Convivenza in stato coniugale al di fuori del matrimonio.
Il c. era regolato dai diritti antichi come istituto socialmente riconosciuto. Nel diritto attico, la concubina differisce dall’etera in quanto vive nella casa del suo compagno e ha cura di lui; differisce poi dalla moglie, perché non dà all’uomo prole legittima e non partecipa, come la moglie, ai diritti sociali del marito. A Roma il c. fu indirettamente favorito dalla Lex Iulia de adulteriis e dalla Lex Iulia et Papia Poppaea. La prima elencava una serie di persone con le quali era lecito avere rapporti sessuali senza incorrere in una pena; la seconda stabiliva vari impedimenti matrimoniali di carattere sociale. L’una rendeva possibile un’unione extramatrimoniale, l’altra induceva indirettamente a contrarla. Sino all’epoca degl’imperatori cristiani, il c. fu istituto di mero fatto. Con la condanna del c. da parte della nuova società cristiana, l’intervento legislativo, teso a favorire la trasformazione del c. in matrimonio e ad abbassare la condizione della concubina e dei figli, lo rese infine un vero istituto giuridico. Solo con Giustiniano però esso appare in termini ben definiti, il più significativo dei quali è il carattere rigorosamente monogamico. Nel diritto bizantino l’istituto del c. fu abrogato dalle costituzioni di Basilio il Macedone e di Leone il Filosofo. La Chiesa condannò sempre il c., ma nella pratica esso persistette. Le legislazioni laiche arrivarono al divieto generale solo dopo il Concilio di Trento.
In Italia il c., definito come il reato del marito che tenesse una concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove, era punito dall’art. 560 c.p., dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale, con sentenza 4 dicembre 1969.