Critica cinematografica
di Daniele Dottorini
La storia della c. c. si è sviluppata parallelamente alla storia del cinema, spesso accompagnandone (o anticipandone) i mutamenti linguistici, le tendenze, le correnti estetiche che hanno caratterizzato ‒ e che continuano a caratterizzare ‒ il medium cinematografico. Anche il ruolo, la funzione e il significato stesso di c. c. hanno subito, nel corso del tempo, trasformazioni e mutamenti tali da creare un vasto panorama di forme e di modalità attraverso cui l'esercizio critico ha trovato una sua attuazione. Gli scritti o gli articoli di argomento cinematografico della fine dell'Ottocento e dei primi anni del Novecento non presentano ancora una scrittura critica, non costituiscono cioè una c. c. nel senso di un discorso sul film teso all'interpretazione del suo linguaggio e alla formulazione di un giudizio estetico sull'opera, ma appartengono a un giornalismo d'informazione e di cronaca, indirizzato ai lettori curiosi di conoscere le caratteristiche della nuova invenzione e teso a descrivere il funzionamento e gli effetti sul pubblico dell'immagine in movimento, oppure a riassumere la trama del film per informare i lettori sullo spettacolo cui stavano per assistere. Si può iniziare a parlare di c. c. a partire soprattutto dagli anni Dieci del 20° sec., quando l'invenzione del cinema divenne oggetto delle prime trattazioni teoriche, per es. quella di Ricciotto Canudo. La legittimazione teorica del cinema (per tutta la questione e gli sviluppi successivi v. anche teorie del cinema) favorì in quel periodo, soprattutto in Francia, la nascita di una critica tesa a ricercare, nell'analisi dei singoli film, gli elementi estetici specifici della nuova arte. Negli anni seguenti l'inizio della Prima guerra mondiale fiorirono le riviste specializzate, tra cui "Le film", "La cinématographie française", "Hebdo-Film" (v. rivista). Pioniere e principale rappresentante di una prassi critica in stretta relazione con la ricerca teorica fu senz'altro in Francia Louis Delluc. Nei suoi scritti ‒ come in quelli di critici quali René Jeanne o Émile Vuillermoz ‒ critica e teoria procedono di pari passo, ogni film diventa l'occasione per riflettere sulla natura profonda del cinema. Mentre nei Paesi di area anglosassone proliferarono le pubblicazioni specializzate sugli attori cinematografici, principali veicoli per la nascita e lo sviluppo dello star system (sin dal 1911 nacquero negli Stati Uniti riviste dedicate esclusivamente alle stelle del cinema muto come "Motion picture story magazine"), soprattutto in Francia, ma anche in altri Paesi europei, a partire dagli anni Venti la prassi critica si legò ancora di più alla teoria: uscirono quindi saggi, studi monografici, numeri speciali di riviste. Tra il 1920 e il 1930 si pubblicarono molti testi di critici e teorici come Élie Faure (L'arbre d'Éden, 1922) o Léon Moussinac (Naissance du cinéma, 1925, Le cinéma soviétique, 1928 e Panoramique du cinéma, 1929).
Oltre all'attività di scrittura e di analisi del film, l'attività critica si sviluppò anche nella direzione della promozione e della conservazione delle singole opere. Nacquero in tutto il mondo cineclub, circoli del cinema, luoghi deputati alla visione di film, alla discussione delle opere e delle poetiche dei registi. Emblematica in tal senso fu in Francia la figura di Henri Langlois, direttore, a partire dalla metà degli anni Trenta, della Cinémathèque française. Egli rappresentò, con la sua attività volta alla promozione di autori, tendenze e stili del cinema, un modello di c. c. tesa non solo all'analisi del film, ma anche alla sua diffusione e salvaguardia. Gli anni Trenta e i primi anni Quaranta furono caratterizzati da una generale tendenza verso una specializzazione sia della c. c. ‒ in cui divenne netta la divisione tra una scrittura e una pratica critica iperspecializzata e una critica popolare, sempre meno interessata a un aggancio con il dibattito teorico ‒ sia della teoria del cinema, che acquisì una sua autonomia grazie alla nascita di riviste eminentemente teoriche (come "Révue internationale de filmologie", "Screen", "Iris", "Hors cadre"), e allo sviluppo in molte parti del mondo di studi a livello universitario (con la nascita di cattedre dedicate alla storia o alla teoria del cinema). Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (dalla televisione a Internet) avrebbe poi permesso, nel corso dei decenni successivi, una proliferazione della scrittura critica che, se in linea generale riproduce la divisione tra una critica specializzata e una popolare, evidenzia anche l'esistenza di modelli diversi che rendono complessa una definizione unitaria e definitiva di che cosa si intenda per critica cinematografica.In particolare, nella seconda metà del Novecento si sviluppò una modalità di critica normativa, ossia una prassi di analisi del film che giudica l'aderenza o meno della singola opera a modelli preesistenti sia estetici sia ideologici. E se in Europa prevalse in quegli anni una critica normativa di tipo ideologico (rappresentata in Italia da riviste come "Cinema nuovo", v., di impostazione marxista o "Rivista del cinematografo", v., di taglio cattolico), che giudicava il film a partire dal suo contenuto, nell'area anglosassone (e soprattutto negli Stati Uniti) era dominante un modello normativo di tipo formale, in cui il giudizio critico risultava basato sull'aderenza o meno ai codici della narrazione cinematografica o sulla suddivisione in generi del cinema hollywoodiano (per es., sulle pagine di una rivista interna al 'sistema' hollywoodiano come "Variety", v.).Proprio a partire dagli anni Cinquanta e, in modo più specifico, negli anni Sessanta e Settanta, si fece strada, ancora in Europa, un modello di critica militante, più articolato da un punto di vista ideologico e teso a fare di tale attività un momento di scoperta, attraverso il film e il suo autore (il regista), di tendenze e modelli diversi, nella convinzione che ogni opera presenti anche un'idea di cinema, della sua essenza e della sua capacità di costituire uno sguardo sul mondo. Si vollero in questo modo promuovere e difendere le correnti e gli autori più innovativi e fare delle riviste e dei festival cinematografici luoghi di dibattito culturale. Emblematica a tale proposito fu la figura di André Bazin, tra i fondatori nel 1951 della rivista "Cahiers du cinéma" (v.), per il quale la critica del film costituiva una forma di disvelamento dell'essenza stessa del cinema, della sua consistenza ontologica e il film la proiezione di uno sguardo ‒ quello del regista ‒ che interpreta il mondo e con il quale, a sua volta, lo sguardo del critico coopera ermeneuticamente.
La critica militante rappresentò anche il frutto della nascente cinefilia che caratterizzò la nuova c. c., per la quale il film non era più visto come oggetto da analizzare secondo criteri interpretativi più o meno stabiliti, diventando invece un oggetto d'amore, capace di suscitare difese appassionate o stroncature senza appello. In breve tempo il modello di critica militante si diffuse in tutto il mondo, con esiti e caratteristiche differenti parallelamente alla nascita delle varie nouvelles vagues, da quella francese al Free Cinema inglese, dalla Nová Vlna cecoslovacca al Cinema Nôvo brasiliano al New American Cinema. Anche in area anglosassone la nuova critica trovò un suo spazio, consentendo l'affermazione dell'auteur theory, versione statunitense della politique des auteurs sostenuta dai critici dei "Cahiers du cinéma", di cui il principale rappresentante fu Andrew Sarris, critico del "Village voice" e collaboratore di "Film culture", una delle riviste più importanti di c. c. negli Stati Uniti. La nuova critica statunitense, però, si differenziò rispetto al modello europeo mostrando una maggiore apertura nei confronti di quei registi da considerarsi 'autori' e anche una maggiore attenzione al contesto economico-produttivo in cui collocare il film oggetto di critica: si volle valutare un film non solo per aderenza al gusto del pubblico, ma anche per le sue potenzialità innovative su quel gusto. Il rapporto tra teoria e critica si è quindi ulteriormente intensificato nel corso degli anni Settanta, grazie agli apporti teorici della semiotica, della linguistica strutturale, della psicoanalisi che hanno portato a una diffusione di metodologie in grado di fornire strumenti interpretativi sempre più raffinati, soprattutto alla critica di stampo accademico. In particolare, negli Stati Uniti, il discorso critico, nel contesto delle riviste nate attorno ai campus universitari, si è posto allora come vera e propria teoria cinematografica applicata, in cui l'analisi del singolo film si rivela verifica particolare di un'elaborazione interpretativa generale.
Negli anni Ottanta e Novanta, altre tendenze hanno arricchito questo variegato panorama. La crisi dei paradigmi interpretativi e la moltiplicazione delle forme attraverso le quali la c. c. è stata in grado di interagire con pratiche discorsive e saperi provenienti da diversi campi disciplinari hanno contribuito a creare un vasto orizzonte di modelli e di tendenze in cui risultano intersecati riferimenti teorici appartenenti a campi del sapere differenti. Se in Europa si sono affermate modalità interpretative eredi della generazione degli anni Sessanta, secondo le quali il film viene indagato come luogo metaforico, privilegiata forma di immagine che mostra le trasformazioni politiche, mediatiche e filosofiche della realtà ‒ paradigmatica in questo senso la figura di Serge Daney, capo redattore dei "Cahiers du cinéma" dal 1979 al 1981 e poi fondatore, nel 1991, della rivista "Trafic" ‒, nei Paesi di area anglosassone la critica specializzata (sotto l'influenza del vasto orizzonte di ricerca dei Cultural Studies, per i quali v. teorie del cinema) si è caratterizzata per un approccio che vede nel film un oggetto complesso, luogo di formazione e di espressione simbolica dell'immaginario collettivo di una cultura. In tale prospettiva, l'opera cinematografica non rimanda tanto al suo autore, quanto alle ossessioni, alle pulsioni, alle tendenze estetiche, politiche e culturali di un'intera società. Il regista passa in secondo piano rispetto all'immagine e alla sua costellazione simbolica. All'inizio del 21° sec., in questo complesso ambito coesistono dunque diverse forme e modalità di scrittura e di prassi critica, eredi delle tendenze e delle pratiche teoriche che nel corso del Novecento hanno contribuito a determinare di volta in volta il significato e il senso della lettura del film.
di Morando Morandini
Il 18 maggio 1907 su "La Stampa" di Torino usciva un articolo, La filosofia del cinematografo, in cui, dopo aver esortato "gli uomini gravi e sapienti ad andarvi spesso", Giovanni Papini concludeva che "anche i cinematografi, dunque, sono oggetto degno di riflessione". Nello stesso anno Edmondo De Amicis pubblicava il racconto Cinematografo cerebrale e, sul nr. 9 di dicembre di "La rivista fono-cinematografica", diretta a Milano da Piero Tonini e Gualtiero Ildebrando Fabbri, proponeva tre contributi al referendum La cinematografia è un'arte?. Nel 1908 sul neonato mensile "Lux" del produttore napoletano Gustavo Lombardo appariva un'inchiesta sullo stesso tema cui risposero tre noti teatranti: Roberto Bracco, Ermete Zacconi ed Eduardo Scarpetta. Nel dicembre 1910 a Torino, fondata e diretta da Alberto A. Cavallaro, usciva "La vita cinematografica" dove Guido Gozzano dichiarava di voler opporsi in prima persona "alla volgarità che ha invaso il cinematografo e vi trionfa in modo nauseante". Il quindicinale che, fatto raro, sarebbe durato sino al 1934, cominciò a pubblicare le prime note critiche nel marzo 1911.Si tratta delle prime tracce di un interesse paracritico della stampa per il nuovo mezzo di comunicazione e di spettacolo, interesse che nei medesimi anni emergeva anche in altri Paesi europei, parallelo, se non collegato, alla nascita in Francia della casa di produzione Film d'art, fondata a Parigi nel 1908, e alla Film d'arte italiana nata a Roma nel marzo 1909. Le prime recensioni di singoli film apparvero su "La gazzetta del popolo" di Torino il 4 febbraio 1908, firmate da Mario Dell'Olio, e alla fine dell'anno su riviste specializzate come "Il Café-Chantant" e "Lux", entrambe di Napoli. La prima rivista che inaugurò un regolare servizio di recensioni fu "La cinematografia italiana ed estera", filiazione di "La rivista fono-cinematografica", con la rubrica Aristarcheide, compilata dal direttore G.I. Fabbri. Soltanto nel 1913 diversi quotidiani ‒ "La gazzetta del popolo", "Il giorno" di Napoli, "La tribuna", "Il giornale d'Italia", "Il momento" di Roma ‒ dedicarono una rubrica settimanale o recensioni isolate alle più importanti "rappresentazioni cinematografiche".Tranne rare eccezioni, quando non fu apologetica in senso commerciale e pubblicitario, la pubblicistica di questo decennio ebbe un taglio encomiastico, afflitta da un'altisonante e vuota retorica oppure, nei casi migliori, informativa in modo approssimativo, quasi sempre al servizio dell'industria portavoce della produzione.
Anche negli interventi di acclamati letterati su temi generali (Viva il cinematografo! di Giuseppe Prezzolini apparso su "La Stampa" di Torino del 7 gennaio 1914 e, in senso contrario, Il cinematografo non esiste del giovane critico teatrale Silvio D'Amico sulla rivista "In penombra", settembre 1918) o su singoli film ( F. M. Martini, G. Bellonci, M. Serao, L. d'Ambra, L. Zuccoli) furono quasi sempre assenti le riflessioni di carattere teorico, ma spesso mancarono anche quelle doti di analisi e sintesi di gusto che sono la premessa di una letteratura critica. "È per certo significativo ‒ scriverà G. Viazzi in I primi anni della critica cinematografica in Italia apparso su "Ferrania", 1956, 12 ‒ che, al periodo di rigoglio del primo cinema muto italiano, non corrisponda un altrettanto rigoglio di critica […] gli anni che vanno dal 1912 al 1917 sono amorfi, inerti; e in quelli successivi, a voler individuare una voce di cultura, non c'è che da constatare l'estro con cui, dal 1919 al 1922, S.A. Luciani stenderà su "La Rassegna italiana" alcuni panorami, alcune vedute d'assieme". Sparsi su vari giornali, gli scritti di Sebastiano Arturo Luciani furono raccolti nel 1920 nel volume Il cinematografo: verso una nuova arte, che l'anno dopo ebbe una seconda edizione. Eppure, fin dal 1913, sulle pagine dell'autorevole "La nuova antologia" (16 ag.) Edoardo Boutet aveva auspicato l'inizio di una regolare c. c. per affinare i gusti del pubblico. Nel novembre dello stesso anno "Il nuovo giornale" di Firenze apriva un'inchiesta sul cinema, ponendo sei domande, l'ultima delle quali era "Qual è l'avvenire del cinematografo? Quale sarà la sua evoluzione?". Risposero in undici, ma, con l'eccezione di G. Prezzolini e di F.T. Marinetti, nessuno vide un futuro per il cinematografo e a esso venne negato un vero interesse culturale. All'inizio del 1914, in un'inchiesta imperniata sulla disponibilità di narratori e autori teatrali a scrivere per il cinema, risposero in modo affermativo L. Capuana, G. Deledda, N. Oxilia, L. Zuccoli. Nel febbraio 1916 uscì, diretta da Bellonci, la rivista "Apollon" che intendeva rinnovare e mobilitare la riflessione critica. Impregnata di idealismo crociano, senza appoggiare una precisa idea di cinema, "Apollon" ‒ che continuò le pubblicazioni fino al 1921 ‒ pubblicò contributi vari sia a favore di una poetica naturalista sia della capacità fantastica del nuovo mezzo. Sul nr. 8 (sett. 1916) lo stesso Bellonci firmava un Manifesto per una rivoluzione cinematografica che sposava il progetto di un cinema fantastico (già abbozzato, con rimandi alle Metamorfosi di Ovidio, da Gabriele D'Annunzio in un'intervista pubblicata sul "Corriere della sera" del 28 febbraio 1914), evidenziando che "La tecnica cinematografica consente l'espressione dei più strani mondi fantastici che la parola o il pennello non potrebbero significare".
L'avvento del fascismo e la sua presa del potere nel 1922 coincisero con il declino della cinematografia italiana, già messa in difficoltà durante la Prima guerra mondiale per la chiusura di molti mercati stranieri. Costituito all'inizio del 1919, il trust dell'UCI (Unione Cinematografica Italiana) che, privilegiando l'asse Roma-Torino, riuniva undici tra le maggiori società di produzione, nel 1921 era già pericolante e nel 1923 fu messo in fallimento, pur rimanendo formalmente in vita ancora per qualche anno. L'intervento del governo fascista nel cinema avvenne lentamente, per vie traverse e si fece evidente quando si configurò il regime. Il LUCE (L'Unione Cinematografica Educativa) ebbe dal 1926 la finalità della diffusione "di pellicole culturali, educative, scientifiche" (v. Istituto nazionale luce). Sempre nel 1926 il quotidiano fascista "Il Tevere" cominciò a pubblicare ogni settimana un'intera pagina di articoli sul cinema, firmati da scrittori, giornalisti, registi di fama, tra cui quelli del fiorentino Corrado Pavolini, tra l'altro autore del saggio Cubismo, futurismo, espressionismo (1927). L'anno dopo, mentre il "Corriere della sera" pubblicava una serie di articoli di Orio Vergani, l'autorevole "La fiera letteraria" apriva la rubrica Cinelandia; nel marzo 1927 usciva un numero di "Solaria" sul cinema cui collaborarono, tra gli altri, E. Montale, R. Bacchelli, G. Debenedetti, A.G. Bragaglia, A. Baldini, M. Gromo. Su "La fiera letteraria" si mise in luce Piero Gadda Conti, scrittore che manifestò tra i primi un impegno coerente nell'esercizio di una c. c. culturalmente valida, mentre su "Solaria" scriveva un altro critico letterario milanese, Giansiro Ferrata, più incline a stabilire rapporti tra cinema e cultura narrativa e teatrale. Si occuparono di film anche le riviste "Il Baretti", "Pegaso" e a Milano "Il convegno" di Enzo Ferrieri che, attraverso un proprio cineclub, organizzava proiezioni di film di Charlie Chaplin, René Clair, Carl Theodor Dreyer, George Wilhelm Pabst e altri.Spicca in quel periodo l'instancabile attivismo di Alessandro Blasetti, non ancora regista: dopo aver fondato a Roma nel 1926 il settimanale "Il mondo e lo schermo", diede vita al quindicinale e poi mensile "Cinematografo" (1927-1931) e al settimanale "Lo spettacolo d'Italia" (1927-28).
La pratica regolare della c. c. sui quotidiani italiani ha una precisa data di nascita che può essere fissata all'11 maggio 1929 quando sul "Corriere della sera", diretto da Aldo Borelli, la rubrica Rassegne cinematografiche fu affidata al vicentino Filippo Sacchi, articolista politico e inviato speciale che, radiato dall'albo dei giornalisti nel 1926 per ordine di B. Mussolini, con le sue recensioni, che continuò a firmare con la sigla f.s., fu il più seguito e apprezzato esponente di quella che dopo la guerra sarebbe stata definita critica di gusto.Rubriche regolari vennero affidate nel 1933 su "Il Messaggero" di Roma al pugliese Sandro De Feo, che si sarebbe affermato definitivamente come critico teatrale, dopo la guerra, su "L'Espresso", e al piemontese Mario Gromo, che cominciò a firmare su "La Stampa" il 19 novembre 1931. Se la vera vocazione di Sacchi era quella politica, di giornalista civilmente impegnato, nel giovane Gromo le doti di narratore coabitarono con quella tempra e quella sagacia da imprenditore editoriale che nel 1946 lo avrebbero portato a diventare anche direttore amministrativo del giornale.Il terzo maggiore esponente di questa generazione di critici di formazione letteraria fu il parmense Pietro Bianchi, autore nel 1928 di una recensione di The circus di Chaplin apparsa su "La gazzetta di Parma" che, ribattezzata "Corriere emiliano", nel 1935 gli affidò anche una rubrica di recensioni di film, tenuta sino al 1943. Dopo aver firmato, durante gli anni di guerra, i suoi articoli con lo pseudonimo Volpone, nel 1950 divenne caporedattore del prestigioso mensile "L'illustrazione italiana" e poi direttore (dal 1957 al 1963) del settimanale "Settimo giorno": in entrambi concesse molto spazio al cinema che, pur già minacciato dall'avvento della televisione, per gli italiani in quel periodo era ancora l'intrattenimento principale. Come avrebbe dimostrato con la sua collaborazione al quotidiano milanese "Il giorno" (dal 1956 al 1975), Bianchi si distinse come critico attento ai nuovi talenti emergenti, ironico e talvolta sarcastico osservatore delle effimere mode culturali, capace di conciliare con piacevolezza di scrittura le esigenze dell'arte con i piaceri dello spettacolo. L'apporto dei letterati italiani al cinema come alla c. c. fu nel tempo sempre più significativo. Da Cesare Zavattini, la cui instancabile e poliedrica attività di poligrafo militante comprese la direzione del popolare settimanale "Cinema illustrazione" (1936-1939) e, per poco più di un anno, la rubrica critica settimanale su "Il Tempo" (1939-40), a Leo Longanesi, altro geniale poligrafo di tutt'altra specie, che diede largo spazio, anche grafico, al cinema sulle proprie riviste "L'italiano" (1928-1933) e "Omnibus" (1937-1939), fino a Giacomo Debenedetti, studioso emerito di letteratura, di cui si deve ricordare almeno l'importante e anticipatore saggio Cinematografo (apparso sul ricordato numero di "Solaria" del marzo 1927) e, fin dal primo numero del 1936, la sua collaborazione ‒ non soltanto come recensore ‒ al quindicinale "Cinema" (v.) dal quale, in quanto ebreo, fu allontanato dopo l'emanazione delle leggi razziali.
Nato il 10 luglio 1936 con un indirizzo prevalentemente tecnico, in linea con il suo primo editore italo-svizzero Ulrico Hoepli, il quindicinale "Cinema" acquistò nuova e maggiore fisionomia nel 1938, quando ne assunse la direzione Vittorio Mussolini, terzogenito del Duce. Tra i suoi collaboratori saltuari figurò anche il giovane Luchino Visconti con uno scritto sul cinema antropomorfico che dopo la guerra sarebbe diventato una citazione d'obbligo. La prima serie di "Cinema" durò soltanto sette anni, il tempo necessario a dissodare il terreno, a livello teorico e ideologico, e prepararlo per la svolta realistica del dopoguerra.L'altra importante rivista degli anni Trenta era "Bianco e nero" (v.) che, legata al Centro sperimentale di cinematografia, cominciò a uscire nel 1937, diretta da Luigi Freddi il quale lasciò il posto dapprima a Vezio Orazi (1939) e nel 1941 a Luigi Chiarini. Si chiuse, come il primo "Cinema", nel 1943 e venne riaperta nel marzo 1948 dopo che nel 1947 era uscito un numero unico. "Bianco e nero" e la cattolica "Rivista del cinematografo", fondata nel 1928, sono le uniche due riviste nate tra le due guerre che non hanno cessato le pubblicazioni. Un settimanale illustrato di largo formato che in certi momenti, grazie anche al taglio mondano, ebbe un'alta tiratura, fu invece "Film", fondato a Roma nel 1938 da Mino Doletti e non privo di firme brillanti. Dopo il 25 luglio 1943 si trasferì a Venezia sotto l'egida della Repubblica Sociale, chiuse nell'aprile 1945 e riapparve l'anno successivo per fare concorrenza agli omologhi "Star" di Roma e "Hollywood" di Milano.Dopo un'effimera rinascita come "Nuovo cinema" (due numeri nel 1946 a cura di un gruppetto di critici milanesi: Guido Guerrasio, Glauco Viazzi, Ugo Casiraghi), "Cinema" riprese a uscire a Milano nell'ottobre 1948, edito dall'intraprendente Ottavia Vitagliano e diretto da Adriano Baracco: la sua vera guida fu però Guido Aristarco con la responsabilità della rubrica di recensioni all'insegna di un'estetica marxista e di un esplicito appoggio alle opere del Neorealismo. Intanto, in quegli anni di guerra fredda, il panorama politico italiano stava cambiando. Sostituito proprio allora da Davide Turconi, nel 1952 Aristarco lasciò la redazione e fondò "Cinema nuovo" (v.), insieme a un piccolo gruppo di fuoriusciti da "Cinema". Nello stesso 1952, L. Chiarini fece uscire a Roma "La rivista del cinema italiano" che continuò le pubblicazioni sino al 1955, mentre a Torino Fernaldo Di Giammatteo pubblicava "Rassegna dei film", che resistette per due anni e mezzo. Erano state precedute, nel dicembre 1950, da "Filmcritica" (v.), diretta da Edoardo Bruno sotto l'egida di una eterogenea triade costituita dal teorico marxista Umberto Barbaro, dal filosofo Galvano della Volpe, e dal maestro del Neorealismo Roberto Rossellini, con una linea culturale di grande elasticità teorica e ideologica, sempre rispettata negli anni successivi nel corso dei quali non si sono mai interrotte le pubblicazioni.Sul fronte dei quotidiani nel dopoguerra occorre segnalare anzi tutto la presenza trentennale di Ugo Casiraghi che sull'edizione milanese di "L'Unità", quotidiano del PCI, esercitò dal 1947 al 1977 un'assidua, puntigliosa, appassionata funzione didattica prima ancora che ideologica, mentre in quella romana, più vicina e soggetta alle pressioni del partito, si avvicendarono Barbaro, Tommaso Chiaretti, Enzo Muzii, Lorenzo Quaglietti, Aggeo Savioli. Sull'"Avanti!", quotidiano del PSI, dopo Luigi Fossati e Corrado Terzi, nel 1958 la rubrica delle recensioni venne affidata a Lino Miccichè, che la conservò per un ventennio prima di passare all'insegnamento universitario. Mentre su "La Stampa" di Torino, a guerra finita, regnava ancora M. Gromo, sul "Corriere della sera" Arturo Lanocita curò dal 1945 la rubrica che era stata di Sacchi e la tenne sino al 1961. Su "Il Messaggero" di Roma a S. De Feo successe nel 1953, dopo un breve interim del critico teatrale Ermanno Contini, Guglielmo Biraghi. È da ricordare l'apporto sui settimanali dato da Vittorio Bonicelli ("Tempo illustrato"), F. Sacchi ("Epoca") e Angelo Solmi ("Oggi").
Gli anni Sessanta, periodo di particolare innovazione e creatività nell'ambito della produzione cinematografica, videro affermarsi, a livello internazionale, le cosiddette nouvelles vagues a partire dalla Nouvelle vague francese (v.). Si diffuse un modo diverso e nuovo di articolare il racconto cinematografico o di porsi in rapporto con la realtà (come nel caso del cinéma-vérité: v.). Le nuove tecniche e i nuovi linguaggi si innescarono su una rinnovata coscienza del ruolo attivo della produzione cinematografica e contribuirono alla crescita di un cinema politico militante, di un cinema indipendente e sperimentale, di un cinema civile, ma anche di un riattraversamento critico dei generi, tutte tendenze che si svilupparono soprattutto negli anni Settanta. Ciò appare evidente per l'Italia se si scorre un sommario elenco dei registi che esordirono in quegli anni: Gian Vittorio Baldi, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Bernardo Bertolucci, Vittorio De Seta, Marco Ferreri, Sergio Leone, Pier Paolo Pasolini, Elio Petri, i fratelli Taviani. Si stavano configurando fondamentali novità per i critici di ogni categoria, costretti, non sempre riuscendovi, a far fronte al nuovo, aprire gli occhi, allargare gli orizzonti, rivedere schemi e metri di giudizio.Fu così che negli anni Sessanta e Settanta si diffusero le prime ondate di cinefilia che attecchì in tutta Europa, compresa, sia pure più lentamente, l'Italia, dove però ha resistito nel tempo insieme con quella tendenza critica in declino, di ascendenza crociana, ossia la critica storicistica di taglio marxista che rivendica per il cinema (pochi autori, pochi film) un posto alla pari nel mondo della cultura e delle altre arti, imponendogli un "dover essere" ideologico. La responsabilità del contagio della cinefilia va attribuita ai giovani francesi, il gruppo rappresentato da François Truffaut, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer che, dalle pagine dei "Cahiers du cinéma", ribaltarono i valori acquisiti dalla critica precedente e coeva e proclamarono, nel nome di Alfred Hitchcock e Howard Hawks, le virtù della mise en scène. Nel nuovo Olimpo furono messi anche Jean Renoir, Fritz Lang del periodo hollywoodiano, Rossellini, soprattutto il suo periodo postneorealista, bollato invece come spiritualista da una parte della critica italiana. In Italia i riti della cinefilia si consolidarono a partire dagli anni Settanta: la politique des auteurs elaborata dai francesi divenne patrimonio comune, ma progressivamente perse ciò che ne aveva fatto proprio una politica, ossia il gusto provocatorio e ben fondato delle scelte. Nomi di autori un tempo discussi, se non spregiati, diventarono moneta corrente e vennero trasformati in monumenti. Si rivalutarono registi del cinema popolare come Riccardo Freda, Raffaello Matarazzo, Mario Mattoli. Si mise sugli altari Totò, irridendo i critici della generazione precedente che l'avevano sottovalutato, disprezzato, ignorato. Ciò, peraltro, non era vero se non per un comprensibile errore di fondo: non avere capito che talvolta le inconfondibili virtù del comico rifulgevano proprio nei film più corrivi. Già nei primi anni Cinquanta si erano avvertiti all'interno i segni di una crisi e all'esterno le avvisaglie di un'offensiva contro lo schieramento neorealista. Nel giro di pochi anni, seppure in modi labirintici e con motivazioni diverse, i critici operarono una serie di spostamenti progressivi verso i problemi del linguaggio, dello sperimentalismo, dell'avanguardia. Nella seconda metà degli anni Sessanta, e poi con maggior forza nel decennio successivo, giunsero a ondate le influenze di varie metodologie critiche: la linguistica, lo strutturalismo, la semiotica e, più tardi, i contributi dati dalla psicoanalisi, dal femminismo, dall'analisi dei modi di produzione. Il panorama delle riviste si fece molto variegato e anche per le riviste 'storiche' come "Bianco e nero", "Cinema nuovo" e "Rivista del cinematografo" fu quello un periodo complesso, di crisi o di transizione.
Erano frattanto nate nuove riviste, molte delle quali ebbero breve durata. Già nel 1958 a Milano era uscita "Schermi", che continuò le pubblicazioni per tre anni, in tempo per dedicare un numero al nuovo cinema hollywoodiano e nel 1959 un altro alla Nouvelle vague francese e per organizzare dibattiti sui due film che segnarono una svolta nel cinema italiano di allora: La dolce vita (1960) di Federico Fellini e Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti. Nel 1959 erano nate "Centrofilm", "Il nuovo spettatore cinematografico", "La fiera del cinema", seguite nel 1960 da "Filmselezione" e "Cinemasessanta" (v.) e nel 1961 da "Cineforum" (v.) e "Cinestudio". Nel 1964 uscì "Giovane critica", nel 1967 "Questo cinema" e "Film Mese". Tra esse, soltanto "Cinemasessanta" (a Roma) e "Cineforum" (a Bergamo) hanno proseguito con regolarità le pubblicazioni nei decenni successivi. Animata soprattutto da un giovane critico, Adriano Aprà, nel 1966 nacque a Roma "Cinema & film". Nell'editoriale del nr. 1 la rivista si autodefinì "di formazione e di autoformazione per verificare una ricerca di gruppo in via di svolgimento". Vi scrivevano giovani che negli anni Settanta sarebbero passati alla regia e alla sceneggiatura: Luigi Faccini, Maurizio Ponzi, Stefano Roncoroni, Franco Ferrini, Enzo Ungari, Oreste De Fornari, Claudio Rispoli. La rivista pubblicò soltanto dodici numeri, sino al 1970, ma ebbe il tempo di ospitare testi italiani e stranieri (Th.W. Adorno, R. Jakobson, Ch. Metz, P.P. Pasolini, S. Sontag) aperti agli orizzonti della linguistica, dello strutturalismo, della semiotica. L'attenzione per la problematica e la produttività dei significanti era costante in quel gruppo romano formatosi sulle pagine di "Filmcritica". Nel 1967 a Torino uscì "Ombre rosse", la cui prima serie durò soltanto otto numeri sino al 1969. La rivista, su cui scriveva un critico attento alla interdisciplinarietà e alla prospettiva politica come Goffredo Fofi, si rivolgeva piuttosto ai significati e si caratterizzava per il suo antagonismo polemico verso il contemporaneo cinema italiano, di cui erano apprezzati apertamente soltanto Bellocchio e Ferreri, mentre si tendeva a trasformare il discorso culturale in pratica e riflessione politica.Il panorama della c. c. sui quotidiani e sui settimanali si presentava dunque piuttosto omogeneo, caratterizzato da una netta egemonia di giornalisti di formazione letteraria: P. Bianchi che continuava a scrivere su "Il Giorno"; il fiorentino Giovanni Grazzini che nel 1962 successe ad Arturo Lanocita sul "Corriere della sera"; il torinese Leo Pestelli, finissimo linguista, che ereditò il posto di M. Gromo a "La Stampa" fino al 1976 quando, dopo la sua morte, s'insediò il veronese Stefano Reggiani. A Roma su "Il Tempo" continuava a scrivere dal 1948 Gian Luigi Rondi e su "Il Messaggero", fino al 1987, Biraghi, prima di passare, come aveva già fatto Rondi, alla direzione della Mostra di Venezia. Sul fronte dei settimanali, su "L'Espresso", fondato nel 1955, continuava a tenere la sua rubrica di c. c. settimanale Alberto Moravia, cui successe, nel medesimo ruolo di critico cinematografico, Enzo Siciliano.
Nel 1961 nasceva "Panorama" con periodicità mensile, trasformatosi l'anno successivo in settimanale. La rubrica di cinema, ridotta a una concisa scheda, fu affidata al triestino Tullio Kezich che ‒ con Callisto Cosulich, Tino Ranieri, Claudio G. Fava (su "Il Corriere mercantile" di Genova) e Morando Morandini (su "La Notte" di Milano sino al 1961) ‒ appartiene a quella generazione che ha coniugato una formazione cinematografica con quella letteraria e teatrale. Nel 1963 su "L'Europeo" Mario Soldati successe a Giuseppe Marotta che vi teneva una rubrica dal 1952. Le recensioni di Marotta furono raccolte in cinque volumi (Questo buffo cinema, 1956; Marotta Ciak, 1958; Visti e perduti, 1960; Facce dispari, 1963; e, postumo, Di riffe o di raffe, 1965). La pratica di raccogliere in volume le recensioni era già iniziata negli anni Cinquanta con M. Gromo (Film visti, 1957) e F. Sacchi (Al cinema col lapis, 1958). Diventò abituale e assai diffusa negli anni Settanta e Ottanta a opera di Grazzini, Kezich, Del Buono, Soldati, Carlo Laurenzi, C.G. Fava, Natalia Aspesi, Irene Bignardi e Lietta Tornabuoni (succeduta quest'ultima su "La Stampa" a Reggiani), Alberto Pesce e altri.
di Bruno Roberti
L'evolversi del panorama massmediologico, l'avvento dell'emittenza privata, il massiccio sfruttamento televisivo delle opere cinematografiche, la fruizione del film attraverso nuovi supporti elettronici o digitali (dall'home video alla pay-TV, al DVD, al videodisco, a Internet), la conversione dell'esercizio cinematografico nelle multisale o nei multiplex e la contemporanea progressiva scomparsa dei cineclub, il dislocarsi dei luoghi di dibattito e di formazione critica tanto nell'ambito dei nuovi corsi universitari in discipline dello spettacolo (attivati in Italia dagli anni Settanta) quanto nei festival e nelle rassegne specializzate: tutto ciò ha fatto sì che, a partire dagli anni Ottanta, e non solo in Italia, siano mutati ruolo, collocazione, funzione, stili della critica cinematografica.
Se infatti la prassi critica aveva trovato sulle pagine dei quotidiani una sua progressiva specificità che, prendendo le mosse dalla cosiddetta critica 'di gusto', era approdata a una forma di recensione capace di costituire non solo una riflessione ma anche una lettura specifica del film, la progressiva riduzione degli spazi di resoconto cinematografico a favore di un giornalismo attento soprattutto al 'colore' o al glamour del mondo del cinema, in sintonia con imperativi di immagine e di mercato, ha via via snaturato, o perlomeno ridotto, la funzione di orientamento culturale. A fronte di questa deprivazione della c. c. sui quotidiani, le riviste di cinema e, in certa misura, i settimanali, hanno conservato un ruolo specifico, ma insieme si sono radicalizzati intorno a una iperspecializzazione collegata a una nuova forma di cinefilia, radicatasi in un pubblico di appassionati e in un mondo giovanile sempre più interessato e attratto dall'orizzonte dei media e dello spettacolo. Ciò fa parte dell'aspetto positivo connesso all'interazione sempre più diffusa tra orizzonte mediatico, nuove tecnologie e specificità del cinema: l'allargarsi cioè di un interesse e di un'alfabetizzazione cinematografica presso le nuove generazioni. La formazione di una coscienza critica rispetto alle varie possibilità di lettura di un film ha via via trovato una pluralità di luoghi in cui esercitarsi, accanto alla carta stampata, con il pericolo però di parcellizzarsi, di frammentarsi e di scorrere superficialmente in una rete di comunicazione e informazione che rischia di diluire la prospettiva critica. La 'nuova cinefilia', che ha avuto come portato il gusto 'estremo' della rivalutazione di generi 'bassi', di prodotti trash, di sottotipologie horror (il film gore o lo splatter), di cinematografie esotiche ecc., ha prodotto il nascere non solo di una quantità di riviste dedicate a queste forme di cult movie o specializzate in generi (in Francia fin dagli anni Settanta "L'écran fantastique" e "Starfix", quest'ultima creata dal critico-cinefilo Christophe Gans passato poi alla regia, o negli anni Ottanta la statunitense "Shock Xpress"; o, ancora, in Italia, negli anni Novanta, "Nocturno", per limitarsi ai generi horror, fantastico e fantascientifico), ma anche, nel vasto panorama di Internet, di una serie di siti cinematografici specializzati, in cui, anche in modo indiscriminato, si sono sviluppate le più svariate forme di scrittura critica. Questa diffusione di forme di c. c. in rete ha contribuito, al di là di una maggiore circolazione dell'informazione sui film, all'elaborazione di tipi di lettura dell'universo cinematografico trasversali ed eccentrici (come è avvenuto, per es., nel sito francese di "Simulacres"" o in quello italiano di "Sentieri selvaggi"). A partire dagli anni Settanta il ruolo determinante della televisione nell'orientamento dei gusti del pubblico ha avuto tuttavia un suo peso attraverso trasmissioni culturali (per es., negli anni Settanta la rubrica di cinema per Settimo giorno a cura di Francesca Sanvitale ed E. Siciliano, o una trasmissione tutta dedicata al cinema come Sedici e trentacinque a cura di Beniamino Placido), o attraverso cicli tematici o monografici di film, con la cura e l'introduzione di giornalisti o critici cinematografici (come C. Cosulich, C.G. Fava, Ernesto G. Laura, F. Di Giammatteo, Vieri Razzini).
Negli anni Novanta quest'attenzione del mezzo televisivo alla diffusione 'critica' dei film ha portato alla formazione, sulla Terza rete della RAI, dello spazio, dedicato a film insoliti, rari ma anche ai classici, che va sotto il titolo di Fuori orario, inventato da Enrico Grezzi, insieme a critici come Marco Melani e Tatti Sanguineti. La figura di Ghezzi è emblematica di una rielaborazione della 'pratica' critica, in Italia, nel senso della curiosità e della scoperta, come del gusto anche spericolato degli accostamenti e delle letture, caratteristiche che, dalla fine degli anni Ottanta, sono transitate nella costruzione dei programmi di festival e rassegne 'di tendenza' (dal Festival di Taormina, al Festival cinema giovani di Torino, dal Bergamo film meeting al Festival del cinema indipendente di Bellaria, da Riminicinema al Roma film festival). L'idea del festival come luogo di elaborazione e di dibattito, soprattutto intorno alle nuove tendenze cinematografiche e alle cinematografie poco conosciute, proviene dalla critica militante degli anni Sessanta e Settanta riunita, in Italia, attorno all'esperienza della Mostra del nuovo cinema di Pesaro. I 'luoghi' della critica si sono dunque andati diversificando: accanto ai quotidiani, dove hanno resistito solo pochi spazi di un qualche spessore o almeno fedeli alle caratteristiche di uno 'stile critico' (come, su "Il Sole-24 ore", la rubrica domenicale di Roberto Escobar o le pagine di c. c. su "Il Manifesto"), e accanto a nuove riviste che hanno cercato di proporre linguaggi critici 'trasversali' e un'informazione aggiornata ("Duel" o "Segnocinema"), certamente i media, la rete Internet, i festival hanno coniugato e differenziato, a volte però anche svuotato, nel caso delle impostazioni generaliste, l'approccio critico al cinema. Inoltre, a partire dagli ultimi decenni del 20° sec., il relativo moltiplicarsi anche in Italia di cattedre e corsi universitari di teoria e critica del film, di storia del cinema, dei mass media, dello spettacolo (il primo esempio organico negli anni Settanta fu il DAMS, corso di laurea in discipline dell'arte, della musica e dello spettacolo presso l'Università di Bologna) ha messo poi in circolazione un sapere storico-critico sul cinema che ha acquisito un peso significativo (v. università).