Utilità
Il concetto di utilità, intesa come soddisfazione dei bisogni (e, più in generale, delle esigenze) dell'uomo attraverso il consumo di beni e servizi, è sempre stato presente, in forme più o meno esplicite, nella riflessione economica. In effetti, praticamente tutti coloro che si sono occupati di economia hanno riconosciuto che il fine ultimo dell'attività economica è rappresentato dal consumo di beni ovvero dalla soddisfazione dei bisogni umani che tale consumo consente. Fino alla seconda metà dell'Ottocento, tuttavia, questo riconoscimento è rimasto quasi sempre fine a se stesso e non ha avuto conseguenze di rilievo per la spiegazione dei fenomeni economici. In verità, nel periodo che va dalle origini del pensiero economico fino agli ultimi decenni del Settecento, un certo numero di autori ha tentato di andare oltre il generico riconoscimento che i beni vengono prodotti soltanto se utili, indicando nell'utilità o nel binomio utilità-scarsità la 'causa' del valore di scambio dei beni (dove il valore di scambio di un bene rispetto a un altro è dato dalla quantità del secondo bene che può essere ottenuta in cambio di una unità del primo), o addirittura suggerendo la costruzione di una teoria economica fondata sul riconoscimento che il comportamento degli individui in campo economico è, in tutto o in parte, legato all'utilità. Tuttavia per molto tempo questi tentativi non hanno avuto successo; e anzi, nel secolo che segue la pubblicazione della grande opera di Adam Smith (v., 1776) si è progressivamente affermato il sistema di pensiero della cosiddetta scuola classica, che assegnava all'utilità un ruolo del tutto secondario.
L'affermazione della scuola classica e del suo approccio prevalentemente macroeconomico non interrompe, tuttavia, i tentativi di formulare una spiegazione complessiva dei fenomeni economici a partire dal comportamento individuale e di spiegare quest'ultimo in termini di ricerca dell'utilità. Infatti, già nella prima metà del XVIII secolo vengono pubblicati alcuni brillanti contributi che, individuando il concetto di utilità marginale ed elaborandolo, anticipano aspetti fondamentali della cosiddetta rivoluzione marginalista. Ma è soltanto a partire dalla prima metà degli anni settanta del secolo scorso, quando vengono pubblicate le opere fondamentali di Jevons, Walras e Menger, che inizia un processo di radicale rinnovamento teorico, fondato sull'ipotesi che il comportamento economico degli individui possa essere spiegato in termini di ricerca della massima utilità personale. In questo articolo, dopo una breve presentazione della teoria 'classica' del valore, si descriverà l'evoluzione della teoria dell'utilità, a partire dai contributi dei fondatori della scuola marginalista fino alla moderna assiomatizzazione delle preferenze individuali, mettendo in evidenza i principali risultati via via ottenuti per quanto riguarda la logica del comportamento individuale e la teoria della domanda di beni di consumo.
Gli economisti della scuola classica condividono con i 'marginalisti' l'idea che il fine ultimo dell'attività economica sia quello di procurare oggetti utili alla vita e al benessere dell'uomo e sono anche convinti che ciascun individuo si comporti in modo da realizzare il proprio interesse. Tuttavia essi concentrano la propria attenzione sui fenomeni della produzione, della distribuzione del reddito e dello sviluppo economico, mettendo in secondo piano la domanda di beni di consumo e lo scambio di beni.
Per quanto riguarda, poi, il valore di scambio, essi ritengono che l'utilità (intesa come il valore d'uso), pur essendo il presupposto per la produzione dei beni, non sia in grado di spiegare il loro valore di scambio, ovvero i prezzi relativi ai beni, a causa del cosiddetto 'paradosso del valore'. Il paradosso viene presentato in questi termini: se fosse vero che i valori di scambio di tutti i beni dipendono dalle rispettive utilità, beni di altissima utilità o, addirittura, indispensabili per la vita dell'uomo, come l'aria e l'acqua, dovrebbero avere un valore di scambio molto superiore a quello di altri beni, come i diamanti, di cui l'uomo potrebbe benissimo fare a meno. Nella realtà, invece, l'aria e l'acqua non hanno alcun valore di scambio, mentre i diamanti hanno un valore di scambio altissimo. Di conseguenza, per evitare conclusioni paradossali è necessario abbandonare l'ipotesi che i valori di scambio dei beni dipendano dai rispettivi valori d'uso.
Una volta sgombrato il campo dalla teoria dell'utilità, i classici cercano la spiegazione del valore di scambio dei beni nel costo di produzione dei beni stessi e, con Ricardo (v., 1817), giungono alla formulazione della 'teoria del valore-lavoro'. Secondo questa teoria, il valore di scambio fra due beni è dato dal rapporto fra le quantità di lavoro, diretto e indiretto, necessarie per la loro produzione. Ne consegue che, se questa teoria è corretta, in un mercato concorrenziale il rapporto fra i prezzi dei beni dovrebbe risultare, in equilibrio, pari al rapporto fra le quantità di lavoro complessivamente necessarie per produrli.
Ricardo si accorge ben presto che, se la distribuzione temporale del lavoro direttamente o indirettamente impiegato nella produzione dei diversi beni non è la stessa, il rapporto fra i prezzi dei beni stessi diverge, in misura più o meno ampia, dal rapporto fra le quantità di lavoro impiegate nella loro produzione. Questo risultato, tuttavia, non spinge l'economista inglese, né i suoi seguaci, ad abbandonare la teoria del valore-lavoro, verosimilmente perché fra le teorie del valore formulate sino a quel momento quella del valore-lavoro, per quanto imperfetta, appariva loro la più soddisfacente.
Come ho già ricordato, nel corso del XIX secolo alcuni economisti si propongono di formulare le leggi di comportamento degli individui e di derivare da esse la spiegazione delle variabili economiche e, in primis, del valore di scambio. Essi partono dall'assunto che per ciascun individuo esista una relazione positiva fra l'utilità ottenuta dal consumo e le quantità consumate dei vari beni e che tutti gli individui effettuino le proprie scelte economiche in modo da massimizzare la propria utilità. Tuttavia il punto di svolta di questi economisti rispetto ai predecessori non sta tanto in questi assunti, quanto nella comprensione dell'importanza che hanno, per la spiegazione delle scelte dell'individuo, l'utilità marginale che l'individuo stesso ottiene dai vari beni (l'utilità marginale di un bene per un individuo è la variazione dell'utilità totale che l'individuo stesso ricava se aumenta o diminuisce di una unità il proprio consumo di un determinato bene) e l'ipotesi, basata sulla semplice introspezione, che l'utilità marginale ottenuta dall'individuo nel consumo di un qualsiasi bene diminuisca all'aumentare della quantità consumata del bene stesso, fino a diventare nulla nel cosiddetto punto di sazietà.
In effetti, la nozione di utilità marginale consente a questi economisti di costruire una teoria del valore di scambio, fondata sull'utilità, che supera l'obiezione del paradosso del valore, in quanto afferma che i valori di scambio dei beni non dipendono dalle utilità totali che i beni stessi procurano agli individui, ma dalle loro utilità marginali. Dal punto di vista di questa teoria la soluzione del paradosso del valore è molto semplice: poiché le utilità marginali dei beni dipendono, oltre che dalle valutazioni soggettive degli individui, dalle quantità disponibili dei beni stessi, è evidente che l'aria e l'acqua, per quanto utilissime e addirittura indispensabili alla vita, hanno un'utilità marginale pari a zero per tutti gli individui, in quanto entrambe sono disponibili in quantità sostanzialmente illimitata rispetto ai bisogni. Al contrario i diamanti, pur avendo un'utilità complessiva molto minore di quella dell'aria e dell'acqua, hanno un'utilità marginale molto elevata in quanto la quantità di diamanti a disposizione è molto minore della quantità necessaria a 'saturare' il corrispondente bisogno per tutti gli individui. Di conseguenza, non vi è alcun paradosso nel fatto che l'aria e l'acqua, pur essendo indispensabili alla vita, abbiano nel mercato un valore di scambio nullo e che, all'opposto, i diamanti, pur essendo sostanzialmente superflui, abbiano un valore di scambio altissimo. Una volta enunciata la proposizione fondamentale della rivoluzione marginalista, esaminiamo ora, succintamente, gli aspetti principali di questa teoria.
La struttura della teoria marginalista del comportamento individuale è semplice: si ipotizza che ciascun individuo si ponga l'obiettivo di massimizzare la propria funzione di utilità e si derivano le regole di comportamento che l'individuo deve seguire per realizzare il proprio obiettivo.
Vediamo, molto brevemente, il contenuto di questa teoria, facendo l'ipotesi, soltanto implicita in quanto è stato detto nel capitolo precedente, che l'utilità che il singolo consumatore ricava dal consumo di ciascun bene sia indipendente dalle quantità consumate degli altri beni. Consideriamo per primo il caso di un individuo in possesso di un solo bene, ad esempio il grano, che può essere destinato a usi alternativi. Poiché ciascuno di questi usi alternativi può essere considerato come un bene specifico, è evidente che, per ottenere la massima utilità complessiva, l'individuo deve ripartire la quantità disponibile di grano in modo da ottenere, nei diversi usi, la stessa utilità marginale. Infatti, quando l'utilità marginale ottenuta nei vari usi del grano è la stessa, l'individuo non può aumentare la propria utilità spostando il bene da un uso a un altro; viceversa, quando l'utilità marginale ottenuta in un determinato uso è maggiore di quella ottenuta in un uso alternativo, l'individuo può aumentare la propria utilità spostando una piccola dose di grano dal secondo uso al primo.
Consideriamo, ora, il caso più rilevante, quello di un individuo che ha deciso di destinare una determinata somma di denaro all'acquisto di beni di consumo i cui prezzi sono, per l'individuo stesso, dati. Nonostante l'apparente diversità, questo problema è sostanzialmente identico a quello precedente, in quanto le unità di moneta impiegate nell'acquisto dei vari beni, pur non procurando direttamente utilità, la procurano indirettamente attraverso l'acquisto di beni di consumo. In effetti, una unità aggiuntiva di moneta, impiegata nell'acquisto di un determinato bene, provoca per l'individuo un incremento di utilità pari a (1/P)UM, dove UM è l'utilità marginale del bene acquistato, P il prezzo del bene e 1/P la quantità di bene che l'individuo può acquistare con quella unità aggiuntiva di moneta. È quindi evidente che, per ottenere la massima utilità, l'individuo deve ripartire la propria spesa monetaria in modo che l'utilità marginale (indiretta) della moneta sia la stessa in tutti gli impieghi. In termini formali ciò significa che l'individuo deve soddisfare la condizione:
UM(q₁)/P₁=.......=UM(qn)/Pn=UMM, (1)
dove P₁,...,Pn denotano i prezzi; q₁,...,qn le quantità; UM(q₁),...,UM(qn) le utilità marginali dei beni 1,...,n; UMM è l'utilità marginale della moneta, e i rapporti fra le utilità marginali dei singoli beni e i prezzi dei beni stessi vengono definiti come le utilità marginali ponderate dei vari beni.
La prima naturale applicazione della teoria marginalista del comportamento individuale è rappresentata dall'analisi dello scambio di beni, in quanto attraverso lo scambio l'individuo può ottenere un ammontare di utilità superiore a quello che otterrebbe, in assenza di scambi, consumando direttamente i beni di cui può disporre.
Supponiamo, dunque, che ciascun individuo abbia una determinata dotazione iniziale di uno qualsiasi dei beni di consumo esistenti. Dato il carattere volontario dello scambio, è evidente che qualsiasi individuo è disposto a scambiare una unità del bene posseduto con una determinata quantità di un altro bene fino a che questo scambio comporta un incremento della sua utilità. Ne consegue che l'individuo interrompe lo scambio quando raggiunge una posizione nella quale l'utilità marginale della quantità residua del bene avuto in dotazione è uguale all'utilità marginale che egli potrebbe ottenere scambiando una ulteriore unità di questo bene con uno qualsiasi degli altri beni. In queste circostanze, infatti, l'individuo non ha alcuna convenienza a mutare le proprie scelte, mentre se si trova in una posizione diversa può aumentare la propria utilità variando l'ammontare di bene scambiato e/o variando la combinazione degli scambi fra il bene posseduto e gli altri beni.
La condizione che assicura l'equilibrio dell'individuo nello scambio è sostanzialmente identica alla (1) e determina, quindi, per ciascun individuo, la quantità domandata dei vari beni in funzione dei prezzi e della dotazione iniziale. Di conseguenza, data la distribuzione delle dotazioni fra tutti gli individui, in corrispondenza di ogni possibile sistema (o vettore) di prezzi possiamo ottenere la domanda complessiva per ciascuno dei beni presenti nel sistema. Se il vettore dei prezzi è tale da assicurare l'uguaglianza fra domanda e offerta di tutti i beni, tutti gli individui possono realizzare la posizione desiderata e, quindi, il sistema si trova in una posizione di equilibrio economico generale (EEG). Se, invece, il vettore dei prezzi non assicura questo risultato, il sistema economico si trova in una situazione di squilibrio e gli agenti 'insoddisfatti' promuovono variazioni dei prezzi allo scopo di migliorare la propria posizione.
Il problema dell'esistenza, in una economia di scambio, di una posizione di EEG e, ancor più, quello della stabilità di tale posizione (e cioè della capacità del sistema economico di convergere verso la posizione di equilibrio) sono molto complessi e non è certo questa la sede per discuterli. Assumiamo, pertanto, che l'EEG esista e sia stabile e vediamo quali sono le sue caratteristiche. In questa prospettiva osserviamo innanzitutto che, poiché nella situazione di EEG tutti gli individui realizzano effettivamente le proprie scelte, ciascuno di essi si troverà nella situazione descritta dalla condizione (1). Per ciascuna coppia di beni, i e j, valgono dunque le seguenti uguaglianze: dove i soprascritti denotano gli individui 1,..., m. Possiamo pertanto formulare la seguente proposizione: in una economia di puro scambio i prezzi relativi dei beni convergono verso valori di equilibrio che risultano uguali ai rapporti fra le utilità marginali che i beni stessi arrecano a tutti i consumatori.
La prima generazione di economisti marginalisti utilizza questa proposizione per sostenere la cosiddetta teoria soggettiva del valore, cioè per sostenere che in una economia perfettamente concorrenziale i prezzi relativi dei beni (ovvero, che è lo stesso, i valori di scambio dei beni) sono determinati dalle utilità marginali che i beni stessi hanno per tutti gli individui. A ben guardare, tuttavia, la proposizione in oggetto non giustifica affatto la teoria soggettiva del valore, per la semplice (ma buona) ragione che i rapporti fra le utilità marginali dei beni, che si hanno nella posizione di EEG, sono determinati, simultaneamente ai prezzi relativi dei beni stessi, da tutte quelle circostanze che concorrono a determinare la posizione di equilibrio e che, in una economia di puro scambio, sono: 1) le dotazioni complessive dei vari beni; 2) la ripartizione di queste dotazioni fra gli individui; 3) le funzioni di utilità degli individui. Di conseguenza, non possiamo affermare né che i rapporti fra le utilità marginali dei beni determinano i prezzi relativi dei beni stessi, né che questi ultimi determinano i rapporti fra le utilità marginali.
Gli economisti marginalisti della seconda generazione, e in particolare Marshall e Pareto, sono pienamente consapevoli che la teoria soggettiva del valore è sostanzialmente infondata e affermano con molta chiarezza che i valori di scambio dei beni (e le quantità prodotte dei beni stessi) dipendono sia dalle condizioni della domanda che dalle condizioni dell'offerta. Di conseguenza, a partire dai loro contributi, la teoria dell'utilità marginale abbandona la pretesa di spiegare da sola il valore di scambio dei beni e diventa una teoria della domanda di beni di consumo.
Un ulteriore ridimensionamento della teoria marginalista del valore, nella versione marshalliana, sarà poi operato da Piero Sraffa (v., 1926) sulla base della dimostrazione che l'equilibrio di lungo periodo di un settore perfettamente concorrenziale è logicamente compatibile soltanto con l'ipotesi di costi costanti. In effetti, in regime di costi costanti i prezzi dei beni sono determinati solo dalle condizioni dell'offerta, mentre le condizioni della domanda concorrono soltanto a determinare le quantità prodotte. Di conseguenza, in un contesto di equilibrio parziale di perfetta concorrenza la teoria del valore-utilità perde totalmente di significato e risulta, invece, valida la teoria classica del valore-costo di produzione. Questa conclusione, tuttavia, non spinge lo Sraffa del 1926 a proporre un ritorno alla teoria classica del valore-costo di produzione, ma a suggerire l'abbandono dell'ipotesi di perfetta concorrenza (in quanto incompatibile con il fatto che, nel mondo reale, le imprese operano, in generale, in condizioni di costi decrescenti) e la costruzione di una teoria generale del valore fondata sull'ipotesi opposta, quella di monopolio.
Come abbiamo già osservato, la condizione di equilibrio del consumatore determina le quantità dei vari beni che il consumatore stesso ritiene conveniente domandare in corrispondenza di determinati valori dei prezzi e della dotazione iniziale. Naturalmente, se uno (o più) di questi parametri varia, variano anche, in generale, le quantità domandate dal consumatore. La teoria della domanda si propone, appunto, di determinare il segno di queste variazioni.
Il primo economista che si è occupato di derivare, teoricamente, la funzione di domanda dei beni di consumo è Alfred Marshall (v., 1890). L'economista di Cambridge, tuttavia, si è limitato a esaminare la relazione che intercorre fra il prezzo di un bene e la quantità domandata del bene stesso, in quanto nel suo approccio metodologico, di equilibrio parziale, le interdipendenze fra i vari mercati vengono trascurate. Marshall osserva innanzitutto che, se siamo interessati alla relazione fra il prezzo e la quantità domandata di un singolo bene, diciamo il bene i, possiamo limitarci a considerare una soltanto delle uguaglianze contenute nella condizione di equilibrio del consumatore, e più precisamente l'uguaglianza fra l'utilità marginale ponderata del bene i e l'utilità marginale della moneta:
UM(qi)/Pi=UMM. (3)
Ebbene, dalla semplice osservazione della (3) risulta che, se le variazioni del prezzo del bene i non provocano variazioni dell'utilità marginale della moneta, la relazione fra il prezzo e la quantità domandata del bene, espressa da questa equazione, ha esattamente la stessa forma della funzione UM(qi), che è la relazione fra l'utilità marginale del bene e la quantità consumata del bene stesso. Ora, a rigore, l'invarianza dell'utilità marginale della moneta si verifica in casi molto particolari. Tuttavia, Marshall osserva che quando l'incidenza, sulla spesa complessiva, della spesa per l'acquisto di un determinato bene è molto piccola, le variazioni dell'utilità marginale della moneta, determinate da variazioni della spesa per l'acquisto del bene, sono di entità trascurabile. L'economista di Cambridge assume, pertanto, che l'utilità marginale della moneta sia costante e su questa base, dato il postulato dell'utilità marginale decrescente, può affermare che esiste una "legge generale della domanda", valida sia a livello individuale che a livello di mercato, secondo la quale "la quantità domandata (di un qualsiasi bene di consumo) aumenta quando il prezzo si riduce e si riduce quando il prezzo aumenta". In effetti, dalla (3) discende che, se in una situazione di equilibrio il prezzo del bene i aumenta, per ripristinare l'equilibrio il consumatore deve far aumentare l'utilità marginale del bene esattamente nella stessa proporzione in cui è aumentato il prezzo. Ma, data l'assunzione che l'utilità marginale sia decrescente, questo risultato può essere ottenuto soltanto attraverso un'adeguata riduzione della quantità domandata del bene. Da qui la "legge generale della domanda".
La teoria marshalliana della domanda ha avuto storicamente una grande importanza, in quanto ha dimostrato che la teoria marginalista del comportamento individuale è in grado di spiegare fenomeni economici molto rilevanti quali, appunto, gli effetti delle variazioni dei prezzi dei beni sulle quantità domandate dei beni stessi. In seguito, a partire da Pareto, la teoria della domanda di beni di consumo è andata molto al di là delle ipotesi semplificatrici di Marshall. Tuttavia non vi è dubbio che il contributo dell'economista di Cambridge rappresenti una pietra miliare della teoria economica moderna.
Nei capitoli precedenti abbiamo illustrato i risultati più rilevanti della scuola marginalista mantenendo l'ipotesi che l'utilità procurata da ciascun bene dipenda soltanto dalla quantità consumata del bene stesso e non anche dalle quantità consumate degli altri beni. Questa ipotesi, tuttavia, contrasta apertamente con l'obiettiva esistenza di beni fra loro succedanei o complementari, e in ogni caso comporta la costruzione di una teoria della domanda che non è in grado di spiegare il fenomeno, messo in evidenza da R. Giffen, di una relazione positiva fra la quantità domandata di alcuni beni e il rispettivo prezzo. Per questi motivi, fin dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso alcuni economisti (Edgeworth, Fisher e Pareto) si proposero di formulare una teoria del comportamento del consumatore che tenesse conto dell'interdipendenza fra le utilità dei singoli beni. Nel corso di queste ricerche, tuttavia, venne introdotto un nuovo strumento analitico, la curva di indifferenza, che portò a una radicale trasformazione della teoria dell'utilità. Vediamo brevemente i momenti principali di questa trasformazione.
Allo scopo di semplificare la trattazione geometrica del problema dello scambio, Edgeworth (v., 1881) mostra che una funzione di utilità cardinale del tipo: U=f(q₁, q₂) può anche essere rappresentata in uno spazio a due dimensioni mediante un sistema di curve di livello o di indifferenza, come quelle della fig. 1, ciascuna delle quali è formata da tutte le combinazioni dei due beni che danno al consumatore lo stesso ammontare di utilità e dove l'ammontare di utilità associato a ciascuna curva è tanto maggiore quanto più essa è lontana dall'origine degli assi. Alcuni anni dopo Fisher e Pareto riprendono l'idea di Edgeworth e utilizzano estesamente, per le proprie ricerche, le curve di indifferenza. A un certo punto, tuttavia, cercando di dedurre la funzione di utilità dell'individuo dalle sue scelte effettive, essi si accorgono che non sempre questa operazione è possibile, ma soprattutto si rendono conto che, almeno per quanto riguarda la determinazione dell'equilibrio del consumatore, è sufficiente conoscere l'ordine di preferenza che il consumatore stesso attribuisce alle curve di indifferenza. Prendendo le mosse da questo risultato, Pareto nel suo Manuale di economia politica (1906) presenta una teoria del comportamento individuale che prescinde completamente dall'esistenza di una funzione di utilità cardinale e si limita ad assumere che i consumatori siano in grado di stabilire un coerente ordine di preferenza fra tutti i possibili 'panieri' di beni. Questo ordine di preferenza può essere rappresentato da una mappa di curve di indifferenza come quelle della fig. 1, dove tuttavia gli indici associati alle singole curve non rappresentano più quantità specifiche di utilità, ma la posizione delle singole curve nell'ordine di preferenza del consumatore; esso può essere anche rappresentato da una funzione-indice di utilità che associa, a ogni combinazione dei beni 1 e 2, un indice (un valore numerico) che è tanto maggiore quanto più elevata è la posizione della combinazione nell'ordine di preferenza e che assume lo stesso valore per combinazioni fra loro indifferenti. (È importante osservare, a questo proposito, che la funzione di utilità in grado di rappresentare l'ordinamento di preferenza del consumatore, a differenza della funzione di utilità cardinale che è unica a meno di una trasformazione lineare crescente, è unica a meno di una trasformazione monotòna crescente. Ciò significa che, se f( ) è una funzione di utilità che rappresenta le preferenze del consumatore e g( ) è una qualsiasi funzione monotòna crescente, allora g(f( )) è anch'essa in grado di rappresentare le preferenze del consumatore, in quanto anch'essa associa un valore numerico maggiore alle combinazioni di beni che si trovano in posizione più elevata nell'ordine di preferenza e lo stesso valore numerico a combinazioni fra loro indifferenti).
Nel prossimo capitolo esamineremo i principali sviluppi della teoria paretiana. Prima di procedere, tuttavia, conviene fermarsi un momento per comprendere meglio il significato del passaggio dalla funzione di utilità cardinale all'ordinamento di preferenza. Dal punto di vista della storia del pensiero economico questo passaggio ha comportato soprattutto una sensibile attenuazione delle polemiche sui presupposti psicologici della teoria economica e sulla misurazione dell'utilità, che avevano travagliato i primi decenni di vita della teoria dell'utilità marginale. Dal punto di vista della teoria moderna, invece, il discorso è un po' diverso, in quanto è ormai largamente condivisa l'idea che la verifica empirica non riguardi i postulati delle teorie, ma le proposizioni che vengono dedotte da questi postulati. Di conseguenza, non vi è alcuna obiezione di principio all'assunzione che ciascun consumatore possegga una funzione di utilità cardinale piuttosto che un ordinamento di preferenza. Tuttavia la teoria fondata sull'ordinamento di preferenza risulta ancora superiore alla teoria fondata sulla funzione di utilità per un motivo diverso, e cioè perché è costruita su assunzioni di carattere più generale, che includono come caso particolare la possibilità che le preferenze del consumatore possano essere rappresentate mediante una funzione di utilità cardinale.
La struttura della teoria del comportamento individuale di ispirazione paretiana è analoga a quella della teoria marginalista: si assume che ciascun individuo abbia un ordinamento di preferenza e che desideri spendere le risorse di cui dispone in modo da massimizzare queste preferenze (ovvero la funzione-indice di utilità) e si cerca di ricavare le regole di comportamento che l'individuo stesso deve seguire per realizzare l'obiettivo desiderato.
Come abbiamo già visto, l'ordinamento di preferenza viene rappresentato mediante una mappa di curve di indifferenza, decrescenti e strettamente convesse verso l'origine degli assi. La ratio della prima di queste due assunzioni è abbastanza evidente: se l'individuo subisce la perdita di una certa quantità di uno dei due beni, per rimanere sulla stessa curva di indifferenza deve ottenere, in cambio, una quantità aggiuntiva dell'altro bene. Al contrario, la ratio della seconda caratteristica è tutta interna alla teoria, nel senso che la stretta convessità delle curve di indifferenza rende molto più agevole la formulazione di una 'soddisfacente' teoria della domanda di beni.
Per quanto riguarda i limiti alle possibilità di scelta del consumatore, essi sono espressi dal vincolo di bilancio:
P1q1 + P2q2≤R, (4)
il quale ci dice che il consumatore può acquistare una qualsiasi delle combinazioni dei due beni che comportano una spesa complessiva non superiore a un certo ammontare, R, che possiamo considerare il reddito monetario dell'individuo. In termini geometrici il vincolo di bilancio dell'individuo è rappresentato dal triangolo OAB della fig. 1, dove l'equazione della linea AB, che viene definita linea del bilancio, si ottiene eliminando il segno di disuguaglianza dalla (4).
A questo punto la soluzione del problema di scelta del consumatore è molto semplice: poiché il consumatore si propone di scegliere, fra tutte le combinazioni dei due beni che può acquistare, quella che massimizza le sue preferenze, egli sceglierà la combinazione che corrisponde al punto E, che è il punto di tangenza fra la linea del bilancio e una curva di indifferenza, in quanto, fra le combinazioni appartenenti al vincolo di bilancio, la combinazione corrispondente al punto E è quella che si trova sulla curva di indifferenza più elevata.
È importante sottolineare che la condizione di equilibrio che emerge in questo contesto è del tutto equivalente alla condizione di equilibrio formulata dalla teoria dell'utilità cardinale. Infatti, nel punto E si ha l'uguaglianza fra i prezzi relativi dei due beni, che determinano l'inclinazione della linea del bilancio, e le utilità marginali relative dei beni stessi, che determinano l'inclinazione della curva di indifferenza. Ne discende che questa condizione di equilibrio è equivalente a quella espressa dalla (1) per la teoria dell'utilità cardinale, con l'unica differenza che nell'ambito di quest'ultima le utilità marginali dei beni sono quantità assolute, mentre nell'ambito della teoria dell'utilità ordinale esse sono definite soltanto in termini relativi.
Dalla teoria dell'equilibrio illustrata nel capitolo precedente emerge chiaramente che, se sono date le preferenze dell'individuo, le sue scelte, e quindi la sua domanda per ciascuno dei due beni, dipendono dai parametri del vincolo di bilancio e cioè dai prezzi dei due beni e dal reddito del consumatore. Vediamo ora quale forma assume questa dipendenza. Cominciamo dal risultato più semplice. Se i prezzi dei due beni e il reddito monetario del consumatore variano tutti nella stessa proporzione, il vincolo di bilancio del consumatore rimane invariato, in quanto rimangono invariati sia i prezzi relativi dei due beni che, come sappiamo, determinano la pendenza della linea del bilancio, sia i rapporti R/P₁ e R/P₂, che determinano le intercette di questa linea. Di conseguenza anche la posizione di equilibrio del consumatore rimane invariata. Possiamo pertanto formulare la seguente conclusione, che viene definita assenza di illusione monetaria: una variazione proporzionale dei prezzi dei due beni e del reddito monetario del consumatore non produce alcun effetto sulla domanda dei due beni.
Vediamo ora che cosa accade se il reddito monetario del consumatore aumenta, fermi restando i prezzi dei due beni. In conseguenza dell'aumento del reddito, la linea del bilancio subisce una traslazione parallela verso destra e, quindi, il consumatore assume una nuova posizione di equilibrio, in corrispondenza della quale la quantità domandata può essere maggiore per entrambi i beni oppure maggiore per un bene e minore o uguale per l'altro. I beni la cui domanda aumenta all'aumentare del reddito vengono detti 'normali', e fra essi si distinguono i beni di lusso, la cui domanda aumenta più che proporzionalmente rispetto al reddito, e i beni di prima necessità. A loro volta, i beni la cui domanda si riduce all'aumentare del reddito vengono detti 'inferiori'.
Consideriamo, infine, la relazione che intercorre fra il prezzo di un bene e la quantità domandata del bene stesso. Supponiamo, ad esempio, che inizialmente la linea del bilancio sia data dal segmento AB della fig. 2 e che la posizione di equilibrio si trovi nel punto E. Supponiamo ora che il prezzo del bene 1 aumenti, fermi restando il prezzo del bene 2 e il reddito monetario del consumatore, e che in conseguenza di ciò la linea del bilancio assuma la posizione A´B. In corrispondenza della nuova linea del bilancio si avrà, ovviamente, una nuova posizione di equilibrio del consumatore che, a seconda della forma delle curve di indifferenza, potrà trovarsi in C oppure a sinistra o a destra di questo punto lungo la linea A′B. Ciò significa che, in seguito all'aumento del prezzo del bene 1, la quantità domandata di questo bene può rimanere costante oppure diminuire o aumentare, nel qual caso il bene 1 è un bene di Giffen.
Per determinare in quali circostanze si ha una relazione inversa fra prezzo e quantità domandata di un bene e in quali invece si ha una relazione diretta, prima l'economista russo Slutsky (v., 1915) e successivamente, in modo del tutto indipendente, gli inglesi Hicks e Allen (v., 1934) trovarono conveniente scomporre l'effetto prodotto dalla riduzione del prezzo di un bene in due diversi effetti: un effetto di sostituzione, dovuto al fatto che l'aumento del prezzo di un bene rende il bene stesso più costoso rispetto all'altro, e un effetto di reddito, dovuto al fatto che l'aumento del prezzo di un bene provoca una restrizione del vincolo di bilancio e, quindi, costringe il consumatore a scegliere combinazioni di beni che appartengono a curve di indifferenza meno elevate, esattamente come accade quando, a prezzi dei beni invariati, diminuisce il reddito monetario del consumatore.
La scomposizione dei due effetti è un po' laboriosa, ma istruttiva. Ritengo pertanto che sia utile proporla in questa sede, ovviamente nella versione più semplice, quella geometrica.
Per effettuare la scomposizione introduciamo nella fig. 2 una nuova linea del bilancio, A″B″, parallela alla linea del bilancio A′B, e tangente alla stessa curva di indifferenza alla quale è tangente la linea del bilancio iniziale, AB, e immaginiamo che il passaggio del consumatore dalla linea del bilancio iniziale a quella finale avvenga in due fasi successive: nella prima la linea del bilancio passa da AB ad A″B″, nella seconda da A″B″ ad A′B.
Concentriamo la nostra attenzione sulla prima fase. Poiché le curve di indifferenza sono strettamente convesse verso l'origine degli assi, è evidente che quando la linea del bilancio passa da AB ad A″B″ la quantità domandata del bene 1 si riduce. Ma le due linee del bilancio si differenziano, per costruzione, soltanto per i prezzi relativi dei due beni, in quanto il reddito reale del consumatore, inteso come livello di utilità, è in entrambi i casi lo stesso. Di conseguenza possiamo affermare che un aumento del prezzo relativo di un qualsiasi bene, con reddito reale costante, provoca necessariamente una riduzione della quantità domandata del bene stesso. (In termini tecnici si afferma che l'effetto di sostituzione è negativo, nel senso che il prezzo di un bene e la quantità domandata del bene stesso variano in direzioni opposte). Consideriamo ora la seconda fase. Quando la linea del bilancio passa da A″B″ ad A´B il reddito reale del consumatore si riduce, mentre i prezzi relativi dei due beni rimangono costanti. Pertanto, per l'effetto di reddito, la quantità domandata del bene 1 potrà ridursi o aumentare, a seconda che il bene sia normale oppure inferiore.
Possiamo pertanto concludere che, se il bene 1 è un bene normale, l'effetto di sostituzione e l'effetto di reddito si muovono nella stessa direzione e quindi provocano una variazione complessiva della quantità domandata del bene 1 di segno opposto rispetto alla variazione del prezzo del bene stesso. Se invece il bene 1 è un bene inferiore, l'effetto di sostituzione e l'effetto di reddito si muovono in direzioni opposte, e quindi il segno dell'effetto complessivo sulla quantità domandata dipende dall'intensità relativa dei due effetti. Tuttavia, poiché è possibile dimostrare che l'entità dell'effetto di sostituzione è tanto maggiore quanto più questo bene possiede buoni sostituti, e che l'effetto di reddito è tanto maggiore quanto maggiore è l'incidenza del bene sulla spesa complessiva del consumatore, si giunge alla conclusione che il caso di Giffen, di relazione positiva fra il prezzo e la quantità domandata di un bene, è assolutamente eccezionale. In effetti, perché questo caso si verifichi è necessario non soltanto che il bene sia inferiore, ma anche che esso non abbia buoni sostituti e che assorba una quota notevole del reddito del consumatore.
Nei primi tre capitoli della sua opera ormai classica, Valore e capitale, Hicks (v., 1939) dà una sistemazione sostanzialmente definitiva alla teoria dell'utilità ordinale, di ispirazione paretiana. Nei decenni successivi l'impostazione della teoria del consumatore rimane in generale la stessa, nel senso che, con l'importante eccezione della teoria delle preferenze rivelate che sarà esaminata nel prossimo capitolo, le scelte del consumatore vengono ancora considerate come il risultato di un processo di massimizzazione vincolata. Tuttavia, invece di iniziare con l'ipotesi che ogni consumatore abbia una funzione di utilità ordinale con determinate caratteristiche, la teoria moderna risale, per così dire, a monte di tale funzione. Più precisamente, essa prende in considerazione l'insieme dei giudizi di preferenza che il consumatore è in grado di esprimere e li rappresenta sinteticamente mediante una relazione, detta appunto di preferenza, le cui possibili proprietà vengono sistematicamente esaminate. Nell'ambito di questo esame emerge che soltanto se la relazione di preferenza possiede determinate proprietà le preferenze del consumatore possono essere rappresentate mediante una funzione di utilità ordinale con le caratteristiche ipotizzate da Pareto. Ciò significa che, dal punto di vista di questa teoria, la rappresentazione delle preferenze del consumatore mediante una funzione di utilità ordinale è soltanto un caso particolare di una rappresentazione più generale delle preferenze stesse.
Data la complessità e il rigore formale della moderna teoria del comportamento del consumatore, non è possibile in questa sede approfondirne i contenuti. Tuttavia, per dare almeno un'idea del suo modo di procedere, in questo capitolo saranno presentate alcune delle proprietà che possono essere attribuite alla relazione di preferenza e saranno messe in evidenza le implicazioni di tali proprietà per l'equilibrio del consumatore e per le relazioni che intercorrono fra i parametri del vincolo di bilancio, e, in particolare, i prezzi dei beni, e le quantità domandate dei beni stessi.
Sia X l'insieme di tutti i possibili panieri di beni di consumo e siano x e x′ due elementi qualsiasi di questo insieme. Denotiamo con ≳ una relazione di preferenza tale che x≳x′ significa che il paniere x è preferito o indifferente rispetto al paniere x′. La relazione di preferenza può avere diverse proprietà. Quelle più frequentemente utilizzate nella letteratura sono contenute nei seguenti assiomi, di significato abbastanza chiaro: 1) riflessività: per ogni x di X, x≳x; 2) completezza: per ogni coppia x, x′ o vale x≳x′ oppure x′≳x oppure valgono entrambe; 3) transitività: se x≳x′ e x′≳x″, allora x≳x″.
Una relazione di preferenza che soddisfi questi tre assiomi viene definita ordinamento di preferenza 'debole', in quanto ammette la possibilità che due panieri di beni siano fra loro indifferenti.Se una relazione di preferenza soddisfa, oltre agli assiomi suddetti, anche l'assioma di continuità (il quale implica che, se il paniere x è strettamente preferito al paniere x′, ovvero se x>x′ e x″ è sufficientemente vicino a x, allora x″>x′, se x‴ è sufficentemente vicino a x′, allora x″>x‴), le preferenze del consumatore possono essere rappresentate mediante una funzione di utilità. Esistono poi ulteriori assiomi che, se soddisfatti in aggiunta ai precedenti, garantiscono di volta in volta che la funzione di utilità sia continua oppure derivabile oppure, ancora, abbia le proprietà ipotizzate nei due capitoli precedenti.
Le implicazioni generali di questo modo di concepire le preferenze del consumatore sono presto dette: le caratteristiche della posizione di equilibrio del consumatore e la natura delle relazioni che intercorrono fra i prezzi dei beni e il reddito del consumatore, da una parte, e le quantità dei vari beni che il consumatore domanda, dall'altra, dipendono in generale dalle proprietà che vengono assegnate alla relazione di preferenza. Ad esempio, se la relazione di preferenza può essere rappresentata mediante una funzione di utilità ordinale con le caratteristiche ipotizzate nei due capitoli precedenti, nell'ambito della nuova teoria valgono tutti i risultati ottenuti nell'ambito della teoria precedente: unicità della posizione di equilibrio del consumatore, condizioni marginali di ottimo, negatività dell'effetto di sostituzione. Se invece la relazione di preferenza dà luogo a curve di indifferenza non strettamente convesse (e cioè a curve che presentano dei tratti lineari), allora l'equilibrio del consumatore non è necessariamente unico, e quindi dal processo di massimizzazione vincolata delle preferenze si ottiene, invece di una funzione di domanda, una corrispondenza di domanda, e cioè una relazione che associa a ogni vettore dei prezzi e del reddito monetario l'insieme dei panieri che, nell'ambito del vincolo di bilancio, non ne hanno di preferiti. Ancora, se la relazione di preferenza dà luogo a curve di indifferenza che presentano degli angoli, si può dimostrare che l'effetto di sostituzione non può essere positivo, ma non che è necessariamente negativo. Infine, se la relazione di preferenza non ha la proprietà di completezza (e, quindi, si ammette la possibilità che vi siano panieri fra loro non confrontabili), l'effetto di sostituzione perde addirittura di significato.
Nonostante il progressivo indebolimento dei presupposti psicologici della teoria del consumatore, che si è verificato prima nel passaggio dall'utilità cardinale all'utilità ordinale e successivamente nel passaggio da quest'ultima alla relazione di preferenza, i gusti del consumatore sono rimasti il punto di partenza della teoria stessa. In un famoso articolo del 1938 Paul Samuelson denunciò la persistenza di elementi 'metafisici' nella teoria del comportamento del consumatore e propose una teoria alternativa, costruita esclusivamente sulla base di assiomi relativi al comportamento (e cioè sulla base delle preferenze che il consumatore rivela con le proprie scelte). Nel giro di pochi anni la teoria delle preferenze rivelate perse il proprio carattere 'eversivo', in quanto fu dimostrato che i suoi assiomi equivalgono ad assumere che il consumatore si comporti come se stesse massimizzando una funzione di utilità o una relazione di preferenza. Anche per questo motivo, l'oggetto della teoria si trasformò e diventò quello di individuare le caratteristiche della corrispondenza di domanda che permettono di spiegare il comportamento del consumatore come se fosse il risultato di un processo di massimizzazione. La versione originaria della teoria delle preferenze rivelate rimane, tuttavia, molto interessante anche per la sua estrema semplicità. Pertanto mi sembra utile concludere questo articolo con una rapida illustrazione del contenuto di questa teoria.
Supponiamo che valgano i seguenti due assiomi: 1) scelta: messo di fronte a un insieme di alternative, il consumatore sceglie una e una sola combinazione; 2) coerenza: se un paniere di beni x viene scelto da un insieme di panieri alternativi che include x′≠ x, allora x′ può essere scelto da un qualsiasi insieme di panieri alternativi soltanto se x non appartiene a quell'insieme.
Assumiamo che inizialmente la linea del bilancio del consumatore sia data dal segmento AB della fig. 3 e che il consumatore scelga il punto (la combinazione) E. Supponiamo, poi, che i prezzi dei due beni e il reddito del consumatore varino tutti nella stessa proporzione. Come abbiamo già visto, in questo caso il vincolo di bilancio rimane lo stesso. Ma allora possiamo affermare che anche nella nuova situazione il consumatore continuerà a scegliere il punto E, in quanto se scegliesse un punto diverso, ad esempio E´, egli violerebbe il principio di coerenza. Risulta così dimostrata la proposizione di assenza di illusione monetaria. Assumiamo ora che il prezzo del bene 1 aumenti e che, in conseguenza di ciò, la linea del bilancio passi da AB ad A´B. Il restringimento del vincolo di bilancio rende impossibile l'acquisto della combinazione E, scelta inizialmente. Possiamo pertanto affermare che, in seguito all'aumento del prezzo del bene 1, il reddito reale del consumatore si riduce. Per eliminare gli effetti della riduzione del reddito reale e isolare, così, l'effetto di sostituzione, compensiamo il consumatore con un aumento del reddito monetario tale che, per effetto congiunto dell'aumento del prezzo del bene 1 e del reddito monetario, la linea del bilancio assuma la posizione A″B″. A questo punto osserviamo che, poiché in presenza della linea del bilancio AB il consumatore sceglie il punto E, egli 'rivela' di preferire questa combinazione a tutte le altre combinazioni appartenenti al vincolo del bilancio OAB, comprese quelle appartenenti al segmento EA″. Ma allora, quando la linea del bilancio assume la posizione A″B″ il consumatore non può scegliere nessuna delle combinazioni che si trovano, su tale linea, a destra del punto E, in quanto altrimenti violerebbe il principio di coerenza. Egli sceglierà, invece, o il punto E oppure un punto alla sua sinistra, lungo la linea A″B″. Risulta così dimostrato che l'effetto di sostituzione non può essere positivo, e cioè che se il prezzo di un bene aumenta, per l'effetto di sostituzione la quantità domandata di questo bene non può aumentare. Ne discende che per i beni normali vale la legge della domanda formulata da Marshall. (V. anche Bisogni; Consumi; Domanda; Marginalismo; Valore, teorie del).
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