bene
Nella storia della filosofia è possibile distinguere due diverse concezioni del b.: una oggettivistica e metafisica, e una soggettivistica. Il massimo esponente della prima è Platone, per il quale il fondamento metafisico del reale è costituito dalle idee, e il b. è l’idea suprema. Platone paragona il b. al Sole, affermando che, come il Sole permette alle cose di essere generate, di crescere e di divenire visibili, così il b. fa essere e rende conoscibili le idee («Ciò che il b. è nel mondo intelligibile rispetto all’intelletto e agli intelligibili, altrettanto è [il Sole] nel visibile rispetto alla vista e agli oggetti visibili», Repubblica, VI, 508 a-d). Il b. è dunque in Platone il principio di spiegazione di tutto l’Universo: è ciò che fa essere ogni cosa, ideale e reale, è Dio medesimo. L’uomo può ascendere a esso solo se si sottrae ai sensi, disprezzando quelli che sono b. solo per chi, nelle tenebre della caverna, ancora scambia per realtà le ombre, cioè le cose sensibili. Aristotele elabora due concezioni del b.: una di carattere antiplatonico, secondo la quale il b. non è qualcosa di trascendente bensì è qualcosa di immanente alla vita sociale e politica dell’uomo, una di ispirazione platonizzante, in quanto identifica il b. con l’atto puro o motore immobile. Nell’Etica Nicomachea, infatti, Aristotele dice cha la saggezza (φρόνησις) è la virtù di coloro che sono capaci di amministrare bene la famiglia o lo Stato, in quanto sanno che cosa è b. sia per loro stessi sia per gli altri. Ma ben superiore alla saggezza è la sapienza (σοφία), che è la scienza delle realtà più sublimi, delle quali coglie anche i princìpi, con un’intuizione immediata. Plotino, riprendendo la dottrina platonica, concepisce il b. come la prima ipostasi dell’Uno, e lo considera come causa dell’essere e della scienza (Enneadi, VI, 7, 16). Una cosa è quindi buona nella misura in cui partecipa del b. supremo, derivando da esso per via emanativa, e occupa il posto assegnatole all’interno di un ordine universale.
Concentrando in Dio tutti i valori, il cristianesimo lo concepisce come il b. supremo in entrambi i significati, di suprema bontà e di suprema felicità per chi giunga a Lui, conservandogli altresì il significato di supremo modello, di altissima meta di ogni operare umano, di sovrana misura in base alla quale tutto è giudicato. Tommaso afferma la coincidenza in Dio, secundum rem, del b. con l’essere: «Ostensum est…ipsum esse primum ens et summum bonum» (Summa contra Gentiles, II, 11, 910; cfr. anche Summa theologiae, I, q. 5, artt. 1-3). Il cristianesimo, introducendo il principio della creazione, porta così alle estreme conseguenze la dottrina del b. metafisico e ontologico in quanto rivendica al creato come tale la dignità di cosa buona perché creata da Dio, Sommo Bene. Il b. metafisico diviene espressione di un afflato cosmico che unisce il mondo a Dio.
Per il naturalismo del Rinascimento il b. è ciò che è appetito. Ma è soprattutto il soggettivismo moderno a trasformare radicalmente l’idea del bene Con Hobbes si arriva a formulazioni assai nette in senso soggettivistico: «L’uomo chiama buono l’oggetto del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio o della sua avversione, vile l’oggetto del suo disprezzo. Le parole ‘buono’, ‘cattivo’, ‘vile’ si intendono sempre in rapporto a chi le adopera; perché non c’è nulla di assolutamente e semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il b. e per il male, che derivi dalla natura delle cose» (Leviatano, I, 6). Lo segue Spinoza: «Intenderò essere b. quello che sappiamo certamente esserci utile» (Etica, IV, def. I). Sulla stessa linea è Locke: «Ciò che è atto a produrre piacere in noi è quello che chiamiamo b. e ciò che è atto a produrre dolore è ciò che chiamiamo male; e per nessun’altra ragione tranne la sua attitudine a produrre in noi piacere o dolore, nelle quali cose consiste la nostra felicità o infelicità» (Saggio sull’intelletto umano, II, 21, 43). Kant riprende e trasforma profondamente la concezione soggettivistica: il b. consiste nella volontà buona, tesa al rispetto della legge morale; consiste cioè in un modo d’azione estraneo a ogni calcolo di utilità o di felicità immediata, a favore del rispetto di quel dovere che ogni uomo sente nella propria coscienza come un comando inesorabile. Kant tuttavia ammette che il ‘b. perfetto’ (o ‘sommo bene’) deve contenere, oltre alla virtù, anche la felicità, e postula l’esistenza di Dio, che, in una vita oltremondana, dovrà commisurare la felicità alla virtù.