Vedi Zimbabwe dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Lo Zimbabwe è oggi ritenuto uno dei paesi in cui la gestione autoritaria del potere e dell’amministrazione hanno creato una situazione di quasi collasso della struttura statale e produttiva, nonché del tessuto sociale.
Confluito nel 1953 in una Federazione con la Rhodesia Settentrionale (oggi Zambia) e con il Nyasaland (oggi Malawi), nel 1963 lo Zimbabwe (allora Rhodesia del Sud) uscì dalla Federazione (venuta meno, causa l’indipendenza degli altri due membri) e venne rinominato Rhodesia. Nel 1965, per sancire la supremazia bianca e l’origine indigena della classe dominante, il regime segregazionista di Ian Smith proclamò la propria indipendenza dal Regno Unito tramite una Unilateral Declaration of Independence. La guerriglia scatenata a partire dal 1966 dalla maggioranza della popolazione africana, strutturata in due principali movimenti di liberazione nazionale, ovvero lo Zimbabwe African People’s Union (Zapu) e lo Zimbabwe African National Union (Zanu) – entrambi con legami e appoggi sia nei paesi confinanti di recente indipendenza, sia a Mosca e Pechino – costrinse la minoranza bianca a prendere parte nel 1979 alla conferenza di Lancaster House, organizzata dal Regno Unito. L’accordo, raggiunto nel 1980, sancì di fatto la fine della supremazia bianca e l’istituzione di una democrazia pluripartitica, pur permettendo ai bianchi di mantenere una situazione di preminenza nell’ambito della proprietà terriera e di riservarsi una quota dei seggi parlamentari.
Il paese è stato di fatto governato sempre dallo Zanu-Pf (Zimbabwe African National Union – Patriotic Front), un partito inizialmente di orientamento marxista-leninista, e dal suo presidente Robert Mugabe. La lotta per il potere, soprattutto nei primi anni dopo l’indipendenza, è stata caratterizzata da un confronto serrato e a volte estremamente violento con lo Zapu di Joshua Nkomo e con la minoranza etnica degli Ndebele (o Matabele).
La perdita di consenso che Robert Mugabe e lo Zanu-Pf hanno sperimentato alla fine degli anni Novanta, sancita nel 1999 dalla vittoria del ‘no’ a un referendum costituzionale letto come un voto di sfiducia nei confronti del governo, ha dato il via a una radicale riforma agraria, alla persecuzione dell’opposizione – a partire dal Movement for Democratic Change, Mdc, guidato da Morgan Tsvangirai – e all’uso di una retorica antioccidentale (in primo luogo antibritannica) sempre più accesa da parte del presidente. Questi elementi hanno fatto precipitare il paese in una spirale di crisi economica, isolamento internazionale, violenza interna e involuzione autoritaria. Il lancio di un governo di unità nazionale nel febbraio del 2009 sembra avere in parte invertito la tendenza, anche se restano aperte molte questioni che non permettono ancora di pensare che lo Zimbabwe sia uscito dall’impasse. Nel 2013 dovrebbero tenersi le elezioni politiche e presidenziali, ma la data non è ancora stata fissata e vi sono preoccupazioni circa possibili violenze o la validità del risultato.
Le relazioni internazionali dello Zimbabwe oggi sono molto influenzate da quanto accaduto negli ultimi dieci anni: il suo presidente Mugabe e alcune figure di spicco dello Zanu-Pf sono colpite da sanzioni economiche e dal divieto di viaggiare in Europa e negli Stati Uniti e i rapporti con le cancellerie occidentali, in particolare con il Regno Unito, sono ostili. La formazione del governo di unità nazionale ha portato a una schiarita nelle relazioni con i donatori internazionali, anche se questi per ora si sono impegnati soprattutto sul fronte dell’emergenza, senza coinvolgersi in modo massiccio in programmi di sostegno diretto all’azione del nuovo governo.
La situazione di isolamento internazionale ha portato all’avvicinamento con alcuni partner, come la Libia di Gheddafi (il rais aveva forse ipotizzato un proprio esilio in Zimbabwe) e la Malaysia, che hanno permesso la sopravvivenza del regime. Anche le relazioni con la Cina si sono fatte più intense: Pechino ha negoziato con Mugabe degli accordi per lo sfruttamento dell’ingente patrimonio minerario del paese (in particolare di oro e diamanti), assicurando il fluire di valuta straniera e la fornitura di armi, necessarie per la repressione. Il flusso commerciale con la Cina nei primi dieci mesi del 2012 ha totalizzato un valore di 750 milioni di dollari, in crescita rispetto al 2011. Questi valori vanno confrontati con l’impegno della comunità dei donatori internazionali, che nel 2010 hanno erogato complessivamente 738 milioni di dollari.
Le relazioni con i paesi dell’Africa australe e in particolare con il Sudafrica sono complesse. Per quanto molti presidenti dei paesi confinanti siano legati ai membri di spicco dello Zanu-Pf e direttamente a Mugabe da legami di solidarietà politica, derivanti dall’epoca delle lotte di liberazione e difficili da rescindere, all’interno della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) la condanna nei confronti dei metodi repressivi usati dallo Zanu-Pf e la preoccupazione rispetto al deteriorarsi della situazione sociale ed economica del paese sono divenute via via più evidenti. La soluzione del governo di unità nazionale è infatti stata trovata all’interno della Sadc. L’avvicendamento tra Thabo Mbeki e Jacob Zuma alla presidenza del Sudafrica ha comportato una più decisa presa di posizione della potenza regionale (colpita anch’essa dalla crisi economica che piaga il vicino), da cui dipendono alcuni degli approvvigionamenti strategici dello Zimbabwe. L’aumentata pressione del Sudafrica non è tuttavia bastata ad assicurare un accordo sulla nuova Costituzione.
Le vicende degli ultimi dieci anni hanno reso lo Zimbabwe un regime autoritario e tra i peggiori al mondo per abusi e violenza politica. L’accordo per il governo di unità nazionale del 2009, seguito a elezioni duramente contestate e a un aumento della repressione politica nel 2008, sembra avere in parte ridotto il livello interno di conflittualità e violenza e aver affrontato alcune delle questioni amministrative più pressanti, ovvero la ripresa della fornitura dei servizi sociali essenziali, la devastante inflazione e la conseguente crisi economica.
In realtà, lo stallo politico intorno alle questioni più spinose che dividevano lo Zanu-Pf e il Mdc, ovvero un audit sulle terre, la nomina dei governatori del Mdc, la data per il referendum di approvazione della nuova Costituzione e per le elezioni presidenziali e politi-che, così come questioni relative a una legge sull’indigenizzazione e all’amministrazione della sicurezza interna, fa sì che il governo di unità nazionale lavori per continuare la fornitura dei servizi essenziali, mentre la vera battaglia politica è ancora lontana dall’essere risolta e non trova composizione all’interno delle istituzioni politiche.
Voci sulla cattiva salute di Mugabe, unite a speculazioni sulle divisioni interne nello Zanu-Pf e sulla preminenza dell’ala militare-nazionalista, guidata dal ministro della difesa Emmerson Mnangagwa, sull’ala pragmatica e moderata del partito che fa riferimento alla vicepresidente Joice Mujuru, non sono però indicazioni utili a vedere una soluzione della crisi zimbabwese. Le speculazioni sono state rafforzate dopo la morte del marito di Joice Mujuru.
La crisi politica ed economica dell’ultimo decennio ha reso lo Zimbabwe il paese con il più alto tasso di emigrazione al mondo. Si stima che dei 13,6 milioni di abitanti che il paese contava nel 2000, circa un quarto (3,5 milioni) sia emigrato, sia in Europa (Regno Unito) che nei paesi vicini (Sudafrica, Mozambico e Zambia). Dei 275.000 bianchi che risiedevano nel paese prima della riforma agraria restano poche migliaia.
Il paese, uno dei più sviluppati di tutta l’Africa australe, si trova oggi in una situazione di mancanza di risorse umane qualificate senza uguali – nonostante una popolazione molto giovane – e molti membri della diaspora non sembrano intenzionati a ritornare finché la situazione non sarà stabilizzata anche dal punto di vista politico.
La crisi economica, unita all’epidemia di Hiv-Aids, ha compromesso molti dei traguardi ottenuti dopo l’indipendenza: nel 1990, il paese aveva infatti raggiunto l’obiettivo dell’istruzione primaria universale e aveva la speranza di vita più alta della regione.
Il raggiungimento di un accordo di unità nazionale ha migliorato le prospettive economiche del paese. La crisi economica, che aveva colpito lo Zimbabwe in seguito alla riforma agraria, nel 2009 aveva riportato il pil del paese ai livelli del 1953. L’inflazione, che in dieci anni aveva abbattuto il valore del dollaro zimbabwese del 99%, unita alla diminuzione della produttività agricola, dovuta alla riforma agraria, hanno reso il paese, conosciuto come il granaio dell’Africa e secondo produttore mondiale di tabacco, un importatore netto di derrate alimentari.
In questo panorama è aumentata l’importanza delle risorse minerarie, che comprendono giacimenti di oro, diamanti (al confine con il Mozambico), cromo e platino, il cui sfruttamento – grazie anche agli interessi cinesi – ha permesso al governo di Mugabe di ottenere le risorse necessarie per restare al potere. Anche il turismo, un settore che è riuscito sostanzialmente a tenersi al riparo dalle vicende politiche, ha aiutato il governo a recuperare le riserve di valuta straniera necessarie a restare in vita. L’industria manifatturiera, seconda nella regione solo al Sudafrica, è il settore che più è stato colpito dalla crisi.
Il ministro delle finanze del governo di unità nazionale, Tendai Biti, è riuscito a ristabilire i fondamentali macroeconomici nel paese, attraverso la dollarizzazione dell’economia. La ripresa economica sembra essere però molto legata alle vicende politiche e quindi alle elezioni previste per il 2013.
L’esercito zimbabwese deriva dai movimenti armati della lotta per la liberazione ed è stato impegnato in alcuni conflitti nei paesi vicini, anche recenti (come la Prima guerra del Congo). Il suo ruolo però oggi è soprattutto politico: l’ala militare dello Zanu-Pf, composta dai combattenti della lotta di liberazione, ricopre un ruolo chiave nel mantenere Mugabe al potere e nel difendere gli assetti, anche ideologici, derivanti dalla lotta armata contro il Mdc, ritenuto asservito agli interessi dei farmers bianchi. L’avvicendamento di alcune figure dell’ala militare del partito e la normalizzazione della gestione delle questioni della sicurezza sembrano essere due elementi chiave per la transizione verso la democrazia.
Il governo di unità nazionale nominato il 13 febbraio 2009 è il frutto di una lunga, complessa e incerta mediazione seguita al non dirimente risultato elettorale del 29 marzo 2008.
Dopo una campagna elettorale segnata da intimidazioni e brogli pre-elettorali, ma più libera di quanto si aspettassero gli osservatori internazionali, dalle urne non è uscito un chiaro verdetto in merito a chi dovesse essere eletto presidente: Robert Mugabe ha ottenuto il 43,2% dei voti, mentre il leader dell’opposizione, Morgan Tsvangirai, ha totalizzato il 47,9% dei voti. Non essendo questa la maggioranza assoluta dei voti, Tsvangirai non ha però ottenuto la presidenza al primo turno.
Il secondo turno delle presidenziali, tenutosi il 27 giugno 2008, è stato in realtà un’elezione farsa: in seguito all’arresto e alla detenzione di molti sostenitori del suo partito, Tsvangirai si è ritirato la settimana prima delle elezioni e si è potuto votare solo per Mugabe.
L’elezione con un solo candidato ha avuto il risultato atteso e, a partire da quel momento, considerato che il partito di Mugabe non deteneva la maggioranza in Parlamento, si è cercata una soluzione negoziata alla crisi, che si è conclusa solo il 29 gennaio 2009 con la nomina del nuovo governo, dopo due accordi tra Zanu-Pf e Mdc.