Pascoli, Giovanni
Gl'influssi danteschi nella poesia del P. (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912) sono evidenti anche nel radicale processo di trasfigurazione che ogni ‛ oggetto ' poetico, come ogni fonte letteraria, subisce tra l'idillio campestre di Myricae e le ambizioni civili dei Poemi Conviviali e degli Italici; più evidenti, data l'adeguazione al nuovo personalissimo linguaggio pascoliano, i ricalchi di temi e figure che non quelli di parole o stilemi.
Valga in Myricae l'esempio di Belacqua che riproponendo in chiave autobiografica il tema proverbiale dell'ozio contemplativo (Le gioie del poeta) è pascolianamente contento di ridursi a fanciullino nel coro onomatopeico delle rane. Ma nei Primi Poemetti il tema dantesco tenta di porsi, carduccianamente, in un rapporto paesaggistico: in Conte Ugolino la visione della Capraia e della Gorgona dal lungomare livornese fa scattare per la prima volta la mitografia di D. personaggio: " or Egli dritto stante / imperiale sopra la persona / tese le mani al pelago sonante ", finché l'apocalisse delle due isole semoventi verso la foce dell'Arno, a suggellare l'invettiva di If XXXIII, svanisce nella maestà del mattino estivo, e il passaggio dalla visione alla realtà è segnato dal nome di Ugolino: lo porta non il tragico conte, ma un bimbo che si tuffa nel mare. Passando poi attraverso il severo impegno degli studi danteschi (1895-1904) il poeta si sofferma con crescente insistenza su D. persona e mito: così in Odi e Inni il ritornare della cometa di Halley all'orizzonte riporta il P. al tempo in cui D. la vide e ascese con essa, torvo astro apocalittico, in una sorta di annullamento cosmico: " e Dante fu nessuno. / Terra non più, cielo non più, ma il Niente. / Il Niente o il Tutto: un raggio, un punto, l'Uno ".
Titanismo tardoromantico, aperto a tutte le amplificazioni e custodito da epigrafi solenni: " esule a cui ciascuno fu crudele ", " peregrino del Mistero ", " timonier d'Italia invitto ", " termine nostro " (cfr. Inno degli emigrati italiani a D., Inno secolare a Mazzini, ecc.) che allontanano sempre più il P. da quel canone dell'umiltà umbratile e sommessa che gli aveva consentito le invenzioni più alte in sede lirica e, presentando o trascrivendo altri poeti (a cominciare da Omero), le proposopee più ricche di suggestione. Quella di D. è invece legata a un gusto che, scartando anche i calligrafismi di cui si era compiaciuto nella cerchia bizantina e conviviale attorno al De Bosis, preferisce attenersi a una solennità celebrativa di tipo victorhughiano e dannunziano. E se qualche tema di sfondo è sempre attivo sia nell'intelligenza della Commedia sia nel modo di riviverla fantasticamente (per esempio, quello della selva di Chiassi che si trasforma in " sublime cattedrale ", in divina foresta: così nelle Canzoni di Re Enzio che resta il libro pascoliano più folto d'intarsi e mosaici danteschi), la figura di D. che in quella medesima pineta s'inserisce tra l'apparizione di Tolstoj e quella di Garibaldi compone con esse una velleitaria scenografia floreale. Con quest'ultima figurazione, che è dei Poemi Italici (1911) e che comportava una ripresa della maniera grande della tradizione romagnola, avvalorata da quel culto di D. ravennate di cui sono testimonianza anche i coevi studi di C. Ricci, può dirsi esaurita la serie dei medaglioni danteschi nel P.: inventario che sarebbe assai più cospicuo se il poeta avesse avuto ala e vita per il progettato poema " sulla nascita della Divina Commedia " di cui leggiamo lo schema in una lettera ad A. Caselli del 20 dicembre 1901.
Anche tale progetto va ascritto a quel singolare afflato mistico che gli studi danteschi, per tanti anni perseguiti, educarono nel poeta; e come questo rimase lettera morta per incapacità di dominare poeticamente la materia, così quelli, nonostante il poderoso sforzo ermeneutico, non riuscirono mai a comporsi in un disegno armonioso e persuasivo.
A detta di Maria Pascoli, gli studi danteschi del fratello ebbero inizio subito dopo la laurea (1882) durante il riordino della biblioteca Comunale annessa al liceo di Matera. Lì il giovane professore di lettere classiche avrebbe cominciato, con assidue postille a testi patristici, quei raffronti e quelle ipotesi che fecero poi maturare in lui la vocazione dantesca. Sospese durante l'insegnamento a Massa (1885-86), le ricerche ripresero con maggior vigore nel periodo livornese e sfociarono nei prolegomeni che il De Bosis pubblicò sul " Convito " (fasc. V-VIII, 1895-96) ripresi nel volume Minerva oscura (1898) cui il P. premise una lettera programmatica a G. Finali, annunciandovi " la chiave per entrare nel mistero di Dante ". Alla pubblicazione del volume tenne dietro un intermezzo di crucciose polemiche che il P., ormai a Messina, intrecciò con i recensori sfavorevoli (F. D'Ovidio, E. G. Parodi; F. Luiso; favorevole era stato invece nel complesso G. Fraccaroli, nel " Giorn. stor. " XXXIII [1899] 364-376). In questo clima inquieto e talora stizzoso, fatto più teso dall'isolamento messinese e dalla necessità pratica di uscirne apprestando titoli per la cattedra di letteratura italiana (diremo più oltre, usciti dalla cronistoria, di altre sollecitazioni più profonde), maturò il secondo e più ampio volume dantesco, Sotto il velame, edito a Messina per i tipi di V. Muglia nel maggio del 1900. Tra gl'incoraggiamenti a proseguire per la linea esegetica intrapresa non era mancato quello dell'Ascoli, che aveva addolcito l'amaro della mancata concessione del premio dei Lincei (1899) con una relazione (di mano del Carducci, a detta del Valgimigli) in cui si parlava di " potenza di sintesi " e di " paralleli finissimi, che colpiscono di nuova luce " il sistema dottrinale della Commedia; né aveva rinunciato il P. a diffondere le proprie idee anche con un parziale commento all'Inferno preparato per l'antologia Sul limitare edita a Milano in quel medesimo anno; ma l'accoglienza fredda o sdegnosa della critica accademica al nuovo volume doveva volgere in tragedia l'attesa del solitario ricercatore. Ne segui una rottura, sia pure temporanea, con E. Pistelli, autore della circospetta recensione sul " Bull. della Soc. Dantesca " (dic. 1900-genn. 1901) e un'aspra battaglia epistolare contro stroncatori e indifferenti: Filomusi Guelfi, Mazzoni, Flamini, Barbi, mentre bersaglio di risentimenti continui erano Lesca, Ceci, Pascal, Scherillo, e perfino il " Marzocco " di Corradini, dove pure L. Valli pubblicò il 7 aprile 1901 un corsivo entusiastico; e non mancarono dissapori neppure col Pietrobono, autore dell'unica recensione veramente positiva, su " La Tribuna " del 20 giugno 1900.
A intendere lo stato d'animo del poeta in quel tempo amarissimo converrà rileggere la prefazione ai Conviviali che è del 1904: " Non mi dorrebbe troppo se questi Poemi avessero la sorte di quei volumi. Essi furono derisi e depressi, oltraggiati e calunniati. Io morrò, quelli no. Così credo, così so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il genio di nostra gente, Dante, la additerà ai figli ". Nel termine ‛ volumi ' il P. includeva anche la terza prova dantesca, La mirabile visione, scritta nel medesimo fervore operoso della seconda e pubblicata presso lo stesso Muglia (1901) senza neppure attendere le reazioni della pubblicistica accademica e letteraria a Sotto il velame.
Il più sconfortante silenzio tenne dietro a questo terzo volume: pertanto se il P. si accinse alla sintesi della Prolusione al Paradiso (1903) fu solo per mantenere fede a una missione d'interprete e di profeta, nella quale ebbe pochi seguaci (rimase proverbiale tra l'altro la ‛ donna gentile ' Emma Corcos che confortò di sguardi pietosi, tra la generale freddezza, una lettura pascoliana in Orsammichele); una delusa stanchezza gl'impediva ormai di por mano al quarto volume critico, La poesia del mistero dantesco, annunciato nella medesima Prolusione. L'attività dantesca degli ultimi anni è consegnata a frammenti, talora di notevole interesse come il discorso La Sicilia in D., Virgilio e D., la lettura del II canto del Purgatorio, l'articolo Colui che fece per viltade il gran rifiuto. Queste prose, con altre pagine per lo più polemiche, saranno raccolte da Maria nel volume Conferenze e studi danteschi (Bologna 1914) e ripubblicate poi dal Vicinelli nel tomo II delle Prose. Nel declino del poeta la celebrazione di D., " l'Omero del Cristianesimo ", si adeguò sempre più alla tradizione risorgimentale: il P. fantasticò addirittura di un partito politico " degli uomini liberi " che avrebbe chiamato anche " partito di Dante " adunandovi le forze di un socialismo antimarxista e nazionale (Lettere agli amici lucchesi, Firenze 1960, 104).
Le tesi fondamentali dell'esegesi pascoliana sono l'unità strutturale della Commedia, rifratta in mille rispondenze dottrinali nei tre regni, e l'intenzione criptografica di D. che avrebbe chiuso il proprio sistema mistico in un piano preordinato di segni, talché scopo precipuo della critica sarebbe l'impadronirsi del codice segreto, sollevare per astuzia d'ingegno il velame allegorico. In Minerva oscura abbiamo, come si è detto, i prolegomeni generali alla nuova ermeneutica: il P. espone la costruzione del mondo dantesco imperniata sul numero settenario, riducendo a perfetta simmetria anche l'apparente divario tra l'Inferno e il Purgatorio nella distribuzione penale, e chiarisce il significato della selva oscura (" simbolo di mancanza di lume e di virtù che consiglia ") e delle tre fiere (" simbolo delle tre disposizion che il ciel non vuole " e allegoria del peccato attuale). In Sotto il velame viene additato in un passo del Contra Faustum di s. Agostino un altro principio costitutivo dell'unità del poema, cioè l'abbandono della vita attiva per la contemplativa, cui si giunge dopo l'esercizio della virtù, simile a quello di Giacobbe nei sette anni di servitù per avere Rachele; sicché D. si fa servo di Lucia al modo stesso che Giacobbe servì Laban, inteso come dealbatio cioè Grazia. Viene inoltre illuminato l'emblema ricorrente delle ‛ rovine ' e il discusso passaggio dell'Acheronte (morte spirituale per chi è spiritualmente morto, morte mistica - cioè ‛ rinascita ' - per chi è spiritualmente vivo: con una suggestiva precisazione semantica sulla seconda morte degl'ignavi) nonché la natura dei fiumi infernali, unico sgorgo di lacrime dalla spaccatura del veglio, vulneratio della natura umana. In La mirabile visione il P. riepiloga le principali corrispondenze strutturali del poema (sviluppando tra l'altro la già intuita simmetria della croce e dell'aquila) e cerca d'inserirle a loro volta nel diorama della vita di D.: il ritorno a Beatrice, annunciato dalla mirabile visione della Vita Nuova (XLII 1), non è altro che la storia della Commedia come liberazione dal peccato-selva attraverso l'abbandono delle seduzioni filosofiche e politiche (il corto andare al bel colle) e dunque della vita attiva per la contemplativa: ascesi che poté vivere poeticamente soltanto dopo la morte di Enrico VII, nella dimora di otto anni a Ravenna. Da ultimo la Prolusione al Paradiso riprende queste intuizioni ricapitolando il significato della selva e delle fiere, di Virgilio trasfuso in s. Bernardo e di D. figurato nel triplice ruolo di Enea, Giacobbe e Paolo, e via dicendo. Tra i soccorsi più moderni alla lettura è quello della forma composita del poema, come di basilica bizantina: che è non soltanto un'ulteriore insistenza sull' " ultima ascesa " ravennate, ma un'indicazione critica potenzialmente feconda sul carattere allusivo e musivo della Commedia e in particolare dell'ultima cantica. Altri spunti critici estranei al prediletto allegorismo si trovano nella prosa del Fanciullino, ripubblicata nel 1907 in polemica risposta al Croce: lì il P. consentiva a una definizione del poema come testo di poesia non pura ma " applicata ", com'è sempre quella dei grandi poemi, drammi o romanzi, ma solo per concludere che la Commedia è come un " grande oceano perlifero " e che " per quanto... non tutta la poesia che v'è sia pura, per altro quel poema è nella sua concezione generale il più ‛ poetico ' dei poemi che al mondo sono e saranno ".
Queste e molte altre suggestioni sparse nel vario e sofferto iter dantesco avrebbero potuto raccomandare il P. al consenso almeno parziale di una critica che, prima del nuovo indirizzo crociano, tentava confusamente - e più all'estero che in Italia - di trasferire negl'incontri con i testi consacrati la ricchezza di modulazioni, di analogie, di trapassi che era propria della cultura decadente. Si preferì invece un verdetto negativo basato sui due limiti più appariscenti dell'impegno pascoliano: dal punto di vista formale, la stesura contorta e affannata di quei volumi sempre ritornanti su loro stessi come chi voglia ribattere le proprie ragioni; dal punto di vista contenutistico la parentela subito stabilita con la corrente esoterico-massonica che attraverso il Perez e il Sermoneta faceva capo al Rossetti. Tale collegamento coi vecchi strumenti criptografici non fu smentito dal P., il quale però difese accanitamente il carattere mistico-iniziatico (e non politico-settario) della propria esegesi allegorica. Ma era proprio quell'insistere sul mondo dei simboli che allontanò dal P. la dantologia ufficiale: quella storico-documentaria, istintivamente sospettosa di ogni misticismo, non era disposta ad ammettere che l'allegoria dantesca fosse altro che una macchina scenografica sopravvissuta dal Medioevo più astratto e tenebroso; quella idealistica, rigorosamente distinguendo il momento fantastico da quello riflessivo, relegava tutto quel mondo tra gli strumenti pratici di persuasione e giungeva per altra via alla medesima condanna. La negazione fu ribadita per i prosecutori più entusiastici della traccia pascoliana, L. Pietrobono e L. Valli, nei quali d'altra parte l'esercizio di decifrazione meno risente delle circostanze che nel maestro erano state confusamente stimolanti: per esempio il misticismo estetizzante disceso da Novalis e da Huysmans, che riaffiorava nel P. affidando alla parola poetica un'investitura di ‛ rivelazione ', di conoscenza totale dell'essere, e poteva benissimo ritrovare nel simbolismo gotico (attribuendogli magari un'inesistente sistematicità) le suggestioni del simbolismo decadente; oppure il gusto misteriosofico di fine Ottocento, con gli studi di teosofia e l'esplorazione inquieta dei sogni e delle visioni; o, non ultimo, il proposito sincero di giovare ai propri simili, di annunciare una nuova era dello spirito, che poteva nel profetismo umanitario del P. riecheggiare il profetismo escatologico di Dante.
La critica più recente pare rivolta a una moderata riqualificazione positiva dei volumi pascoliani, non nel senso di accogliere le articolate conclusioni esegetiche (nessuna delle quali appare tanto solida da porsi come un traguardo pacifico) bensì in quello di assumere l'ipotesi di un'unità etico-dottrinale della Commedia, per cui il problema estetico - che per il P. era in fondo secondario - può essere affrontato soltanto " previa acquisizione del clima morale e anagogico che è il solo a conferire autenticità agli episodi che formano per il gusto moderno l'antologia lirica del poema ": così S. Battaglia, il più convinto assertore della validità dell'impostazione pascoliana. A lui si può affiancare M. Apollonio, per il quale l'immagine allegorica non è univoca, ma polisensa, come nel P. per cui i simboli trascolorano e trapassano in forme diverse (così la selva si trasforma nella divina foresta e si contrae nella rosa dell'Empireo, così le tre fiere si assommano nel triforme Lucifero passando attraverso i triformi Cerbero e Gerione). Il problema è uno dei più aperti alla futura dantologia; perché se le caute distinzioni crociane, ribadite da G. Getto, A. Vallone e altri, conservano almeno un valore di freno all'avventura esoterica (cui non ci si può affidare senza un rigoroso controllo delle forme storiche, che mancava in fondo al P.), il clima culturale che ha già assorbito Auerbach, Eliot e Singleton (dai quali per strade diverse è stato risposto alle medesime domande del P.) consente qualunque ricupero, una volta caduti i divieti di cinquanta o settant'anni fa.
Opere dantesche del P.: Minerva oscura. Prolegomeni: la costruzione morale del poema di D., Livorno 1898; Sotto il velame. Abbozzo di una storia della D.C., Messina 1900; La mirabile visione, ibid. 1902; Conferenze e studi danteschi, a c. di Maria Pascoli, Bologna 1914 (contiene A F. D'Ovidio, 1900; Conversazioni dantesche, 1900-1901; Colui che fece per viltade il gran rifiuto, 1902; Prolusione al Paradiso, 1902; Il canto Il del Purgatorio, 1902; Virgilio e D., 1903; La Sicilia in D., 1905); Scritti danteschi, a c. di A. Vicinelli, vol. II delle Prose, Milano 1952 (contiene tutte le opere precedenti, più gli articoli pubblicati sulla rivista " Flegrea ", una lezione tenuta a Bologna per i maestri, il saggio di un commento alla Commedia e, ordinata dal Vicinelli, una raccolta dei luoghi pascoliani - prose e poesie - in cui si parla di Dante).
Bibl. - F. Luiso, Di un libro recente sulla costruzione morale del poema di D., in " Rivista Bibl. Ital " III (1898) 11, 12, 25; E.G. Parodi, in " Rassegna Bibl. Lett. Ital. " VII (1899) 1-2; G. Fraccaroli, in " Giorn. stor. " XXXIII (1899) 364-376, XXXVIII (1901) 398-428; F. Filomusi Guelfi, Di un nuovo libro di G.P., in " Giorn. d. " IV (1900) XI; L. Pietrobono, in " La Tribuna Illustrata " 20 giugno 1900; ID., Per l'allegoria di G.P., in " Giorn. d. " XXI (1913); E. Pistelli, in " Bull. " VIII (1900-1901) 73-75; A. Orvieto, in " Il Marzocco " 10 agosto 1904; G. Busnelli, G.P. dantista, in " Civiltà Cattolica " LXIII (1912) 570-571; G. Passerini, in " Giorn. d. " XX (1912) 111; anon., Del " Pascoli dantista ", in " Giorn. d. " XX (1912) 221; D. Bulferetti, G.P., l'uomo, il maestro, il poeta, Milano 1914, 167-170; ID., in " Giorn. stor. LXXI (1918) 329; F. Sternberg, D. nel pensiero di G.P., Bologna 1922; L. Valli, L'allegoria di D. secondo G.P., ibid. 1922; ID., D. nella poesia di G.P., nel volume miscellaneo Studi pascoliani, ibid. 1929, 15-34; ID., in " Giorn. d. " XXV (1922) 11, 158-159; V. de Toma, Il canto I dell'Inferno nel pensiero di G.P., Firenze. 1928; M. Barbi, Per la genesi e l'ispirazione centrale della D.C., in " Studi d. " XVI (1931) 56-67; ID., Problemi fondamentali per un nuovo commento alla D.C., in " Studi d. " XXIII (1938) 5-77; ID., in Con D. e i suoi interpreti, Firenze 1941; L. Carelli, G.P. lettore di D., Napoli 1939; A. Ricolfi, L'impero e la redenzione secondo P. e Valli, in " Nuova Rivista Storica " XXVII (1943) 15-38; XXIX (1945) 184-201; A. Grilli, Pascoli dantista e Renato Serra, in " La Pié " aprile-maggio 1947, 83-88; B. Croce, G.P., Bari 1947, 61-67; U. Cosmo, Guida a D., Firenze 1947, 232-233; G. Getto, P. dantista, in " Lettere Italiane " I (1949) 35-59, ora in Carducci e P., Bologna 1957, 13-108; P. Vannucci, P. e gli scolopi, Roma 1950; M. Apollonio, D., storia della Commedia, Milano 1951, 1312-1322; ID., Simbolismo ed emblematica nel commento perenne alla D.C., in " Annali Ist. Studi danteschi " I (1967) 217-224; A. Vicinelli, La poesia del mistero dantesco, in " La Fiera letteraria " 13 aprile 1952; ID., Cronaca e storia degli studi danteschi del P., in " Studi d. " XXXI (1953) 5-80; A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, Firenze 1953, 211-223; ID., La critica dantesca contemporanea, Pisa 1953; S. Battaglia, Gli scritti danteschi di G.P., in " Annali Ist. Orientale Napoli " serie romanza I (1953) 1-30 (rist. in Esemplarità e antagonismo nel pensiero di D., Napoli 1967, 9-50 e, con modifiche, in La critica dantesca del P., ne I critici, II, Milano 1969, 1153-73); ID., Linguaggio reale e linguaggio figurato nella D.C., in Esemplarità, cit., pp. 51-82; A. Galletti, P., Milano 1955,199-245; L. Russo, Il tramonto del letterato, Bari 1960, 409-422; M. Valgimigli, Uomini e scrittori del mio tempo, Firenze 1965, 193-197; A. Vallone, Capitoli pascoliani danteschi con inediti, Ravenna 1967; P. Vannucci, Attraverso la cultura e attraverso la vita, Roma 1969, 114-118, 259; E. di Poppa Volture, Lo padre e i figli, Napoli 1970, 231-248.