli sorti o rinnovati nel dopoguerra. Il prodotto di cui l'Ungheria è costretta a chiedere all'estero la massima parte del suo fabbisogno è il legno, di cui ha dovuto comperare nell'ultimo triennio (1933-35) in media per 38,8 milioni di pengő. Essa acquista poi cotone greggio (1935: 6,5% delle importazioni; 250 mila q.), carta e articoli di carta (5,1%), pelli gregge (4,4%), che l'Ungheria malgrado il notevole patrimonio bovino e ovino è costretta a procurarsi all'estero per il fatto che vende di preferenza bestiame vivo, poi carbone (3,6 milioni di q.), olî minerali (1,7 milioni di q.), metalli, macchine e apparecchi, seta e filati di seta. In diminuzione l'acquisto di filati e tessuti di cotone. Per quanto riguarda le esportazioni è al primo posto (1935) il bestiame da macello e da lavoro (11,6% del valore totale), quindi il frumento (11,5%; 3,3 milioni di q.), le macchine e gli apparecchi elettrici (6,8%), il lardo e grasso di maiale (6,0%), il pollame (5,8%), la carne fresca e conservata (4,0). Principali acquirenti sono (1935) Germania (23,8%), Austria (18,9), Italia (13,2), Gran Bretagna (8,0), Romania (5,4), Cecoslovacchia (4,5). Principali fornitori Germania (22,6), Austria (19,0), Romania (13,5), Italia (7,3), Iugoslavia (6,2), Gran Bretagna (5,1), Stati Uniti (4,9), Cecoslovacchia (4,8). L'aumento degli scambî con l'Italia è stato agevolato in un primo tempo dal trattato di commercio e navigazione (1929), e più di recente dagli accordi di Roma (17 marzo 1934). Nel 1934 l'Italia ha venduto all'Ungheria seta e filati dì seta (7,7 milioni di pengő), frutta (5,0), pelli gregge (4,0), riso (2,4), filati di lana (2,2), filati di cotone (2,2), tessuti di lana (1,5), tabacco (1,1) e ha comperato bovini (10,1 milioni di pengö), frumento (10,0), patate (2,9), pollame (1,6), macchine e apparecchi.
Marina mercantile. - Nel 1928 esisteva una sola nave marittima sotto bandiera ungherese; una oneraria da 7500 tonn.; ciò malgrado, il ministro del Commercio sottopose al parlamento una legge di assistenza alla marina mercantile. Nacque così la legge del 1929 che concedeva l'esonero fiscale, totale o parziale, agli armamenti nazionali per i primi 15 anni di servizio delle relative navi; il presidente e metà dei dirigenti dovevano essere ungheresi. In base a tali disposizioni s'è cominciato a sviluppare un modesto nucleo di naviglio, costituito nel 1937, da pochissime navi: Turul (tonn. 631); Albert (tonn. 631); Kelet (tonn. 4295); Nyugat (tonnellate 4323), di cui le due più piccole hanno nel 1933 iniziato una linea Vienna-Genova con scali in Grecia e Turchia. Nel 1934 è stata anche inaugurata una linea Budapest-Levante-Egitto mediante le motonavi Budapest, da 485 tonn., e Atid. Varî progetti sono stati formulati per incrementare le attività marittime ungheresi.
L'Ungheria possiede un discreto naviglio danubiano; il più importante armamento è la società M. F. T. R. di Budapest. Essa possiede 46 piroscafi da passeggeri; 32 rimorchiatori; 4 chiatte a motore; 212 chiatte, 15 cisterne; lavora in pool con la compagnia austriaca "Erste Donau-Dampfschiffahrts Ges." di Vienna (controllata dall'Italia), con il "Bayrischer Lloyd" di Ratisbona e la "Süddeutsche Donau".
Densità di popolazione e insediamento. - Secondo il censimento del 1930 l'Ungheria ha una densità di popolazione di 93,3 ab. per kmq., tutt'altro che rilevante se si tien conto che la regione è pianeggiante e ben coltivata. Nei diversi comitati la popolazione si suddivide nel modo seguente:
Le maggiori densità si riscontrano nel territorio d'insediamento recente dell'Alföld, che, spopolato per l'invasione turca, è stato poi colonizzato. I 10 comitati di esso hanno una densità media di 115 abitanti per kmq., con un massimo in quello di Pest-Pilis-Solt-Kiskún, che si estende per la maggior parte sulla cosiddetta Mesopotamia ungherese, e un minimo nel comitato di Bihar, che è fertile, ma è restato privo di centri urbani, passati alla Romania. Una densità media di 81 ab. ha la regione collinosa settentrionale, con un minimo di 54 (il più basso di tutto lo stato) nel comitato di Abaúj-Torna (che comprende il versante orientale delle colline di Eperjes). La Pannonia nei suoi 10 comitati ha una densità media di 73 ab. per kmq., con valori massimi nei comitati che si affacciano al Piccolo Alföld, minimi nei comitati di Somogy (piattaforma Balaton-Drava) e Veszprém (Selva Baconia).
In tutta la Mesopotamia ungherese e nell'Alföld prevalgono i grandi villaggi, con case a un solo piano, costruite di fango, paglia, canne, con una popolazione media che va dai 3000 ai 10 mila ab., ma che talora può raggiungere anche i 30 o 40 mila ab. La superficie dei comuni è vastissima e, a somiglianza di quanto avviene in alcune regioni della Puglia e della Sicilia, la mattina gli agricoltori sciamano verso i loro campi (a piedi, a cavallo, su carri, talora anche per mezzo di ferrovie secondarie), ritornando la sera al villaggio. Poiché tuttavia questo tragitto riesce dispendioso e antieconomico, oltre al fatto che nei periodi prossimi al raccolto il campo non può essere totalmente abbandonato, il contadino ha costruito nei suoi possessi delle dimore temporanee (ungh. tanya), le quali, in progresso di tempo, soprattutto nelle vicinanze dei maggiori comuni, sono diventate dimore permanenti e hanno dato luogo a un insediamento disperso. Nel Felföld le case, pure basse e col solo pianterreno, sono generalmente più piccole, mancando l'allevamento del bestiame su vasta scala; il villaggio ha poi grandezza diversa, ma non mai dimensioni così vaste come nell'Alföld. In Pannonia il villaggio più frequente ha in media da 1000 a 3000 ab., salvo nel comitato di Somogy, dove raggiunge appena i mille abitanti. Secondo l'ultimo censimento 111 centri risultavano avere una popolazione superiore ai 10 mila ab. e di questi 45 superavano i 20 mila e 12 i 50 mila. Complessivamente nei 111 centri abitava il 42,6% della popolazione totale; ma poiché anche nelle località maggiori la popolazione ha carattere agricolo, questo dato non ha che un valore statistico. Le 12 città più importanti sono indicate sopra.
Bibl.: E. Migliorini, L'Ungheria (Coll. Omnia, n. 30), Roma 1933 (con ampia nota bibliografica alle pp. 179-91): L'Ungheria, a cura dell'Istituto per l'Europa Orientale, Roma 1929 (opera miscellanea nella quale interessano in modo particolare i capitoli di P. Teleki, La geografia dell'Ungheria, pp. 17-44, e di S. Batky, Condizioni etnografiche dell'Ungheria, pagine 45-78, che descrivono tuttavia ancora il territorio d'anteguerra); G. M. Sangiorgi, L'Ungheria. Dalla Repubblica di Karolyi alla Reggenza di Horty, Bologna 1927 (cap. VI: Agricoltura; cap. VII: Le finanze, l'industria e il commercio); A. Kain, La Hongrie, Budapest 1910; La Hongrie économique en cartes, Budapest 1920 (dati relativi al 1913); La Hongrie et la civilisation, Parigi 1919; A. Dami, La Hongrie de demain, Parigi 1933; Ungarn. Land und Volk, Lipsia 1918 (pagg. 12-116: descrizione geografica di E. Cholnoky); I. Prinz, Magyarország földrajza, Cinquechiese 1926; id., Ungarn, in Handbuch der geogr. Wissenschaft, Potsdam, s. d. (1932); id., Die Siedlungsformen Ungarns, in Ung. Jahrbücher, 1926; F. Fodor, Magyarország gazdasági földrajza, Budapest 1924; E. Cholnoky, Magyarország földrajza, Cinquechiese 1929; Magyarország Vereckétol napjainkig, Budapest 1929 (opera in 5 voll. di più collaboratori: L. Geszti vi considera la terra e il popolo ungherese); M. Haltenberger, Rumpfungarn, Budapest s. d. (1933).
Sull'etnografia ungherse v.: P. Hunfalvy, Ethnographie von Ungarn, Budapest 1877; Die österreichisch-ungarische Monarchie in Wort u. bild, II-IV, Vienna 1891-96; L'Art rustique en Autriche et en Hongrie, Parigi 1911 (numero di supplem. della rivista The Studio); J. Szinnyei, Die Herkunft der Ungarn, ihre Sprache und Urkultur, Berlino 1920; G. Prinz, Die Siedlungsformen Ungarns, negli Ungarische Jahrbücher, IV (1924), pp. 127-42 e 335-52; S. Györffy, Das Bauwesen der Hirten im ungarischen Tiefland, Debrecen 1927; E. Beynon, Ancestral occupations of the Hungarians, in Geogr. Review, 1928, pp. 606-15; S. Bátky, art. cit.; A magyarság néprajza, Budapest 1932 segg. (opera in 4 volumi, di cui finora 2 pubblicati).
Molti articoli sull'Ungheria sono contenuti nella Rivista della Società geografica ungherese (Földrajzi Közlemények). L'Annuario statistico ungherese (Magyar Statisztikai Évkönyv), apparso per la prima volta già nel 1871, viene regolarmente pubblicato in ungherese e in francese; per i dati statistici più recenti è da consultare l'ottima rivista mensile Magyar Statisztikai Szemle.
L'odierna Ungheria è rappresentata cartograficamente in 110 fogli della carta austro-ungarica al 75 mila (rilevata tra il 1869 e il 1887); nel dopoguerra la carta è stata rivista per la toponomastica e pubblicata anche in edizione policroma; è stata iniziata inoltre l'edizione d'una nuova carta al 25 mila.
Ordinamento dello stato.
Ordinamento politico. - La costituzione ungherese è fondata sulla legge costituzionale del 1222 (bolla d'oro), e sulle leggi addizionali del 28 febbraio 1920, 14 agosto 1925, 14 novembre 1926, 18 giugno 1933. L'Ungheria è una monarchia (Királyság) con trono vacante e nella quale le funzioni monarchiche sono esercitate da un reggente (Kormányzó). Il reggente, eletto dall'assemblea nazionale il 1° marzo 1920, ha, con qualche eccezione (concessione della nobiltà, diritto di patronato ecclesiastico cattolico), le stesse prerogative del re. Esercita il diritto di veto contro le leggi, diritto che tuttavia è limitato in quanto, se le leggi sono approvate dalle camere una seconda volta, non può essere esercitato. Il reggente riceve e accredita gli ambasciatori, rappresenta lo stato nelle sue relazioni esterne, non può dichiarare la guerra né concludere trattati di pace senza l'assentimento del parlamento; secondo la legge 18 giugno 1933, ha diritto di prorogare il parlamento o di sciogliere la camera.
Il parlamento (Országgyülés) si compone di due camere che esercitano il potere legislativo. Della Camera alta (felsoház), di 242 membri, fanno parte, in virtù delle loro dignità e funzioni, 42 autorità supreme dello stato o ecclesiastiche (sono compresi in questo numero quattro membri della famiglia Asburgo-Lorena domiciliati in Ungheria e aventi 24 anni compiuti); 150 membri eletti (38 rappresentanti di casate principesche, comitali e baronali; 76 rappresentanti dei comitati e delle municipalità, 36 delle associazioni professionali e delle accademie) e 45 membri nominati dal capo dello stato (dei quali 5 proposti per suffragio universale). La camera dei deputati (Képviselohaz) è composta di 245 membri eletti per 5 anni a suffragio universale. Il suffragio è dato pubblicamente nelle campagne, è segreto solo nelle città; lo scrutinio di lista è ammesso solo a Budapest e dintorni e in poche altre città più importanti. Sono elettori i maschi che abbiano compiuto 24 anni e le donne che ne abbiano compiuti 30 e che posseggano altri determinati requisiti d'istruzione, di residenza, ecc. Sono eleggibili tutti gli elettori che abbiano più di 30 anni. La distribuzione dei partiti nella camera eletta il 27 aprile 1935 è la seguente: partito di unione nazionale, 169; Unione cristiano-sociale, 14; Socialisti, 11; Partito agricolo indipendente, 24; altri partiti, 16; indipendenti, 11.
Il territorio è diviso in 25 comitati (vármegye) e in 11 municipî urbani, a capo delle quali circoscrizioni sta un főispán ("conte superiore") nominato dal governo, assistito da un alispán ("viceconte") nei comitati e da un biró (borgomastro) nei municipî, entrambi elettivi; inoltre vi è una commissione di comitato, i cui membri sono per metà eletti a suffragio segreto per 6 anni, e per metà virilisti (persone che pagano le più alte imposte); alcuni funzionarî governativi vi siedono di diritto; nelle commissioni municipali i membri elettivi formano i 3/5, gli altri 2/5 sono virilisti, oltre sempre i funzionarî governativi. Comitati e municipî godono di una larga autonomia. I comitati sono suddivisi in 154 circoli e città di comitato; i circoli comprendono 3385 villaggi, distinti in grandi comuni e piccoli comuni, con organizzazione differente.
In materia di religione lo stato professa la più ampia tolleranza (v. appresso). L'ordinamento giudiziario comprende una corte suprema (in Budapest) che è il più alto tribunale di ultima istanza competente in materia civile e penale. Tribunali di prima istanza sono le corti di comitato (tórvényszékek) con giudice collegiale, le corti distrettuali (járásbiróságok) con giudice unico, le corti d'assise (sajtóbiróságok) con giuria popolare, per i reati di stampa, oltre al tribunale speciale militare.
Culti. - L'uguaglianza dei diritti è ammessa per tutti gli appartenenti alle religioni riconosciute dallo stato: cioè per i cattolici, gli evangelici (sia seguaci della Confessione d'Augusta, o luterani, sia della Confessione elvetica), unitariani, greco-ortodossi, armeni gregoriani, battisti (dal 1906), ebrei, musulmani (dal 1906).
Secondo il censimento del 1930 si hanno: cattolici (64,906) 5.634.103; cattolici greci (2,3%) 201.093; evangelici elvetici (20,9%) 1.813.162; evangelici luterani (6,1%) 534.065; greci ortodossi 39.839; unitariani 6.266; ebrei (5,1%) 444.567; altri, 15.224.
La gerarchia cattolica attuale risente molto delle condizioni politiche create dal trattato del Trianon, che ha provocato lo smembramento di molte diocesi tra stati diversi. Essa comprende l'abbazia nullius di S. Martino in Monte Pannoniae (Pannonhalma); l'arcivescovato di Agria (Eger; sec. X; metropolitana, 1804) i cui suffraganei, Košice, Rožnava, Spiš, appartengono alla Cecoslovacchia; le provincie ecclesiastiche: di Kalocsa (1000; metropolitana 1135) con suffraganeo Csanád (1035 e 19 giugno 1931; residenza in Szeged), da cui sono state rispettivamente staccate le amministrazioni apostoliche della Bačka e del Banato serbo; di Strigonia (Esztergom; sec. X), con suffraganei Székesfehérvár (1777), Pécs (1009); inoltre altre diocesi in Cecoslovacchia, da cui sono state staccate le amministrazioni apostoliche di Debrecen (già appartenente alla diocesi di Gran Varadino dei Latini, Satu Mare e Oradea Mare, in Romania, unite nel 1930), di Merk (già appartenente alla diocesi di Satu Mare), di Miskolc (parrocchie rutene in territorio ungherese della diocesi di Mukačevo dei Ruteni).
Le chiese riformate di confessione elvetica hanno vescovi o sopraintendenti a Budapest, Papa, Miskolc, Debrecen; le luterane a Budapest, Sámsonhaza, Győr, Nyiregyháza. Vi è inoltre un vescovato ortodosso a Szentendre.
Forze armate. - Esercito. - L'organizzazione delle forze armate è imposta all'Ungheria dal trattato del Trianon del 4 giugno 1920, che, tra l'altro, stabilisce: Il servizio militare obbligatorio per tutti i cittadini, sarà abolito. L'esercito ungherese verrà, in avvenire, costituito e reclutato esclusivamente mediante arruolamenti volontarî (art. 103). La durata totale della ferma dei sottufficiali e dei militari di truppa non sarà inferiore a 12 anni consecutivi, di cui almeno 6 di servizio alle armi (art. 110). Il complesso delle forze militari dell'esercito ungherese non dovrà oltrepassare 35.000 uomini (art. 104).
L'esercito è l'unica forza militare a disposizione dello stato. Dal trattato del Trianon, è fatto divieto all'Ungheria di possedere una aviazione militare. Per le esigenze della sicurezza interna e dell'ordine pubblico, esistono, alle dipendenze del Ministero dell'interno, la gendarmeria (circa 15.000 uomini) e la polizia di stato (circa 17.000 uomini).
Il bilancio della difesa nazionale ammonta a pengő 87.470.000, pari a circa 225 milioni di lire italiane. Autorità suprema dell'esercito è il Ministero della difesa nazionale, che comprende "comando in capo dell'esercito" e "ispettorati d'arma". Le unità dell'esercito sono costituite da 7 brigate miste, ciascuna composta di 2 reggimenti di fanteria, un battaglione ciclisti, uno squadrone di cavalleria, un gruppo di artiglieria, una compagnia collegamenti, un nucleo treno, un nucleo automobilistico; 2 brigate di cavalleria, ciascuna di 2 reggimenti.
Alla fanteria appartengono 14 reggimenti, 7 battaglioni ciclisti. Ogni reggimento ha 3 battaglioni di 4 compagnie, di cui una di mitraglieri; sul totale del reggimento, esistono inoltre una compagnia mitraglieri autonoma, una compagnia mortai da trincea, una compagnia tecnica, una compagnia collegamenti. Esistono poi 4 reggimenti di cavalleria (in totale 23 squadroni, di cui 8 mitraglieri), 7 batterie da montagna, 7 da campagna, 7 obici pesanti campali, 3 batterie a cavallo, 2 contraerei, 14 compagnie (7 da posizione, 7 triangolatori), 3 battaglioni genio zappatori, 4 gruppi collegamenti, nuclei di automobilisti, di pontieri, di autoblindate, ecc.
Il reclutamento è volontario; durata della ferma, 12 anni. I militari possono essere congedati dopo il 6° anno e trattenuti, con rafferme annuali, dopo il 12°. Annualmente, non può essere inviato in congedo più di 1/20 della forza alle armi: le riserve istruite sono perciò poco rilevanti. Gli ufficiali di carriera, che costituiscono il corpo del Honvéd reale ungherese, sono tratti dalla Scuola superiore militare, dove compiono un corso di 4 anni.
Marina militare. - In seguito alle decisioni del trattato del Trianon l'Ungheria non può avere marina da guerra, ma solo una "guardia fluviale" dipendente dal Ministero dell'interno. Le forze della guardia fluviale sono fissate come segue: 2 navi da pattuglia non superiori alle 128 tonn. armate con cannoni da 70; 2 mas da 20-30 tonn., armati con 1/47; 10 motoscafi da 12-20 tonn., armati con una mitragliera. Gli effettivi sono di 96 ufficiali e di 1524 tra sottufficiali e comuni.
Le unità più importanti sono attualmente (1936) le seguenti: Sopron, varato nel 1918 e rimodernato nel 1928, da 140 tonn. e 18 nodi, armato con 2/70 e 2 mitragliere; Debrecen, Győr e Baja, varati negli anni 1916-18 e rimodernati nel 1924, da 140 tonn. e 15 nodi, armati con 2/76 e 2 mitragliere; Szeged e Kecskemét, varati nel 1916 e rimodernati nel 1921-23, da 130 tonn. e 15 nodi, armati con 2/76 e 2 mitragliere; Godőllő, varato nel 1915, da 60 tonn. e 11 nodi, armato con 1/76 e 2 mitragliere, e i 3 motoscafi corazzati Honvéd, Huszár e Tüzér, varati nel 1916, da 17 tonn. e 9 nodi, armati con 1 mitragliera.
Finanze. - Le finanze dell'Ungheria nel dopoguerra. - Sprovvista di capitale liquido e di molte materie prime essenziali, isolata politicamente dai suoi principali fornitori e clienti d'anteguerra, gravata di debiti e nella necessità di affrontare spese straordinarie inderogabili, l'Ungheria si trovò in una situazione assai difficile, dopo la fine della guerra mondiale.
Il governo cercò sì, in ogni modo, di comprimere il deficit e di frenare la svalutazione, tanto che verso la fine del 1922 la corona parve essersi stabilizzata, senza interventi stranieri, intorno al rapporto: 10.000 corone per lira sterlina. Troppo esigua era però la riserva in oro e divise dell'istituto di emissione di stato (Magyar Király Allami Jegyntézet, creato nel 1921, in seguito allo scioglimento della Banca austro-ungarica) e troppo caotica ancora la situazione economico-finanziaria, sia all'interno sia nei paesi vicini, perché la corona ungherese potesse evitare il crollo; la circolazione riprese infatti ben presto ad aumentare, raggiungendo, alla fine del 1923, 931 miliardi (da 74 alla fine del 1922), mentre il cambio con la sterlina salì ufficialmente a 92.000 corone e di fatto a 146.000. Solo nel 1924, consolidata la situazione politica interna e ottenuto per intervento della Società delle nazioni un prestito estero di ricostruzione, garantito dalle entrate doganali e di monopolio, l'Ungheria riuscì ad arrestare definitivamente l'inflazione e a riequilibrare il suo bilancio. Una banca di emissione autonoma fu istituita nello stesso anno in sostituzione dell'istituto statale e cominciò subito a porre le basi della riforma monetaria; la nuova unità, il pengő, entrò però in vigore solo il 27 dicembre 1926. Per breve tempo l'Ungheria poté tuttavia godere dell'equilibrio faticosamente raggiunto, ché, per la sua struttura prevalentemente agraria era particolarmente esposta a risentire della crisi economica mondiale, e quando poi la crisi stessa divenne anche finanziaria e il Credit Anstalt austriaco fu costretto a chiudere gli sportelli, le fu necessario ricorrere a un nuovo controllo dei cambî e sospendere i suoi pagamenti internazionali. Un leggiero miglioramento nella generale situazione economica ungherese e corrispondentemente nell'andamento delle pubbliche finanze si è cominciato a delineare solo alla fine del 1933; miglioramento che in parte si è verificato anche nel 1934-35 e nel 1935-36, per quanto fortemente ostacolato dal cattivo andamento della produzione agraria.
Bilanci e debito pubblico. - L'andamento delle entrate e spese di bilancio (in milioni di pengő) conferma quanto s'è detto:
Le imposte dirette, il monopolio del tabacco e le tasse sugli affari costituiscono i maggiori cespiti di entrata di questa prima e più importante sezione del bilancio (detta dell'Amministrazione), di cui le spese principali sono quelle per la difesa nazionale, per l'istruzione pubblica e per il servizio delle pensioni. Le ferrovie, le poste, i telegrafi e i telefoni, le casse postali di risparmio, nonché le foreste, le miniere di carbone e le altre industrie di stato rientrano in una seconda sezione di bilancio (Imprese pubbliche), che dal 1930-31 è costantemente in deficit. Al 30 giugno 1936 il debito pubblico ammontava a 1749 milioni di pengő, di cui 1272 di debito estero (per 3/4 circa a lungo termine) e 477 di debito interno (per 3/4 circa a breve scadenza).
Moneta e credito. - L'unità monetaria è il pengő, diviso in 100 filler e contenente 0,263158 gr. di oro fino, che fu istituito con legge 6 novembre 1925 e sostituì dal 1927 la vecchia corona (in base al rapporto di conversione di 12.500 corone carta per un pengő e di una corona oro per 1,158536 pengő). Entro il 1927 furono coniate monete d'oro per l'ammontare di 24,7 milioni di pengö; la circolazione è però essenzialmente composta di biglietti della Banca nazionale di Ungheria, garantiti da una riserva di almeno il 24%. Al 7 febbraio 1936 i biglietti in circolazione ammontavano a 365 milioni e la riserva in oro e divise estere era di 127 milioni.
Oltre al privilegio di emissione, alla Banca nazionale d'Ungheria (1924) sono attribuiti il controllo del credito e degli scambî, il servizio dei pagamenti internazionali e quello del debito pubblico e di tesoreria. Altro importante istituto finanziario di stato è il Pénzintézeti Központ, fondato nel 1916 e riorganizzato nel 1920 e 1926, che raggruppa tutte le banche per azioni e le casse di risparmio ed è autorizzato a vigilarle, a sovvenzionarle e a procedere, in caso, alla loro liquidazione e fusione. Tra le banche ordinarie di credito le principali sono la Banca commerciale ungherese di Pest (1841), la Banca ungherese generale di credito (1867), la Banca ungherese di sconto e di cambio (1869).
Bibl.: Oltre alle pubblicazioni della Società delle nazioni, gli annuarî internazionali, i rapporti del Department of overseas Trade (Londra), v. i rapporti della Banca nazionale di Ungheria (Budapest); il Bulletin économique dell'Institut central des sociétés financières (Pénzintézeti Központ); le Communications sur la situation financière de la Hongrie, edite in 3 lingue ogni cinque anni dal Ministero delle finanze ungherese; gli annuarî di G. Gratz-G. Bokor (Budapest, dal 1925) e di G. Kemény-M. Mitnitzky-J. Vágó (ivi, dal 1931). V. inoltre: B. A. Marx, The present bank. and fin. system in Hung., Londra 1933.
Ordinamento scolastico. - In Ungheria l'istruzione elementare è obbligatoria dai 6 ai 15 anni. Nel 1933-34 la percentuale degli analfabeti ammontava al 9,6%. L'istruzione media è a carattere prevalentemente tecnico, ed è mantenuta non solo dallo stato, ma anche dai comuni e dalle organizzazioni ecclesiastiche delle confessioni religiose. L'Ungheria conta un numero notevole di scuole superiori: una quarantina, delle quali circa la metà sono scuole teologiche delle varie confessioni (che comprendono tuttavia solo il 7% della massa degli studenti). Le scuole teologiche e le "accademie giuridiche" sono autonome economicamente; le altre scuole superiori sono mantenute dallo stato. Vi sono quattro università (Budapest, Debrecen, Cinquechiese, Seghedino); una facoltà d'economia politica, con sede a Budapest, una università di scienze tecniche (Politecnico Giuseppino), con sede pure a Budapest, e le "accademie di diritto", che, assieme alle facoltà giuridiche delle università, abbracciano una forte percentuale degli studenti (una cattolica a Eger, una calvinista a Kecskemét, una luterana a Miskolc); una scuola veterinaria a Budapest, una mineraria e forestale a Sopron, tre accademie forestali, una scuola superiore di belle arti, due scuole normali per la preparazione degli insegnanti medî (una statale per uomini a Seghedino, una cattolica per donne a Budapest), una scuola normale superiore medico-pedagogica a Budapest, e una di educazione fisica, pure a Budapest. Dal 1930-31 il numero degli studenti delle scuole superiori ungheresi va diminuendo, col diminuire dell'afflusso degli studenti dai territorî staccati dallo stato ungherese e col progredire del disagio economico. Nonostante il numerus clausus, che vige per la massima parte delle scuole superiori ungheresi, l'Ungheria conta un'alta percentuale di studenti universitari: solo del 14% inferiore a quello dell'anteguerra, mentre la popolazione è stata ridotta del 53%; e solo l'1,3% di questi studenti è di lingua materna non ungherese.
Bibl.: Statistique des écoles supérieurs Hongroises en 1933-34, a cura dell'Ufficio centrale ungherese di statistica, Budapest 1935 (in ungherese, con sunti in francese).
Lingua.
La lingua ungherese appartiene al gruppo "ugrico" della famiglia linguistica ugro-finnica. Il più antico documento scritto interamente in ungherese è un discorso funebre (Sermo super sepulchrum), che risale al 1295 e che contiene circa 300 parole; ma già dal sec. X troviamo parole ungheresi presso autori bizantini e in varî documenti scritti in latino e in greco su territorio ungherese.
La differenza fra il magiaro dei primi documenti e quello odierno è relativamente piccola. Questo carattere di stabilità si rileva anche dallo scarso frazionamento dialettale; ciò che in parte si spiega col fatto che la dispersione degli Ungheresi su un così vasto territorio europeo si è iniziata appena un millennio fa.
La divisione dei dialetti ungheresi generalmente accettata è quella di J. Balassa, che si basa su due criterî principali: 1. il trattamento di ë che è triplice, perché ë può essere conservato, o divenire e oppure ö, per es. vizën "sull'acqua", a Debrecen vízen, a Seghedino vízön; 2. il trattamento di é. La lingua letteraria e una parte del dominio linguistico hanno fuso in é (e stretto lungo) tanto l'ẹ quanto un ę alcuni dialetti invece mantengono fino ad oggi la differenza fra i due e, per es. kêz (ké???z) "mano" (l. lett. kéz), ma szép "bello" (l. lett. =); altri hanno portato ê (ę) ad é (ẹ), ma nel tempo stesso hanno chiuso é (ẹ) in í; per es. nella regione settentrionale del Tibisco abbiamo kéz "mano" ma szíp "bello". Basandosi specialmente su queste due caratteristiche il Balassa divise i dialetti ungheresi in otto gruppi: 1. occidentale; 2. oltre Danubio; 3. dell'Alföld; 4. del Danubio e Tibisco; 5. di nord-ovest; 6. di nord-est; 7. della Transilvania; 8. dei Siculi (Szekler) di Transilvania.
Fra le caratteristiche dell'ungherese in seno alle lingue ugrofinniche ricorderemo le seguenti:
Nella fonetica una buona conservazione dell'armonia vocalica (con la presenza però di vocali "neutre" che possono concordare tanto con vocali palatali che velari e con la complicazione di serie triplici una delle quali per l'accordo con vocali labiali; cfr. armonia: Armonia vocalica IV, p. 527 ed ivi esempî). Nel consonantismo sono specialmente notevoli le seguenti corrispondenze: ugrof. *k (velare) > ungh. h (ant. ungh. ch = χ): per es., ungh. három "tre" (ant. ungh. charmul); vot. kurəm; sir. kujim; finn. kolmo, ecc.; ugrof. *s- > ø (zero), p. es. ungh. ín "nervo, tendine" sir. sen, vot. sen; ugrof. *š- > ø (zero), p. es. ungh. egér "topo", cfr. mordv. šejəř, finn. hiire-; ugrof. *-t- > ungh. z, per es. ungh. haz "casa", cfr. ost. χòt; finn. kota. L'ungherese ha poi, come le lingue permiche (v. permiani, XXVI, p. 777) la perdita della nasale nei nessi ugrof. *ηg ~ *ηg > g; *nt ~ *nd > d; *mt ~ *md > d; *mp ~ *mb > b; *n′ d′ z′ ~ gy: p. es., ungh. ág "ramo", sir. vug, vot. vug, ma finn. onke- gen. ongen.
Nella morfologia, l'ungherese conserva molto bene parecchie fra le più importanti particolarità dell'ugrofinnico, p. es. i suf6ssi possessivi: prima pers. sing. ugrof. *-m > ungh. -m, p. es. kez-ëm "la mia mano" vár-om "la mia fortezza" (pl. kez-e-i-m "le mie mani" in cui -i- è l'indice del plur.). Prima ps. plur. ugrof. *m.k (e cioè -m indice della prima persona e -k indice del plurale) > ungh. -nk, p. es. kez-ünk "la nostra mano" (pl. kezeink "le nostre mani"). Il possessivo di seconda persona singolare -d proviene da una forma ampliata *nt ~ *nd e non dal semplice *t ( > ungh. te "tu"), p. es. keze-d "la tua mano". La seconda persona plurale è formata in ugrof. da *t. k (e cioè -t della seconda persona singolare -k indice del plurale). Di qui ungh. -tok, -tëk, -tök per il triplice accordo dell'armonia vocalica, per es. atyátok "vostro padre", kezetëk "la vostra mano" börtönötök "la vostra prigione". Nei pronomi di terza persona l'ungherese invece si scosta dalle altre lingue ugrofinniche.
Nella formazione del comparativo l'ungh. ha -bb ⟨ ugrof. *-mp/mb: cfr. ungh. gyors "veloce" comp. gyorsabb.
La declinazione ungherese (se tale si può chiamare in una lingua ugrofinnica) è formata da semplici posposizioni; si distinguono 21 casi. Alcune delle posposizioni erano in origine avverbî o anche veri e proprî sostantivi; p. es., per indicare il locativo l'ugrofinnico aveva una desinenza *-n che si continua in ungherese per indicare il superessivo (che indica cioè "sulla superficie di un luogo e non dentro", p. es. vízën "sull'acqua"); ma per indicare lo stato in luogo si usa ora -ben/-ban, p. es. vízben "nell'acqua"; su -ben si è poi fermato -ban per l'accordo con vocali velari. L'accusativo ungherese è formato col suffisso -t e non corrisponde quindi all'accusativo ugrof. che era caratterizzato, come quello indoeuropeo, da *-m. Il Budenz ha dímostrato molto bene che l'accusativo ungherese -t deriva da un dimostrativo -*tä (da cui proviene anche l'articolo determinativo posposto del mordvino).
Nella coniugazione verbale troviamo due tipi; uno "soggettivo" e uno "oggettivo"; il primo si adopera quando non ci si riferisce a un oggetto o quando l'oggetto di terza persona è indeterminato o infine quando l'oggetto è di prima persona o di seconda e il soggetto è di terza. Il secondo tipo si usa quando l'oggetto è di terza persona ed è determinato; esiste poi anche una forma di coniugazione oggettiva per l'oggetto di seconda persona singolare e plurale, ma essa è, in ungherese, limitata alla sola prima persona singolare. Quanto all'uso dei due tipi di coniugazione, troppo complicato sarebbe esporlo qui; basti questo esempio: io dirò várok "io aspetto" (con. soggettiva) quando non specifico che cosa aspetto; dirò pure embert várok "aspetto un uomo" perché l'oggetto è indeterminato, ma dirò várom a barátomat "aspetto il mio amico" con la forma della con. oggettiva perché in questo caso l'oggetto è determinato. Nella coniugazione oggettiva le uscite corrispondono a quelle dei possessivi, p. es. várom "io (lo) aspetto" cfr. barátom "il mio amico"; várod "tu (lo) aspetti" cfr. barátod "il tuo amico"; várja "egli lo aspetta" cfr. barátja "il suo amico", ecc. Questa coincidenza ha fatto sostenere ad alcuni autori la cosiddetta teoria possessiva del verbo, per cui una forma come várom avrebbe significato in origine "il mio aspettare". La coniugazione oggettiva delle lingue ugrofinniche, nonostante si trovi nelle tre lingue ugriche e nel mordvino, non sembra risalire al protougrofinnico. Gli studi di J. Melich (A magyar tárgyas igeragozás [La coniug. oggettiva ungh.], Budapest 1914) inducono a credere che la coniugazione oggettiva delle lingue ugriche sia del tutto indipendente da quella del mordvino.
Quanto al lessico, l'ungherese mantiene un numero relativamente esiguo di elementi ugrofinnici. La maggior parte del lessico è formata da elementi mutuati nel corso dei secoli, che si possono dividere in due grandi categorie: 1. elementi mutuati prima dell'arrivo degli Ungheresi nelle attuali sedi europee; 2. elementi mutuati dopo lo stanziamento degli Ungheresi nell'Ungheria storica.
Fra i primi, i più importanti sono gli elementi bulgaro-turchi, dovuti alla convivenza dei progenitori degli Ungheresi con un popolo che parlava una lingua turca di tipo s, la quale presentava il rotacismo di -z-intervocalico, e doveva essere assai affine all'odierno ciuvascio (v. turche, lingue). È probabile che una parte di questi Bulgaro-Turchi si sia fusa coi progenitori degli Ungheresi e che questa fusione abbia portato a un cambiamento di civiltà, trasformando il popolo ungherese che era forse, al pari dei suoi più stretti parenti Voguli e Ostiachi, un popolo dedito alla caccia e alla pesca, in un popolo agricolo e guerriero. Ciò risulta specialmente da un esame degli elementi bulgaro-turchi dell'ungherese, dal quale appare che i principali termini relativi all'agricoltura e all'allevamento del bestiame, nonché molti termini di guerra, sono di origine bulgaro-turca (p. es., búza "frumento" árpa "orzo", eke "aratro" sarló "falcetto", alma "mela", körte "pera", szöllö "uva", szüret "vendemmia" bor "vino", ecc.).
Molto antichi sono pure alcuni prestiti, assai più oscuri, tratti dall'Osseto, p. es. asszony "signora" ⟨ Oss. tagaunico äxsin, äfsin "padrone di casa"; hid "ponte" > Oss. tag. xid, ecc.
Fra gl'influssi subiti dopo l'arrivo nelle sedi europee, il più importante è certamente quello slavo. Quasi tutta la terminologia del cristianesimo è di origine slava, p. es. kereszt "croce" ⟨ sl. krĭstŭ; ecc. Anche molte voci relative all'organizzazione politica come király "re" ⟨ sl. kralj, ecc., sono di origine slava. Un altro influsso molto forte, per quanto non certo come quello slavo, è quello tedesco, cominciato a penetrare fino dall'epoca degli Árpád attraverso i cavalieri, i sacerdoti e i numerosi coloni che venivano in Ungheria (cfr. polgár "cittadino, borghese", ted. mod. Bürger). Un influsso avvenuto per via puramente culturale è quello dovuto al latino che era la lingua generalmente usata per gli atti pubblici, l'insegnamento, ecc. Fra le voci romanze si notano alcune parole derivate dal francese già all'epoca della regina francese Margherita, seconda moglie di Béla III e figlia di Luigi VII, e un nucleo ancora più importante, ma ancora non sufficientemente studiato, di voci penetrate dall'italiano, sia direttamente, sia attraverso il croato (p. es., paizs "scudo" ⟨ pavese; pálya "strada, via, corso" ⟨ palio, ecc.). Nella seconda metà del sec. XVIII e nella prima del XIX la lingua ungherese si arricchì di molte nuove formazioni dovute alla tendenza del "rinnovamento linguistico" (ungh. nyelvújitás).
Lingua di alta cultura, l'ungherese esercitò a sua volta un considerevole influsso sulle lingue dei popoli finitimi e specialmente su quelle delle minoranze viventi nell'Ungheria storica; si trovano così numerosi elementi ungheresi nel romeno, nello slovacco e nel croato.
Bibl.: C. Tagliavini, La lingua ungherese, Roma 1929 (nel vol. L'Ungheria, edito dall'Ist. per l'Europa Orientale); id., La lingua ungherese e il problema dell'origine dei Magiari, Budapest 1932 (in Corvina, XXI-XXII); S. Simonyi, Die ungarische Sprache, Strasburgo 1907; A. Kőrösi, Grammatica teorico-pratica della lingua ungherese, Budapest-Fiume 1893-98; E. Várady, Grammatica della lingua ungherese, Roma 1931. - Dizionarî ital.-ungheresi: J. Kastner, Dizionario ungherese-italiano e italiano-ungherese, Pécs 1930-34 (breve, comodo); per la parte ital.-ungh. è raccomandabile l'ampio dizionario di A. Kőcrösi, Olasz-magyar szótár, Budapest 1912; discreto anche V. Gelletich-F. Sirola e A. Urbanek, Dizionario ungherese-italiano e italiano-ungherese, Fiume 1914-15. - Per la grammatica storica: Simonyi-Balassa, Tüzetes magyar nyelvtan történeti alapon (Grammatica particolareggiata ungherese su basi storiche), Budapest 1895. Ancora notevole, N. Révai, Elaboratior grammatica Hungarica, I, II, Pest 1803-05, III, Budapest 1908 (XXIX, p. 176). Fra i dizionarî della lingua ungherese, ricorderemo: G. Czuczor e J. Fogarasi, A magyar nyelv szótára (Diz. della lingua ungherese), ivi 1862-74 (ricco, ma superato); G. Szarvas e Zs. Simonyi, Magyar nyelvörténeti szótár, Lexicon linguae Hungaricae aevi antiquioris, I-III, ivi 1890-93; I. Szamota e Gy. Zolnai, Magyar oklevél-szótár, Lexicon vocabulorum Hungaricorum in diplomatibus aliisque scriptis quae reperiri possunt vetustorum, ivi 1902-06. Eccellente il diz. etimologico di Z. Gombocz-J. Melich, Magyar etymologiai szótár, Lexicon critico-etymologicum linguae Hungaricae, ivi 1914 segg. (sino alla voce foglár).
Singole monografie o argomenti di carattere speciale (nello stesso ordine della trattazione del nostro articolo): per i testi antichi, E. Jakubovich-D. Pais, Ó-magyar olvasókönyv (Libro di lettura antico ungherese), Pécs 1929; Régi magyar nyelvemlékek (Antichi documenti linguistici ungh.), Pest 1838-46, in 4 volumi più un vol. V pubbl. nel 1888; Nyelvemléktár, Régi magyar ködexek (Archivio di monumenti linguistici: antichi codici ungheresi), Budapest 1874-1908 (voll. 15).
Per i dialetti: J. Balassa, A magyar nyelvjárások osztályozása és jellemzése (Classificazione e caratteristica dei dialetti ungheresi), Budapest 1891; A. Horger, A magyar nyelvjárások, ivi 1934 (buona sintesi); Gy. Laziczius, A magyar nyelvjárások (I dial. ungheresi), ivi 1936. Ancora fondamentale J. Szinney, Magyar tájszótár (Diz. dialettale ungh.), ivi 1902-06. Molte monografie nella rivista Magyar Nyelvör (dal 1872) e nella coll. Nyelvészeti Füzetek (Opuscoli linguistici), 1903-18. Per l'armonia vocalica ungh. cfr. S. Szabö, A magyar magánhangzóilleszkedés (L'arm. vocalica ungh.), Budapest 1902; per la fonetica e morf. comparata delle lingue ugrof. v. bibl. s. v. ugrofinniche, lingue. Per la coniugazione oggettiva, oltre alla bibl. cit. nel testo cfr. A. Horger, A magyar igeragozás története (Storia della coniugazione verbale ungherese), Szeged 1931.
Per il lessico, v. i diz. sopra citati e spec. quello etim. di Gombocz-Melich; per gli elementi ugrofinnici, v. i diz. comparati delle lingue ugrofinniche citati s. v. ugrofinniche, lingue. Per gli elementi mutuati, cfr. B. Munkácsi, Árja és kaukázusi elemek a finn-magyar nyelvekben (Elementi arî e caucasici nelle lingue ugrof.), Budapest 1901. Per gli elementi bulgaro-turchi, cfr. Z. Gombocz, Die bulgarisch-türkischen Lehnwörter in der ungarischen Sprache, Helsingfors 1912. Per gli elementi osseti, cfr. H. Sköld, Die ossetischen Lehnwörter in der ungarischen Sprache, Lund 1925. Sugli elem. slavi, F. Miklosich, Die slavischen Elemente im Magyarischen, Wien 1884; J. Melich, Szláv jövevényszavaink (I nostri prestiti slavi), Budapest 1903-1905; Nyelvünk szláv jövevényei (Gli elementi slavi nella nostra lingua), ivi 1910. Sugli elem. tedeschi, V. Lumzer e J. Melich, Deutsche Ortsnamen und Lehnwörter des ungar. Sprachschatzes, Innsbruck 1900; cfr. anche Th. Thienemann, Die deutschen Lehnwörter der ungarischen Sprache, Berlino 1921. Sugli elem. italiani, cfr. A. Körösi, Gli elementi italiani nella lingua ungherese, Fiume 1892 (lavoro molto debole). Per gli elementi latini, cfr. Gy. Kovács, Latin elemek a magyar nyelvben (Gli elem. latini nella lingua ungherese), Budapest 1892; J. Fludorovits, Latin jövenényszavaink hangtana (la fonetica degli elem. latini della nostra lingua), ivi 1930, con bibl.
Per il rinnovamento linguistico, cfr. V. Tolnai, A nyelvújítás, Budapest 1929, e K. Szily, A magyar nyelvújítás szótára (Dizionario del rinnovamento linguistico ungh.), ivi 1902-08. Per gli elem. ungheresi in romeno, v. romania, XXX, 25. Per gli elem. ungh. nelle lingue slave, v. Munkácsi, Nyelvtud. Közl., XVII (1887). Un'eccellente rivista di linguistica ungherese è Magyar Nyelv, Budapest 1905 segg. (con indice dei primi 25 voll.).
Letteratura.
La cultura letteraria ungherese è figlia del cristianesimo; in essa, perciò, non si fecero sentire tradizioni pagane, né vi sono documenti scritti della poesia ungherese dall'epoca precristiana.
I primi a coltivare la letteratura furono gli ecclesiastici con il veneziano San Gerardo, a cui si deve l'opera intitolata Deliberationes. Un prete di corte compilò gli Ammonimenti di Santo Stefano al figlio Sant'Emerico; e il vescovo di Pécs (Cinquechiese), il beato Maurizio, autore delle leggende degli eremiti San Zoerardo e San Benedetto, è il primo scrittore d'origine ungherese. Tanto in queste ultime leggende quanto in quelle di Santo Stefano e di Sant'Emerico della fine del sec. XI, si riscontra appena qualche particolare elemento magiaro. Fu intorno alla figura di San Ladislao che la fantasia popolare intessé per la prima volta tratti caratteristicamente ungheresi.
In questo tempo (1091) apparve anche la prima storia ungherese, le Gesta Ungarorum, non giunte sino a noi, ma che è possibile ricostruire in base ai cronisti successivi. Apre la schiera di questi l'Anonymus (notaio di re Béla II o di re Béla III), la cui cronaca è una colorita storia cavalleresca. I suoi continuatori furono Simone Kézai, sacerdote di corte (intorno al 1284), e Marco Kálti, canonico di Székesfehérvár, il quale al tempo di Luigi il Grande compose la cosiddetta Cronaca Alluminata di Vienna. Il primo cominciò la storia d'Ungheria con le leggende unne, facendo risalire ad Attila la genealogia dei principi ungheresi; il secondo perpetuò le leggende dei re di Casa Árpád.
Centri culturali - oltre alla corte reale - furono i conventi benedettini, cisterciensi e premostratensi.
Nei diplomi, scritti in latino, si ritrovano, dal 1055 in poi, i primi ricordi della lingua ungherese (nomi di luoghi, parole singole, traduzioni, glosse). Un libro di messa latino, del 1295, ci ha tramandato il più antico testo ungherese: un discorso e una preghiera funebri di 26 righe, il cui stile chiaro e vigoroso fa necessariamente pensare a precedenti secolari. L'immediatezza, le rime sonore e il ritmo sicuro della poesia popolare, fiorita indubbiamente nella stessa epoca, ma scomparsa senza lasciar tracce, risuonano nel Lamento di Maria, la più antica poesia ungherese nota, composta verso il 1300. Dopo alcuni ricordi d'importanza minore, solo a cominciare dalla seconda metà del '400 vediamo moltiplicarsi d'un tratto le opere scritte della letteratura ungherese. I loro ignoti redattori furono esclusivamente dei monaci domenicani e francescani: il movimento di riforma religiosa da loro condotto ebbe non poca influenza sull'inizio di questa attività letteraria, che si limitò però a semplici traduzioni.
Il primo tentativo di un uso strettamente letterario della lingua ungherese ci è tramandato dal codice Jókai (Leggenda di San Francesco), redatto verso il 1380. La grande quantità delle traduzioni successive era esclusivamente destinata all'istruzione e all'edificazione dei monaci e soprattutto alle suore, che non sapevano il latino. Il loro contenuto, quindi, è costituito da norme di vita monastica, da preghiere, inni, letture divote. Non mancano neanche versioni dalla Sacra Scrittura in lingua ungherese: risuonano i Salmi e si schiude tutto un mondo di leggende medievali. Gli zelanti monaci ungheresi attinsero alle comuni fonti della letteratura religiosa e particolarmente a Pelbardo Temesvári, eminente francescano ungherese, le cui opere (Pomerium, Rosarium), apparse all'estero in numerose edizioni, servirono per lungo tempo da modello all'eloquenza sacra della chiesa cattolica.
Ad eccezione di due inni originali ungheresi (quello a Maria Vergine di Andrea Vásárhelyi e un altro in onore di San Ladislao), in cui una profonda religiosità s'intreccia al patriottismo - idea dominante della poesia magiara - poche tracce ci sono rimaste della letteratura profana. Solo il loro nome (regös, igric) e i diplomi che li riguardano ci documentano la fama dei cantastorie di corte dell'epoca arpadiana, poiché i loro componimenti erano destinati a un pubblico di ascoltatori e non di lettori. Né i liutisti di Re Mattia, ricordati da Galeotto Marzio, dovevano essere dei poeti letterariamente colti. Unico avanzo di questa epica popolare è la canzone sull'Assedio di Szabács (episodio di guerra di Mattia Corvino), composta nel 1476. La poesia lirica profana, costituita principalmente da canti d'amore (virágének) sparì in breve dalla letteratura in seguito alle persecuzioni della Chiesa. I pochi componimenti del '400 sfuggiti a tale sorte sono dovuti alla penna di chierici e di scribi e appartengono al genere della poesia goliardica. La migliore è la Cantilena di Francesco Apáthy, la prima satira ungherese, che sferza la corruzione seguita alla morte di Re Mattia.
Tracce della diffusione delle idee umanistiche si possono ritrovare sin dalla seconda metà del sec. XIV. Dapprima, in questo campo, le influenze italiane si fecero sentire non solo direttamente, ma anche per il tramite di Praga. Durante il regno di Sigismondo poi, specialmente con lo stabilirsi in Ungheria della famiglia Scolari, per opera degli Italiani che essi vi fecero venire, i contatti con l'Italia acquistarono importanza decisiva. Con Sigismondo giunse anche Pier Paolo Vergerio, che ebbe gran parte nella creazione della letteratura umanistica ungherese. Efficacissima fu la influenza che egli ebbe sul vescovo di Várad, Giovanni Vitéz, il primo consapevole umanista ungherese, che mandò alla scuola di Guarino, a Verona, Janus Pannonius (1447), il quale, a sua volta, doveva in breve diventare una delle figure più eminenti della letteratura internazionale del '400. Nel ventennio fra il 1450 e il 1470 tutta l'Italia ammirò le poesie del Pannonius; la sua gloria s'irradiò anche sulla sua patria: fu lui il primo a far entrare l'Ungheria nella comunità letteraria europea. Vespasiano da Bisticci ricorda soltanto Vitéz, Janus Pannonius e Giorgio Handó, futuro arcivescovo di Kalocsa, come rappresentanti dell'umanesimo ungherese. Però né Stefano Várdai, né Giorgio Kosztolányi (Georgius Polycarpus) erano ignoti in Italia e, fra i giovani, Pietro Garázda, anch'esso allievo del Guarino, per le sue alte doti poetiche si rese degno dell'ammirazione del Ficino e di Ugolino Verino. La cultura umanistica ungherese culminò alla corte di Mattia, che non amò la gloria e la pompa meno delle arti e della scienza. Fondò a Pozsony (Bratislava) un'università, a Buda una scuola superiore e raccolse nella sua biblioteca (la famosa Corvina) i capolavori della letteratura classica in codici sfarzosamente illustrati. Dopo il suo matrimonio con Beatrice d'Aragona, la generosità del mecenate reale fece della corte di Buda uno dei centri più splendidi della cultura e dell'arte. Alla corte reale apparvero il primo storiografo profano: Giovanni Thuróczi, e il primo straniero che studiò la storia ungherese, Antonio Bonfini. In questo tempo (1473) iniziò la sua attività, con l'edizione della Cronica Budense, la prima tipografia ungherese.
E l'influenza dello spirito umanistico non venne meno in Ungheria neppure dopo la morte del gran re. Nei centri minori provinciali rimase viva per decennî ancora l'eredità di Mattia. La nuova generazione degli umanisti ungheresi era in rapporti continui con l'Italia, la cui forza feconda si faceva sentire anche sull'ulteriore sviluppo della cultura ungherese. Sotto Vladislao II e sotto suo figlio, gli impulsi italiani cedettero alle influenze di Vienna che fecero penetrare in Ungheria le dottrine di Erasmo. Il loro dominio fu però breve. La generazione erasmista ungherese sparì con gli ultimi resti dello stato nazionale, del regno unitario e dell'indipendenza del paese, sepolti in un unico tumulo col giovane re Ludovico II nella luttuosa giornata di Mohács (29 agosto 1526).
La direzione spirituale dell'Ungheria venne assunta allora dai discepoli di Lutero e di Melantone. Le lotte di coscienza per "la vera religione" e le guerre contro i Turchi impressero il carattere ai due secoli che seguirono. Il cattolicismo per lunghi decennî si sgancia dallo sviluppo della vita spirituale. I pastori protestanti diventano quasi gli unici sostenitori dei rapporti con l'Occidente. Col luteranesimo lo spirito tedesco acquistò terreno, e solo nel sec. XVII i giovani studenti delle università svizzere e fiamminghe cominciano a controbilanciare questo spirito con le influenze francesi e inglesi. La riforma ebbe un influsso benefico sulla rifioritura della letteratura in lingua ungherese e sull'arte tipografica. I primi libri stampati in ungherese furono traduzioni della Bibbia, la cui versione integrale, dovuta al pastore Gaspare Károlyi (1590), contribuì assai alla formazione della lingua letteraria. Le polemiche religiose e le prediche furono i principali generi letterarî della riforma, coltivati col maggior successo dal calvinista Pietro Méliusz Juhász (v. melio, App.), dall'unitariano Francesco Dávid e dall'instancabile e versatile Gaspare Heltai. Stefano Magyari, predicatore luterano, nella sua opera Sulle cause delle molte rovine nelle nazioni (1602) dichiarò recisamente, ma non provò, responsabile il cattolicismo delle tristi condizioni in cui si trovava la patria ungherese. La polemica, sull'esempio di Erasmo, ricorreva volentieri alla forma dialogica. Vennero anche rappresentate le dispute di Michele Sztáray, ex-francescano, che avrebbero potuto costituire il nucleo del teatro ungherese, se i calvinisti non avessero posto fine a tale moda. Il più importante tentativo drammatico dell'epoca: La commedia del tradimento di Melchiorre Balassa (1569), è un'efficace satira sociale e morale, in cui l'ignoto autore cerca di dimostrare come l'Ungheria fosse in decadenza per le molte discordie e le elezioni di principi stranieri. I cultori della poesia religiosa protestante amano far paralleli fra tale funesto destino e la rovina del popolo ebreo; le lamentazioni di Geremia echeggiano nei loro versi e perfino i traduttori dei Salmi intessono i lai del loro popolo al testo della Sacra Scrittura. Anche la poesia profana è guidata da tendenze politiche e morali. Fra i numerosi cantori vaganti il più famoso fu Sebastiano Tinódi (1510?-1556) che, accompagnandosi sul liuto, glorificò gli eroi delle guerre turche. Scarso è il suo vigore poetico, ma egli rimase così aderente alla realtà, che le sue opere, pubblicate nel 1554 col titolo di Cronica, hanno valore di fonte storica. Letture favorite di quest'epoca erano le cosiddette széphistóriák: racconti romanzeschi verseggiati, i cui soggetti erano per la maggior parte di origine umanistica. Una tardiva rinascenza ungherese a carattere popolare vibra in queste composizioni. Boccaccio, attraverso le traduzioni latine del Petrarca e del Beroaldo, diede la trama a Volter e Griselda (1539) di Paolo Istvánfi, alla Gismunda e Guisquardus (1574) di Giorgio Enyedi e al Titus e Gisippus (1577) di Gaspare Szegedi-Veres, nonché alla storia di Cimone andata smarrita. Un autore ignoto elaborò nel 1577 l'Eurialo e Lucrezia di Enea Silvio Piccolomini; altri attinsero alle Gesta Romanorum e ai libri popolari tedeschi e croati. Non è stato ancora possibile ritrovare la fonte (probabilmente italiana) del più bello di questi racconti, il Principe Argirus di Alberto Gyergyai.
Sorge in parte dalla tradizione lirica patriottico-religiosa, ed è in parte prodotto della cultura umanistica, la stupenda figura del poeta Valentino Balassa (1551-1594), il creatore della lirica artistica.
Nelle sue canzoni amorose risuona il canto popolare nobilitatosi sotto l'influsso dei modelli dotti d'altri popoli; i suoi canti militari esaltano la bellezza della gagliarda vita di coloro che combattevano coraggiosamente contro il nemico pagano; i suoi inni religiosi sono ispirati dal rimorso di un'anima peccatrice in lotta. I suoi imitatori furono molti; ma non raggiusero né la limpidezza della sua forma, né la sua profondità. Il precettore del Balassa, Pietro Bornemisza (1535-1585), il vescovo apostata Andrea Dudits (1533-1589) e l'amico di Pier Vettori, Giovanni Zsámboky (Sambucus, 1531-1584) rinomato emendatore ed editore di classici greci e latini, sono gli eruditi più fecondi dell'epoca.
La reazione cattolica raggiunse i suoi maggiori successi dal principio del sec. XVII in poi, quando la Casa d'Asburgo mise tutta la sua potenza in difesa della causa cattolica, aiutata dalle missioni dei gesuiti. La maggiore personalità della restaurazione cattolica ungherese fu un gesuita, poi cardinale, Pietro Pázmány (1570-1637).
Come scrittore, oratore sacro e statista spiegò un'attività fecondissima. La sua opera principale: Guida alla divina verità, fece decidere in favore del cattolicesimo le lotte per la fede. Per le sue prediche, raccolte sul finire della sua vita, viene a buon diritto considerato come uno dei maggiori rappresentanti dello stile barocco letterario.
Sulle tracce del Pázmány sorse una significativa letteratura religiosa. Nel 1626 uscì la traduzione completa della Bibbia cattolica, opera del gesuita Giorgio Káldi (1573-1634) iniziata e condotta a termine per il Vecchio Testamento dal confratello di lui il padre Stefano Aratore o Szanto (1541-1612). Nello stesso tempo s'iniziava la raccolta e il ravvivamento dei canti religiosi.
Fra gli scrittori protestanti di questo tempo emergono l'elegante traduttore dei Salmi, Alberto Szenci Molnár (1574-1634), che pubblicò anche una grammatica e un vocabolario latino-ungherese, e Giovanni Apáczai Csere (1625-1659), il primo divulgatore delle dottrine di Descartes. Gli autori delle grandi opere storiche sintetiche e delle raccolte di fonti (Stefano Brodarics, Nicola Oláh, Antonio Veranzio, Francesco Forgách, Nicola Istvánffy), continuarono a scrivere in latino, mentre gli storici e diaristi della Transilvania (Gregorio Pethő, Giovanni Szalárdi, il principe Giovanni Kemény, Nicola Bethlen), si servirono quasi esclusivamente della lingua nazionale.
E fu in ungherese che espresse le idee e i sentimenti della sua grande anima il conte Nicola Zrinyi (1620-1664), creatore della poesia epica in grande stile. Versato in tutta la cultura dei suoi tempi, egli, per il suo profondo sentimento cattolico, è soprattutto vicino alla letteratura e all'arte italiana.
Le sue liriche giovanili mostrano tracce di marinismo; la sua epopea eroica: L'assedio di Sziget (1651), nasce sotto l'influsso di Virgilio e del Tasso; mentre nelle sue opere strategiche e politiche (Re Mattia, Il rimedio contro il veleno turco) egli attinge al pensiero del Machiavelli e degli scrittori italiani della Ragion di Stato. Ma come resta originale nell'ardente prosa di questi lavori, così è assolutamente individuale nella sua epopea: il genio poetico dello Zrinyi dà agli elementi presi dalla tradizione epica e cronistica la sicurezza della struttura, i tratti caratteristici incisivi, effondendovi il pathos religioso della Controriforma e lo spirito di sacrificio che fa del suo eroe il simbolo di tutta la nazione travagliata.
Assai più vicino al gusto e alla cultura dei suoi lettori, fu Giorgio Gyöngyösi (1629-1705).
Nelle sue poesie narrative (Venere di Murány, La fenice risuscitata, ecc.) egli si presenta come un allievo dell'arte barocca. Amante della pompa descrittiva e della decorazione lirica, accumula immagini mitologiche, allegoriche, morali. I suoi versi sonori, dal ritmo vivace e dalle rime svariate, ebbero un duraturo influsso sui poeti del sec. XVIII.
Il dramma in quell'epoca fu coltivato soprattutto nelle scuole. Solo durante il '700, per opera degli scolopî e dei paolini, al latino del dramma scolastico gesuita subentrò l'ungherese. I più efficaci autori scolopî (Andrea Dugonics, Cristoforo Simai) segnano il passaggio al teatro profano, del quale ci sono rimasti solo due ricordi seicenteschi: un dramma su Lazzaro (1646) e una Comicotragedia (1693) di Giorgio Felvinczi, il quale subì l'influsso del teatro italiano allora di moda a Vienna.
Verso la fine del secolo, il paese liberato dal giogo turco con l'aiuto imperiale, venne trattato da Vienna come una provincia conquistata. Contro questa nuova oppressione, Francesco Rákóczi II, principe di Transilvania, raccolse quanto ancora rimaneva di forza nella nobiltà e nel popolo. La sua guerra per la libertà, che nel 1711 finì con la sconfitta dei kuruc, fu la principale ispiratrice della poesia popolare dell'epoca. Nascono ballate di ricca drammaticità: canti di proscritti lamentano le sofferenze degli eroi della libertà, canzoni militari incitano alla lotta. Con questa poesia la canzone popolare si arricchì di un contenuto nuovo e di forme nuove, che spesso trovano eco persino nei poeti di tempi recentissimi.
L'esaurimento fisico e spirituale della nazione nei decennî che seguirono all'esilio di Rákóczi non favorirono la vita letteraria.
L'unico prosatore della prima metà del sec. XVIII fu Clemente Mikes, il fedele compagno d'esilio di Rákóczi in Rodosto (Turchia), nelle cui Lettere le reminiscenze di letture francesi prevalgono all'immediatezza del racconto di vicende ed esperienze proprie. Nella lirica il gesuita Francesco Faludi (1704-1779) portò come voce nuova la facile grazia dello spirito rococò e la poliforme melodia delle arie metastasiane. Unico rappresentante, dell'aristocrazia nella poesia nazionale fu il barone Ladislao Amadé, anch'egli più artefice della forma che poeta vero e proprio. Gli studî retrospettivi, le sintesi del passato, occupano i migliori spiriti del tempo. David Czwittinger compilò nel 1711 il primo lessico biografico di scrittori ungheresi (Specimen Hungariae Literatae); Pietro Bod nel suo Magyar Athenas (1766) presentò la vita e l'attività di oltre 500 autori; Matteo Bél, eminente storico, fu l'iniziatore della scienza geografica ungherese (Notitia Hungariae). Gli Annales (1761-1770) di Giorgio Pray costituiscono un vero tesoro di rigorose ricerche storiche e di giudizî acuti. I 43 volumi della Historia Critica (1778-1817) di Stefano Katona divennero la più preziosa fonte per la storiografia del secolo successivo. Giovanni Sajnovics con la Demonstratio idioma Ungarorum et Lapponum idem esse (1770) pose le fondamenta della linguistica ungherese. Il conte Samuele Teleki eresse un magnifico monumento alla cultura neoumanistica della sua classe raccogliendo e pubblicando le opere di Janus Pannonius (1784).
Le prime tracce delle idee illuministiche francesi si riscontrano in Transilvania; in seguito però tali idee finirono per inondare il paese attraverso i magnati residenti a Vienna. Furono anzitutto le tendenze antireligiose dell'illuminismo a far sentire il loro influsso, ma ben presto si annunziò anche l'elemento sociale e altruista. L'illuminismo sollevò pure il problema della lingua: come reazione alle tendenze germanizzatrici di Vienna s'iniziò la rinascita della letteratura, e i suoi cultori uscirono quasi esclusivamente dalla piccola nobiltà, il "terzo stato" ungherese. Le guardie nobili ungheresi di Maria Teresa, circondate dalla cultura tedesca e francese di Vienna, si resero conto dell'inferiorità del loro paese e fecero voto di risvegliarlo. Giorgio Bessenyei (1747-1811) diede nel 1772 un nuovo impulso alla vita letteraria con la sua tragedia Agis. Sul modello di Voltaire, scrisse due altri drammi, un'epopea e un romanzo politico (Il viaggio di Tarimenes); tentò la commedia (Philosophus); imitò Pope nella poesia didattica e con una serie di scritti programmatici sulla politica culturale parlò alla coscienza dei patrioti. Dei suoi compagni, Alessandro Báróczy si diede a tradurre i romanzi francesi di moda, mentre Abramo Barcsay servì da modello per la redazione di lettere poetico-filosofiche. Gli ufficiali della guardia trovarono presto degl'imitatori: gli esempî e le idee francesi accomunarono l'attività del barone Lorenzo Orczy, del lirico Paolo Ányos e del favolista Giuseppe Péczeli. Contemporaneamente ad essi un gruppo di scrittori di cultura latina, David Baróti Szabó, Giuseppe Rajnis, Giuseppe Révai e Benedetto Virágh (1754-1830), sulle orme di Virgilio e di Orazio, introdussero la prosodia classica, che rese più concisa ed elastica la lingua poetica ungherese. Accanto a questi novatori, il tradizionalismo nazionale mantenne numerosi fedeli non solo fra il pubblico, ma anche fra gli scrittori, che seguono un punto di vista nettamente opposto ai nuovi indirizzi venuti da fuori, mostrandosi orgogliosi e soddisfatti delle loro peculiarità nazionali. Il romanzo Etelka (1788) di Andrea Dugonics dové il suo straordinario successo alle tendenze contrarie alle riforme di Giuseppe II, e al suo soggetto romantico-sentimentale. Il culto del passato nazionale e del popolo - fino allora negletto dalla letteratura - appare per la prima volta in questo romanzo. La novella in versi Il viaggio a Buda di un notaio provinciale, del generale conte Giuseppe Gvadányi, di origine italiana, ebbe anch'essa una grande popolarità a causa del suo sereno conservativismo.
Costituisce una svolta decisiva nella letteratura ungherese il sorgere di Francesco Kazinczy e dei suoi compagni. Le loro idee politiche avevano radice nell'illuminismo francese (per cui più d'uno di loro dovette subire severe condanne); il loro sentimentalismo è affine a quello tedesco dell'epoca e per esprimerlo essi creano una nuova lingua e una nuova forma: il verso metrico rimato.
Francesco Verseghy, Ladislao Szentjóbi Szabó, Giovanni Bacsányi e Gabriele Dayka nobilitarono soprattutto i mezzi d'espressione lirica, mentre Giuseppe Kármán col Diario di Fanny introdusse il romanzo psicologico di tipo wertheriano. Kármán aveva intendimenti non solo letterarî, ma anche civilizzatori, mentre Francesco Kazinczy (1759-1831) mirava anzitutto a salvare la lingua e la letteratura.
Era in prima linea uno stilista, e come tale diede la maggiore importanza alla forma, all'espressione elevata. Suo ideale era la semplicità e la dignità dello stile "impero". L'influenza immensa che egli esercitò sui suoi contemporanei scaturiva non tanto dalle sue opere, quanto piuttosto dalla sua individualità. Con le sue lettere (raccolte in 22 grossi volumi) incoraggiava e orientava i giovani scrittori; in esse conduceva le sue polemiche. Stava anche alla testa del movimento riformatore della lingua.
Era amico di Kazinczy, ma ricorreva di rado alle realizzazioni della riforma linguistica, il grande poeta Daniele Berszenyi (1776-1836). Le sue forme classiche lo collegano alla scuola di Benedetto Virágh; imitò Orazio, ma con anima romantica, esaltata, dinamica. I suoi soggetti furono l'amor di patria, l'eroismo, la religione, che rivive nel senso della caducità fatale delle cose. Alcune sue odi (Agli Ungheresi, Preghiera, Inverno che si approssima, ecc.) sono fra le più sublimi espressioni della poesia ungherese. Appunto per ciò non fu mai popolare. Soddisfaceva molto meglio invece le pretese del pubblico dei lettori la semplicità provinciale di Gvadányi e di Dugonics. Questa tendenza mantenne e sollevò a un livello molto più alto Alessandro Kisfaludy (1772-1844). L'apparizione della sua prima raccolta di versi: Gli amori di Himfy-Amore doloroso (1801), nata al tempo della sua prigionia in Provenza e sotto l'influsso del Canzoniere del Petrarca, costituì un avvenimento nazionale. Continuò a sviluppare le tradizioni nazionali con dignità di artista Michele Csokonai-Vitéz (1773-1805), il più colto tra i poeti di quest'epoca. Le sue impressionistiche canzoni d'amore si leggono con piacere anche oggi. La comicità spensierata, costituisce il pregio principale della sua epopea Dorotea, per la quale prese a modello il Rape of the Lock del Pope. In alcuni suoi lavori teatrali continuò il dramma scolastico del Settecento, arricchendolo però di tipi ungheresi.
La prima compagnia drammatica, composta di attori professionisti, si formò nel 1790. Per molto tempo nel suo repertorio non figurò alcun lavoro originale d'importanza, ma solo commedie tradotte e magiarizzate. Il primo drammaturgo ungherese che riportò successi serî e che divenne un'autorità nel campo letterario fu Carlo Kisfaludy (1788-1830).
Il suo primo dramma intitolato I Tatari in Ungheria (1819), si differenzia dai modelli tedeschi allora in voga solo per le sue tendenze nazionali; ma nelle sue opere posteriori - sotto l'influsso di Shakespeare - tese a uno stile sempre più alto, e la sua Irene è elevatissima non soltanto per l'espressione, ma anche per la concezione veramente tragica. Apprese dal Kotzebue la tecnica delle sue commedie, eccellenti nella struttura e ricche di effetti (I pretendenti, Delusioni), ma nei suoi personaggi seppe far rivivere la società ungherese dell'epoca.
Dopo questi modesti antecedenti, quasi come un miracolo apparve il Bano Bánk di Giuseppe Katona (1791-1830), la più perfetta tragedia ungherese che sia stata scritta sino ad oggi.
Una delle più nobili figure della letteratura ungherese, fu Francesco Kölcsey (1790-1838), che fece scuola anche come critico e oratore politico. La sua lirica rispecchia fedelmente il mondo romantico dell'epoca. La nazione accolse come una preghiera il suo Inno. I maggiori suoi contemporanei, Giuseppe Bajza, Francesco Toldy e Michele Vörösmarty, raccolti attorno all'Aurora, fondata da Carlo Kisfaludy, portarono a un livello europeo la critica, che presto levò contro la scuola di Kazinczy la nuova generazione letteraria. Essa ebbe una parte decisiva in tutta la vita spirituale del paese attraverso l'Accademia delle scienze, sorta nel 1830, la Società Kisfaludy, formatasi nel 1836, il Teatro Nazionale, inaugurato nel 1837, e attraverso la rivista intitolata Athenaeum. L'ideatore e in parte anche il realizzatore di queste riforme fu il conte Stefano Széchenyi (1791-1860). Le idee esposte nelle sue opere principali: Credito, Mondo, Stadium, per due decennî orientarono e fecero rigogliosamente rifiorire la vita culturale ed economica della nazione. L'Ungheria trovò un degno interprete delle sue speranze e delle sue angosce nella persona di Michele Vörösmarty (1800-1855). Bisogna aspettare fino a Giovanni Arany per trovare un poeta epico comparabile a lui (La rotta di Zalano, Due castelli vicini). Con i suoi drammi romantici, egli levò ad altezza poetica questo genere, e lo rese nazionale, specialmente con la commedia fiabesca Csongor e Tünde. Nella poesia amorosa e patriottica, il suo tono è solenne e intimo nello stesso tempo. La creazione della moderna lingua poetica ungherese è associata al suo nome.
Dei suoi numerosi seguaci, Gregorio Czuczor e Giovanni Garay si distinsero nell'epica, mentre l'influsso dei drammi di Vörösmarty si fa in particolar modo sentire nella tragedia del conte Ladislao Teleki, intitolata Il favorito. Più abili del Vörösmarty negli effetti scenici furono Sigismondo Czakó, Carlo Hugó, Carlo Obernyik; accanto ai drammi sociali di questi, apparve sul palcoscenico ungherese anche la commedia che, per ottenere effetti, ricorre agli avvenimenti di attualità (Ignazio Nagy, barone Giuseppe Eötvös).
Autore del primo romanzo sociale (Casa Bélteky, 1832) fu Andrea Fáy. Luigi Kuthy seguì il romanticismo francese nelle sue più audaci esagerazioni. Il novelliere Pietro Vajda è un discepolo di Rousseau e dei romantici tedeschi. Il barone Nicola Jósika (1794-1865), con le sue opere: Abafi Zólyomi, L'ultimo Báthory, I Boemi in Ungheria, crea il romanzo storico ungherese. In lui si riscontrano molti dei pregi ma anche tutti i difetti di W. Scott. Il barone Giuseppe Eötvös (1813-1871) serve le idee della rifoma nazionale non solo con opere scientifiche (L'influsso delle idee dominanti del secolo XIX sullo stato) e con la sua nobile lirica, ma anche con i romanzi a tendenze sociali e politiche (Il Certosino, Il notaio del villaggio, L'Ungheria nel 1514). Il terzo e il più significativo romanziere di questi decennî, il barone Sigismondo Kemény (1814-75), è già un seguace del realismo letterario. Nessuno, forse, fino ad oggi è riuscito a superarlo nell'analisi psicologica. I suoi romanzi storici: Paolo Gyulai, Fanatici, Tempi duri, attraverso i loro eroi tragici, rivelano con straordinaria lucidità l'anima della Transilvania cinquecentesca.
Gl'ideali estetici del romanticismo nazionale compenetrano l'attività storico-letteraria di Francesco Toldy (1805-1875).
Dal punto di vista politico, questa nuova scuola ha le sue radici nelle dottrine del liberalismo, di cui fu esponente Luigi Kossuth (1802-1894), che, con autentici capolavori d'oratoria, scrisse il suo nome nella storia della letteratura. Il diffondersi della democrazia richiamò l'attenzione di tutti, non solo sulle sorti materiali del popolo, ma anche sulla sua arte. S'iniziano le raccolte di canzoni popolari, di favole e di leggende (Giovanni Erdélyi, Giovanni Kriza) e, di fronte alla freschezza e semplicità della ricca poesia popolare ungherese, sempre più manifesto diventa il marasma del romanticismo. La lirica soprattutto aveva bisogno di nuove linfe vitali e le ritrovò nella poesia popolare. Alessandro Petőfi (1823-1849) e Giovanni Arany (1817-1882) fecero dominare per lunghi decennî questo nuovo orientamento.
Scaturiti ambedue dal popolo, schiusero il mondo straordinariamente vario dell'anima e della vita ungherese: ogni loro creazione fa fedelmente risentire la loro individualità nazionale. Lo stile di Petőfi, ispirato dai canti popolari, è caratterizzato dalla franchezza e da un'intima verità. Anche le forme, il ritmo e la drammaticità delle sue composizioni sono d'origine popolare. Arany pure non ricorre a modelli stranieri: piglia le mosse dalla poesia popolare, vigorosamente trasfondendo nei suoi versi la ricchezza della lingua del popolo e le immagini della terra ungherese. È una natura squisitamente sensibile; non impulsiva e impressionista come Petőfi, ma, contemplativa e serena; possiede un senso sviluppato della realtà e si sforza di essere obiettivo. Nella sua lirica predomina la riflessione; dopo la guerra d'indipendenza, le sue poesie patriottiche, insieme con le elegie allegoriche di Michele Tompa (1817-1868), servirono a consolare la nazione.
Come Petőfi e Arany avevano rinnovato la poesia, così Maurizio Jókai (1825-1904), sotto lo stesso influsso popolare, creava una lingua più semplice e più fresca per la prosa.
Narratore di straordinaria facilità (scrisse un centinaio di romanzi) riveste la rappresentazione ora col fascino del suo sentimentalismo, ora con le idee spiritose di un umorista che trova ovunque motivi di sorridere, senza trascendere al cinismo.
Edoardo Szigligeti (1814-1878) introdusse l'elemento popolare nel dramma, ma piuttosto nei suoi aspetti esteriori: musica, balli e tipi campagnoli - iniziando così un genere letterario molto vicino all'operetta.
Eccellente conoscitore del palcoscenico, ha il senso del comico e della satira sociale. Mentre i seguaci di Szigligeti (Giuseppe Szigeti, Edoardo Tóth, Francesco Csepreghy) talvolta anche lo superarono, lo splendore di Jókai mise in ombra gli altri romanzieri dell'epoca (Vas Gereben, Carlo Szathmáry, Alberto Pálffy, Luigi Degré, Ladislao Beöthy, Carlo Vadnay) e anche la scuola di Petőfi e Arany produsse solo epigoni. La parte migliore dell'attività di uno di questi, Carlo Szász (1829-1905), consiste nella traduzione di classici stranieri: si deve a lui anche la prima completa versione ungherese della Divina Commedia. La poesia malinconica e mite di Giuseppe Lévay, subì anche nelle idee l'influenza di Michele Tompa; Colomanno Thaly (1839-1909), eminente storiografo dei tempi di Rákóczi, fu il primo a raccogliere i canti dei Kuruc e scrisse le sue belle poesie nello spirito di questi e in una lingua arcaizzante; il romanzo in versi L'eroe della fata morgana, di Ladislao Arany, figlio di Giovanni, è il frutto più prezioso di questo genere letterario fiorito in Ungheria sotto l'influsso di Byron e di Puškin; Paolo Gyulai (1825-1909) lasciò un'impronta nella vita letteraria della seconda metà dell'Ottocento non con le sue poesie, ma con la sua attività di critico e di storico della letteratura.
Solo due scrittori battevano strade particolari: il drammaturgo Emerico Madách (1823-1864) e il lirico pessimista Giovanni Vajda (1827-1897). Il primo divenne famoso in Europa per il suo possente poema drammatico La tragedia dell'uomo; il secondo dedicò buona parte della sua poesia ai problemi sociali deplorevolmente trascurati nei decennî apparentemente felici, che seguirono al compromesso con gli Asburgo del 1867, realizzato per merito di Francesco Deák. Il crescente benessere della classe borghese, il rapido sviluppo del commercio, dell'industria, della cultura, produssero una certa atmosfera ottimistica, in cui massima virtù patriottica era la glorificazione dei risultati conseguiti, l'incensamento della grandezza nazionale, il coltivare le tradizioni del passato. Salvo poche eccezioni, i poeti trovavano la loro ispirazione in un patriottismo nobile, ma soddisfatto di sé e infecondo; la loro arte - sulle orme di Giovanni Arany - non è priva di una certa dignità, che però spesso si smarrisce in un'enfasi retorica. Alessandro Endrődi, Michele Szabolcska, Andrea Kozma, Nicola Bárd e soprattutto Árpád Zempléni, Giulio Vargha e Alessandro Sajó, vivificarono con gli accenti più personali questo coro solenne della lirica. In questi anni, molte buone traduzioni fecero da mediatrici all'influenza di Byron, Heine, de Musset e Leopardi. Così, in parte, si può spiegare la poesia pessimistica di Giulio Reviczky (1855-89), che e nella forma e nel contenuto si mostra indipendente dalla scuola dominante. Un fenomeno ancor più singolare è costituito da Eugenio Komjáthy (1858-1895), nel quale la capacità espressiva non sempre è proporzionata alle estasi di un'anima ardente di passione mistica.
Non furono gli scrittori sensibili per i problemi sociali (Luigi Tolnay, Arnaldo Vértesy) a dare il cambio alla popolarità di Jókai, ma Colomanno Mikszáth (1847-1910).
Nei romanzi e nelle novelle del Mikszáth vive ancora la tradizione del romanticismo, la semplice rappresentazione del classicismo ungherese e la passione per gli aneddoti di Jókai. In pari tempo però il Mikszáth rappresenta anche la grande fioritura europea del realismo e quella concezione positivista del mondo che ne costituisce la base spirituale.
L'erede della popolarità del Mikszáth, Francesco Herczeg (nato nel 1863), glorificò nei suoi primi romanzi gl'ideali sorpassati della declinante società aristocratica. Più tardi disegnò i tipi e i problemi della vita ungherese che si stava trasformando dalle radici. La sua esposizione non ha un sapore prettamente magiaro e se, ad onta della sua freddezza, riesce ad affascinare, questo è dovuto alla sua disciplina, alla forza della composizione, alla chiarezza e precisione dello stile. La sua arte culmina nei romanzi storici: Pagani, La porta della vita, Sette Svevi. Sotto molti riguardi sta perfettamente in antitesi con lui Géza Gárdonyi (1863-1922), il poeta del villaggio ungherese. È un'anima chiusa, sensibile, piena di tenera compassione per i personaggi che crea. Sa disegnare virtuosamente la vita ungherese attuale (Il mio villaggio, Il vecchio rispettabile); ma ha anche dipinto, in più di un affresco, il passato della sua nazione (L'uomo invisibile, Gli schiavi di Dio, Le stelle di Eger). Gárdonyi e Herczeg occupano un posto importante anche nella letteratura teatrale.
Mentre il primo col Sogno di Natale, con Annuska e con Il vino libera il dramma popolare dagli elementi operettistici e dalle false idealizzazioni della vita contadinesca, il secondo otteneva meritati successi prima (con Il brigadiere Ocskay) come continuatore delle nuove tendenze romantiche iniziatesi verso il 1870 (Eugenio Rákosi, Luigi Dóczi e Luigi Bartók) e poi con diversi drammi storici e sociali (La figlia del nababbo di Dolova, ecc.). Donò al suo paese anche la migliore tragedia moderna: Bisanzio, e schiuse la via dell'estero alla nuova commedia ungherese (Il castello dei sogni, La volpe azzurra). Un rappresentante, ancor più festeggiato del Herczeg, di questo genere di commedia spiritosa, ricca di problemi moderni, è Ferenc Molnár (nato nel 1878), uno dei maggiori virtuosi della tecnica teatrale.
Il lento, graduale scomparire dello spirito nazionale, iniziatosi nell'ultimo decennio del sec. XIX, si spiega in parte con le sempre crescenti influenze estere e in parte con l'attività di scrittori di origine straniera. Uno spirito fin de siècle, d'importazione francese, s'impadronì della maggior parte della giovane generazione.
La più spiccata individualità letteraria di tale indirizzo fu il critico e novelliere Zoltán Ambrus (1861-1932), mentre Alessandro Bródy (1863-1924) e Tommaso Kóbor (nato nel 1867) sono i primi rappresentanti del naturalismo nel romanzo ungherese.
Eugenio Heltai (nato nel 1871) introdusse elementi naturalistici nelle sue facili poesie, che si muovono sui margini della prosa. Giulio Krudy (1878-1933) e Desiderio Szomory (nato nel 1869) rappresentano meglio di molti altri il frammentarismo della prosa impressionista. Questi scrittori erano le colonne della rivista A Hét (La Settimana), sorta nel 1890, e che in seguito divenne l'organo delle tendenze più estreme e più svariate, sebbene il suo redattore Giuseppe Kiss (1843-1921) avesse importato solo la mentalità dei suoi antenati ebrei con le sue ballate e liriche, in cui si sente peraltro l'influsso di Arany e di Heine. A cominciare dal 1908, A Hét andò perdendo rapidamente d'importanza, che passò invece a un'altra rivista, il Nyugat (Occidente). Il programma antitradizionale di questo periodico fu fonte di molte esagerazioni e di una certa ostilità allo spirito nazionale; spinse però al successo alcuni dei maggiori e più profondi ingegni dell'Ungheria, fra cui, in prima linea, Andrea Ady (1877-1919). L'apparire di Ady (1906) mutò di colpo in questione nazionale e persino politica la questione letteraria: la presenza del genio costrinse tutti a prendere partito. I corifei del convenzionalismo videro in lui un traditore della patria, un corruttore della lingua, un apostata immorale; la gioventù invece fece di lui il proprio idolo, mentre i radicali e i socialisti del Nyugat scrivevano il suo nome sulle loro bandiere rivoluzionarie. Il clamore della battaglia suscitata dalla lirica di Ady, stupendamente nuova e audace nella forma e nel contenuto, si acquietò solo dopo la morte del poeta. Prevalse allora la comprensione che Ady era stato non solo un fustigatore spietato della sua razza, ma anche il più fervido innamorato di essa; che, malgrado ogni suo rivoluzionarismo, e nella lingua e nello spirito, si era dimostrato più ungherese di tutti i suoi contemporanei, anzi dei suoi stessi precursori.
Solo pochi spiriti originali riuscirono a sottrarsi all'influenza fascinatrice di Ady. Fra essi, oltre a tre lirici delicati: Desiderio Kosztolányi (1885-1936), Árpád Tóth (1886-1928) e Giulio Juhász (nato nel 1883), il più notevole è Michele Babits (nato nel 1883), moderno poeta dotto, solitario innamorato delle eterne verità e delle bellezze eterne, maestro impeccabile della forma, che ha donato al suo paese la più perfetta traduzione ungherese della Divina Commedia; che con i suoi saggi ha rivelato molte bellezze ignorate della vecchia letteratura ungherese; che infine nei romanzi Il figlio di Virgilio Timár e I figli della morte, narrando la storia della sua giovinezza, ha avuto accenti vibranti di lirico dolore. Come redattore del Nyugat egli è uno dei più autorevoli capi dell'odierna vita letteraria.
Il narratore rappresentativo della generazione di Ady, Sigismondo Móricz (nato nel 1879), arricchì di robusti colori naturalistici l'immagine letteraria del contadino ungherese (Oro greggio, In capo al mondo), mentre ne) suoi recenti romanzi storici ha dato nuova vita al passato transilvano, con una forza d'intuizione che supera persino quella di Sigismondo Kemény (Giardino delle fate, Il gran principe). Sulla gioventù del decennio che seguì la guerra mondiale, ebbe un grande influsso Desiderio Szabó (nato nel 1879), che nei suoi romanzi (Villaggio travolto, Aiuto) solleva ad altezze quasi mitiche il contadino ungherese.
La guerra mondiale, la prigionia, la rivoluzione, servirono dapprima solo di temi alla ricca letteratura di guerra nella quale si staccano due autentici capolavori: I due prigionieri di Lájos Zilahy e Il chiostro nero di Aladár Kuncz. Ma poi presero sopravvento gli effetti spirituali della guerra per cui la nazione abbattuta dalla catastrofe si ritrova e si unisce nella lotta, nella fede e nel lavoro per la risurrezione. Questo nazionalismo unito a un'umanità profonda che si manifesta non programmaticamente, ma quale fonte più intima dell'ispirazione artistica, costituisce il tono fondamentale dell'odierna letteratura ungherese.
Esso risuona nella lira cattolica di Alessandro Sik (nato nel 1889) e di Ladilsao Mécs, nei versi dei giovani poeti che sorgono sempre più numerosi dal fecondo suolo del villaggio (p. es., Giulio Illyés, Giuseppe Erdélyi), e nelle opere migliori dei romanzieri (Francesco Móra, Cecilia Tormay, Federico Karinthy, Rodolfo Márai, Giovanni Kodolányi, Nicola Surányi, Zsolt Harsányi). I più insigni rappresentanti letterarî degli Ungheresi attualmente sottoposti alla dominazione straniera sono: Alessandro Reményik, Luigi Áprilyi, Giovanni Bartalis, Irene Gulácsy, Giuseppe Nyirő, Aronne Tamási, Maria Berde.
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Opere bio-bibliografiche: J. Szinnyei, Magyar írók élete és munkái (Vite e opere di scrittori ungheresi), voll. 14, Budapest 1891-1914; C. Szabó e Á. Hellebrant, Régi Magyar Könyvtár (Biblioteca antica ungh.), voll. 4, ivi 1879-1885 e 1896-1898. (Pubblicazioni di scrittori ungh. fino al 1711); G. Petrik, Magyarország bibliográfiája (Bibliogr. dell'Ungheria), voll. 4, ivi 1888-97 (dal 1712 fino al 1860); id., Magyar könyvészet (Bibliogr. ungh.), ivi 1885-1929; A. Kiszlingstein, Magyar könyvészet (Bibliogr. ungh.), ivi 1890 (per gli anni 1860-1910).
Riviste storiche della lett. ungh.: Budapesti Szemle (dal 1840); Akadémiai Értesitő (dal 1841); A Kisfaludy Társaság Évlapjai (dal 1841); Magyar Könyvszemle (dal 1876); Figyelö (dal 1877 al 1889); Egyetemes Philol. Közlöny (dal 1877); Irodalomtörténeti Közlemények (dal 1891); Irodalomtörténet (dal 1912).
Arte.
Gli Ungheresi trovarono nel bacino danubiano una cultura artistica già notevole portatavi dagli Unni, dagli Avari, dagli Sciti, dai Longobardi. Gli stessi Ungheresi portarono seco un'arte industriale di stampo perso-sassanide, di cui si ritrovarono ornati di metallo e oreficerie nelle tombe. Ma la maggiore eredità artistica proveniva dalla Pannonia e dalla Dacia romana. Santo Stefano, primo re degli Ungheresi, immettendo il suo popolo nella fede e nella cultura romano-cristiana, determinò anche l'indirizzo dell'arte ungherese. L'Ungheria seguì da quel tempo i successivi stili dell'arte occidentale, adattandoli al proprio gusto, alle proprie esigenze spirituali e materiali e diventandone più d'una volta l'intermediaria per i paesi vicini. Del resto, il cristianesimo s'era già irradiato specialmente nella Pannonia prima dell'arrivo degli Ungheresi, e ne fanno fede molti monumenti artistici, come i cubiculi affrescati di Pécs (Cinquechiese) del sec. IV.
Lo stesso Santo Stefano fece erigere una serie di chiese di cui rimangono tuttora tracce a Székesfehérvár (Alba Regia) e in Transilvania a Gyulafehérvár (Alba Iulia).
Nell'età romanica, benché pure alcuni motivi barbarici siano passati nel repertorio decorativo, s'impose fortemente, e specialmente nella scultura, l'influsso dell'arte classica. Nell'antica Pannonia si formò sotto impulsi classici, lombardi e della Francia meridionale, un'architettura speciale, caratterizzata da pianta lombarda, da compatte masse, da portali ad archivolti decorati. Suo centro fu l'antica capitale di Esztergom (Strigonia), dove il re Béla III fece fare negli ultimi decennî del sec. XI il grandioso portale della cattedrale fondata da Santo Stefano nel 1010, e riabbellire la reggia costruendovi la cappella palatina. L'architettura romanica della capitale influì largamente in tutto il paese e specialmente nella parte transdanubiana. Il suo stile si svolge nelle chiese abbaziali di Sopronhorpács, Türje, Lébény, fino a quella sontuosa di Ják (1252) esercitando influssi anche nella Bassa Austria e a Vienna ("Riesentor" della cattedrale di Santo Stefano).
L'architettura gotica venne trapiantata in Ungheria sul principio del sec. XIII direttamente dalla Francia, in gran parte per opera dei monaci cisterciensi e premonstratensi. Si sa anche che l'architetto francese Villard de Honnecourt si trattenne verso la metà del sec. XIII in Ungheria. La più bella chiesa gotica, la cattedrale di S. Elisabetta di Kassa (Košice) fu eretta secondo la pianta della chiesa di Saint-Yved de Braisne; ma la sua costruzione, che durò fino al sec. XV, è del tutto originale, al pari di quella di altre chiese gotiche, come la chiesa di Zsámbék (sec. XIII) con delle torri ancora romaniche, la chiesa della B. M. Vergine, detta anche del re Mattia a Buda (sec. XIII), quella dei benedettini di Sopron (sec. XIV), la cosiddetta "Chiesa nera" di Brassó (Braşov; sec. XV). Di tipo francese è il castello gotico di Vajdahunyad (Hunedoara, in Transilvania) fatto erigere, nella prima metà del sec. XV, da Giovanni di Hunyad, padre del re Mattia Corvino. Sono da rilevare le chiese fortificate della Transilvania (Buza, Fogaras [Făgăraş], Muzsna [Mojna], ecc.), dai secoli XIV-XVI, di costruzione gotica, in gran parte nelle regioni dei Sassoni; mentre in quelle ungheresi predominano i tipi occidentali e, in quelle romene, chiese di legno, su pianta bizantino-centrale.
Nell'architettura gotica s'infiltrarono anche elementi italiani (cappella di S. Michele, Kassa, sec. XIII, castello di Tata) che più ancora si palesano nella pittura del Trecento. La penetrazione italiana venne favorita dagli Angioini di Napoli regnanti allora in Ungheria. La cappella palatina di Esztergom fu affrescata alla fine del sec. XIV dal fiorentino Niccolò di Tommaso. Altri affreschi italianeggianti troviamo a Veszprém nella cappella Gisella (sec. XIII), a Százd (Sazdice), a Gerény (Hořany), a Lőcse (Levoča), a Szepesdaróc (Dravce), ecc. (sec. XIV); in alcuni casi l'elemento italiano arrivò attraverso la miniatura. Notiamo ancora della stessa epoca gli affreschi di Giovanni Aquila (Velemér, Tótlak, Turnicse [Turnisšče]). Sono pure del Trecento le prime pitture su tavola (Madonna di Mariazell in Stiria; dittico di Bát [Batovce], Esztergom, Museo Cristiano). Nel Quattrocento si diffusero le grandi pale d'altare, in ricca cornice architettonica gotica, con intagli policromi nella parte centrale e con sportelli dipinti. La cattedrale di Nagyvárad (Oradea Mare) ne aveva 27 e quella di Kassa 18. Kassa fu il centro più importante di questa produzione, di cui l'esempio più magnifico è l'altare maggiore della sua cattedrale (1474). Artisti di Kassa lavorarono anche in Austria, a Vienna, e in Polonia. Il primo pittore di tali altari, conosciuto per il nome e per le opere, è Tommaso di Kolozsvár (Cluj), il quale nelle sue tavole dipinte nel 1427 (Esztergom, Museo Cristiano) unisce le tendenze della nuova pittura realistica di Gentile da Fabriano e della tarda pittura gotica tedesca. Il maestro fabrianese aveva avuto tra i garzoni anche un ungherese, un certo Michele, diverso da quel Michele Pannonio che visse e lavorò a Ferrara nella seconda metà del secolo XV, di cui l'unica opera firmata si trova nel museo di Budapest. Lo stile della pittura ungherese del Quattrocento e del Cinquecento si è formato sotto l'impulso di queste due correnti, con una prevalenza sempre maggiore dell'influsso italiano, come attestano, fra tante altre opere, la Visitazione di Csegöld (Museo Cristiano di Esztergom, circa 1460), l'altare della Visitazione della cattedrale di Kassa (1516), con forti accenti umbri. Un rappresentante significativo del nuovo realismo verso il 1440-50 è il secondo maestro di Csegöld (Museo Cristiano di Esztergom) di cui troviamo opere anche nelle gallerie di Vienna e di Basilea. La pittura ungherese di questo periodo arriva al suo apice col maestro M. S. la cui grande pala d'altare del 1506 (Esztergom Museo Cristiano; Budapest, Museo di belle arti; Hontszentantal, [Sväty Antol], chiesa parrocchiale) si avvicina nello stile alla cosiddetta scuola del Danubio.
Nella scultura il nuovo realismo spunta ben presto con l'opera dei fratelli Giorgio e Martino di Kolozsvár (statua equestre di S. Giorgio a Praga, bronzo del 1373). La loro arte è uscita dall'oreficeria ungherese, ricca e originale di motivi e di tecniche. L'oreficeria antica ungherese ebbe molti contatti con quella italiana, in conseguenza del fatto che molti orefici ungheresi lavorarono, specialmente nel Tre- e nel Quattrocento, in Italia (Giovanni delle Bombarde e Giovanni di Giacomo a Siena), e viceversa orafi italiani (Pietro e Niccolò Gallico, sec. XIV) operarono in Ungheria. La tecnica più caratteristica dell'oreficeria ungherese di quell'epoca, il cosiddetto smalto filigranato, è pure d'origine italiana, e spentasi presto in Italia, rivisse, trasformata con splendida fioritura, durante un secolo e mezzo in Ungheria (reliquiario della testa di San Ladislao, verso il 1400; il calice di Benedetto Suky, circa 1450; un reliquiario del duomo di Rieti, già coppa di Mattia Corvino).
Lo smalto filigranato con le sue forme ungheresi è passato anche nella Polonia (tesoro della chiesa di S. Maria a Cracovia, ecc.). É lavoro di un orefice ungherese, eseguito in Italia, la parte superiore (prima metà del sec. XIV) della più splendida opera di oreficeria ungherese, il Calvario di Mattia Corvino (tesoro di Esztergom), che sta molto vicino al reliquiario di Montalto; mentre la base è opera italiana, eseguita circa il 1460-1470 per il re Mattia Corvino.
La scultura in legno del sec. XV sta in rapporto con quella dell'Austria, della Polonia e della Germania ed ebbe parte importante nella formazione della scultura dell'Europa. Giacomo di Kassa (Košice) lavorò verso la metà del secolo anche a Vienna e in Germania, e influì in modo decisivo sulle sorti della scultura tedesc. Stefano di Kassa fu il più grande scultore decoratore della seconda metà del sec. XV. Il maestro Paolo, autore dell'altar maggiore di Lőcse (Levoča), congiunse la scultura ungherese con quella polacca, subendo l'influsso di Veit Stoss. La scultura in pietra si orientò piuttosto verso il nuovo gusto del Rinascimento, che l'Ungheria accolse precedendo gli altri paesi.
L'introduzione dell'arte e della civiltà nuova del Rinascimento in Ungheria fu merito del re Mattia Corvino e dei grandi prelati, soprattutto dell'arcivescovo di Esztergom, i quali chiamarono artisti italiani e importarono opere italiane. Tra gli artisti venuti a Buda, troviamo Benedetto da Maiano, Aristotele Fioravanti, Chimenti Camicia, Baccio Cellini, Francesco Italo; e lavorarono per Mattia il Verrocchio, Filippino Lippi, Cristoforo Romano, i miniatori Attavante e Gherardo, ecc. Il Rinascimento ungherese nella sua prima fase fu arte aulica e si diffuse nelle varie città del paese, solo nel Cinquecento, dopo la morte del grande re, amante e cultore delle arti. Il re Mattia ricostruì secondo il nuovo gusto la sua reggia a Buda di cui, dopo la distruzione ad opera dei Turchi, non sono rimasti che pochi ma bei frammenti. I primati di Esztergom fecero pure ridecorare il loro palazzo. Filippino Lippi vi disegnò un cartone di un grande affresco. Francesco Francia eseguì per il primate Ippolito d'Este, nipote di Mattia Corvino, una splendida croce, ornata di rilievi e di squisiti nielli, che poi divenne nell'uso la croce apostolica del regno. Filippino Lippi e il Pinturicchio disegnarono figure e decorazioni per pianete. Il cardinale Tommaso Bakócz nel 1507 aggiunse alla cattedrale di Esztergom una cappella in puro stile del Rinascimento italiano, costruita e ornata da artisti italiani in bel marmo rosso del luogo, che fu la materia preferita dal Rinascimento ungherese e fu esportato anche nella Polonia, dove l'arte nuova si diffuse in gran parte per il tramite dell'Ungheria. L'altare in marmo bianco della cappella è lavoro del fiesolano Andrea Ferrucci del 1519. In una seconda lunga fase lo stile del Rinascimento in Ungheria venne trasformato dai maestri locali. Ne sono esempî, nella scultura, la Madonna Báthory (Museo nazionale, 1526), nella pittura, il già menzionato altare dell'Annunciazione di Kassa e la pala d'altare di Giovanni Babocsay nello stesso luogo. Nell'architettura si formò, specialmente nelle regioni settentrionali, nei comitati Szepes (Spiš) e Sáros (Sariš), sotto l'ispirazione dell'architettura di Venezia (Procuratie Vecchie, ecc.) e di Verona (palazzo vescovile), in parte in contatto con la parallela evoluzione dell'architettura polacca, uno stile caratterizzato dalla costruzione massiccia e chiusa e da alte merlature ornate non di rado di graffiti (Bethlenfalva [Betlanovce], Frics [Fričovce], Lőcse [Levoča], Késmárk [Kežmarok], Eperes [Prešov]). Le forme dell'architettura del Rinascimento ungherese si protrassero fino alla fine del Settecento: e lo stesso avvenne nella Transilvania, dove fin dal principio del secolo XVI lavorarono, specialmente a Kolozsvár, molti artisti italiani, come Giovanni Fiorentino, Domenico da Bologna, Antonio Castello, Agostino Serena e dove, in contatto con l'arte popolare, si formò nella decorazione uno stile locale, detto "rinascimento fiorito".
La dominazione turca, che si estese su due terzi dell'Ungheria dal 1526 fino al 1686, arrestò in gran parte l'evoluzione artistica specialmente nei territorî centrali, compresa la capitale Buda. Le regioni occidentalí e settentrionali sotto la dinastia degli Asburgo rimasero in stretta relazione con l'arte austriaca e, attraverso questa, ancora con quella italiana, come fonte del barocco nell'Europa centrale. Artisti italiani seguitarono a immigrare in Ungheria, in parte direttamente dall'Italia, e particolarmente quelli che ricostruirono secondo i nuovi modi i castelli, come Francesco di Spazio a Győr (Giavarino), Niccolò da Milano (1526), Pietro Ferabosco (1568), Ottavio Baldigara (1568) a Eger, Alessandro Vitelli, Filippo Tornielli (1527), Gabrio Serbelloni, Paolo della Mirandola, Cesare Baldigara (secolo XVII) ad Alba Iulia (Gyulafehérvár) e molti altri ancora, i quali, dopo la cacciata del turco, riedificarono le chiese e i palazzi distrutti. Carlo Martino Carlone eseguì il disegno del palazzo Eszterházy a Kismarton (Eisenstadt), costruito poi da Sebastiano Bartoletti e da Antonio Carlone (1663-70). Giambattista Carlone diresse dal 1635 al 1646 la fabbrica del castello di Pozsony (Bratislava). G. B. Carlone il Giovane fu il costruttore del collegio dei gesuiti a Eger (1717), Carlo Justi costruì nel 1790 a Kolozsvár (Cluj) il palazzo Toldolaghy. Giambattista Ricca fu l'architetto della cattedrale, del palazzo vescovile e del seminario di Nagyvárad (Oradea Mare). I Bibbiena lavorarono come decoratori a Pozsony. Altri architetti affermatisi già a Vienna, come Giovanni Luca Hildebrandt e Melchiore Hefele lavorarono in Ungheria. Nelle regioni di nord-est, che per qualche tempo furono sotto il dominio del principe Francesco II Rákóczy, l'architettura barocca è meno sontuosa, meno capricciosa e sovraccarica che nelle regioni vicine all'Austria, dove non mancò di esercitare il suo influsso la più pretensiosa architettura della corte di Vienna. Sotto i Carpazî e fino a Kassa (Košice; chiesa già dei gesuiti e dopo dei premonstratensi, 1671-1682), antica residenza del principato di Rákóczy, nelle attenuate forme del barocco si manifesta la lunga persistenza del Rinascimento locale; e in seguito a questa vi si presentò presto e specialmente a Kassa il neoclassicismo. La grandiosa architettura barocca viennese si trasformò e si semplificò in varie altre città, a Budapest, a Győr, a Székesfehérvár, a Eger, ecc.
Rifiorì la grande decorazione murale, di cui furono i più notevoli maestri Maulbertsch, Dorfmeister, Troger, Bergl, epigoni del Tiepolo e della tarda pittura veneziana. Austriaci di nascita, operarono largamente in Ungheria. Anche alcuni pittori italiani, come il Tencalla e Antonio Bibbiena, lavorarono in questa tarda fase del barocco, che fu la più ricca di opere per l'Ungheria. Tra gli scultori è da ricordare il viennese Raffaello Giorgio Donner, allievo del Giuliani. Mentre gli artisti austriaci, protetti dalla corte di Vienna, trovarono fortuna in Ungheria, alcuni artisti ungheresi, Giovanni Spillenberger jun. (1628-1679), Giacomo Bogdány (1660-1724), Giovanni Kupeczky (1667-1740), Adamo Mányoky (1673-1757), per un tempo pittore di corte di Francesco II Rákóczy, lavoravano all'estero, a Vienna, nella Polonia, in Germania e in Inghilterra.
L'influsso viennese continuò nella prima metà del sec. XIX, ma si fecero sempre più frequenti i tradizionali nessi con l'arte italiana. Il più notevole architetto del neoclassicismo ungherese, Michele Pollak, viennese di nascita, ma ungherese per adozione e per la sua opera (1773-1885; Museo nazionale, Accademia militare Ludoviceum, palazzi Szapáry, ora Zichy, Festetich, ecc., a Budapest), si dirama insieme con il suo fratello maggiore, Leopoldo Pollak, architetto milanese, dall'arte del Piermarini; e si risente in lui anche lo studio delle ville palladiane del Veneto. Pest, assecondata dal rifiorire della vita nazionale e letteraria, divenne sempre più il centro dell'attività artistica. Accanto al Pollak, Giuseppe Hild (1789-1867) e il romantico Federico Feszl (1821-1884) presero parte al sempre crescente ampliarsi della capitale. Di Michele Péchy (1775-1819) è la chiesa calvinista di Debrecen, di Mattia Zitterbarth (1803-1867) la prefettura e il palazzo Sándor, ora presidenza del consiglio a Budapest, altre costruzioni caratteristiche del neoclassicismo ungherese.
Nel corso del sec. XIX i più notevoli rappresentanti dell'architettura di stile storico furono Nicola Ybl (1814-1891), un fine interprete delle forme palladiane (Opera Reale di Budapest); Federico Schulek (1841-1919; Bastione dei Pescatori a Budapest) e Emerico Steindl (1839-1902; Parlamento di Budapest), evocatori dell'architettura romanica e gotica; Luigi Hauszmann, ricostruttore del Palazzo Reale di Buda (neobarocco). La scultura dell'Ottocento esordì con l'opera di Steiano Ferenczy (1792-1856), il quale a Roma fu allievo e aiuto del Thorvaldsen. Vero temperamento magiaro nelle sue figure popolari e romantiche fu Nicola Izsó (1831-1875). In quest'epoca emigrò dall'Italia in Ungheria lo scultote veneziano Marco Casagrande (1840-1880), che lasciò molte opere a Esztergom, Budapest e a Eger, dove morì. Nella seconda metà del secolo furono i più operosi e più apprezzati scultori, autori di molte statue pubbliche, Luigi Stróbl (1856-1926; statue di S. Stefano e del poeta Giovanni Arany, a Budapest) e Giorgio Zala (1858; monumento dei martiri nazionali a Arad, in Transilvania, monumento degli Honvéd del 1848-49 e il monumento millenario a Budapest). Il più grande talento, nel suo potente stile scultorio, fu Giovanni Fadrusz (1858-1903), morto giovane, autore della statua di Mattia Corvino a Kolozsvár (Cluj) e di Maria Teresa a Pozsony (Bratislava). Fra i viventi seguono le correnti ottocentesche i classicheggianti Giovanni Pásztov e Stefano Pásztov, l'espressivo Ede Felcs e il robusto Francesco Sidló.
La pittura nella prima metà del secolo non riuscì a rompere i suoi nessi con Vienna e con la sua accademia. Fu allievo dell'accademia viennese il romantico Giuseppe Borsos (1821-1883). Con l'ottimo ritrattista Nicola Barabás (1810-1898) i pittori ungheresi ripresero il loro cammino verso l'Italia. Vi studiò per qualche tempo il Barabás, ne fu ancora più impressionato Carlo Brocky (1807-1855), vivace colorista, il quale terminò la sua carriera quale pittore della corte d'Inghilterra. Il paesista Carlo Markó 1791-1860) si stabilì in Italia e vi fondò una scuola (Appeggi, nei dintorni di Firenze), a cui appartennero membri della sua famiglia (Carlo jun., 1822-1891; Andrea, 1824-1895; Francesco, 1832-1874; Caterina, 1833-1865); egli stette più tardi in relazioni stilistiche coi macchiaioli fiorentini. Visse lungamente a Roma, dove morì, Francesco Szoldatics (1820-1916), appartenente al gruppo "nazzareno". Viceversa lavorarono in Ungheria i veneziani Michelangelo Grigoletti (1802-70), autore di grandi tele d'altare a Esztergom, e Iacopo Marastoni (1804-1860), fondatore nel 1846 della prima accademia di pittura in Ungheria. Nella seconda metà dell'Ottocento, dopo Vienna influì per un tempo l'accademia di Monaco, dove non solo studiarono, ma anche insegnarono artisti ungheresi, come Alessandro Wagner (1838-1919), Alessandro Liezen-Mayer (1839-1898), Giulio Benczur (1844-1920), il quale, ritornato in patria, divenne il pittore ufficiale di ritratti e di grandi scene storiche (Arresto di Francesco II Rákóczy, Battesimo di S. Stefano); egli unisce nel suo fare rapido e brioso elementi veneziani e rubensiani. Si distinsero ancora nella pittura storica, e specialmente nell'affresco, Carlo Lotz (1833-1904), tardo e pur fresco seguace del Tiepolo (soffitto dell'Opera Reale di Budapest) e Bartolomeo Székely (1835-1910; affreschi della Cattedrale di Pécs). Il più grande talento della pittura ungherese, Michele Munkácsy (1844.-1900) nelle sue grandiose scene sacre (Cristo dinnanzi a Pilato, Golgota, ecc.), nelle sue scene della vita popolare ungherese (Siralomház-Confortatorio, L'eroe del villaggio), e nei suoi freschi paesaggi, rappresenta il culmine della pittura ottocentesca magiara. Egli lavorò per molto tempo a Parigi, come anche il suo coetaneo, Ladislao Paál (1846-79), finissimo paesista, vicino alla scuola di Barbizon. Studiò a Parigi nella prima metà del secolo anche Vittorio Madarász (1830-1917), pittore di scene storiche, attratto dal Delacroix. Ma il vero flusso verso la capitale francese avvenne verso la fine del secolo, nell'epoca del tardo impressionismo.
Carlo Ferenczy (1862-1917), Stefano Csók (1865), Giovanni Vaszary (1867), Béla Iványi-Grünwald (1867), Stefano Réthy (1872), trapiantarono le norme dell'impressionismo e del plein air, ma le trasformarono secondo il loro temperamento, con più libertà e con una fantasia coloristica vicina al gusto popolare. Gran parte di questi artisti, in compagnia con altri, come Simeone Hollóssy (1857-1918), Thorma Giovanni (1870), Oscar Glatz (1872) si unirono nella scuola di Nagybánya (Baia Mare), che operò verso il 1900 l'emancipazione della pittura ungherese da Monaco. L'altro gruppo, attorno ad Adolfo Fényes (1867), con concetti simili, si è formato a Szolnok. Il più importante e più indipendente dai francesi nel movimento della pittura ungherese fu Paolo Szinyei Merse (1845-1920), un paesista pieno di poesia che esprime con sublime evidenza la visione ungherese (Maggiolata, l'Allodola). Lontani da correnti monachesi e parigine, Géza Mészöly (1844-87) con i suoi paesaggi del Lago Balaton e Ladislao Mednyánsky (1852-1919), con i suoi tenebrosi paesi dei Carpazî, espressero le bellezze della terra ungherese.
L'arte contemporanea segue da vicino le nuove correnti europee, dando loro un riconoscibile stampo locale, che segue le linee generali dell'arte magiara.
Nell'architettura, un tentativo della liberazione dallo storicismo accademico fu già fatto negli ultimi anni dell'Ottocento da Edmondo Lechner (1845-1914), il quale credette di poter far sorgere dall'arte rustica e dalla decorazione popolare un nuovo stile nazionale (Museo delle arti decorative, la chiesa parrocchiale del X distretto di Budapest). Il tentativo, seguito per un tempo da molti, è oggi considerato fallito. Eugenio Lechner (1878) tentò un'architettura nazionale, rievocando il Rinascimento ungherese; Desiderio Hültl (1870) e Giulio Wälder (1884) s'ispirarono al barocco locale. Oggi l'architettura razionale, i cui precursori furono Aladár Árkay (1868-1932; chiesa a Győr), Béla Lajtha (1875-1920; scuola commerciale a Budapest), e Béla Rerich (Piazza del duomo di Szeged), trova fra i giovani degli ottimi rappresentanti come Bartolomeo Árkay (1901; chiesa parrocchiale del Városmajor e Villa Bátor, Budapest), Giulio Rimanóczy (1903; chiesa di Pasarét, Budapest), Dionisio Györgyi (1886) e Virgilio Bierbauer (1893). Nella scultura nominiamo Francesco Medgyessy (1881) e gli scultori usciti dall'accademia ungherese di Roma: il puro e classico Paolo Pátzay (1896), il nervoso Tiberio Vilt (1905), il massiccio Borbereky (1907), l'equilibrato Abonyi-Grandtner Eugenio e gli ottimi medaglisti Gualterio Madarassy (1909) e Giuseppe Ispánky (1906), i quali rinnovarono questo genere artistico nel senso di Pisanello e dei medaglisti del Quattrocento. Tra i pittori, ebbe prima qualche eco la scuola di Parigi, come in Béla Czóbel (1883), in Roberto Berény (1887), in Aurelio Bernáth (1895), in Giulio Derkovits (1894), in Emerico Szobotka (1890). Oggi si allarga sempre più nell'avanguardia l'influsso dell'Accademia ungherese di Roma e del Novecento italiano, trasformato dal temperamento nazionale. Appartengono a questo gruppo il dinamico Guglielmo Aba-Novák (1894), che tentò con molto successo anche l'affresco, rinnovandolo col suo forte temperamento e con le sue idee nuove (Jásszentandrás, parrocchiale; Szeged, affreschi nella torre del Medioevo, e nel monumento agli eroi della guerra); il lirico Paolo Molnár C. (1894), anche delicato pittore sacro e forte incisore in legno; Eugenio Medveczky (1902), Béla Kontuly (1904), Giorgio Kákay-Szabó (1903) e Francesco Dex (1901) stanno più vicini alle tendenze del Novecento italiano; Aurelio Emőd (1897), che esordì con l'impressionismo e chiuse poi il suo stile sotto l'impressione dei suoi studî romani. Stefano Szőnyi (1894) fu pure accademico di Roma; il suo colorismo lirico e la sua visione individuale lo mettono. in prima linea fra i giovani pittori ungheresi. Giulio Rudnay (1878) segue le tracce di Michele Munkácsy, rinnovandole con mezzi più modemi, mentre Giuseppe Koszta (1864), colorista pieno di contrasti di luce e d'intuizione mistica, e Dionisio Csánky (1885), realista molto espressivo e tecnico brillante, sono degni continuatori dei grandi interpreti della patria terra.
Bibl.: Czobor-Szalay, Magyarország történeti emlékei az ezredéves kiállitáson (I monumenti storici dell'Ungheria all'Esposizione del Millenario), Budapest 1896; Divald Kornél, Szepes vármegye müvészeti emlékei (I monumenti artistici del Comitato Szepes), I-III, ivi s. a.; id., Felsőmagyarországi reneszánsz épitészet (L'architettura del Rinascimento nell'Ungheria settentrionale), ivi s. a.; id., Magyarország csucsiveskori szárnyasoltárai (Altari a sportelli dell'epoca gotica in Ungheria), I-II, ivi s. a.; id., Magyarország müvészeti emlékei (Monumenti artistici dell'Ungheria), ivi 1927; L. Gál, L'architecture religieuse en Hongrie du XIe au XIIIe siècle, Parigi 1929; I. Genthon, Magyar müvészek Ausztriában a mohácsi vészig (Artisti ungheresi nell'Austria fino al 1536), Budapest 1927; id., A régi magyar festömüvészet (La pittura antica ungherese), Vác 1932; id., Az uj magyar festőmüvészet története (La storia della pittura nuova in Ungheria), Budapest 1936; F. Gerevich, A régi magyar müvészet, európai helyzete (La posizione europea dell'arte antica ungherese), ivi 1924; id., Kolozsvári Tamás, az első magyar képtáblafestő (Tommaso da Kolozsvár, il primo pittore ungherese di pale d'altare), ivi 1923; id., Esztergomi mükincsek (Tesori artistici di Esztergom), ivi 1929; id., L'arte antica ungherese, Roma 1930; id., La pittura contemporanea ungherese, in Emporium, 1936; H. Antal, A magyar müvészet története (Storia dell'arte ungherese), Budapest 1934; H. Horváth, Una veduta di Veszprém in un affresco di Castiglione D'Olona, ivi-Roma 1926; id., Siena ed il primo Rinascimento in Ungheria, Roma 1925; id., Budai Kőfaragók és Kőfaragójelek (Lapicidi di Buda), Budapest 1935; A. Ipolyi, Kisebb munkái (Opere minori), I-III, ivi 1887; K. Lux, A budai várpalota Mátyás király korában (La reggia di Buda nel tempo di Mattia Corvino), ivi 1921; Maggiorotti, Gli architetti militari italiani in Ungheria, in L'opera del genio italiano all'estero, s. 4ª, II; A. Mihalik, I maestri orafi Pietro e Niccolò Gallico di Siena in Ungheria, Siena 1928; id., Le coppe ungheresi del duomo di Rieti, Roma-Budapest 1928; id., L'origine dello smalto filogranato, ivi 1923; G. Pasteiner, A magyar müvészet története, in Az Osztrák-Magyar Monarchia, ecc. (La storia dell'arte ungherese, in La Monarchia austro-ungarica descritta e illustrata); A. Péter, A magyar müvészet története (La storia dell'arte ungherese), I-II, Budapest 1930; J. Rados, Régi magyar kastélyok (Castelli antichi in Ungheria), ivi 1931; Szentivány-Szendrei, Magyar héptzőmüvészek lexikona (Diz. degli artisti ungheresi), I (A-G), ivi 1915; O. Szőnyi, Régi magyar templomok (Le chiese antiche ungheresi), ivi 1922; E. Varju, Régi magyar várak (Gli antichi castelli dell'Ungheria), ivi 1932.
Arte popolare. - L'arte popolare ungherese è caratterizzata dalla sua unità. Proprietà secolare della nazione ungherese, essa si è mantenuta fedele alle antiche tradizioni anche quando la grande arte nazionale, a causa degli eventi politici, non poteva svilupparsi. L'attività artistica del popolo si esplicò in lavori di legno, di cuoio, di osso, di tela e nella ceramica. Il legno venne usato non solo per piccoli strumenti e per mobili, ma anche per scopi costruttivi. Al dilà del Danubio e soprattutto nella terra székely di Transilvania troviamo le più caratteristiche costruzioni in legno. Ne sono riccamente scolpiti la facciata, la porta d'ingresso e i pilastri che reggono il tetto. La tecnica della decorazione è in queste contrade il rilievo o l'intaglio seghettato. Al dilà del Danubio invece si adornano spesso con colori le parti scolpite. Gli abitanti di Győr, Vas e Veszprém si sono distinti nei mobili scolpiti. I palóc (Nógrád), ornano i loro mobili con scene prese dalla vita campestre e dalla caccia. Nel grande Alföld e in Transilvania i mobili vengono dipinti. Il mobile più ornato e più antico oltre le sedie è il cassettone dipinto a tulipani, dove si mette il corredo nuziale della sposa. Nella scultura di più piccoli oggetti si distinguono i pastori dell'oltre Danubio e del Mátra, che spesso applicano scene figurate. Un altro ramo dell'arte popolare è il lavoro su cuoio, in cui primeggiano i pastori del grande Alföld, per i quali questo genere di arte costituisce un'occupazione antichissima. La pelle degli animali viene ornata con rapporti di pelli colorate o con ricchi ricami. Gli stessi pastori decorano con sculture o con pitture il corno; le donne curano la lavorazione e il ricamo del lino. Il ricamo viene applicato tanto sui vestiti delle donne, quanto su quello degli uomini. A questi ricami è dovuta la ricchezza del costume popolare ungherese. Oltre che i vestiti, vengono riccamente ricamate anche le lenzuola. Il ricamo può essere d'un solo colore o riccamente variopinto. I colori più adoperati sono il rosso, l'azzurro, il nero e il giallo. Gli ornamenti sono quasi dappertutto di carattere floreale. I più bei ricami si trovano a Mezőkövesd, a Kalotaszeg, a Nógrád, e nell'Alföld. Sopron è caratteristica per i lavori di batista bianco, applicati sul tulle bianco. Un altro ramo molto sviluppato dell'arte popolare magiara è la ceramica, diffusa in tutto il paese. I migliori prodotti si trovano nell'Alföld e in Transilvania e sono molto ricchi sia per la forma, sia per la decorazione. Nell'arte popolare magiara v'è armonia fra la materia, il motivo e lo scopo. Caratteristico è il senso razionale architettonico, che non viene mai turbato da eccesso di decorazione o di colore. Il motivo più comune è anzitutto il fiore, specialmente la rosa e il tulipano, ma troviamo anche elementi presi dal mondo animale, e in specie uccelli canori. Mancano assolutamente in quest'arte l'elemento decorativo-geometrico e quello simbolico, che caratterizzano l'arte popolare orientale, romena e russa.
Bibl.: Malonyay Dezsö, A magyar nép művészete, I-V, Budapest 1907-15; L'art populaire hongrois, ivi 1928; A Magyar Nemzeti Muzeum Néprajzi Osztályának Értesitője; Etnographia 1889; Magyar Iparművészet.; Ethnologische Mittheilungen aus Ungarn.
V. tavv. XCV-CII.
Musica.
Il più lontano strato della produzione musicale magiara può oggi essere riconosciuto in alcune canzoni e ballate che costituiscono i resti d'un'antica musica popolare su sistema pentatonico (scala: sol, si ♭, do, re, la). Tale sistema viene poi a integrarsi, durante i tempi, con l'aggiunta di un la o la ♭, che diviene il 2° grado, e d'un mi o mi ♭, che diviene il 6°. In tale fase di sviluppo si forma intanto un patrimonio quasi inesauribile di canti e danze d'ogni sorta e d'ogni tono lirico. Tale vigorosa musicalità popolare contiene del resto ancora oggi la base della musicalità ungherese e offre il maggior nutrimento alla scuola nazionale di recente giunta ad autonomia.
Alla corte di Mattia Corvino (1458-90) fioriva un'eletta schiera di musicisti italiani e borgognoni; famosi liutisti come V. Bakfark e i fratelli Neusiedler (v. le opere di questi in Denkmäler d. Tonkunst in Österreich, XVIII) vissero nel 1500 in quella corte. Le non mai placate guerre che da allora si combatterono, durante i tempi, nelle terre d'Ungheria impedirono una sufficiente continuità di sviluppo musicale. Fioriva però in quel periodo irrequieto l'umile arte dei musicanti, cui s'affidavano così le sorti dello spirito musicale magiaro, come quelle dello scozzese s'affidarono alla musica del bagpipe. In tale periodo nacquero anche i celebri canti e le danze di soldati della guerra dei kuruc, tra cui la marcia così detta di Rákóczy nella sua stesura originaria.
Vicino alla musica profana si era d'altra parte sviluppata fino dal sec. XV una musica religiosa di notevole vigore, che sotto Mattia Corvino ebbe un grande slancio e si continuò fino ai tempi della battaglia di Mohács (1526). Dalla fine dell'invasione ottomana (1676) ebbe poi sviluppo una liturgia basata sul modello tedesco. Modello alla musica strumentale chiesastica fu Vienna con la sua cappella imperiale e con la sua opera teatrale barocca. Nel 1688 ebbe luogo la prima Messa solenne con cori nella chiesa di S. Mattia.
L'aristocrazia del sec. XVIII non seppe intendere il valore della musica popolare magiara, e si diede invece interamente all'arte italiana, francese e austriaca, la quale venne così a diffondersi dai castelli dei nobili per tutte le terre d'Ungheria. Tra tutte queste scuole, il più forte dominio esercitò la viennese classica. Già al principio del sec. XIX, p. es., vediamo svolgersi un'esecuzione completa di tutti i quartetti fino allora apparsi del Beethoven; nel 1827 si fonda in Budapest una società per la musica da camera, nella quale il primo violino Táborszky, durante molti anni a partire dal 1834, cura l'esecuzione di tutte le composizioni beethoveniane da camera. Presto s'aggiunge d'altra parte a questo ente un'altra formazione da camera: un Quartetto diretto da K. Huber (il padre del grande violinista e compositore Jenö Hubay).
Col principio del sec. XIX comincia a svolgere una funzione assai importante la musica degli Zingari, già semplicisticamente confusa con la magiara. In realtà gli Zingari hanno sempre preso un po' di qua un po' di là le loro sostanze musicali, interpretate poi, praticamente, con le loro particolari cadenze e fioriture, soprattutto con quel loro preferito vezzo del "Rubato".
Va senz'altro riconosciuto, comunque, che tale stilema si modernizzò nella musica romantica e si sviluppò in uno spirito sì novatore come quello del Liszt, le cui rapsodie pianistiche costituiscono un vero monumento in onore della terra nativa. Dopo il Liszt si diedero alla formazione d'uno stile nazionale ungherese (nell'accezione dubbia che era possibile nell'equivoco zingaromagiaro), F. Erkel (1810-93) autore di poderose opere "nazionali": Hunyadi László (1844), Bánk Ban (1861), István Király (1885), e M. Mosonyi (1814-70), autore di più opere, sinfonie, poemi sinfonici. A F. Erkel va inoltre dato il merito della fondazione (1853) dell'Orchestra filarmonica di Budapest, dopo di lui diretta dal figlio Alessandro, da S. Kerner e dal 1917 da E. v. Dohnányi.
L'indirizzo "ungarizzante" dell'Erkel trovò un continuatore, tra gli altri, in R. Volkmann (1815-83), un sassone che - tranne qualche momento - passò la sua vita, dal '40 in poi, in Ungheria e insegnò nell'Accademia musicale di Budapest, istituto fondato nel 1875 e organizzato da E. v. Mihalovich, oggi diretto da J. Hubay. Un centro propulsivo si è poi dato non solo alla diffusione del repertorio internazionale, ma anche a quella dell'opera magiara con l'apertura (1884) del Teatro Reale, nel quale si sono avute esecuzioni - tra le altre - di opere di Hubay, Poldini, Dohnányi, Kodály, Bartók, Siklós, Zádor, ecc.
Hubay, Poldini e Dohnányi, per diversi che siano i caratteri personali delle loro musiche, dànno un impulso alla composizione romantica su temi ungheresi, e si trovano in tal modo a lavorare su di un piano analogo a quello battuto dal Dvořák per la musica cèca.
Ma un indirizzo stilistico nuovo, prettamente nazionale, é iniziato oggi da due maestri i cui nomi sono ormai tenuti dappertutto come i più significativi esponenti della loro patria: Béla Bartók e Zoltan Kodály. Uniti tra loro in amicizia e collaborazione, essi percorsero in 10 anni, d'estate, l'intera Ungheria, raccogliendo con ogni mezzo, e specialmente con il grammofono, circa mille canti e pezzi varî. Questo tesoro di melodie non è però usato da essi come miniera di temi da svolgere nelle loro composizioni; esso penetra invece con i suoi intimi caratteri etnici ogni voce strumentale o vocale, colora di sé l'armonia e il ritmo, così che la riassunzione dell'elemento etnico non dà, né in Bartók né in Kodály, nella musica "di colore", ma piuttosto essa ha riplasmato proprio l'intima personalità dei due maestri; e si può dire che nella loro opera è stata creata finalmente la musica magiara d'arte. Tra tutte, due opere dànno la misura di ciò: Il castello del cavaliere Barbablù di B. Bartók (1911) e il Psalmus hungaricus di Z. Kodály (1923).
Questo loro indirizzo è seguito da una schiera di giovani musicisti: A. Molnár, A. Szabó, L. Lajtha, G. Kósa, M. Seiber, F. Szabó, P. Kadosa, Z. Székely, A. Jemnitz.
La vita musicale del paese è oggidì, più che nel passato, accentrata in Budapest, ma anche nelle città principali delle provincie (Debrecen, Miskolc, Cinquechiese, Seghedino) si notano sforzi per una loro propria sufficiente attività. Ogni conservatorio licenzia di anno in anno un numero di giovani di talento, specie cantanti, violinistie pianisti, superiore a quel che la regione riesce ad accogliere.
Di qui deriva però la diffusione del nome ungherese nei paesi vicini (specie l'Austria) non solo, ma anche negli altri d'Europa e d'America, dove direttori d'orchestra, cantanti e concertisti svolgono un'attività fortunata. La produzione musicale dotta s'è anch'essa diffusa ovunque, specie con l'opera di Bartók e di Kodály, e così ha potuto fare anche la musica leggiera, con l'opera - ricca di echi nazionali - di F. Léhar e di E. Kálman.
Un cenno a parte meritano gli strumenti tipici ungheresi, qudsi tutti d'uso popolare. La duda, zampogna di pelle caprina, con 3 canrc per i suoni fondamentali: si ♭1, fa2 e si ♭2, e un piffero a 6 fori píù uno (per la nota acuta) per il quale ultimo si usa il pollice. Dà la serie diatonica di si ♭ maggiore dal si ♭2 al si ♭3. Si trova solo nell'Ungheria settentrionale. La furulya è una sorta di flauto da pastori, di legno, lungo da 30 a 35 centimetri, con 6 fori, con estensione dal si ♭2 al fa2. Una varietà, oggi scomparsa, di flauto pastorale si chiamava tilinko; s'usava specialmente in Transilvania, e non aveva fori.
Il kanásztülök, sorta di tromba in corno di bufalo, dotata solo di alcuni suoni della scala naturale, è usata dai pastori per chiamare con brevi motivi i loro armenti. Il tekerö corrisponde alla viella; ha un kast simile a quello del violoncello, e 4 corde.
Strumenti usati anche nella musica d'arte sono il cimbalom e il tárogató. Il cimbalom è una sorta di cembalo, importato dall'Oriente al tempo delle crociate. L'esecutore, di solito uno zingaro, lo tratta con effetti virtuosistici in rapidi passaggi. La scala, cromatica, va dal re1 al mi4. Tale strumento, destinato finora solo all'improvvisazione, k oggi richiesto anche in musiche d'arte. Il tárogató era in origine un piffero d'uso soltanto contadinesco; il suono rassomiglia a quello del corno inglese, ma è più vigoroso. La scala va dal si ♭ al do4. I compositori magiari talvolta se ne servono.
Bibl.: B. Bartók, La musique populaire hongroise, in Revue musicale, 1920; id. e Z. Kodály, Siebenbürgische Volkslieder, 1923; Fökövi, Musik und musikalische Verhältnisse in Ungarn am Hofe des Matthias Corvinus, in Kirchenmusikalisches Jahrbuch, 1900; A. Bertha, La musique des Hongrois, in A. Lavignac, Encyclopédie de la musique, Parigi 1920; A. Tóth, Ungarn, in G. Adler, Handbuch der Musikgeschichte, 2ª ed., 1930; Ungarn, ein Land der Musik, Budapest 1930; B. Bartók, Hungarian Folk-Music, in A Dictionary of modern music, Londra 1924.
Storia.
L'Ungheria è stata, come ne fanno fede i cimelî messi in luce dagli scavi, un'antica terra di colonizzazione e di traffico. Primi abitanti, con sicurezza identificati, furono gl'Illirî o Traci. Elementi nuovi di cultura aggiunsero i Celti che scelsero le sedi anzitutto a ovest del Danubio e che dovettero difendere il loro territorio a prezzo di lotte sanguinose contro gli attacchi dei Daci della Transilvania. L'impero romano nel 35 a. C. iniziò e in pochi decennî portò a termine la conquista del territorio limitato dai fiumi Sava e Danubio, ove fondò la provincia di Pannonia, la cui popolazione celtica venne pienamente romanizzata durante i quattro secoli della dominazione romana. In seguito alle sanguinosissime campagne di Traiano (101 e 105 d. C.), invece, con le quali il grande imperatore riuscì a occupare il regno dei Daci, questo popolo venne in grandissima parte estirpato. Poiché la Dacia appartenne all'impero solo fino alla metà del sec. III e la sua popolazione civile, come le legioni che vi stazionavano, non furono che in minima parte di origine italica, la romanizzazione di questa provincia si ritiene che non sia stata mai totale.
Nei secoli della migrazione dei popoli, Goti, Unni, Gepidi, Longobardi e altri popoli di razza germanica, andò distrutto il limes romano, e stati più o meno duraturi sorsero nel bacino dei Carpazî. Le sedi dei Longobardi, immigrati in Italia, furono occupate nella seconda metà del sec. VI dagli Avari turchi, il cui potente stato non venne distrutto che da Carlomagno. Durante la dominazione avara, avvenne l'espansione dell'elemento slavo, ma i resti degli abitanti romanizzati della Pannonia riuscirono a salvare la loro esistenza: cosicché i Magiari immigrati nella Pannonia, alla fine del sec. IX, vi trovarono anche popolazioni neolatine. Pare, anzi, che le prime città importanti del regno ungherese (Buda, Esztergom, Győr, Székesféhérvar, ecc.), si siano formate intomo alle antiche città romane. Nelle contrade lungo il Lago Balaton, sottomesse all'impero dei Franchi, nel sec. IX si cominciava a formare uno stato slavo, mentre le contrade occidentali dei Carpazî facevano parte del potente regno dei Moravi. Grandissima parte del bacino dei Carpazî stava sotto l'egemonia dei Bulgari. Il vasto territorio ungherese non venne organizzato in un unico stato che dai Magiari, nuovi conquistatori, alla fine del sec. IX.
L'epoca degli Árpád. - I Magiari, per la loro lingua, fanno parte dei popoli uralici (ugro-finnici). La tribù principale "Magyar", formò con sei altre tribù, in maggioranza turche, un'alleanza, alla quale diede il proprio nome. Per lungo tempo, forse per secoli, i Magiari abitarono sulle pendici settentrionali del Caucaso; verso la metà del sec. IX si trovano nella grande steppa russa, nella patria chiamata Levedia, a nord del Ponto, fra il Don e il Dnepr, come sudditi piuttosto autonomi dello stato dei Chazari. L'attacco irresistibile di un popolo turco, dei Besseni (Peceneghi), costrinse i Magiari seminomadi, viventi dell'allevamento del bestiame e della pesca, nonché del commercio con i mercanti bizantini, arabi e chazari dei porti del Ponto, a lasciare gli antichi pascoli e a migrare verso l'ovest, nell'angolo dei fiumi Dnepr e Danubio. In questa nuova patria, chiamata "Etelköz" (angolo di fiumi), le tribù scelsero un principe comune nella persona di Árpád, capo della tribù Magyar, assicurandosi così maggiore consistenza e creando il popolo magiaro. All'attacco combinato dei Besseni e dei Bulgari il popolo guerriero non poté resistere (897), e perciò, varcando i passi dei Carpazî, discese nelle terre che nelle campagne combattute contro lo stato moravo, quali alleati dell'imperatore Arnolfo, gli Ungheresi avevano già conosciuto.
La conquista della nuova patria, iniziata nell'896, non durò che pochi anni e non costituì un'impresa molto ardua per quel popolo duro e agguerrito. Poiché gli stati moravo e franco si trovavano in condizioni sfavorevoli, una seria resistenza non si verificò che da parte dei Bulgari, guidati dal leggendario duce Zalan. Distruggendo gli stati slavi che si erano formati nell'ovest del bacino danubiano e assorbendo gli Slavi della Pannonia, i Magiari separarono la massa slava del nord dagli Slavi del sud. Impedirono poi un'infiltrazione soverchia dell'elemento germanico nella Pannonia. Infine organizzarono in robusta unità il bacino dei Carpazî, abitato da diverse razze e sottomesso a parecchi governi, sbarrando così la strada dell'Oriente ad ogni espansione occidentale e viceversa, e influirono fortemente sulla sorte dei territorî limitrofi, specie della Penisola Balcanica.
La nuova patria non era ancora interamente occupata, quando il popolo nomade, abituato alle scorrerie e al bottino, iniziò i suoi attacchi contro i paesi civilizzati dell'Europa cristiana.
Nell'898, i primi nuclei di Magiari si presentarono in Italia. Seguì, l'anno appresso, un più grande esercito che distrusse completamente l'esercito di re Berengario. Intanto, altri eserciti ungheresi irrompevano ripetutamente nella Germania - spesso chiamati dai principi ribelli della Baviera - e, vinta la resistenza tedesca in battaglie vittoriose (907, 913, ecc.), si spingevano fino alla Borgogna, alla Lorena e all'Alsazia. Nel 921 tornarono ancora in Italia: ma, questa volta, chiamati dallo stesso re d'Italia, e come sue truppe ausiliarie devastarono nel 924 Pavia. Per ragioni analoghe la Tuscia e Spoleto dovettero subire l'assalto degli Ungheresi, quando il marchese Pietro, fratello del papa Giovanni X, li chiamò in aiuto (928). Più tardi, piccoli nuclei di cavalieri magiari distrussero e depredarono i dintorni di Capua e di Benevento, nonché parecchie contrade dell'Italia meridionale, fino alle Puglie. Solo dopo duri scacchi subiti in Italia, e, più ancora, dopo le gravi rotte di Merseburg, per opera di Enrico l'Uccellatore, e di Augusta, per opera di Ottone il Grande, nel 955, dovettero interrompere le loro scorrerie in Germania e in Italia; e pochi anni dopo, anche quelle dirette contro l'impero bizantino.
Queste imprese di guerra, durate per sette decennî, resero temuto e insieme odiato in Occidente il nome magiaro; ma, se si voleva evitare, di fronte alla probabile reazione dei popoli cristiani dell'Occidente, il disgregamento della nazione magiara di cui apparivano i sintomi, bisognava che anche il popolo magiaro rafforzasse la sua compagine ed entrasse nella lega dei popoli civilizzati, cristiani. Fu il principe Gésa (972-997) a riconoscere, con acutezza ammirabile, le esigenze dell'evoluzione magiara. Non appena occupata la sede principesca, con un severo divieto mise fine alle scorrerie, poi partecipò all'imperatore Ottone il suo proposito di convertirsi alla fede cristiana insieme col suo popolo. Rese salde le basi della potenza centrale con un'energia ferrea, rompendo la resistenza dei capitribù. Sotto la sua dominazione, ebbe inizio la conversione del popolo magiaro.
Géza fu però solo l'antesignano di questa evoluzione. Portare a termine tale opera fu il compito di suo figlio, Stefano, educato nella fede cristiana e sposato con la religiosissima figlia di Enrico di Baviera, la principessa Gisella.
Il primo compito di Stefano (997-1038, canonizzato nel 1083) fu di assicurare il principio monarchico nell'Ungheria. Domata la rivolta di un suo parente, Koppány, sconfisse l'esercito, appoggiato pure dai Bulgari, del potente padrone delle contrade orientali, Ajtony. Con queste vittorie fu definitivamente annientata l'antica organizzazione statale basata sull'alleanza delle tribù. Prima ancora della caduta di Ajtony, Stefano aveva inviato l'abate Ascherik dal pontefice romano per farsi riconoscere la dignità reale. Papa Silvestro II mandò al giovane re una corona (la parte superiore dell'odierna sacra corona d'Ungheria) e una croce apostolica, simbolo della facoltà di poter creare in Ungheria un'organizzazione ecclesiastica indipendente dalla chiesa di un altro paese e sottomessa solo alla Santa Sede. Avuto il consenso del pontefice, Stefano si accinse con zelo a compiere la conversione del suo popolo.
Gli educatori e i primi compagni di lavoro di Stefano, fra cui S. Adalberto e S. Gerardo di Venezia, furono tutti seguaci dell'indirizzo riformatore partito da Cluny e il primo re ungherese compì il suo lavoro nel senso di questo potente movimento spirituale culturale. Per organizzare in modo completo la Chiesa ungherese, Stefano ideò l'erezione di 12 vescovati; ma riuscì a creare soltanto due arcivescovati e otto vescovati.
Il dominio di Stefano ebbe un'importanza fondamentale anche nella vita politica della nazione magiara. La monarchia cristiana del Medioevo ungherese fu creazione sua.
La base di tale monarchia fu formata dal patrimonio del re, costituito dalle terre del "genere" di Árpád, poi dalle terre vastissime eonfiscate ai ribelli contro il suo regime o contro quello di suo padre, infine dalle terre che secondo le regole della tattica nomade erano rimaste senza padrone (per lo più fra i territorî di due tribù) al momento della conquista della nuova patria. Tutte queste terre con i loro abitanti appartenevano al sovrano.
Fu Stefano a creare pure gli organi amministrativi del patrimonio, i comitati (ungh. megye), a formare la prima gerarchia, e regolare le relazioni sociali della popolazione del patrimonio, in una parola, a costruire la prima organizzazione interna del paese su modello occidentale, servendosi come base delle leggi dell'impero franco. Stefano seppe anche difendere con ottimo successo l'integrità e l'indipendenza del suo regno, quando nel 1030 venne attaccato dall'imperatore Corrado con il pretesto della politica veneziana, in cui anche l'Ungheria era interessata, data la parentela della casa reale con la famiglia degli Orseolo.
Negli anni che succedettero alla morte di S. Stefano, durante la dominazione dei re Pietro Orseolo e Samuele Aba, si verificarono gravi dissensi interni nel regno, anzi la stessa sua indipendenza venne messa a repentaglio, avendo re Pietro offerto il paese in feudo all'imperatore Enrico III, in cambio dell'aiuto prestatogli dall'impero germanico. Il sentimento d'umiliazione e la xenofobia suscitata dal passo di re Pietro provocarono come reazione la prima ribellione dei pagani, capitanati da Vata. Fra le vittime di questa rivolta fu anche S. Gerardo il Veneziano. Ma la saggezza dei principi della casa di Árpád, che per la congiura ordita da loro - contro la vita di S. Stefano - erano costretti a vivere in esilio, salvò l'opera del primo re. Andrea I (1047-60), richiamato in patria e appoggiato dal fratello Béla, respinse vittoriosamente gli attacchi dell'imperatore Enrico, riconquistò l'indipendenza del regno e ristabilì la fede cristiana. Ma le agitazioni dinastiche dovevano scuotere ancora più d'una volta le compagini dello stato magiaro. Andrea perdette il trono e la vita nella lotta contro il fratello Béla (1060-63) e anche il figlio di Andrea, Salomone (1063-74), venne a conflitto con i figli di Béla, Géza e Ladislao. Tali lotte dinastiche furono tanto più pericolose in quanto diedero agl'imperatori germanici il pretesto d'ingerirsi negli affari dell'Ungheria. Ma anche Enrico IV, chiamato dal cognato Salomone, fu costretto a lasciare il regno senza risultato.
Sotto il dominio di Salomone il regno ungherese, divenuto profondamente cristiano e consolidato nelle forme statali create da S. Stefano, cominciò ad assumere la funzione di baluardo dell'Occidente cristiano e della sua civiltà contro la barbarie orientale. Salomone e i suoi eroici cugini respinsero in battaglie sanguinose gli attacchi selvaggi degli Uzi o Cumani (presso Kerlés, 1068) e delle orde bessene. Ladislao (1077-1095, poi santo), che annientò più di una volta le orde dei Cumani irrompenti nel suo paese, fu l'ideale del guerriero magiaro del Medioevo e divenne figura simbolica delle durissime lotte combattute dai Magiari contro i barbari orientali. Ma la sua opera più grandiosa fu l'inizio della politica imperialistica ungherese. Verso il 1089, senza versare sangue, occupò la Slavonia (cioè, allora, tutto il territorio fra la Drava e la Sava); poi, nel 1091, conquistò pure la Croazia immersa nell'anarchia di lotte intestine, accumunando così le sorti dei Magiari e dei Croati. Eccellente organizzatore, Ladislao continuò l'opera di S. Stefano nel campo della vita statale e nell'organizzazione ecclesiastica, e ristabilì l'ordine nel regno.
L'opera di S. Ladislao venne continuata dal successore, Colomanno (1095-1116), che nella lotta per le investiture si mise dalla parte del pontefice e nel sinodo di Guastalla (1106) rinunciò al diritto d'investitura esercitato dai re d'Ungheria. Il più notevole risultato del dominio di Colomanno fu, nel campo della politica interna, la revisione delle leggi e la sistemazione dei nuovi rapporti giuridici; si mostrò assai abile anche nel campo della politica internazionale. Sconfitto dai Cumani in terra russa, difese invece con ottimo successo il suo regno contro le prime indisciplinate turbe di crociati; e, sposata la figlia di Ruggiero di Sicilia, Busilla, trovò in esso un alleato contro la crescente potenza marittima di Venezia. Dopo un'abile preparazione diplomatica, Colomanno conquistò le città dalmate (1105). La lotta che, per il possesso della Dalmazia, s'ingaggiò allora con Venezia e durò tre secoli, divenne uno dei fattori determinanti della politica d'Ungheria. Con il possesso della Croazia e della Dalmazia, il forte regno ungherese poté tentare di estendere la sua egemonia sulla parte settentrionale della Penisola Balcanica.
Il figlio e successore di Colomanno, Stefano II (1116-31), logorò le forze del regno in lotte inutili contro i popoli vicini (Cèchi, Russi, ecc.); non seppe difendere la Dalmazia contro l'attacco di Venezia e con una provocazione insensata iniziò la lunghissima serie delle guerre contro Bisanzio. Béla II il Cieco (1131-41), che insieme col padre ribelle (Álmos) era stato privato della luce degli occhi per ordine di Colomanno, cercò di ricondurre la politica magiara sulle vie segnate da Ladislao e Colomanno e con l'occupazione delle vallate dei fiumi Bosna e Rama iniziò l'espansione dell'egemonia magiara sui Balcani.
Nella seconda metà del sec. XII, l'Ungheria lottò per decennî contro il forte impero bizantino di Giovanni e Manuele Comneno, non solo per il possesso della Serbia e della Dalmazia, ma anche per la propria indipendenza. Fu anzitutto l'imperatore Manuele a saper trarre profitto dai disordini dinastici dell'Ungheria. Alla fine della lunga lotta, combattuta eroicamente dai re Géza II (1141-62) e Stefano III (1162-72), l'Ungheria riuscì a salvare la sua posizione e sotto Béla III (1172-96) divenne la potenza principale nell'Europa centro-orientale. Imponenti gruppi di coloni tedeschi, valloni e fiamminghi, immigrati verso la metà del secolo e seguiti da coloni italiani e francesi, aumentarono le forze del paese. Béla III riconquistò la Dalmazia, combatté vittoriosamente nei Balcani, assicurandovi un posto eminente all'influsso ungherese, e cominciò ad attrarre nella sfera degl'interessi magiari i limitrofi principati russi. Nella concezione politica di Béla, si fece dunque valere con piena coscienza l'idea dell'espansione nei Balcani e verso il nord del regno, espansione basata sull'amicizia con le potenze latine. Questa concezione venne poi ripresa con successo della dinastia degli Angiò.
La politica di grande potenza, iniziata da Béla III, venne continuata da re Imre (Emerico, 1196-1204), che cercÒ di estirpare l'eresia patarina (bogomili) dai Balcani, e lavorò a rinsaldare le relazioni coi popoli serbo e bulgaro. Suo fratello Andrea II (1202-35) fu sotto l'influsso di altre idee. A forza di ripetute campagne tentò di radicare l'egemonia ungherese nella Galizia, poi, dopo la crociata del 1217 che non ebbe che scarsissimo risultato, fu maggiormente influenzato dal miraggio del trono dell'Impero Latino. Questi progetti abortirono; importantissimo fu invece il significato della sua dominazione nella politica interna, nel campo sociale ed economico.
Dopo aver fatto donazione di quasi tutto il patrimonio regio a privati, Andrea sostituì al sistema patrimoniale il sistema della regia finanziaria e cedendo alla pressione di diverse classi sociali, nella Bolla d'oro del 1222 fissò tra l'altro i principali privilegi della classe dei nobili (più precisamente della classe dei servientes, che si è poi fusa con gli antichi nobili), stabilendo così le fondamenta di un sistema sociale che durò oltre sei secoli.
All'inzio della sua dominazione Béla IV (1235-70) fece un tentativo energico di riconquistare il patrimonio, base antica della potenza regale, ma la sua opera fu sventata dalla irruzione dei Tatari (1241). Nel campo di Muhi le truppe agguerrite e disciplinate del khān Batu sconfissero l'esercito magiaro e ridussero a deserto il fiorente paese sterminando la popolazione. Ma Béla con energia ferrea ristabilì normali condizioni di vita nel regno, attaccato pure dal duca d'Austria, Federico.
In breve tempo furono riorganizzati l'esercito, il potere centrale e l'amministrazione. Siccome all'attacco tataro non potevano resistere che i luoghi circondati di mura di pietra, Béla favorì con tutti i mezzi, con esenzioni commerciali, privilegi ed autonomia, lo sviluppo delle città e chiamò nuovi coloni, anzitutto molti Cumani, nel paese spopolato. Più tardi Béla fece un tentativo di conquistare le provincie dell'estinta dinastia d'Austria, ma il suo rivale, Ottocaro di Boemia, gli strappò (1260) pure la Stiria, che era stata sottomessa per un certo tempo al dominio ungherese. Successi nella politica estera non li ebbe che il principe ereditario Stefano (1270-72), che ripetutamente entrò vittorioso nella Bulgaria e nella Serbia. Vivo ancora Béla, furono stretti fra la dinastia degli Árpád e quella degli Angiò di Napoli legami familiari che contribuirono a orientare verso l'Italia la politica ungherese.
La fine del sec. XIII e l'inizio del XIV furono l'epoca della decadenza dell'organizzazione interna del regno, decadenza causata dalle usurpazioni dell'alta nobiltà (Matteo Csák, i Köszegy, i Subich, ecc.). L'immigrazione in massa dei Cumani pagani provocò il decadimento della vita morale e religiosa sotto la dominazione dell'insensato Ladislao IV il Cumano (1272-90). Si ripeterono nel paese le lotte interne, si ebbero i primi accenni della formazione di territorî autonomi e alla fine del secolo l'indebolita potenza centrale fu messa sotto il controllo della nobiltà. Nelle provincie sottomesse all'egemonia ungherese (Bosnia, Serbia, Galizia) si verificarono aspirazioni all'indipendenza, coronate più d'una volta da successo. L'unica azione d'importanza mondiale della politica magiara fu di aver prestato appoggio a Rodolfo d'Asburgo nella sua lotta contro Ottocaro di Boemia (1278) e di aver contribuito in modo decisivo all'ascensione della dinastia asburgica. L'anarchia interna del paese indusse la Santa Sede a svolgere un'azione energica e a costringere Ladislao a domare con le armi la sfrenatezza dei Cumani (1280).
Alla morte di Ladislao (1290) non viveva più che un solo discendente degli Árpád: Andrea, nipote del re Andrea II e dell'adultera Beatrice d'Este, figlio del principe Stefano e della patrizia veneziana Tommasina Morosini. Benché il papato appoggiasse energicamente le pretese di Carlo Martello d'Angiò, la nazione riconobbe re Andrea III (1290-1301). Andrea lottò con successo contro i grandi feudatarî e i partigiani degli Angiò, come anche contro Alberto d'Asburgo, che, valendosi di un preteso diritto dell'impero sull'Ungheria, non tardò a presentare la sua candidatura al trono magiaro.
La dinastia degli Angiò. L'imperialismo ungherese del '300. - Con Andrea III, si estinse nel 1301 la dinastia degli Árpád. Il pretendente angioino, Carlo Roberto, figlio di Carlo Martello, con tutto l'appoggio della Santa Sede non riuscì a far valere le sue pretese, e il popolo ungherese gli preferì altri discendenti per via femminile degli Árpád, Venceslao di Boemia (1301-04) e Ottone di Baviera (1305-07), tutti e due incapaci di ristabilire l'ordine nel regno. In vista delle difficili condizioni del paese, la maggioranza della nazione si mise allora dalla parte del giovane principe angioino, il cui avvento al trono venne preparato con molta energia e tatto diplomatico dal cardinale Gentile. Con Carlo Roberto (1307-42), s' inizia l'epoca dell'espansione ungherese. Schiantata l'oligarchia con la sconfitta di Matteo Csák a Rozgony (1312), Carlo portò vittoriosamente le armi ungheresi nella Serbia. Poi, prevedendo le aspirazioni segrete della repubblica veneta, ristabilì l'ordine nella Dalmazia. Per controbilanciare la crescente potenza del principato serbo, favorì lo sviluppo della Bosnia; ebbe però un forte scacco nell'impresa contro Basarab di Valacchia (1330) e le città dalmate (Zara, Traù, Sebenico, Spalato, Nona) negli anni 1326-27 passarono sotto l'egemonia economica e politica di Venezia. Ma ormai l'interesse di Carlo Roberto era rivolto a un grande piano politico. Egli lavorò a stringere un'alleanza con la Boemia e con la Polonia, per creare un potente blocco contro la potenza degli Asburgo. Al congresso di Visegrad (1335), i tre stati strinsero alleanza tra di loro e con Enrico di Wittelsbach, duca di Baviera. Anche nel regno di Napoli, Carlo Roberto seppe difendere con molta tenacia i suoi interessi, concludendo nel 1332 con re Roberto un accordo, per cui i due figli del re ungherese avrebbero sposato le principesse napoletane (Giovanna e Maria) e il marito di Giovanna sarebbe successo a Roberto sul trono di Napoli. In ultima analisi, la politica estera di Carlo Roberto tendeva a isolare i due vicini pericolosi, l'Austria e la Serbia, e a mantenere l'egemonia ungherese sui Balcani.
La politica estera di Carlo Roberto si basava sulla sua magistrale politica interna. Seppe costruire con molta abilità e tenacia una nuova organizzazione sulle rovine dell'antica; annientata che fu l'antica oligarchia, favorì lo sviluppo di una nuova e più fedele aristocrazia e la diffusione degl'ideali, delle concezioni e dei costumi cavallereschi dell'Occidente (fondazione dell'ordine dei cavalieri di San Giorgio). Su basi tradizionali magiare, ma forse anche su modello napoletano, riformò l'organizzazione militare, basandola sugli eserciti dei grandi signori e della nobiltà dei comitati (banderium) che fino ad allora non avevano avuto che un'importanza secondaria. Altra sua opera durevole fu la riorganizzazione del sistema economico. Dopo lo scioglimento del patrimonio regio, diede per primo una base solida alla potenza del sovrano, sistemando i resti del patrimonio, riorganizzando la regia finanziaria e approfittando della forza economica delle classi indipendenti dalla proprietà fondiaria, innanzi tutto degli artigiani e dei commercianti. Nell'interesse di tale suo sistema, protesse i mercanti stranieri, assicurando loro il libero traffico nel paese, aprì nuove strade per il commercio verso il nord, eresse nuove città e favorì le antiche, fondò nuovi emporî per il commercio con l'estero. Stabilizzò inoltre la valuta su una base aurea. La politica interna di Carlo Roberto creò l'equilibrio fra gli elementi monarchici e i feudali, base della grande potenza magiara dei secoli XIV e XV.
Il figlio e successore di Carlo Roberto, Luigi il Grande (1342-1382), rimase fedele alla politica estera del padre. Luigi considerò come primo suo compito di rinsaldare l'egemonia ungherese nei Balcani settentrionali, nel nord della Serbia e nella Valacchia. I suoi legami con la Polonia l'obbligarono già nel 1344 a prendere parte a una campagna, poi fallita, contro i Lituani pagani; né poté impedire che Venezia piegasse la resistenza di Zara ed estendesse il suo dominio sulle città dalmate (1345), tanto più che tutta la sua attenzione era assorbita dalla questione di Napoli. Re Roberto aveva designato suoi successori al trono la nipote Giovanna e il marito di essa, Andrea, fratello di re Luigi; ma il pontefice non diede ordine d'incoronare Andrea che nel 1345, l'anno in cui l'infelice principe venne assassinato ad Aversa, e da allora Giovanna occupò sola il trono napoletano. Re Luigi fece valere le sue pretese sul trono di Napoli, come nipote del primogenito di Carlo lo Zoppo. In questo campo, Luigi oltrepassò i limiti della politica di Carlo Roberto e ideò, con l'unione personale fra l'Ungheria, la Polonia e il regno di Napoli, la fondazione di una potenza mondiale. Ma il papato era contrario a una soluzione che avrebbe conferito il trono napoletano a una grande potenza. Luigi condusse due campagne (1347, 1350) contro il regno di Napoli, ma non ostante i successi militari fu costretto a riconoscere l'impossibilità di mantenere Napoli sotto il suo dominio e nel 1352 affidò al papa la sistemazione napoletana.
Con pieno successo invece Luigi prese parte alle difficili campagne (1351, 1352, 1354) mosse contro i Lituani da Casimiro di Polonia, suo zio ed alleato, che l'aveva designato successore sul trono polacco. Vittoriosa risultò pure la campagna contro Venezia e, con la pace di Zara (1358), tutto il litorale e le isole della Dalmazia tornarono sotto il dominio del re d'Ungheria, assieme alla città di Ragusa. Sistemato il conflitto con Tvrtko, bano di Bosnia e protettore dei patarini, nel 1358 debellò la Serbia settentrionale e fece riconoscere l'egemonia ungherese sulla Bulgaria del nord. Il suo conflitto con l'imperatore Carlo IV finì col fidanzamento di Sigismondo, figlio di Carlo, con Maria, figlia di Luigi. Nel 1370 venne, è vero, incoronato re di Polonia, ma il suo interesse maggiore si volgeva al Mezzogiorno. La campagna contro Venezia, con l'alleanza del Carrara di Padova, abortì (1373), perché Luigi si dovette occupare di un nuovo nemico, i Turchi. Non avendo ancora riconosciuto tutta la gravità del pericolo turco, si contentò della vittoria riportata su di essi nel 1377, benché il loro influsso si sentisse già anche nelle provincie feudali dell'Ungheria. Fattore principale della politica balcanica di Luigi fu la lotta contro lo scisma e le eresie. L'ultima sua grande azione politica fu la guerra che, alleato con Genova, condusse contro Venezia. Dopo una lotta eroica, la repubblica di San Marco venne obbligata a concludere a Torino (1381) una pace sfavorevole sulla base del trattato di Zara.
Nell'interesse della sua potente concezione politica, Luigi cercò di rinsaldare la stabilità del sistema economico e sociale del paese. La legge del 1351 legava la proprietà fondiaria, perché il cosiddetto ius aviticum (abrogato nel 1848) assicurava il diritto di eredità a tutti i membri di una famiglia nobile, anche ai rami laterali, affinché la terra non cessasse di fornire i mezzi necessarî al dovere più importante del nobile, il servizio militare. Nella stessa legge del 1351 venne precisato anche il tributo che ogni colono doveva al suo padrone, nella misura della nona parte del raccolto. Questa disposizione servì a promuovere maggiormente la formazione di un'unica classe di coloni.
Morto Luigi si sciolse in poco tempo l'unione fra l'Ungheria e la Polonia e i Polacchi riconobbero come regina la figlia minore del defunto re, Edvige, diventa più tardi sposa del granduca lituano Jagellone. Durante la dominazione della figlia di Luigi, Maria (1382-95), si verificarono gravi disordini, specie nelle provincie meridionali del regno; Tvrtko di Bosnia agiva da sovrano indipendente e i signori malcontenti della Croazia e della Dalmazia offrirono il trono a Carlo di Durazzo, re di Napoli. Dopo pochi giorni di regno (1386) Carlo venne assassinato; gl'insorti però s'impadronirono delle persone di Maria e della regina vedova, Elisabetta, fecero strangolare quest'ultima e non resero la libertà a Maria che sotto la pressione delle truppe di Sigismondo e della flotta veneziana. Incoronato re, Sigismondo di Lussemburgo (1387-1437) soffocò in modo crudele la rivolta, ma non poté sopprimere le simpatie per la dinastia napoletana. Ladislao di Napoli, approfittando del malcontento contro la dominazione di Sigismondo e appoggiato dal papa, tentò di occupare il trono d'Ungheria (1403), ma le sue esitazioni fecero abortire questo tentativo.
Agli occhi di Sigismondo si presentò già in tutta la sua gravità la minaccia dei Turchi, conquistatori della Bulgaria e vittoriosi sull'esercito serbo. Nel 1395 il re obbligò il voivoda della Moldavia a rendergli omaggio e lottò con successo pure nella Valacchia, ma la campagna del 1396 contro i Turchi, questa tarda crociata in cui Sigismondo ottenne l'aiuto di Venezia e dei cavalieri dell'Occidente, specie di quelli francesi, finì con una gravissima sconfitta presso Nicopoli. Da allora in poi l'Ungheria fu obbligata a resistere da sola alla pressione formidabile dei Turchi e il problema più grave della politica magiara divenne la difesa delle provincie e dei confini meridionali. Ma l'interesse di Sigismondo venne assorbito anche dai problemi dinastici dell'Occidente, dalla successione sul trono di Boemia e di Germania. Ristabilì l'autorità del regno ungherese nella Bosnia e nelle altre provincie meridionali, ma la soluzione del grande scisma della Chiesa e gli affari delle corone boema e germanica lo tennero per anni lontano dal paese, mentre Venezia occupava con pochi sforzi e definitivamente le città dalmate (verso il 1420). La difesa del trono boemo di Sigismondo spinse l'Ungheria in lunghe guerre contro gli hussiti che ne devastarono le contrade settentrionali.
Durante la breve dominazione del genero di Sigismondo, Alberto d'Austria (1437-39), la Bosnia divenne un feudo turco. Morto Alberto, la maggior parte dei signori chiamò al trono il giovane re di Polonia, Ladislao Jagellone (1440-44), che però non poté addivenire a un accordo con la vedova, incinta, del defunto re. Fu in questi anni che si manifestò il genio militare di Giovanni Hunyadi, che con le forze ungheresi respinse vittoriosamente la formidabile pressione musulmana. Dopo una vittoria nel 1439, annientò due grandi eserciti turchi nel 1442 e l'anno appresso portò le armi magiare fino ai Balcani. L'energia ungherese non fu diminuita neppure dalla sconfitta di Varna (1444), provocata dalla temerità del giovane re che rimase ucciso sul campo di battaglia. Eletto reggente, Hunyadi continuò la lotta accanita per la difesa delle provincie meridionali. Subì nel 1448 una sconfitta sanguinosa a Kosovo in Serbia, ma nel 1454 sconfisse un esercito turco in territorio serbo e nel 1456, appoggiato dai crociati di Giovanni da Capistrano, respinse l'attacco di Maometto II contro Belgrado.
Poco tempo dopo la vittoria di Belgrado, Hunyadi morì e nel 1457 morì pure re Ladislao il Postumo che aveva perseguitato la famiglia dell'eroe facendone decapitare il figlio maggiore, Ladislao. Nel 1458 il figlio minore di Hunyadi, Mattia Corvino, il grande sovrano del Rinascimento ungherese, salì sul trono magiaro (1458-1490). All'inizio del suo regno, anche Mattia rivolse l'attenzione verso i confini meridionali e, aiutato dalla repubblica veneta, riconquistò una parte della Bosnia. Sennonché non si appagò della lotta contro i Turchi e, fidandosi dei mezzi dello stato ungherese, fu preso dal desiderio di conquistare la corona di Boemia e quella di Germania. Tessé le fila della sua politica europea intavolando trattative, poi lottando contro l'imperatore Federico III, contro gli Jagelloni di Polonia e contro Giorgio di Podĕbrady re di Boemia. Nel 1469 accettò l'elezione con cui una parte della nobiltà boema e morava, rimasta fedele al cattolicesimo, lo faceva re di Boemia e, oltre a rinsaldare il suo trono d'Ungheria contro i congiurati magiari, malcontenti del suo governo forte e della sua politica estera (1471), seppe difendere il suo prestigio nella Moravia e nella Boemia con la campagna di Breslavia, condotta contro i riuniti eserciti polacco e cèco. Nella pace di Olmütz (1479) conservava il titolo di re di Boemia, nonché il possesso effettivo della Moravia e dei principati di Slesia e di Lusazia. Il suo soverchio interesse per il trono di Boemia ebbe la fatale conseguenza che il problema turco venne trascurato. Nelle relazioni con i Turchi la situazione peggiorò infatti sensibilmente, ad onta della conquista della fortezza di Šabac e della vittoria presso Kenyérmező (il Piano del Pane, presso OrǎŞtie, nel MureŞ) sui Turchi che devastavano l'Ungheria del sud (1479). Sotto l'influsso della seconda moglie, Beatrice d'Aragona, figlia del re Ferrante di Napoli, Mattia si occupò pure della politica italiana, appoggiando gl'interessi della casa d'Aragona di fronte al papato. In seguito a questa sua politica, Ancona si mise per poco tempo sotto il patronato del re d'Ungheria e vennero mandate truppe ungheresi a riconquistare Otranto dai Turchi. Le relazioni fra Mattia e l'imperatore Federico divennero pessime, cosicché il re ungherese, dopo avere occupato una parte notevole dell'Austria, nel 1485 espugnò la stessa città di Vienna.
Per poter realizzare i suoi progetti militari e diplomatici Mattia rese gli affari militari e finanziarî indipendenti dalla nobiltà e creò nuovi organi della diplomazia e del governo centrale. Il suo esercito di mercenarî non ebbe pari in Europa. Il suo governo ebbe la rinomanza di essere equo e giusto, specie per la protezione del coloni. Mattia agì senza riguardi e scrupoli nell'interesse dinastico; creò così il nipotino di sua moglie, Ippolito d'Este, in tenerissima età arcivescovo di Esztergom. Le riforme di Mattia nel campo economico, oltre a fornirgli mezzi abbondanti per le sue imprese e azioni, aumentarono sensibilmente le forze del regno. Si connette al suo nome pure la fioritura dell'umanesimo in Ungheria.
Un forte sviluppo della cultura ungherese si poteva constatare anche prima del '400, specie all'epoca degli Angiò, mercé i legami assai stretti fra la vita intellettuale magiara e le università d'Italia. Un segno sicuro di tale sviluppo fu la fondazione di una università, una delle prime nell'Europa centrale, a Pécs (Cinquechiese) nel 1367. I contatti con l'Italia assicurarono la buona accoglienza al Rinascimento durante la dominazione di Sigismondo di Lussemburgo e dei suoi successori. Così l'umanesimo si era presentato in Ungheria anche prima di Mattia, specie nelle persone dotte dell'arcivescovo Giovanni Vitaz e di suo nipote, il celebre umanista Giano Pannonio. Sotto Mattia le scienze rinascenti passarono dalle corti vescovili alla corte reale. Scienziati ungheresi educati in Italia e umanisti italiani (T. Ugoleto di Parma, A. Bonfini, G. Marzio, F. Bandini di Firenze, ecc.) formarono un notevole cerchio di umanisti intorno al grande re. In questo sviluppo delle forme di vita del Rinascimento ungherese ebbe una parte rilevante pure la colta regina Beatrice d'Aragona.
Morto Mattia Corvino, ebbe fine pure in Ungheria l'evoluzione politica dell'era moderna tendente all'assolutismo. Il re Ladislao II Jagellone di Boemia (1490-1516), per soddisfare le pretese degli Asburgo sul trono d'Ungheria, pretese derivanti da un accordo concluso fra l'imperatore Federico e Mattia Corvino, riconobbe il diritto di successione della dinastia asburgica, dichiarò spenta la propria casa e restituì senza riscatto tutti i territorî occupati da Mattia. Tutte le creazioni importanti del Corvino vennero distrutte, diminuirono in un modo catastrofico le entrate del regno e la lotta fra l'aristocrazia e la piccola nobiltà divenne il problema centrale della vita ungherese. La decadente organizzazione del regno fu insufficiente per resistere ai Turchi e le fortezze dei confini non poterono essere difese che con l'aiuto del papato e della repubblica veneta. Ladislao, per assicurare l'avvenire della sua famiglia in Ungheria, cercò l'appoggio degli Asburgo; e perciò sposò i proprî figli, Luigi e Anna, con i nipoti di Massimiliano, Maria e Ferdinando, preparando la successione della casa asburgica sul trono ungherese, benché la dieta di Rákos del 1505 avesse determinato di non eleggere più re di sangue straniero, una volta estinta la famiglia di Ladislao. Il sensibile peggioramento che si verificò nelle condizioni delle classi inferiori del popolo condusse nel 1514 alla rivolta sanguinosissima dei Kuruc ("i crociati") di G. Dózsa. G. Zapolyai, voivoda di Transilvania e capo del partito "nazionale"), cioè di quello della piccola nobiltà, domò la rivolta e la nobiltà, approfittando dell'occasione, sottomise i coloni a "eterna" servitù, privandoli del diritto di libera migrazione.
Sotto la dominazione di Ladislao venne presentata alla dieta la famosa opera di S. Verböczi, il Tripartitum, codice del diritto consuetudinario d'Ungheria, la cui autorità incontestata contribuì maggiormente a pietrificare il feudalismo ungherese fino al 1848. Nel Tripartitum si trova già la teoria della Sacra Corona di Ungheria: nell'Ungheria non esiste potere e proprietà se non della nobiltà e la radice di ogni potere e di tutte le proprietà è la S. Corona d'Ungheria; la S. Corona invece e il suo portatore ricevono la loro potenza dalla comunità dei nobili. La teoria della S. Corona costituì per secoli la più forte garanzia dell'unità della nazione e dell'integrità dello stato.
Lo stato ungherese del Medioevo non poté fiorire senza una forte potenza centrale. La decadenza degli organi centrali, dell'esercito, del regime finanziario e della diplomazia prepararono la caduta del regno. I segni del disgregamento si manifestarono anche nel campo della vita spirituale e intellettuale: la corte reale cessò di aver la funzione di importante centro di cultura e la riforma di Lutero, appoggiata dalla regina Maria d'Asburgo e dal suo circolo, cominciò a infiltrarsi nei comuni tedeschi, benché la maggioranza della nazione le fosse ancora contraria. Sotto re Luigi II Jagellone (1516-26) i Turchi completarono il loro lavoro di distruzione. Mentre il paese immerso in lotte intestine non poteva sperare negli aiuti dell'Occidente, occupato nel conflitto germanico-francese, nel 1521 cadeva la più importante fortezza di confine, Belgrado. Il solo papato lottò disperatamente contro l'anarchia della corte e del regno. Il 29 agosto 1526, presso Mohács, il sultano Solimano annientò l'esercito ungherese; anche il giovane re Luigi perì. In quella giornata l'Ungheria perdette per sempre la sua posizione di grande potenza.
L'epoca turca. Lo smembramento dello stato (1526-1711). - Il germanofobo partito nazionale elesse re Giovanni Zapolyai (1526-40), mentre un partito debole, aggruppatosi intorno alla regina vedova, tornando alla concezione politica del Quattrocento, sperò di trovare nella persona di Ferdinando d'Asburgo (1526-64), arciduca d'Austria e re di Boemia, fratello dell'imperatore Carlo V, il sovrano che avrebbe avuto la forza di difendere il regno contro l'attacco dei Turchi. Re Giovanni, alleato di Francesco I di Francia, espulso dal paese dagli eserciti di Ferdinando, si decise a un passo disperato, mettendosi sotto la protezione del sultano insieme con l'Ungheria che per un secolo e mezzo aveva difeso il mondo cristiano contro i Turchi. In generale, la nazione magiara aveva ragione di disperare della sua sorte. Re Giovanni era debole a tal punto che un avventuriero italiano, Ludovico Gritti, poté divenire governatore del regno; d'altra parte risultò vana la speranza che Carlo V inviasse forze sufficienti al fratello Ferdinando. Le tristi condizioni del regno, conseguenza delle campagne turche (1529, 1532) e della guerra civile indussero i due re a far pace nel 1538 a Nagyvárad (Gran Varadino). In questo trattato re Giovanni rinunciò alle pretese sul trono della sua famiglia dopo la sua morte, in favore di Ferdinando, affinché il regno lacerato venisse riunito sotto un unico sovrano. Sennonché, morto Giovanni nel 1540, lasciando il figlio Giovanni Sigismondo neonato, i suoi fedeli con alla testa fra Giorgio Martinuzzi, non avendo fiducia nella forza di Ferdinando, si rifiutarono di consegnare la loro parte del paese all'Asburgo. I tentativi di Ferdinando per far valere i propri diritti con la forza non portarono ad altro risultato che alla presa della capitale Buda da parte dei Turchi (1541). La caduta della capitale ungherese segna l'inizio dell'occupazione turca e dello smembramento dello stato.
Durante l'occupazione turca il regno ungherese non fu che un campo di battaglia, sul quale le forze dell'Occidente civilizzato lottarono invano contro i Turchi che non tardarono ad allargare i confini del territorio occupato. In poco tempo venne sottomessa alla dominazione del sultano tutta la grande pianura con una parte rilevante delle contrade oltredanubiane. Nel 1547 Ferdinando si vide costretto a chiedere pace al sultano a prezzo di un annuo tributo.
Dopo la presa di Buda, il sultano concesse le contrade situate ad est del Tibisco con la Transilvania a Giovanni Sigismondo. Fra Giorgio Martinuzzi si mostrò disposto a consegnare la Transilvania a Ferdinando, ma le trattative durarono parecchi anni, non potendo fra Giorgio sperare che l'Asburgo sarebbe stato in grado di respingere un attacco punitivo dei Turchi. Finalmente nel 1551 il Martinuzzi giudicò favorevole il momento per tentare il gran colpo; Giovanni Sigismondo e la regina vedova Isabella, indennizzati da Ferdinando, lasciarono il paese, ma in quello stesso anno i capitani dell'Asburgo (Castaldo e Sforza Pallavicini), che non avevano compreso la politica astuta di fra Giorgio, per paura di esser traditi, assassinarono il grande statista. Questo errore politico ebbe conseguenze fatali. Col pretesto di vendicare la morte del Martinuzzi, i Turchi sferrarono nuovi attacchi contro l'infelice regno, e malgrado l'eroismo dei guerrieri ungheresi occuparono nuovi territorî magiari. Ferdinando non seppe mantenere sotto la propria dominazione neppure la Transilvania, la cui organizzazione in uno stato autonomo aveva avuto inizio dopo il 1542, per volere del sultano e non per un bisogno immanente della vita nazionale (v. transilvania). Dopo cinque anni di dominio, Ferdinando perdette la Transilvania (1556) dove tornò Giovanni Sigismondo con la madre.
Durante la dominazione degli Asburgo si verificarono cambiamenti essenziali nella vita politica del popolo ungherese. La nuova dinastia era padrona di diversi paesi, ma il centro del suo dominio, specie in conseguenza del pericolo turco, si trovava oltre i confini del regno magiaro. L'Ungheria rimase dunque senza corte reale, elemento essenziale per lo sviluppo della vita culturale e politica della nazione. Inoltre il popolo ungherese perdette a poco a poco pure la sua autarchia nazionale, anzitutto perché aveva bisogno continuamente dell'aiuto di altri popoli contro i Turchi.
Già sotto re Ferdinando i consiglieri più intimi del sovrano, i membri dell'importantissimo Consiglio segreto, furono tutti stranieri, per la maggior parte tedeschi; e stranieri furono anche i membri degli altri organi centrali, le cui funzioni si estendevano su tutto il complesso dei territorî asburgici, compresa l'Ungheria. Questi nuovi organi centrali furono la camera aulica per le Finanze e il consiglio bellico di guerra per gli affari militari. Le antiche autorità magiare riuscirono, è vero, a conservare nelle loro mani l'amministrazione e la giurisdizione del regno, e così mantennero l'autonomia del paese, ma il governo centrale cessò di essere magiaro e servì gl'interessi di un grande impero in un'epoca in cui, nel dualismo delle classi privilegiate e del potere centrale, quest'ultimo raggiunse il suo apogeo per l'effetto naturale della minaccia turca, che richiedeva un continuo concentramento di forze. Sotto Ferdinando e sotto suo figlio, Massimiliano (1564-76), tale evoluzione politica non ebbe inconvenienti sensibili, dato che la potenza reale non cessò di essere solidale con la volontà nazionale messa al servizio della lotta contro i Turchi e della difesa del mondo cristiano.
Fu il sovrano ad occuparsi dei mezzi materiali della difesa, attinti soprattutto dalle sue provincie austriache e boeme, dell'impero germanico e talvolta, specie nel caso di una campagna piuttosto grave, anche dagli stati italiani, dal papato e dalla Spagna. Grandissimo fu il merito della dinastia d'Asburgo nella difesa del mondo cristiano e proprio questa difesa costituì la ragion d'essere della monarchia asburgica.
I legami fra l'Ungheria e l'Occidente non vennero spezzati neppure in quest'epoca di prove durissime. In poco tempo si diffuse in Ungheria il protestantesimo dopo la sconfitta di Mohács, allorché la Chiesa cattolica, dopo aver perduto i suoi presuli sul campo di battaglia, non essendo appoggiata dalla potenza statale, vide occupati i suoi possedimenti dai signori e non poté più curarsi dell'educazione del clero. Data l'organizzazione sociale del paese in grandi proprietà, la conversione di un grande signore alla nuova fede ebbe per conseguenza che la popolazione di intere contrade si vide obbligata a seguire il padrone anche nel campo della fede. Le dottrine della Riforma furono predicate dapprima dai Tedeschi, come i predicatori di corte K. Cordatus e J. Henkel, ma poi anche da Ungheresi che avevano studiato in Germania, come M. Biró di Deva (v. dévay) e P. Melio (v.; App.), i quali subirono anche, in maniera decisiva, l'influsso dei riformatori svizzeri. Il calvinismo fu accolto anche da elementi magiari, e il sinodo di Debrecen (1567) adottò la seconda Confessio Helvetica, ma dovette, a sua volta, lottare contro l'unitarismo dei riformatori italiani e di Francesco David. Del resto la Transilvania fu allora l'unico territorio in Europa dove quattro confessioni vennero riconosciute dallo stato (calvinismo, luteranesimo, cattolicesimo, unitarismo). Nella seconda metà del sec. XVI gran parte della nazione magiara fu seguace delle nuove fedi; furono esse ad offrire l'alimento spirituale alle anime magiare e inoltre a compiere un importantissimo lavoro nazionale col servirsi della lingua nazionale. La Chiesa cattolica non cominciò a far valere le sue rivendicazioni che alla fine del secolo, mercé l'opera instancabile dei gesuiti e del clero educato al collegio germanico-ungarico di Roma.
Nella seconda metà del Cinquecento, sotto i re ed imperatori Massimiliano e Rodolfo (1576-1608), in seguito all'indirizzo politico della corte diretto contro l'autonomia statale dell'Ungheria, sorse un certo antagonismo fra sovrano e nazione. I re asburgici perdettero la fiducia nel popolo magiaro, malcontento dell'insufficiente difesa del regno da parte dei sovrani. Alla devastazione successiva del paese non pose rimedio notevole nemmeno la cosiddetta lunga campagna (1593-1608), durata 15 anni. In questa campagna il principato di Transilvania, dominato fin dal 1571 dalla dinastia dei Báthory, lottò a fianco degli Asburgo. Per la nazione ungherese l'unico risultato della lunga lotta fu la nuova, tremenda devastazione del paese. I Magiari compresero che le imprese guerresche dell'Occidente non sarebbero riuscite a liberare il regno dall'occupazione turca, e avrebbero provocato invece l'annientamento della razza ungherese. Il malcontento fu aumentato nel paese dall'azione degli organi, specie finanziarî, del governo centrale, dato che tali organi si comportarono più d'una volta in una maniera ostile al popolo ungherese. Questo sentimento di malsicurezza fu inasprito dai movimenti religiosi. La disperazione del popolo scoppiò con la rivoluzione di Stefano Bocskay (1604) che, eletto principe di Transilvania, con l'appoggio dei Turchi riuscì a occupare gran parte dell'Ungheria. La rivoluzione di Bocskay segna il sorgere di una nuova concezione politica in terra magiara, di una politica che cerca di controbilanciare la potenza germanica e la potenza turca, evitando così lo schiacciamento del popolo ungherese dissanguato. Questo fu l'indirizzo politico della Transilvania, nel sec. XVII baluardo della regione magiara. Nella pace di Vienna del 1606, Bocskay assicurava il libero esercizio della fede protestante in Ungheria e ingrandiva il territorio della Transilvania con parecchi comitati ungheresi. Fedele alla sua concezione, Bocskay seppe anche porre fine alla lunga campagna con l'armistizio di Zsitvatorok (foce del fiume Žitva), in cui non vennero più imposte condizioni umilianti al re d'Ungheria. Non si deve però dimenticare che con il sultano non esisteva che una pace relativa, durante la quale le incursioni dei Turchi non cessarono d'indebolire la razza magiara.
Nei territorî occupati dai Turchi si venne costituendo una nuova forma di vita. Abbandonati i numerosi villaggi, una volta fiorenti, la popolazione contadina si concentrò in grandi comuni. Gran parte della terra, non più coltivata, divenne sterile. Orribili furono le perdite subite dal sangue magiaro nei territorî devastati dai Turchi e dai Tatari; si formarono veri deserti, sui quali i padroni orientali favorirono lo stabilirsi di popolazioni balcaniche. Nel Seicento si verificarono molte immigrazioni di Serbi nelle contrade meridionali o di Romeni nelle contrade transtibiscane del regno. Mentre i Croati si ritiravano verso il nord, nelle contrade situate fra i fiumi Drava e Sava (la Slavonia medievale) e nei territorî transdanubiani, i "Vlachi" dei Balcani si espandevano fino all'Ungheria settentrionale, rinforzando la razza slovena, e occupavano il territorio abbandonato dai Croati. Con quest'ultimo gruppo di Vlachi cominciò il governo viennese a organizzare contro i Turchi i confini militari, specie di feudi militari, mantenuti fino alla seconda metà dell'Ottocento.
In terra ungherese l'evoluzione secentesca venne caratterizzata da un lato dalla lotta religiosa, provocata dalla Controriforma, e d'altro lato dal rafforzamento dell'indirizzo assolutista, indirizzo che nella Transilvania divenne la base di un notevole concentramento di forze, mentre nel regno ungherese invece, dominato da una dinastia straniera, fu causa di ripetuti movimenti in difesa della costituzione. La nobiltà magiara seppe approfittare dell'elezione di Mattia d'Asburgo come di quella dei suoi successori, per allargare i proprî diritti, senza riuscire però ad essere rappresentata nel governo centrale della monarchia. Il che ebbe la conseguenza fatale per l'Ungheria, che Ferdinando II (1619-37), come agl'inizî anche il suo successore Ferdinando III (1637-57), e i loro consiglieri stranieri, prevalentemente tedeschi, concentrarono tutta l'attenzione alla soluzione dei grandi problemi occidentali (guerra dei Trent'anni), trascurando il sistema delle fortezze di confine, unico mezzo di difesa contro il pericolo turco. In tali condizioni la guida politica della razza magiara divenne la Transilvania (v.).
Nelle campagne antiasburgiche dei principi transilvani la questione dei protestanti d'Ungheria ebbe una parte rilevante. All'inizio del sec. XVII, per l'azione dei gesuiti, s'iniziò nel regno ungherese con una forza travolgente la Controriforma, condotta dal cardinale Pietro Pázmány. Il processo della riconversione al cattolicismo non poté esser impedito né dalle campagne dei principi di Transilvania né dalle garanzie costituzionali concesse al protestantesimo. I Magiari ricattolicizzati continuarono la politica turcofoba dei loro avi, ma non furono appoggiati che tiepidamente dalla dinastia asburgica. Nella seconda metà del secolo si verificò nel seno degli organi governativi di Vienna una crescente magiarofobia, ricambiata da parte ungherese con uguale ostilità. L'esasperazione dei Magiari contro il governo raggiunse il culmine allorché questo lasciò cadere la Transilvania e quando, dopo la vittoria del Montecuccoli a Szentgotthard (1664), concluse una pace umiliante con la decadente potenza maomettana. I più fedeli e più cattolici dei Magiari, malcontenti, si misero a trattare chi con i Francesi, chi con i Turchi e la loro disperazione condusse alla congiura che ebbe il nome dallo stesso conte palatino F. Wesselényi. Leopoldo I (1658-1705) inaugurò allora il suo regime assolutista. Questo primo tentativo dell'assolutismo di Vienna consisteva solo nell'abolizione della costituzione ungherese, nella persecuzione dei protestanti, nonché nell'estorsione di somme eccessive, mentre invece era privo di ogni idea di riforma. I Magiari - per lo più protestanti - perseguitati, ripararono sotto la protezione della Transilvania e dei Turchi e capitanati in un primo tempo dal consigliere più intimo del principe Ápafi, Michele Teleki, più tardi dal giovane e brillante Emerico Thököly, condussero una lotta crudele contro gli oppressori. Thököly e i suoi kuruc combatterono con buon successo, a tal punto che il governo si vide obbligato a restituire la costituzione al paese.
L'avvenimento d'importanza capitale della fine del Seicento in Ungheria fu l'espulsione dei Turchi. La lega santa, appoggiata in un modo assai energico da papa Innocenzo XI e da quasi tutti i popoli cristiani (Tedeschi, Italiani, Francesi, Spagnoli), attaccò con forza irresistibile i Turchi: nel 1686 venne riconquistata Budapest e dopo lunghi anni di lotta condotta da Eugenio di Savoia, la cui grande vittoria a Zenta (1697) rese completa la sconfitta turca, nel 1699 fu conclusa la pace di Karlowitz. I Turchi rinunciavano in questa pace alla quasi totalità del territorio ungherese.
Il governo non tardò a raccogliere i frutti della sua vigorosa azione. La dieta ungherese del 1687 fu obbligata a rinunciare al diritto di elezione libera del governo, riconoscendo la successione del ramo maschile della dinastia asburgica. Il principato di Transilvania, pur rimanendo indipendente dal regno ungherese, tornò sotto la dominazione della corona d'Ungheria e quindi degli Asburgo. La politica magiarofoba del governo viennese, non contento di tali risultati, si manifestò nel rifiutare la restituzione delle terre riconquistate agli antichi proprietarî (commissio neoacquistica) e nella protezione delle masse serbe (circa 200.000 anime) bene utilizzabili contro i Magiari. La miseria e la disperazione degli Ungheresi scoppiarono nella rivoluzione di Francesco Rákóczi II (1703-11) che dagl'insorti venne eletto principe di Transilvania e principe comandante d'Ungheria. I kuruc di Rákóczi, tiepidamente appoggiati da Luigi XIV, lottarono con eroismo e tenacia contro la dinastia d'Asburgo, impegnata nella guerra per la successione spagnola e nel 1707, alla dieta di Onod, con l'intenzione di facilitare l'alleanza formale col re di Francia, dichiararono decaduta la dinastia. La lotta di Rákóczi non poteva avere un definitivo successo militare; eppure la pace di Szatmár (Satu Mare, 1711), che poneva fine ad essa, segnava l'inizio di un nuovo indirizzo politico del governo viennese. La corte preferiva rinunciare ai tentativi di assolutismo e venire a un compromesso con la nobiltà magiara, riconoscendo i privilegi di essa e i diritti costituzionali del regno.
Iniziatore di riforme fino alla fine del sec. XVIII in Ungheria fu il re. Rimase anche sotto Carlo III (1711-40) norma di governo la diffidenza verso i signori magiari, ma non tardò a svilupparsi un certo spirito di compromesso e di solidarietà fra la dinastia e le classi privilegiate. Dopo una campagna vittoriosa di Eugenio di Savoia, i Turchi vennero espulsi da tutto il territorio ungherese e la nazione, non appena redenta, memore delle sofferenze secolari, per assicurare la sua esistenza contro le minacce maomettane, nella dieta del 1722-23 accettò la prammatica sanzione.
Nei tempi di Carlo III la cultura cattolica si diffuse maggiormente nel paese, promovendo la ricolonizzazione e la riorganizzazione del regno devastato. Il sec. XVIII fu un'era di raccoglimento di forze per il popolo ungherese, era in cui le tracce della funesta dominazione turca vennero a mano a mano cancellate. L'immenso lavoro di ricolonizzazione di vastissimi territorî fu eseguito dal governo e dai grandi proprietarî. Molte migliaia di stranieri, soprattutto Tedeschi cattolici della Germania meridionale, furono chiamati nel paese; d'altro canto all'elemento magiaro fu nel proprio paese data una posizione sfavorevole dal governo che, per es., dal territorio del banato di Temesvár (TimiŞoara; angolo dei fiumi TimiŞ e Tisza), sottomesso all'amministrazione viennese, escluse i coloni magiari, per favorire invece i coloni tedeschi e serbi, specie i primi, elemento preferito anche nella grandiosa azione di colonizzazione promossa da Maria Teresa. In ogni modo l'immigrazione dei Tedeschi, relativamente colti e fedeli all'idea dello stato ungherese, costituì un vero guadagno per il paese, mentre non si può affermare altrettanto per i Serbi che, rafforzati dall'immigrazione di un'altra forte massa guidata dal patriarca di Ipek, si stabilirono definitivamente nelle contrade meridionali, né per i Romeni che, per evitare l'oppressione dei propri principi fanarioti, entrarono a sciami numerosi nella Transilvania. La parte meridionale del territorio riconquistato venne organizzata in confini militari, in dipendenza diretta dal governo, mentre gran parte del Banato venne sotto Maria Teresa (1778) incorporata nell'amministrazione civile del regno.
All'inizio della sua dominazione, Maria Teresa (1740-80) si mostrò fedele al compromesso costituitosi fra la dinastia e le classi feudali magiare, che appoggiarono la giovane regina. La nobiltà ungherese, la prima volta dopo secoli favorita dalla propria dinastia, cominciò a mostrare una certa predilezione per la vita di Vienna, per la corte, focolaio delle idee centralizzatrici della monarchia asburgica.
Fu in quest'epoca che - per lo più con la mediazione di Vienna - si diffusero le idee dell'illuminismo nel regno, facendo sentire il loro influsso nei diversi campi della vita sociale, nella diffusione delle idee dell'assistenza sociale, nella riforma dell'insegnamento (la ratio educationis) e soprattutto nel tentativo di sollevare le condizioni della classe dei coloni (Urbarium). Il merito di aver iniziato queste riforme importantissime spettava alla regina e ai suoi eccellenti collaboratori. Immenso fu invece il danno causato al paese dal regime economico-finanziario di Maria Teresa, specie dal muro doganale eretto fra l'Ungheria e le provincie austriache. Il governo inoltre promosse nel senso del mercantilismo l'industrializzazione delle provincie austriache e boeme, mantenendo invece artificiosamente l'Ungheria sul livello agricolo, per farne una specie di colonia, fornitrice di materie prime all'industria austriaca. Nello stesso tempo fu maggiormente favorito il commercio austriaco (specie quello di Vienna) a danno di quello ungherese. Le conseguenze fatali di questa politica economica non poterono essere pienamente riparate fino ai nostri giorni.
L'opera di Maria Teresa, diretta a creare con le sue provincie austriache e col regno ungherese una forte monarchia unitaria e centralizzata, fu continuata, ricorrendo alla costrizione, da Giuseppe II (1780-90) imbevuto delle idee dell'assolutismo illuminato. Diverse riforme di Giuseppe riuscirono assai utili, come l'editto di tolleranza emesso nell'interesse dei protestanti (1781) o l'altra ordinanza diretta a migliorare le condizioni dei coloni, restituendo loro il diritto di libera migrazione (1785). Con senso di costernazione furono invece accolte altre riforme, come la riorganizzazione del sistema amministrativo del regno, la misurazione delle terre, considerata come preludio alla tassazione generale (la nobiltà ungherese aveva saputo mantenere l'immunità fiscale), e infine la sostituzione della lingua tedesca alla latina come lingua ufficiale (1784). Nel corso dell'infelice guerra turca, che richiese grandi sacrifici materiali del paese, l'esasperazione della nobiltà scoppiò in un movimento minaccioso (1789), cosicché poche settimane prima della morte (febbraio 1790) Giuseppe si vide obbligato a ritirare tutte le sue ordinanze riformatrici, ad eccezione di quelle umanitarie, sulla tolleranza religiosa, sui coloni e sulla sistemazione materiale dei parroci.
Il movimento quasi rivoluzionario, organizzato con l'aiuto della massoneria, dalla nobiltà ungherese, fu tale da mettere a repentaglio la successione di Leopoldo di Toscana (1790-92), fratello di Giuseppe, anzi la sorte della dinastia in Ungheria. La dieta del 1790 segna l'inizio di un movimento duraturo, ispirato dal nazionalismo a tinta feudale. Questo nuovo indirizzo della politica magiara mirava a introdurre i concetti moderni della vita europea nell'antico sistema ungherese e sotto l'influsso della rivoluzione francese era intento a limitare i diritti del potere centrale. I malcontenti avevano intavolato trattative con le corti di Prussia e di Weimar intorno alla persona del futuro re, ma l'abile politica di Leopoldo diede un altro corso agli eventi. Concluso un armistizio con i Turchi, egli venne a un accordo con la Prussia e non esitò a trarre profitto dalla magiarofobia dei Serbi - accolti nella vita politica ungherese con la dieta del 1790-91 - per frenare le aspirazioni della nobiltà magiara. Il risultato più notevole di questa dieta fu di aver precisato con grande chiarezza l'autonomia e l'individualità indipendente dello stato magiaro, d'aver rinsaldato le garanzie della costituzione e di aver assicurato la piena libertà di culto alla confessione protestante. Una volta ristabilita la pace su tali basi fra la nazione e la dinastia, l'Ungheria non tardò ad appoggiare energicamente re Francesco (1792-1835) nelle lunghissime campagne contro la rivoluzione francese e Napoleone.
Alla dieta ungherese del 1790, contemporaneamente ai primi sforzi compiuti dai Magiari nell'interesse della loro nazionalità, si manifestarono i primi segni del conflitto magiaro-croato. I Croati erano contrarî all'idea della lingua ufficiale magiara. Altre materie di conflitto si ebbero per questioni di diritto comune, come il diritto di cittadinanza dei protestanti in Croazia, le relazioni statali della cosiddetta Bassa Slavonia (parte orientale del territorio chiuso dal Danubio, Drava e Sava), parte integrante del regno d'Ungheria prima dell'occupazione turca, le relazioni con Fiume. Si trattava di questioni, la cui soluzione, resasi sempre più difficile nel corso dell'evoluzione, costituì un motivo assai pericoloso di agitazione.
Il regime di re Francesco si rivelò ultraconservatore, anzi reazionario. Questo indirizzo politico, oltre che dalla rivoluzione francese, fu determinato anche dalla congiura a tinta giacobina dell'abate I. Martinovich, scoperta nel 1794. La nobiltà magiara, gelosa dei suoi antichi privilegi, si serrò intorno al suo sovrano, aiutandolo nelle campagne francesi anche con le sue leve in massa. L'esercito feudale del 1809 venne però sconfitto presso Győr dagli eserciti di Napoleone. Nelle bufere delle guerre europee, l'idea nazionale magiara, divampata alla dieta del 1790, pareva si fosse estinta. Eppure il movimento nazionale, assecondato dalle correnti spirituali del nuovo secolo, non tardò a manifestarsi anche in Ungheria, ma in condizioni ben differenti da quelle verificatisi nei paesi occidentali. All'Ungheria mancava la dinastia nazionale, mancava la corte; e l'assolutismo, respinto e debellato dagli Ungheresi per le sue tendenze antinazionali, non aveva preparato gli organi moderni dello stato nazionale, l'amministrazione e l'esercito moderni, le riforme sociali e le favorevoli condizioni economiche. La vita politica non cessò di svolgersi nel senso del compromesso fra la dinastia e la nazione fino al 1811, quando la dieta si rifiutò di partecipare alla stabilizzazione della valuta della monarchia. La lotta contro le richieste finanziarie e militari di Francesco condusse a una resistenza di molti comitati, che cessò solo alla dieta del 1825-27. Anche questa dieta si occupò anzitutto delle garenzie politiche della costituzione. Dal punto di vista nazionale il suo unico risultato notevole fu la fondazione dell'Accademia delle scienze, destinata a favorire lo studio della lingua patria.
I risultati fino allora raggiunti per assicurare i diritti della lingua nazionale - prima condizione della creazione di uno stato nazionale - erano stati poco importanti, perché lo stesso governo aveva cercato d'intralciare la soluzione di questo problema.
L'inizio di riforme efficaci, la preparazione dello stato nazionale ungherese si connette col nome del conte S. Széchényi (v.) che divenne l'iniziatore dell'"epoca delle riforme", in cui il lavoro delle diete, accelerato dall'agitazione nazionale, compì la creazione dello stato nazionale d'Ungheria, ad onta della resistenza tenace del governo. La dieta del 1830 rende obbligatoria la conoscenza della lingua magiara a tutti gl'impiegati del regno ungherese; la dieta del 1832-1836 alza la voce nell'interesse dei Polacchi soggiogati, stabilisce che il testo magiaro delle leggi sia considerato come l'autentico, migliora le condizioni dei coloni e provvede ad alcune lagnanze dei protestanti. Invano cercò il governo d'intralciare il movimento degli spiriti con l'adozione di misure energiche, invano fece processare e condannare il barone Nicola Wesselényi, il giovane avvocato Luigi Kossuth e alcuni giovani entusiasti presenti alla dieta del 1832: la marcia delle nuove idee del liberalismo, assecondata dall'entusiasmo della giovane generazione, si mostrò irresistibile. Le più feconde riforme pratiche, come la costruzione del famoso ponte sospeso fra Buda e Pest, la regolazione dei fiumi Danubio (Porta di Ferro) e Tibisco, ecc., vennero realizzate da Széchényi. Dopo il 1841, anno in cui fu fondato il Pesti Hírlap, giornale di L. Kossuth, questi divenne presto lo spirito direttivo delle riforme ideate ed eseguite con ritmo accelerato. Fu merito del Kossuth di aver conquistato tutta la nazione, tutte le classi sociali, all'idea della riforma politica, sociale ed economica.
La dieta del 1839-40 stabilisce il riscatto facoltativo delle terre coloniche, crea tribunali di commercio per vivificare il campo commerciale e industriale e dà incarico di elaborare un nuovo codice penale. La dieta del 1843-44 concede ai coloni il diritto di possedere proprietà già dei nobili e di occupare impieghi, provvede in forma definitiva alle lagnanze dei protestanti e rende la lingua magiara lingua ufficiale dello stato. In omaggio al progresso vittorioso dell'ideale nazionale, la Società protettrice dell'industria, fondata nel 1845, tende a rendere indipendente la vita economica ungherese da quella austriaca, si propagano le idee dei dazî doganali a scopo protezionistico e si iniziano le costruzioni delle prime ferrovie in base a un progetto generale.
Sennonché le stesse idee che avevano determinato il movimento nazionale dei Magiari nella cornice dell'evoluzione europea, provocarono con un certo ritardo dei movimenti nazionali anche in seno alle minoranze abitanti nel bacino dei Carpazî. Scrittori slovacchi e romeni assumono un atteggiamento antimagiaro; il conflitto fra Magiari e Croati prende aspetto minaccioso, quando i seguaci dell'"illirismo", teoria panslava creata da L. Gaj per propagare l'idea dell'unità nazionale degli Slavi meridionali, si misero ad educare la gioventù croata nell'odio verso i Magiari.
Avuta notizia della rivoluzione francese del febbraio 1848, il partito liberale, capitanato alla dieta del 1847-48 da L. Kossuth, ritenne venuto il momento per dare corpo ai grandi desiderî nazionali, che in parte vennero realizzati dalla superba dimostrazione della gioventù di Pest, il 15 marzo 1848, per la libertà di stampa. Sogno di Kossuth e del parlamento era lo stato nazionale e costituzionale d'Ungheria, la cui costituzione avrebbe dovuto avere una garanzia nelle istituzioni costituzionali dell'Austria.
Le leggi sanzionate l'11 aprile 1848 affidavano il potere esecutivo nelle mani di un ministero responsabile; stabilivano l'unione della Transilvania con l'Ungheria; restituivano alla nobiltà il diritto di libera disposizione delle proprie terre, proclamavano la libertà del pensiero; disponevano infine che le terre feudali dovessero passare in proprietà dei coloni, per il momento senza alcuna indennità positiva.
Sennonché contro il nuovo stato nazionale sorsero presto le resistenze e da parte delle minoranze e da quella degli statisti viennesi, rimasti fedeli alla concezione di una monarchia centralizzata. I Croati guidati dal bano G. Jellačić, pur mantenendo i legami formali con lo stato ungherese, richiedevano un'indipendente vita statale. La "nazionalità indipendente", cioè la formazione di un territorio indipendente nella cornice dello stato d'Ungheria, fu richiesta dai Serbi, incitati dagli emissarî venuti dal principato di Serbia. I capi del movimento slovacco, che avevano prima partecipato al congresso dei panslavi a Praga, si rivolsero anche loro al governo di Vienna. Infine non esitarono ad affermare la loro leale fedeltà alla dinastia i capi del movimento dacoromeno che richiedevano la nazionalità indipendente romena e che si proponevano di lottare contro l'unione della Transilvania all'Ungheria, perché tale unione avrebbe ridotto l'elemento romeno a una semplice minoranza mentre nel gran principato aveva raggiunto la maggioranza assoluta. Le idee liberali che promettevano diritti uguali ad ogni cittadino, indipendentemente dalle sue condizioni e dalla sua nazionalità, non erano dunque abbastanza forti per impedire l'inasprimento delle tendenze nazionaliste. Tali movimenti divennero preziosi alleati di quegli statisti di Vienna che non potevano rassegnarsi all'idea di un'indipendente vita statale magiara, specialmente nei riguardi degli affari militari e finanziarî.
Il capo del governo ungherese, il conte L. Batthyány, costretto a difendere la sua politica anche contro le masse radicalizzanti di Pest, cercò di sedare i movimenti delle minoranze con tutti i mezzi, e di venire a un accordo equo e leale con l'Austria, ma i suoi sforzi si dimostrarono vani. Nel settembre 1848 il bano Jellaci?čić irruppe nel regno alla testa di un forte esercito, ma il suo attacco fu respinto dall'esercito ungherese di recente organizzato. Allorché re Ferdinando V (1835-48) nominò lo stesso Jellacičić commissario regio d'Ungheria, il conflitto armato fra nazione e dinastia divenne inevitabile. L'organizzatore e l'anima instancabile della lotta per la libertà fu L. Kossuth (v.). La lotta del 1848-49 forma uno dei capitoli più belli della storia militare del popolo magiaro. L'esercito austriaco del principe A. von Windischgrätz riuscì a occupare la capitale del paese senza incontrare una resistenza seria, avendo il giovane comandante ungherese Arturo Görgey evitato la battaglia e condotto il suo esercito poco agguerrito, con abile manovra dietro il fiume Tibisco. Ma nella primavera del 1849 cominciarono lotte epiche. L'esercito vittorioso di Görgey cacciò le truppe nemiche dal paese e riconquistò Buda, mentre l'esercito del generale G. Bem - un emigrante polacco - liberava la Transilvania dalle truppe austriache e russe, e il generale M. Perczel finiva per rompere la resistenza dei Serbi insorti. Traendo le conseguenze politiche dall'avanzata vittoriosa delle armi magiare, il parlamento di Debrecen proclamò la decadenza della dinastia d'Asburgo ed elesse governatore d'Ungheria L. Kossuth (14 aprile 1849). Nel frattempo il governo austriaco, che aveva impegnato gran parte delle sue forze in Italia, era riuscito a ottenere l'aiuto dello zar Nicola II di Russia, preoccupato della vittoria delle idee rivoluzionarie e di eventuali movimenti in Polonia. Dopo battaglie sanguinose, in cui il governo magiaro non ebbe altro alleato che il governo veneziano di D. Manin, né l'esercito altro appoggio che quello dell'eroica legione italiana (A. Monti) e di quella polacca, gli eserciti russi e austriaci riuscirono a sopraffare la resistenza magiara. Il 13 agosto 1849 l'esercito di Görgey depose le armi davanti all'esercito russo presso Világos (Siria, in Transilvania).
La repressione fu spietata; dal paese, messo sotto il regime assolutista, rappresentato dalla gendarmeria e da sciami d'impiegati stranieri, vennero separati i territorî per i Croati e per i Serbi. Venne pure abolita l'unione con la Transilvania. Quest'ultimo tentativo dell'assolutismo viennese ebbe anche carattere germanizzante, in quanto nell'amministrazione del paese venne introdotta la lingua ufficiale tedesca. L'unica possibilità di autodifesa del popolo, condotta dal "savio della nazione", Francesco Deák, contro il regime di snazionalizzazione consistette nella resistenza passiva, mentre gli emigranti, con a capo L. Kossuth, che aveva preso contatto con Mazzini, cercavano di informare l'opinione mondiale delle condizioni del regno sottomesso al governo dell'arciduca Alberto.
La guerra in Italia del 1859 dimostrò la debolezza della monarchia asburgica e del suo regime assolutista. Nel 1860 Francesco Giuseppe, rinunciando all'assolutismo e alle idee di centralizzazione politica, restituì l'individualità statale ai paesi componenti la sua monarchia e tentò di venire a un accordo con l'Ungheria (diploma di ottobre). Sennonché la nazione, rimasta fedele alla Convenzione del 1848, si rifiutò di collaborare nel seno di un comune parlamento austro-ungarico. Dopo quattro anni di rinnovato assolutismo, per iniziativa di Deák, nel 1865 le trattative tra Francesco Giuseppe e la nazione magiara vennero riprese sulla base della prammatica sanzione del 1723. Accelerato dall'infelice guerra del 1866, il compromesso fu concluso nel 1867 e nello stesso anno Francesco Giuseppe si fece incoronare re.
Il compromesso stabiliva l'indipendenza dello stato nazionale d'Ungheria e la sua completa autonomia nel campo del diritto comune e del governo; gli affari concernenti la difesa comune della monarchia, come l'esercito, gli affari esteri e le finanze destinate a coprire le spese di questi due rami dell'amministrazione, venivano dichiarati affari comuni, sottomessi al controllo delle delegazioni paritetiche dei parlamenti austriaco e ungherese; fra l'Ungheria e l'Austria si stabiliva, quale base d'accordo, un compromesso riguardante gli affari commerciali e doganali; la valuta era comune. L'autonomia raggiunta dall'Ungheria nel compromesso del 1867 era più vasta di quella avuta in una qualsiasi altra epoca dopo il 1526.
Il periodo dal 1867 al 1914 fu l'epoca di una grande evoluzione economica e intellettuale dell'Ungheria, epoca in cui raggiunsero sviluppi imponenti l'agricoltura del paese, che traeva profitto del vasto sbocco rappresentato dal territorio della monarchia asburgica, e l'industria. L'interesse della vita politica rimase limitato alle sole relazioni con l'Austria, benché il compromesso fosse riconosciuto da tutti i partiti, ad eccezione di quello che poggiava sulla popolarità enorme di L. Kossuth, vivente in esilio a Torino. Nella stessa cornice del compromesso si verificò una certa evoluzione. Così il capo del governo, il conte Giulio Andrássy, riuscì a ottenere dal re la formazione di un corpo di truppe magiare (gli honvéd) e il decreto di scioglimento dei confini militari (1868). Nel 1868, dopo lunghe e difficili trattative, fu concluso il compromesso con i Croati, sulla base di una larghissima autonomia del regno croato, che ebbe il diritto di mandare un certo numero di deputati al parlamento ungherese per gli affari comuni con l'Ungheria. La città di Fiume ebbe la posizione di "corpo separato", direttamente annesso al regno d'Ungheria. Una parte rilevante del popolo croato, malcontenta di questo compromesso, si schierò intorno a A. Starčević e G. Frank, continuando la lotta per un regno di Croazia indipendente.
Il partito governativo di Deák, non potendo affrontare le difficoltà finanziarie, nel 1875 si vide obbligato a fondersi col numeroso partito capeggiato da Colomanno Tisza che dal 1875 al 1890 fu ininterrottamente al governo. Ebbe, è vero, Tisza certi meriti, come l'appoggiare la politica di G. Andrássy diretta all'occupazione della Bosnia e dell'Erzegovina e il ristabilimento del pareggio nel bilancio statale, ma evitò troppo cautamente le riforme radicali e infine dovette cedere alla pressione dell'opinione pubblica, in generale poco contenta del compromesso del 1867, specie nella parte riguardante i provvedimenti militari. L'indirizzo essenziale dell'evoluzione fu determinato dal liberalismo che negli anni 1894-95, sotto il governo di T. Wekerle, con le leggi riguardanti il diritto matrimoniale civile e l'emancipazione degli Ebrei, riportò una vittoria clamorosa. La vita parlamentare fu spesso paralizzata dall'ostruzionismo dei partiti di opposizione, malattia della vita politica a cui non seppe in un primo tempo porre rimedio neppure l'energico figlio di C. Tisza, Stefano. Infine il partito liberale, avendo cessato di rappresentare l'opinione pubblica magiara, rimase in minoranza e il suo posto venne occupato nel 1905 dalla coalizione dei partiti d'opposizione.
I lati deboli della dominazione del partito liberale furono la trascuranza del campo sociale e l'impotenza a risolvore la questione delle minoranze. Bisogna però riconoscere che quest'ultimo problema si manifestò veramente insolubile per la stessa natura dei principî contrapposti dei due campi. La nazione magiara rimaneva fedele all'idea dello stato nazionale d'Ungheria, cercando di assicurare l'uguaglianza politica a tutti i cittadini. D'altro canto, le tendenze delle minoranze erano tali da minacciare la struttura unitaria dello stato, anzi l'esistenza stessa di forti nuclei della razza magiara. Così i nazionalisti slovacchi cercavano di formare un territorio slavo con i distretti abitati da maggioranza slovacca; per la stessa ragione i Romeni erano contrarî all'unione della Transilvania con il regno, mentre i Serbi rimanevano attaccati all'idea di un voivodato serbo autonomo. Le minoranze richiedevano dunque lo smembramento del territorio statale, richiesta che non poteva essere mai accettata dai Magiari. I diversi governi ungheresi, impressionati dell'incubo del panslavismo, poterono commettere errori, ma tali errori non mettevano mai a repentaglio l'esistenza delle minoranze, mentre le tendenze delle minoranze si andavano sempre più chiaramente concentrando nel desiderio dell'unione in stati nazionali.
Il governo dei partiti d'opposizione, parte per la resistenza di Francesco Giuseppe, parte per la sua debolezza interna, non fu in grado di realizzare i punti più importanti del suo programma, come il suffragio universale, la costituzione di una banca nazionale, l'autonomia doganale, ecc. Nel 1910 cadde il governo di coalizione, a cui successe il partito del conte Stefano Tisza, che si attenne rigidamente all'antiquata struttura politica. Il gran merito di Tisza fu di aver messo fine all'ostruzionismo parlamentare.
La propaganda iniziata dalla Romania e dalla Serbia contro l'integrità del regno ungherese, nonché la propaganda panslava, manifestatasi in forme minacciose, furono fatti incontestabili, tali da dare alla guerra mondiale il carattere di una lotta per l'esistenza della razza magiara. Eppure S. Tisza fu dapprima recisamente contrario all'idea della guerra, quantunque finisse poi con l'accettarla. Quando scoppiò il conflitto mondiale, fu lo stesso Tisza a dirigere la nazione con una energia ferrea. Data la natura difficile delle condizioni del paese, estremamente pericoloso fu il fenomeno manifestatosi nel 1916, quando gli elementi radicali, guidati dal conte Michele Károlyi, cercarono di portare l'agitazione nelle masse con la richiesta del suffragio universale, volgendosi in pari tempo contro gli alleati tedeschi. Nella primavera del 1918 Tisza, non volendo favorire l'idea del nuovo re Carlo, diretta a risolvere la questione del voto, rassegnò le sue dimissioni. La legge relativa venne presentata al parlamento dal governo di A. Wekerle. Il peggioramento della situazione militare favorì l'agitazione dei radicali. Venne formato un Consiglio nazionale e il 31 ottobre la rivoluzione, divenendo vittoriosa, non tardò a proclamare la fine delle ostilità, lo scioglimento dell'alleanza con la Germania e il diritto di libera decisione delle minoranze. Nella stessa giornata S. Tisza fu assassinato dalla plebaglia. Re Carlo, con la sua dichiarazione di Eckartsau del 13 novembre, si ritirò dagli affari statali e il 16 novembre venne proclamata la repubblica. Il governo però si mostrò impotente di fronte alla crescente anarchia e alla propaganda comunista. Le richieste umilianti delle potenze alleate, presentate da un ufficiale francese, provocarono una disperazione generale nell'Ungheria. Approfittando di questo stato d'animo, nonché della mancanza di un orientamento politico del governo, il partito comunista, capeggiato da Béla Kun, venuto a patti col partito socialista, proclamò la repubblica dei sovieti ungheresi (2i marzo 1919). La dominazione dei comunisti rovinò in breve tempo i resti economici e morali della vita ungherese e non ebbe altro successo se non quello militare contro i Cèchi; essa crollò il 31 luglio in conseguenza della resistenza interna del popolo ungherese e della sconfitta inflitta ai comunisti dall'esercito romeno. Le forze della controrivoluzione, venute al potere, ricostituirono il regno e, data l'assenza del re, elessero reggente l'ammiraglio Nicola Horthy, anima del movimento nazionale controrivoluzionario (1920). L'assemblea nazionale fu costretta dalle potenze ex-nemiche a votare una legge per la detronizzazione della dinastia d'Asburgo.
Il 4 giugno 1920 fu firmato al Trianon il trattato di pace, considerato da tutta la nazione, senza differenza di partiti, come ingiusto e contrario alle minime richieste d'equità. Infatti il trattato, oltre a privare l'Ungheria delle frontiere geografiche e delle materie prime necessarie per la vita della popolazione di considerevole densità, toglie il 71,5% del territorio statale e due terzi della popolazione dell'antico regno, sottomettendo più di tre milioni di Magiari all'egemonia di razze straniere. Nel 1921 re Carlo fece due tentativi abortiti di ritornare sul trono. Nello stesso anno gli abitanti della città di Sopron votarono per l'Ungheria anziché per l'Austria. I dieci anni del governo del conte Stefano Bethlen furono l'epoca di consolidamento del nuovo stato mutilato; l'entrata nella Società delle Nazioni (1923) rese possibile la stabilizzazione col patto di amicizia italo-magiaro del 1927 l'Ungheria uscì dal suo isolamento diplomatico. Lo scoppio della crisi economica obbligò nel 1931 S. Bethlen a ritirarsi dal governo e dal 1932 il governo del generale S. Gömbös, a cui è successo nel 1936 C. Daranyi, lavora a risolvere gravi problemi politici, sociali ed economici.
In politica estera, occorre particolarmente ricordare come l'amicizia italo-ungherese si sia concretata, in questo ultimo periodo, nel protocollo di Roma del 17 marzo 1937, con cui l'Italia, l'Ungheria e l'Austria si sono accordate per una politica d'intesa e di accordi, nel campo politico e in quello economico: intesa rafforzata - dopo che l'Ungheria, come l'Austria, si era opposta a Ginevra, nell'ottobre 1935, alla applicazione di sanzioni contro l'Italia - coi protocolli addizionali di Roma del 23 marzo 1936, con cui i tre stati suddetti decidevano di costituirsi in gruppo, creando un organo permanente di consultazione reciproca, costituito dai rispettivi ministri degli esteri. Di questi rapporti particolarmente cordiali fra i due paesi sono stata espressione la visita del reggente Nicola Horthy a Roma (novembre 1936) e dei sovrani d'Italia a Budapest (maggio 1937).
Bibl.: Una bibliografia completa della letteratura storica ungherse non esiste. Per le edizioni delle fonti ha importanza fondamentale E. Bartoniek, Magyar történeti forráshiadványak (Edizioni di fonti della storia ungherese), Budapest 1929. Altre opere di natura bibliografica sono: C. Szabó, Rézi magyar könyvtár (Biblioteca antica ungherese), 1885-98, importantissimo per le opere pubblicate prima del 1711; G. Petrik, Bibliographia Hungariae, 1882-1892, per le stampe ungheresi dal 1712 al 1860, con supplementi fino al 1910; A. Apponyj, Hungarica, Ungarn betreffende im Ausland gedruckte Bücher, 1903-27; Bibliographia Hungarica I. Historica, 1922-26, cataloghi delle opere straniere riguardanti l'Ungheria, pubblicate 1861-1921; la bibliografia storica di A. Hellebrandt per gli anni 1913-17 (su Századok 1914-18); G. Szinnyci, Repertorium delle riviste ungheresi ed estere, 1874-76. - Le più importanti riviste storiche sono: Századok (Secoli), dal 1867; Magyar Történelmi Tár (Archivio storico ungherese), 1833-77 e 1914; Történelmi Tár (Archivio storico), 1878-99 e 1900-11; Magyar Gazdaságtörténelmi Szemle (Rivista di storia economica ungherese), 1894-1906; Turul, 1881. Gli archivî più ricchi e più importanti per la storia ungherese sono l'Archivio di stato di Budapest, l'Archivio di stato e l'Archivio della camera aulica, tutti e due a Vienna, e l'Archivio vaticano.
Fra le opere di carattere generale sulla storia, v.: G. Lang, Annales regum Hungariae, 1768-1770; S. Katona, Historia critica regum Hungariae, 1778-1817; I. A. Fessler, Die Geschichte von Ung., 1812-25, 2ª ed. 1867-73; G. Mailáth, Geschichte der Magyaren, 1828-31; specialmente, L. Szalay, Magyarország története (La storia dell'Ungheria), 1852-62; A magyar nemzet története (Storia della nazione ungherese) redatta da A. Szilágyi, 1895-98; V. Híman e G. Szekfű, Magyar történet (Storia ungherese, con ricca bibliografia, s. a. s. l.). Di poca importanza è E. Sayous, Histoire générale des Hongrois, 2ª ed. 1900; ottimi sono invece G. Szekfű, Staat Ungarn, 1918; A. Domanovsky, Die Geschichte Ungarns, 1923; F. Eckhart, Storia della nazione ungherese, 1929.
Per le opere riguardanti l'epoca romana e la migrazione dei popoli, v. A. Alföldi, Bibliographia Pannonica, 1935.
Epoca degli Árpád: G. Pauler e A. Szilágyi, A magyar honfoglalás kutfői (Le fonti dell'occupazione della patria magiara), 1900; Anonymi Gesta Hungarorum; S. de Kéza, Gesta Hungarorum, Chronicon pictum Vindobonense, Chronicon Budense, Chronicon Dubnicense, Chronicon Varadinense, Chronicon Posoniense, e G. Thuróczy, Chronicon Hungarorum, pubblicati nelle opere citate di F. Mátyás, S. Endlicher e G. Schwandtner, A. Bonfine, Rerum Hungaricarum decades (ed. Sambucus 1581); Chronik der Hunnen, di A. Műglen, in M. G. Kovachich, Sammlung kleiner... Stücke, 1805; le leggende di S. Stefano, S. Emerico, S. Gerardo, S. Ladislao, S. Zoerardo e Benedetto pubbl. da S. Endlicher e F. Mátyás, op. cit.; Regestrum Varadinense, a cura di G. Karácsonyi e S. Borovszky, 1903; Rogerius, Carmen miserabile, e Thomas Spalatensis, Historia Salonitanorum pontificum (F. Mátyás, op. cit.); G. Pauler, A magyar nemzet története Szent Istvánig (La storia della nazione magiara fino a S. Stefano), 1900; id., A magyar nemzet története az Árpádházi királyok korában (La storia della nazione magiara nell'epoca dei re Arpadiani), 2ª ed., 1899. Un'opera fondamentale è D. Csánki, Magyarország történelmi földrajza (La geografia storica d'Ungheria nell'epoca dell'occupazione della patria. Nel Manuale della linguistica magiara); A pannonhalmi Szent Benedek-rend története (La storia dei benedettini di P.), 1902-16; A. Fest, I primi rapporti della nazione ungherese coll'Italia, 1922; F. C. Tagányi, Szolnok-Doboka varmegyc története (La storia del comitato Sz.-D. 1901, con un'introduzione importantissima); D. Csánki, Árpád az Árpádok (Arpad e gli Arp.), 1908 (con alcuni articoli eccellenti); F. Šišić, Geschichte der Kroaten, 1917; G. Forster, III: Béla emlékezete (La memoria di Bela, III, 1900); la storia dei cisterciensi in Ungheria è stata elaborata da R. Békefi; G. Szekfű, Serviensek és familiarisok, 1912; E. Mályusz, Turórmegyekialakulása (La formazione del comitato T.), 1922; G. Ferdinandy, Az aranybulla (La Bolla d'oro), 1899; C. Szabó, Kím László (Ladislao il Comano), 1886.
L'epoca degli Angiò: Le cronache citate prima; la cronaca di Giovanni Apród, conservata nell'opera di Thuróczy; l'opera del minorita Giovanni conservata nel Chronicon Dubnicense. Importantissime sono le fonti italiane, specie le opere di A. Dandolo, L. de Monaci, dei tre Villani e di D. Gravina. Cfr., inoltre: S. Miskolczy, Magyarországaz Anjouk korában (L'Ungheria nell'epoca degli Angiò), 1923; V. Hóman, A magyar királyság pénzügyci és gazdaságpolítikéja Károly Robert korában (Le finanze e la politica economica del regno ungherese nell'epoca di Carlo Roberto), 1921; A. Domanovszky, A szepesi városok árúmegállitó joga (Lo ius stapuli della città di Szepes), 1922; F. Eckhart, Die glaubwürdigen Orte Ungarns, 1914; A. Pór, Nagy Lajos (Luigi il Grande), 1892; L. Thallóczy, Tanulmányok a bosnyák bánság kezdeteiröl (Studî sulle origini del banato bosniaco), 1905; G. Fraknói, Magyarország összeköttetésci a római szentszékkel (I rapporti dell'Ungheria con la Santa Sede romana), 1901.
Dal 1387 al 1526: Omettendo le opere di autori stranieri, come Dlugoss, Windeke, Chalcocondylas, E. S. Piccolomini, è opportuno consultare, in ogni modo, le opere del circolo italiano di Mattia Corvino, le opere di G. Marzio (ed. Schwandtner), A. Bonfini, T. Ugoleto, ecc., poi le Memorie di G. Szerémi (Mon. Ungh. Hist.), i Commentarî di L. Tubero (ed. Schwandtner), i Diarî di M. Sanudo e il De proelio ad Mohács di St. Brodarics, 1688; S. Miskolczy, Nápolyi László (Ladislao di Napoli su Századok), 1922; A. Áldásy, Zsigmond király és a velencei közstársaság (Re Sigismondo e la repubblica veneta), 1901-07; G. Wenzel, Ozorai Pipo, 1863; G. Fraknói, Hunyadi Mátyás király (Re Mattia Hunyadi), 1890; sull'umanesimo ungherse le opere di E. Abel e S. Hegedűs; G. Huszti, Janus Pannonius, 1931; G. Fraknói e altri, Bibliotheca Corvina, 1927; A. Berzeviczy, Beatrix királyné (La regina Beatrice), 1908; E. Révész, A magyarországi protestantizmus története (La storia del protestantesimo in Ungheria; pubbl. nel Manuale della storiografia ungherese).
Dal 1526 al 1711: La storia ungherese di G. Brutus (Mon. Hung. Hist.); le opere di G. Veramsius (ibid.); F. Forgách, Rerum Hungaricarum sui temporis commentarii, 1788; P. Pázmány, Opera omnia, 1898-1904; Histoire des troubles de Hongrie, 1685-86; Histoire des révolutions de Hongrie, 1739; le memorie di F. Rákóczi, 1868-86; l'autobiografia di A. Károlyi, 1865. Per la storia di Transilvania: la Storia di F. Mikó, in Mon. Hung. Hist.; G. Bethlen, Historia rerum Transilvanicarum, 1782-83; P. Jaszay, A magyar nemzet napjai a mohacsi vészutén (Le giornate della nazione ungherse dopo la catastrofe di Mohacs), 1846; A. Kretschmayr, Gritti Lajos (Luigi Gritti), 1901; M. Horváth, Utyeszenich Fráter György, 1882; R. Goos, Österreichische Staatsverträge. Fürstentum Siebenbürgen, 1911; F. Salamon, Magyarország a török hóditás korában (L'Ungheria nell'epoca dell'occupazione turca), 1864; le opere assai importanti di A. Takáts, specie Rajzok a török vilázból (Schizzi del mondo turco), 1915-17; A. Szilágyi, Erdélyország története (La storia di Transilvania), 1865-66; L. Szádeczky Kardoss, A székely nemzet története (Storia della nazione székely), 1927; E. Lukinich, Erdély területi valtozásai (I movimenti territoriali di Transilvania), 1918; E. Mályusz, Geschichte des Bürgertums in Ungarn, in Viertaljahrschrift f. Sozial- und Wirtschoftsgesch., 1928; L. Hengelmüller, F. Rákóczi, 1913; per l'espulsione dei Turchi, v. le Mitteilungen del Ministero della guerra e la biografia di Eugenio di Savoia (scritta da A. Arneth); per la storia delle minoranze nazionali, G. A. Schwicker, Politische Geschichte der Serben in Ungarn, 1880; L. Szalay, A magyarországi szerb teleph jogoiszonya az államhoz (I rapporti giuridici fra le colonie serbe, l'Ungheria e lo stato), 1861; A. Hodinka, A munkácsi görög katholikus püspökség története (La storia del vescovato greco-cattolico di M.), 1909; S. Székely, La réforme agraire en Transylvanie et l'histoire, in Revue des études hongroises, ecc., 1927.
Dal 1711 al 1918: Le opere e il carteggio di P. Apor (Mon. Hung. Hist.); importantissimi sono i diarî delle diete ungheresi pubblicati dal 1790; A. Szirmay, Jacobinorum Hungaricorum historia (Bibl. del Museo naz.); i discorsi di L. Kossuth (1895); i discorsi di F. Deák (1903); le opere del barone G. Eötvös (1901-08); le opere del conte A. Dessewffy (1887); la ricca letteratura di fogli volanti; A. Görgey, La mia vita e le mie opere in Ungheria, 1852; G. Klapka, Aus meinen Erinnerungen, 1887; id., Memoiren, 2ª ed., 1861; conte A. Apponyi, Emlékirataim (Le mie memorie), 1922-34; i discorsi di D. Szilagyi (1896) e di A. Apponyi (1897); v. ancora le opere di S. Tisza (cit. sopra); S. Gekey, A magyar Trónöröklési jog (Il diritto ungherse della successione al trono), 1917; G. Kolinovich, Nova Ungariae periodus, 1790; E. Marczali, Magyarorság II. József korában (L'Ungheria nell'epoca di Giuseppe II), 2ª ed., 1888-89; id., Az 1790-91 iki országgyűlés (La dieta del 1790-91), 1907; A. Eckhardt, A francia forradalom eszméi Magyarországon (Le idee della rivoluzione francese in Ungheria), s. a.; G. Kornis, A magyar müvelödés eszményci (Gl'ideali della cultura ungherese), s. a.; M. Horváth, Huszonöt év Magyarország történetéből (Venticinque anni della storia d'Ungheria), 3ª ed., 1886; Z. Ferenczi, Deák élete (La vita di Deák), 1904; G. Szkefű, Haromnemzedék (Tre generazioni), 2ª ed., 1922; M. Horváth, Magyarország függetlenségi harcának története (La storia della lotta per l'indipendenza dell'Ungheria), 2ª ed., 1871; A. Berzeviczy, Az abszolutizmus kora Magyarországon (L'epoca dell'assolutismo in Ungheria), 1922, segg.; E. Wertheimer, Graf Andrássy Gjula, 1910-1913; per la storia dell'epoca 1867-1918, l'opera principale G. Gratz, A dualizmus kora (L'epoca del dualismo), 1934; L. Buday, A megesonkitott Magyarország (L'Ungheria mutilata), 1921; D. Engyal, Magyarország felelőssége a világháborúért (La responsabilità dell'Ungheria per la guerra mondiale), 1923; G. Fraknói, Die ungarische Regierung und die Entstehung des Weltkrieges, 1919; C. Huszár, A bolsevizmus Magyarországon (Il bolscevismo in Ungheria), 1921.