Abstract
Sulla base di un approccio di diritto positivo si intende fornire un primo inquadramento delle tre principali ipotesi previste dal codice di procedura civile, in cui è stabilito che l’intera causa sia decisa secondo equità, anziché in applicazione della stretta legalità, evidenziando come in ciascuna di esse l’equità, assolvendo a funzioni diverse, conformi diversamente la struttura dei relativi giudizi.
Il concetto di equità ha da sempre animato e pervaso di sé ogni ambito degli studi del diritto, specie al fine di evitare il suo contrario: l’iniquità. Pur essendo astrattamente possibili più approcci al tema, in questa sede, si è scelto quello di diritto positivo, utilizzando principalmente l’ermeneutica legale.
Sulla base di questo approccio, con assoluta semplicità può constatarsi che alcune disposizioni dell’ordinamento giuridico vigente fanno espressamente riferimento all’equità.
Queste previsioni sono accomunate da tre concorrenti circostanze (che rappresentano i postulati fondamentali in materia): - dal considerare l’equità come un’entità diversa rispetto alla stretta legalità e soltanto come tale apprezzabile; - dal prevedere che il ricorso all’equità sia ammissibile e legittimo soltanto a condizione che un’espressa disposizione di diritto positivo lo consenta, restando in mancanza l’interprete vincolato al rispetto della stretta legalità; - dall’imporre come indispensabile l’intervento di un soggetto terzo rispetto alle persone interessate dal rapporto da regolarsi in via equitativa (in sede di libera conclusione di un accordo, l’equità non può svolgere alcun ruolo, atteso che i contraenti possono provvedere autonomamente a regolare consensualmente e in modo soddisfacente il concreto assetto dei propri interessi: è priva di senso l’affermazione secondo cui le parti, concludendo un contratto, fanno uso dell’equità; al contrario, ai sensi dell’art. 1384 c.c., l’equità è idonea a sanzionare lo squilibrio delle prestazioni contrattuali, nonostante la contraria volontà delle parti), sicché luogo di elezione dell’equità è il giudizio.
Le disposizioni che fanno riferimento all’equità sono tradizionalmente distinte in due categorie: da un lato, quelle che rinviano all’equità cd. integrativa, che opera come criterio per determinare un elemento patrimoniale, attinente sia a regolamenti contrattuali sia a rapporti extracontrattuali (cfr. gli artt. 1226, 1371, 1374, 1384, 1450, 1467, 1526, 1660, 1733, 1736, 1755, 2045, 2047, 2056, 2110, 2263 c.c., nonché l’art. 432 c.p.c.); dall’altro lato, quelle che prevedono l’equità cd. sostitutiva o formativa, in forza della quale l’intera controversia deve essere decisa esclusivamente in base all’equità. Sono queste le ipotesi di “giudizio di equità”, specificamente stabilite dagli artt. 113, co. 2, 114 ed 822 c.p.c.
Per stabilire cosa debba intendersi per equità, in difetto all’interno dell’ordinamento giuridico italiano di una definizione normativa dell’equità, ex art. 12 disp. prel. c.c., appare indispensabile far riferimento alla «intenzione del legislatore»: occorre cioè individuare la funzione che deve essere riconosciuta al giudizio di equità.
Diversamente dalla tendenza più risalente di carattere sintetico, che soleva considerare in modo unitario tutte le disposizioni che autorizzano il giudice a pronunciare secondo equità, è da preferirsi un esame analitico. Nell’interpretare in modo coordinato una pluralità di norme analoghe o comunque vertenti sulla stessa materia, la diversità di formulazioni impiegate dal legislatore non può essere appiattita, ma anzi deve essere esaltata, sicché la considerazione che gli articoli citati, pur riguardando tutti l’equità, siano formulati diversamente, impone di ritenere che l’intenzione del legislatore sia, di volta in volta, differente.
Al fine di verificare come assolvano funzioni diverse e siano caratterizzate da strutture differenti, si considereranno separatamente i giudizi di equità, da un lato, cd. necessaria del giudice di pace e, dall’altro, degli arbitri (avendo trovato scarsissima applicazione pratica, il giudizio di equità cd. concordata ex art. 114 c.p.c. sarà esaminato soltanto per cenni, infra, § 4.1).
L’art. 113 c.p.c. ha una struttura sinusoidale: si apre enunciando la regola generale della pronuncia secondo diritto, ma immediatamente dopo avverte che questo principio soffre di eccezioni ove la legge attribuisca al giudice il potere di decidere secondo equità. Un’eccezione alla regola è subito enunciata nel co. 2, stabilendo che «Il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede 1.100 euro» (soglia destinata ad essere innalzata a 2.500 euro dal d.lgs. recante la riforma organica della magistratura onoraria di prossima promulgazione). Eccezione all’eccezione (che ripristina, perciò, il regime ordinario) è contenuta nell’ultimo inciso della disposizione: «salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’articolo 1342 del codice civile».
Il giudizio di equità ex art. 113, co. 2, c.p.c. diversamente da quanto previsto dagli altri articoli citati, prescinde da qualsiasi volontà delle parti e riguarda, tendenzialmente, tutte le cause, relative a qualsiasi tipo di diritto, che abbiano un valore limitato e che siano devolute alla competenza del giudice di pace (che è l’unico ufficio giudiziario composto esclusivamente da giudici cd. onorari o non professionali), al quale sono attribuite le controversie di minore rilevanza sociale.
Quanto precede pare sufficiente per affermare che il giudizio di equità necessaria risponde ad esigenze di economia processuale ed assolve la funzione di semplificazione, da intendersi nel senso che il giudizio di equità consente di decidere le cause di minore rilievo in modo più snello, agevole e rapido di quello di stretta legalità. Ulteriore conferma che proprio questa sia la finalità del giudizio di equità necessaria si trae dall’esame del regime di impugnazione stabilito dall’art. 339, co. 3, c.p.c., che prevede forme di controllo meno intense per le sentenze di equità rispetto a quelle rese stricto iure (v. infra, § 2.4).
Per consentire alle parti di predisporre un’adeguata strategia difensiva nel rispetto del principio del contraddittorio nonché per l’effettivo conseguimento della finalità di semplificazione, l’applicabilità dell’equità necessaria al giudizio deve essere determinata sin dalla fase iniziale del processo, attraverso una valutazione di stretta legalità.
In particolare il giudice di pace deve: innanzi tutto, stabilire la sussistenza della propria competenza (seppure di valore estremamente tenue, non sono decise secondo equità necessaria le controversie appartenenti alla competenza del tribunale); in secondo luogo, verificare, secondo le regole di cui agli artt. da 10 a 17 c.p.c., che il valore della controversia, come determinato dagli atti introduttivi delle parti (sono irrilevanti eventuali rinunce o riduzioni successive del petitum, Cass., 9.6.2014, n. 12900), non ecceda il limite ex art. 113, co. 2, c.p.c. (nel caso di cause connesse è necessario che tutte siano sotto la soglia, posto che altrimenti l’unico criterio di decisione applicabile è quello della stretta legalità, Cass., 10.12.2013, n. 27543); da ultimo, accertare se la causa non sia una di quelle che la legge impone sia comunque decisa secondo stretto diritto.
Primo limite all’applicabilità dell’equità necessaria è stabilito in seno al medesimo art. 113, co. 2, c.p.c. e riguarda le cause derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in modo uniforme determinati rapporti contrattuali (cd. contratti di massa o standard). La previsione non richiama l’intero art. 1342 c.c., ma soltanto «le modalità» di conclusione dei contratti, ivi disciplinati, sicché devono considerarsi soltanto le forme seguite (senza alcuna rilevanza della disciplina in tema di clausole vessatorie). Il riferimento è al modus operandi più diffuso nella prassi al fine di uniformare i rapporti contrattuali, il quale è integrato da due elementi materiali: la sottoscrizione e il modulo o formulario in calce alla quale la prima viene apposta, cioè un documento, che sia già predisposto e che rechi l’intero contenuto contrattuale redatto a stampa o con altri metodi tali da consentirne la moltiplicazione, a prescindere dalla sua provenienza (il modulo o formulario, infatti, può essere predisposto da uno dei contraenti, da entrambi o, perfino, da un soggetto terzo, atteso che l’uniformità richiesta dalla legge è di natura oggettiva, essendo relativa a una categoria di contratti anche se conclusi da soggetti diversi; v. Condizioni generali del contratto). La ratio di questa esclusione può rintracciarsi, non soltanto – come espressamente affermato nel preambolo del d.l. 8.2.2003, n. 18, conv. con modificazioni dalla l. 7.4.2003, n. 63 – nel fine di evitare che il soggettivo apprezzamento, sulla base del parametro equitativo da parte dei singoli giudici di pace, possa comportare pronunce difformi riferite a identiche tipologie contrattuali, ma anche nella considerazione secondo cui per l’imprenditore che normalmente predispone il contratto in serie che sottopone all’approvazione dell’insieme indeterminato di consumatori, il valore del contenzioso non è limitato a quello estremamente esiguo della singola causa, ma alla sommatoria di tutte le cause aventi ad oggetto il medesimo tipo di contratto.
Secondo limite all’applicabilità dell’equità necessaria è previsto dall’art. 6, co. 12, d.lgs. 1.9.2011, n. 150, per le cause di opposizione alle ordinanze di ingiunzione, con cui sono irrogate sanzioni amministrative. Questa limitazione si spiega a ragione della preferenza del legislatore a rinunciare alle esigenze di semplificazione ed economia processuale a favore di quelle di uniforme applicazione delle norme sanzionatorie in materie dominate da interessi generali, sopraindividuali e di carattere pubblico.
Nonostante la diversa opinione della prevalente dottrina, giusta l’orientamento della giurisprudenza (Cass., 26.10.2009, n. 22601; Cass., 15.10.2009, n. 21926), ulteriore limite all’applicazione dell’equità necessaria è da individuarsi in tutte le cause che siano devolute dall’art. 7 c.p.c. alla competenza del giudice di pace non per valore, ma per materia.
Stabilito che la causa deve essere decisa secondo equità, in ogni caso, ad avviso unanime di dottrina e giurisprudenza (Cass., S.U., 15.10.1999, n. 716), devono comunque essere rispettate, sia dalle parti sia dal giudice di pace, tutte le norme processuali, nonché quelle sostanziali cui quelle processuali facciano rinvio, atteso che queste costituiscono attuazione del principio costituzionale del giusto processo.
Sebbene sia assolutamente pacifico il principio secondo cui il giudizio di equità riguarda esclusivamente il merito della causa, vale osservare che la distinzione tra norme processuali e sostanziali spesso non è affatto agevole, risultando per alcune anzi impossibile stabilire in modo certo e definitivo il loro carattere strumentale ovvero sostanziale. Tra queste norme deve sicuramente essere annoverata quella fondamentale, stabilita dall’art. 2697 c.c., in materia di onere della prova, che nello stabilire che, pena il rigetto della domanda, «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento», si pone nel contempo sia come norma attributiva di poteri processuali, sia come regola di giudizio per la decisione del fatto incerto. In particolare, vale osservare che i fatti costitutivi del diritto soggettivo di cui l’attore chiede tutela nel processo, sono stabiliti dalla norma di diritto dal medesimo invocata. Nell’ambito di un giudizio di equità, il riferimento ad una specifica norma di diritto, per definizione, non ha senso, sicché, secondo l’opinione preferibile e seguita anche dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice di pace può individuare, quali fatti costitutivi del diritto vantato, fatti diversi da quelli che sarebbero rilevanti ove fosse applicata la stretta legalità (da ultimo, Cass., 16.5.2016, n. 9976).
È attraverso la sostituzione dei fatti costitutivi stabiliti dalle norme di stretta legalità con quelli più facilmente suscettibili di essere provati che il giudice di pace, limitando le attività istruttorie da svolgere, può perseguire la funzione di semplificazione del giudizio di equità delle cause di minore valore economico e rilevanza sociale.
In questa attività di decisione secondo equità, peraltro, il giudice di pace non può sostituire liberamente i fatti previsti dalle norme di stretta legalità con altri stabiliti secondo le proprie personali e soggettive convinzioni, anche se eventualmente reputate conformi al comune sentire sociale, etico o morale. La circostanza che l’equità necessaria sia prevista come criterio di decisione dalla legge a prescindere dalla volontà delle parti e dalla circostanza che possa avere ad oggetto anche diritti indisponibili, impone di ritenerla una forma di autointegrazione dell’ordinamento giuridico. Al riguardo deve osservarsi che, per quanto d’equità, la giurisdizione del giudice di pace è comunque sempre manifestazione di un’attività dello Stato, sicché risulterebbe contraddittorio che un organo, nell’esercizio di prerogative statuali, possa prescindere dai valori fissati dal medesimo Stato da cui deriva i propri poteri.
Il rinvio all’equità compiuto dall’art. 113, co. 2, c.p.c. è da intendersi nel senso che il giudice di pace possa decidere la controversia senza applicare una precisa disposizione, pure esistente. Si tratta di una situazione assai simile a quella della lacuna dell’ordinamento e che ricorre, ex art. 12, co. 2, disp. prel. c.c., «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione». In particolare, per pronunciare secondo equità necessaria, il giudice di pace può decidere la controversia “per principi” desunti dalle norme di diritto positivo. Nonostante l’evidenziata somiglianza con la decisione fondata sull’analogia, deve sottolinearsi la differenza principale, costituita dalla circostanza che il giudice di pace può trarre i principi in base ai quali decidere la controversia di minore valore economico, anche da norme eccezionali, le quali, invece, ex art. 14 disp. prel. c.c., non sono suscettibili di applicazione analogica.
La formulazione dell’art. 113, co. 2, c.p.c. è mutata ripetutamente nel tempo: nella versione originaria del 1942 era previsto che il giudice conciliatore decidesse semplicemente «secondo equità» tutte le cause di sua competenza; la l. 30.7.1984, n. 399, ha previsto che il giudice conciliatore decidesse «secondo equità osservando i principi regolatori della materia»; la l. 21.11.1991, n. 374, ha eliminato questa previsione reintroducendo per il nuovo giudice di pace un giudizio necessario di equità “pura”; il Giudice delle leggi (C. cost., 6.7.2004, n. 206) è intervenuto dichiarando l’illegittimità costituzionale di tale norma nella parte in cui non prevede che il giudice di pace debba osservare i «principi informatori della materia». Questa soluzione è stata da ultimo recepita dal d.lgs. 2.2.2006, n. 40, che, nel sostituire l’art. 339, co. 3, c.p.c. ha previsto che le sentenze di equità possono essere impugnate, tra l’altro, per violazione dei «principi regolatori della materia».
È stata così stabilita positivamente la coincidenza dei principi informatori, introdotti nell’ordinamento dalla Corte costituzionale, con quelli regolatori, già previsti in precedenza, sicché sono tornati ad essere attuali i contributi dottrinali e giurisprudenziali formatisi ante l. n. 374/1991. In particolare, pertanto, deve ritenersi che il giudizio secondo equità necessaria, da un lato, si traduce nel riferimento a valori obiettivi, che giustificano una deroga o limitazione nel caso concreto alle regole di diritto, con riguardo sia alle conseguenze derivanti da una certa qualificazione giuridica dei fatti, sia alla qualificazione stessa, e, dall’altro lato, è vincolato al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento e di quelle norme che esprimono i «principi regolatori della materia», cioè costituiscono le linee essenziali della disciplina giuridica del rapporto dedotto in causa, realizzandone la configurazione tipica (Cass., S.U., 15.6.1991, n. 6794).
Al fine di individuare i principi informatori o regolatori della materia, dunque, non è possibile far riferimento esclusivamente al rango formale che rivestono le singole norme all’interno della gerarchia delle fonti (atteso che la decisione secondo equità necessaria è imposta dall’art. 113 c.p.c., che è una norma stabilita dalla legge ordinaria, il giudice di pace non può violare le norme di rango superiore, come quelle costituzionali e comunitarie), ma è indispensabile riferirsi alla loro natura assiologica, cioè alla loro capacità di imprimere un’impronta ordinante al sistema giuridico.
In ogni caso, in forza dell’affermata necessità di rispetto delle norme processuali, il giudice di pace, per evitare la pronuncia di decisioni a sorpresa e la sostanziale frustrazione del diritto costituzionalmente garantito di difesa, ai sensi dell’artt. 101, co. 2, c.p.c., è sempre obbligato, prima di pronunciare definitivamente, a pena di nullità della sentenza, a provocare il contraddittorio sulla regola equitativa che intende porre a fondamento della decisione.
Come già accennato, la funzione di semplificazione dell’equità necessaria è perseguita anche e soprattutto nella fase d’impugnazione delle sentenze pronunciate in base a tale criterio di decisione.
La limitazione dei motivi d’impugnazione proponibili avverso le decisioni di equità, oltre a rispondere ad utilitaristiche esigenze di economia processuale, è imposta dall’incompatibilità logica della decisione di equità con un completo e pieno riesame del merito: la pronuncia di equità, infatti, si atteggia necessariamente come decisione in unico grado, attesa l’unicità ed irripetibilità di ogni giudizio ex bono et aequo.
Ai fini della delimitazione dell’ambito di applicazione dello speciale regime d’impugnazione, come in modo assai apprezzabile ha precisato la Suprema Corte (Cass., S.U., 16.6.2006, n. 13917), deve aversi riguardo alla domanda: ove la stessa sia proposta avanti al giudice di pace e sia da decidersi secondo equità per non eccedere il valore ivi fissato e per non riguardare controversie relative a contratti conclusi con moduli o formulari, anche la decisione resa a conclusione del processo è da considerarsi d’equità e come tale soggetta allo speciale regime di cui all’art. 339, co. 3, c.p.c. Di conseguenza: da un lato, sono sottoposte a tale disciplina speciale, tutte le sentenze rese in giudizi da decidersi secondo equità, a prescindere che il giudice di pace abbia chiuso il processo con una sentenza in rito ovvero abbia in concreto applicato la stretta legalità; dall’altro, sono normalmente appellabili le sentenze da decidersi nel merito secondo diritto, anche se il giudice abbia erroneamente applicato l’equità (il giudice di pace nel pronunciare, ex art. 113, co. 2, c.p.c., infatti, può applicare una norma/regola equitativa, ma non è a ciò obbligato, potendo, senza necessità di fornire specifica motivazione sulle ragioni, applicare le norme di diritto positivo e rendere una decisione in tutto e per tutto conforme a quella di stretta legalità).
Con specifico riferimento allo speciale regime stabilito per le sentenze del giudice di pace pronunziate secondo equità, queste in passato erano dichiarate dall’art. 339, co. 3, c.p.c. inappellabili, sicché potevano essere impugnate, oltre che con revocazione ed opposizione di terzo, ai sensi degli artt. 395 e 404 c.p.c., soltanto per alcuni motivi di ricorso per cassazione, atteso che gli altri (come ad esempio, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto) sono logicamente incompatibili con una decisione di equità.
Al fine di diminuire il carico di lavoro della Corte di cassazione, attualmente, l’art. 339, co. 3, c.p.c. stabilisce che le sentenze pronunciate secondo equità necessaria sono appellabili esclusivamente per le seguenti violazioni: delle norme sul procedimento, di norme costituzionali o comunitarie (v. Fonti del diritto dell’Unione Europea - dir. cost.) ovvero dei principi regolatori della materia.
Sostanzialmente, dunque, avverso le sentenze di equità necessaria possono essere proposti i medesimi motivi che potevano già in precedenza essere fatti valere con il ricorso per cassazione.
In particolare, tra le violazioni delle norme sul procedimento devono comprendersi (secondo quanto stabilito dai nn. 1, 2, 4 e 5, art. 360 c.p.c.) sia i «motivi attinenti alla giurisdizione», sia la «violazione delle norme sulla competenza» (ex art. 46 c.p.c., avverso le sentenze del giudice di pace è inammissibile il regolamento di competenza), sia la «nullità della sentenza o del procedimento», sia i vizi della motivazione (con specifico riguardo a questi deve segnalarsi che, poiché l’art. 360, n. 5, c.p.c. fa riferimento ai fatti decisivi per il giudizio, i quali possono essere individuati soltanto in relazione alla stretta legalità, la nullità della sentenza equitativa sussiste soltanto allorquando, all’esito di un controllo sulla logicità interna e formale della decisione, si rilevi che la motivazione sia omessa, apparente o intrinsecamente contraddittoria).
In ordine alla violazione dei principi regolatori della materia, deve precisarsi che l’appellante ha l’onere, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., a pena d’inammissibilità di tale motivo di appello, non soltanto di indicare il principio informatore della materia che si assume violato, ma anche di specificare in qual modo la regola equitativa posta a fondamento della pronuncia impugnata si ponga in contrasto con esso in concreto, al fine di consentire al giudice dell’impugnazione la verifica della sua esistenza e della sua eventuale violazione (Cass., 11.2.2014, n. 3005).
Ove proposto avverso le sentenze d’equità necessaria, pertanto, l’appello – diversamente da quanto ordinariamente previsto – è un mezzo di impugnazione a critica vincolata, i cui motivi sono predeterminati dalla legge e consentono un controllo di carattere meramente estrinseco e formale, senza poter censurare le valutazioni di merito che fondano la decisione d’equità. Di conseguenza, salvo che il tribunale ritenga che l’impugnazione, non avendo «una ragionevole probabilità di essere accolta», debba essere definita con una declaratoria d’inammissibilità ai sensi degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., il giudizio di appello ex art. 339, co. 3, c.p.c. si articola in due fasi: la prima, sempre necessaria, rescindente (tesa ad accertare la fondatezza di uno dei due motivi d’appello proponibili); la seconda, meramente eventuale (condizionata all’esito positivo della prima), rescissoria (volta a pronunciare una decisione di stretta legalità, sostitutiva della precedente d’equità). Il tribunale, salvo che accolga l’appello per i motivi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. e rimetta la causa al giudice di primo grado, deve sempre decidere la causa nel merito secondo diritto e non secondo equità, atteso il carattere eccezionale della previsione di cui all’art. 113, co. 2, c.p.c. ove si fa riferimento soltanto al giudice di pace. In caso di riforma della decisione d’equità ad opera del tribunale con pronuncia sostitutiva di diritto, ove la Corte di cassazione accolga il ricorso per aver errato il giudice d’appello nella fase rescindente, si verifica la reviviscenza della pronuncia d’equità con il suo immediato passaggio in giudicato. All’opposto, qualora sia rigettato l’appello con cui si lamenta la «violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia», la medesima questione può essere riproposta avanti alla S.C., la quale, ove dovesse accogliere tale motivo di ricorso, ex art. 384, co. 2, c.p.c., deve cassare la sentenza di appello e rinviare la causa ad altro tribunale per decidere il merito secondo diritto.
Ulteriore conseguenza derivante dalla circostanza che l’appello avverso la sentenza d’equità necessaria è a critica vincolata, ad avviso della prevalente dottrina, è la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 339, co. 3, c.p.c. nella parte in cui non prevede l’impugnabilità delle sentenze d’equità necessaria per i motivi di cui agli artt. 395 e 404 c.p.c. (nonostante la declaratoria di manifesta inammissibilità della questione pronunciata C. cost., 19.12.2012, n. 304).
In relazione all’arbitrato la diversità tra equità e stretta legalità è sancita dall’art. 822 c.p.c.: gli arbitri (cioè dei giudici privati, normalmente nominati su accordo dei litiganti; v. Arbitrato rituale. Convenzione arbitrale e arbitri) devono decidere le controversie loro devolute (che, ai sensi dell’art. 806 c.p.c., possono avere per oggetto esclusivamente diritti disponibili) secondo le norme di diritto, «salvo che le parti abbiano disposto con qualunque espressione che gli arbitri pronunciano secondo equità».
Diversamente da quanto stabilito dall’art. 113 c.p.c., in sede arbitrale non si pone un rapporto di regola ed eccezione tra decisioni secondo diritto o equità, ma di mera alternativa, come è confermato sia dalle origini storiche dell’arbitrato (il quale in antico non era distinguibile dall’arbitramento, di cui all’attuale art. 1349 c.c., e, pertanto, era normalmente d’equità), sia dalla circostanza che l’art. 822 c.p.c. (che, dunque, assolve alla funzione di integrare il contenuto della convenzione arbitrale in caso di lacuna in ordine al criterio di decisione) consenta l’uso di «qualunque espressione», così escludendosi soltanto una manifestazione di volontà per facta concludentia.
Tra le formule più diffuse per indicare la volontà delle parti affinché la decisione sia resa secondo equità, deve essere ricordata quella già usata nel codice di rito del 1865 che attribuisce agli arbitri la qualifica di «amichevoli compositori». Non è, invece, formula idonea a manifestare la volontà delle parti quella secondo cui gli arbitri devono pronunciare «lodo non impugnabile», specie nel vigore del nuovo art. 829, co. 3, c.p.c., che prevede che l’impugnazione del lodo «per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia» è ammessa esclusivamente a condizione che sia espressamente disposta o dalle parti o dalla legge. Attualmente, infatti, è necessaria un’espressa pattuizione delle parti sia affinché gli arbitri decidano secondo equità, sia affinché il lodo (ovviamente, soltanto se di diritto) sia censurabile per violazione del diritto: a contrario, nel silenzio delle parti, gli arbitri devono pronunciare applicando le norme di diritto un lodo non impugnabile per violazione delle norme di diritto.
Oltre alle già indicate opzioni tra lodo di equità o di stretta legalità ed in quest’ultimo caso se o meno impugnabile, le parti possono liberamente ed in piena autonomia, anche: scegliere tra un arbitrato rituale o irrituale (previsto espressamente in via generale dall’art. 806 ter c.p.c., e che, infatti, può essere tanto stricto iure, quanto ex bono et aequo; v. Arbitrato irrituale); ai sensi dell’art. 810 c.p.c., nominare gli arbitri (eventualmente scegliendoli tra persone dotate di competenze tecniche anziché giuridiche); ex artt. 816 e 816 bis c.p.c., rispettivamente, stabilire la sede dell’arbitrato e le norme che gli arbitri devono osservare nel procedimento e la lingua dell’arbitrato; ai sensi dell’art. 820 c.p.c., fissare un termine per la pronuncia del lodo. Ricorrendo all’istituto arbitrale, dunque, le parti hanno la possibilità di ottenere (secondo l’efficace formula carneluttiana) una «giustizia su misura», quanto agli effetti, alla procedura, ai tempi, e, attraverso la scelta di adottare come criterio di decisione l’equità in luogo della stretta legalità, anche al contenuto della decisione finale.
In questa prospettiva la funzione dell’equità degli arbitri può essere sinteticamente indicata come di adattabilità, nel senso che le parti, devolvendo la loro controversia ad arbitri di equità vogliono che questi non si limitino ad applicare le regole generali e astratte previste dalla stretta legalità, ma adottino una decisione in considerazione delle specifiche circostanze del singolo caso concreto, che sia conveniente e appropriata ai caratteri peculiari propri della lite che li oppone, come, ad esempio, le loro condizioni economiche, i rapporti esistenti tra le parti stesse oltre a quello che ha dato luogo alla controversia, il contesto sociale ed economico in cui operano e così via.
Conferma dell’indicata funzione di adattabilità dell’equità arbitrale può essere tratta dalla circostanza che la stessa trova il proprio unico fondamento nell’autonomia privata delle parti, la quale incontra due concorrenti limiti generali: l’indisponibilità dei diritti e l’inderogabilità delle norme di diritto che disciplinano la materia. Gli arbitri possono pronunciare un lodo ex bono et aequo, valutando tutti gli interessi contrastanti delle parti, contemperandoli tra loro e determinando effetti giuridici diversi da quelli che discenderebbero dall’applicazione della stretta legalità, a condizione che si tratti di situazioni giuridiche che non soltanto siano rimesse alla completa discrezionalità del titolare, ma anche che siano disciplinate da norme di diritto suscettibili di essere disapplicate e derogate tanto dagli arbitri quanto dalle parti.
Atteso che possono essere devolute in arbitri soltanto controversie aventi ad oggetto diritti disponibili, tendenzialmente sono anche tutte suscettibili di essere decise con un lodo d’equità, ma alcune controversie arbitrabili non possono essere decise secondo equità.
Come ricordato anche dall’art. 829, co. 3, c.p.c., infatti, in alcuni casi la legge espressamente vieta che la controversia possa essere decisa secondo equità ovvero consente comunque l’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito. Analiticamente ciò è previsto: - dall’art. 829, co. 4, n. 1, c.p.c. per le controversie aventi ad oggetto un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato previste in modo tassativo dall’art. 409 c.p.c. (nel qual caso, il lodo può essere impugnato anche per violazione dei contratti e accordi collettivi; in proposito, vale ricordarsi che gli artt. 412 e 412 quater c.p.c., come risultanti in forza dalla l. 4.11.2010, n. 183, ammettono che le parti possano eventualmente chiedere agli arbitri irrituali, cui sia stata devoluta la causa di lavoro, «di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari»; v. Inderogabilità - dir. lav.); - dal successivo n. 2, per la soluzione delle questioni pregiudiziali su materia che non può essere oggetto di convenzione di arbitrato (ma che gli arbitri devono comunque risolvere senza autorità di giudicato, ai sensi dell’art. 819, co. 1, c.p.c.; v. Arbitrato rituale. Procedimento); - dall’art. 36, co. 1, d.lgs. 17.1.2003, n. 5, che in materia societaria prevede che «Anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile … quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari» (v. Arbitrato societario 2. Il procedimento); - dall’art. 12 c.p.a., d.lgs. 2.7.2010, n. 104, che stabilisce che «Le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile»; - dall’art. 209, co. 14, codice dei contratti pubblici, d.lgs. 18.4.2016, n. 50, ai sensi del quale il lodo è sempre impugnabile, «oltre che per motivi di nullità, anche per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia».
Nei casi ricordati, dunque, gli arbitri possono legittimamente essere investiti della decisione delle controversie, ma contestualmente sono obbligati al rispetto della stretta legalità e, come chiarito in via generale dall’art. 829, co. 3, c.p.c. l’eventuale violazione del suddetto divieto di decisione secondo equità, ad opera delle parti o degli arbitri, può essere fatta valere attraverso l’ordinaria impugnazione per nullità per violazione delle norme di diritto relative al merito.
Al di fuori delle ipotesi discrezionalmente previste in via tassativa dal legislatore, gli arbitri chiamati a pronunciare secondo equità, diversamente dal giudice di pace nelle cause di minore rilevanza economica e sociale, hanno (non il potere, bensì) l’obbligo di decidere secondo equità, con la conseguenza che qualora ritengano che nel caso di specie la decisione equitativa coincida con quella di stretta legalità, devono fornirne adeguata motivazione.
A ragione della funzione di adattabilità dell’equità, gli arbitri devono individuare la regola di equità attraverso la composizione complessiva degli interessi delle parti in lite, senza essere obbligati a considerare soltanto le situazioni giuridiche prestabilite dall’ordinamento giuridico. In sede arbitrale, pertanto, gli arbitri possono e debbono far riferimento ad una rete di valori che può anche non coincidere con quella propria dell’ordinamento dello Stato. Conferma di tale rilievo può trarsi dalla prassi: assai sovente gli statuti di società, associazioni, partiti politici, sindacati o associazioni di categoria prevedono che le eventuali liti tra i membri di tali stabili gruppi di persone siano risolte secondo equità da arbitri, spesso precostituiti in organi stabili di giustizia interna. In questo contesto, in cui la risoluzione arbitrale delle controversie risponde all’interesse non soltanto dei singoli in lite, ma anche dell’intero ente organizzato (per la continuazione di questo è indispensabile la risoluzione delle liti insorte tra i singoli membri), l’equità può essere intesa come formula sintetica per indicare la necessità di considerare gli interessi diffusi nel gruppo di appartenenza e per far riferimento ai valori che ne costituiscono il fondamento.
Fermo restando che l’arbitrato, anche se ex bono et aequo, ha tutte le caratteristiche proprie del processo (sicché gli arbitri sono obbligati non soltanto ad attenersi alle difese delle parti, ma anche a rispettare tutte le norme processuali, tra cui quella di provocare il preventivo contraddittorio sulla regola equitativa che intendono porre a fondamento del lodo), nell’individuare la regola di equità per decidere la controversia gli arbitri svolgono un’attività che può essere assimilata a quella di disposizione degli interessi oggetto della controversia e che potrebbe essere messa in atto direttamente dalle parti concludendo un negozio giuridico, avvalendosi della propria autonomia privata.
Questa considerazione è confermata dal limite che gli arbitri di equità incontrano nel decidere secondo equità: ai sensi dell’art. 829, co. 3, c.p.c., infatti, è sempre possibile impugnare il lodo «per contrarietà all’ordine pubblico» (v. Ordine pubblico - dir. amm. e Ordine pubblico dir. int. priv.).
Questo ultimo viene normalmente inteso come una formula di sintesi per indicare tutti i limiti che incontra l’autonomia privata. In negativo, la contrarietà all’ordine pubblico, intesa come l’insieme dei valori preminenti della comunità, comporta la nullità dell’atto negoziale. In positivo, l’atto negoziale è idoneo a produrre effetti giuridici non soltanto perché sorretto dalla volontà delle parti, ma anche perché valutato come rispondente all’interesse collettivo.
In ordine al contenuto dell’ordine pubblico, questo è considerato come una clausola generale, variabile storicamente e da determinarsi attraverso il rimando alla realtà sociale in continua evoluzione. Come, da un lato, possono concorrere a formare l’ordine pubblico norme che non prevedono espressamente la nullità di determinati atti negoziali, dall’altro, possono esulare dal suo ambito quelle norme che, pur prevedendo ipotesi di nullità, non siano poste a tutela di interessi generali.
Il succinto esame compiuto conferma come il giudizio di equità avanti al giudice di pace, imposto come necessario dalla legge per le cause di minore valore economico, e quello avanti agli arbitri, fondato sull’autonomia privata delle parti e sulla fiducia che queste nutrono nelle persone degli arbitri, rispondono alle diverse funzioni, rispettivamente, di semplificazione e di adattabilità e sono munite di strutture differenziate.
Conferma di questa conclusione può trarsi dalla scarsissima applicazione pratica ricevuta dall’equità concordata e che può essere spiegata a ragione della circostanza che l’art. 114 c.p.c. ha inserito nella struttura del giudizio di diritto, una funzione ad essa estranea e propria, invece, dell’arbitrato di equità. Le parti non si sono praticamente mai avvalse della facoltà loro concessa di chiedere concordemente una decisione di equità, a ragione del fatto che il giudice ordinario è per loro estraneo, ignoto ed imposto dall’ordinamento statale. Al contrario è assai frequente che le convenzioni arbitrali prevedano una decisione d’equità, perché la rinuncia alla certezza del diritto è compensata dalla fiducia riposta nelle persone degli arbitri che sono normalmente scelti dalle parti.
Se quanto precede giustifica e chiarisce ulteriormente la millenaria funzione dell’equità arbitrale, nel contempo solleva gravi dubbi circa sia la legittimità costituzionale sia l’opportunità di conservare la previsione dell’equità necessaria, ancorché nel rispetto dei principi informatori o regolatori della materia: innanzi tutto, sembra che l’obbligo di osservanza di questi (reintrodotti, come visto supra, § 2.3, in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 113, co. 2, c.p.c. ed alla riforma dell’art. 339, co. 3, c.p.c.) abbia seriamente compromesso la funzione di semplificazione del giudizio, risultando la decisione equitativa forse più difficile che non quella stricto iure; in secondo luogo, appare contrario ai fondamentali principi di civiltà giuridica, tra cui soprattutto quello di certezza del diritto, la previsione per cui alcune situazioni giuridiche siano sottratte, per legge, alla stretta legalità per il solo fatto di essere di minore rilevanza economica e sociale.
Fonti normative
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