Cattaneo, Carlo
Filosofo e uomo politico italiano (Milano 1801 - Castagnola, Lugano, 1869). Formatosi alla scuola di Romagnosi, viene considerato il fondatore del positivismo italiano. Laureatosi in diritto a Pavia, collaborò assiduamente (1833-38) agli Annali universali di statistica, occupandosi di ferrovie, bonifiche, dazi, commerci, agricoltura, finanze, opere pubbliche, geografia, letteratura, linguistica, storia e filosofia. Nel 1839 fondò il Politecnico, che diresse sino al 1844. Durante le Cinque giornate di Milano (1848) diresse il Consiglio di guerra. Di convinzioni repubblicane e federaliste, dovette cedere il passo ai filopiemontesi: si ritirò dapprima a Parigi (dove pubblicò L’insurrection de Milan en 1848, tradotto in italiano l’anno seguente) e quindi a Castagnola (Lugano), dove insegnò filosofia nel liceo cantonale. Nel 1857 pubblicò Invito alli amatori della filosofia, che viene considerato come il primo manifesto del positivismo in Italia. Tornò quindi (1859) a Milano e avviò la seconda serie del Politecnico. Nel 1860 si recò a Napoli come consigliere di Garibaldi, sperando di far passare il principio federale; prevalso il partito dell’annessione, tornò a Castagnola. Eletto per due volte deputato (nel 1860 e nel 1867), non prese mai parte ai lavori parlamentari per non dover prestare giuramento alla monarchia. Tra i suoi scritti: Sulla Scienza Nuova di Vico, 1839; Considerazioni sul principio della filosofia, 1844; La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, 1858; Psicologia delle menti associate, 1859-64.
Il pensiero di Cattaneo nasce dall’incontro tra la cultura positivistica (nella versione sociale di tipo saintsimoniano), la tradizione illuministica lombarda ed europea e un forte senso della storicità del mondo umano mutuato da Vico. Di matrice positivistica è la sua concezione della filosofia come ‘sintesi delle scienze’: essa deve studiare, secondo C., l’uomo «nelle sue relazioni più generali agli altri esseri, come questi appariscano al testimonio concorde di tutte le scienze morali e fisiche». Questo intento enciclopedico rimase tuttavia allo stato di progetto; esso trovò realizzazione soltanto nella Psicologia delle menti associate, nella quale cercò di mettere a punto un’interpretazione sociale dello sviluppo psicologico. C. ritiene infatti impossibile comprendere l’uomo rimanendo sul piano dell’introspezione o del puro pensiero, come fanno le filosofie speculative. L’uomo realizza sé stesso nel rapporto attivo e mutevole con la natura e la società; e poiché natura e società sono oggetto di scienze particolari, la filosofia deve partire dai loro risultati per definire le possibilità di conoscenza e trasformazione della realtà stessa. Essa deve mirare «alla prosperità e coltura sociale», ossia al progresso, assumendo la fisionomia di una «filosofia civile». Ma il progresso di cui parla C. – e qui emergono le radici illuministiche del suo pensiero – non è un processo lineare e necessario, bensì una vicenda esposta al rischio di interruzioni e regressi, che richiede l’impegno e la responsabilità dei singoli: non è «così spontaneo e vittorioso», scrive C., come apparve «a coloro che, per architettare un ordinato sviluppo di cause e d’effetti, tolsero all’uomo la responsabilità e la vigilanza delle sue sorti».
Il progresso è inoltre inestricabilmente connesso, per C., alla libertà, ossia alla presenza di un pluralità di principi e interessi in conflitto tra di loro. Tale pluralismo conflittuale dà luogo a «sistemi aperti e dinamici», mentre la presenza di un unico principio origina «sistemi chiusi e retrogradi», caratterizzati dal dispotismo. L’elogio del conflitto e della varietà – estraneo alla mentalità organica dei positivisti e vicino alla visione liberale della democrazia – porta C. a sostenere il principio della competizione in ogni campo, incluso quello economico, e ad avversare il socialismo, nel quale vede pericolose tendenze burocratiche e accentratrici. Tale sensibilità per il pluralismo, unita alle convinzioni repubblicane e democratiche, condurrà C. a diventare teorico del federalismo: soltanto entità politiche di piccole dimensioni avrebbero permesso la partecipazione dei cittadini alla vita politica ed evitato, a suo parere, gli effetti soffocanti della burocrazia, che nei grandi Stati tende a trasformarsi in una ‘casta’ sottratta al controllo dei parlamenti. Prima del 1848 C. immagina la trasformazione graduale dell’Impero austriaco in una federazione multinazionale, all’interno della quale il Lombardo-Veneto avrebbe svolto una funzione di traino economico (egli era contrario all’annessione al Piemonte, che giudicava arretrato economicamente e socialmente). Dopo il 1848 si farà sostenitore di un assetto federale dell’Italia e anche dell’Europa (gli Stati Uniti d’Italia e d’Europa). Il suo atteggiamento laico e illuministico, la sua avversione all’idea del ‘primato italiano’ e la sua insofferenza verso l’insurrezionalismo mazziniano così come verso la retorica patriottica dei moderati ne faranno una figura ‘anomala’ nel quadro della cultura politica dell’Italia del Risorgimento.