Pompeo Magno, Gneo
Generale e politico romano (n. 106-m. 48 a.C.). A 17 anni (89) fu con il padre Gneo Pompeo Strabone, allora console, alla conquista di Ascoli durante la guerra sociale; due anni dopo salvò il padre da una congiura militare. Morto Pompeo Strabone, P. ereditò ricchissimi latifondi nel Piceno e arruolò, tra i suoi contadini e i suoi clienti, tre legioni mettendole a disposizione di Silla per la riconquista d’Italia (83); bandito perciò dal senato, l’anno dopo conquistò la roccaforte mariana di Preneste. Ripudiata la prima moglie Antistia, sposò la figliastra di Silla, Emilia; da Silla, divenuto dittatore, ebbe quindi il comando della spedizione contro i mariani di Sicilia (Gneo Carbone) e di Africa (Gneo Domizio Enobarbo e Iarba re di Numidia) e riportò un successo strepitoso (82-80), che mise in luce le sue possibilità d’indipendenza da Silla. Questi dovette infatti concedergli il ritorno con l’esercito e il trionfo, e il riconoscimento ufficiale del titolo di «Grande» (Magnus), datogli dai soldati sul campo. Quando, in seguito alla abdicazione (79) e alla morte (78) di Silla, iniziò la restaurazione antisillana per opera del console Marco Emilio Lepido con mezzi anche rivoluzionari, P. scelse la parte senatoria, conservatrice della legalità sillana, e diresse, con Catulo, le operazioni contro i ribelli in Etruria, costringendo Lepido a fuggire in Sardegna dove morì. Fu quindi mandato con imperio proconsolare (non avendo egli ricoperto ancora alcuna magistratura) in Spagna, dove Sertorio aveva, con l’aiuto degli indigeni, riorganizzato il movimento mariano, fronteggiato senza successo dal proconsole Metello Pio; egli stesso, pur ottenendo successi parziali, non conseguì risultati definitivi, finché Sertorio cadde vittima di una congiura dei suoi stessi soldati (72) cui era a capo Perperna, che poi fu fatto prigioniero. Sottomessa la Spagna, tornò (71) in Italia, dove partecipò all’ultima fase della guerra di Spartaco e condivise l’onore della vittoria con Licinio Crasso. Mercé l’accordo con Crasso, e rafforzando le sue pretese con la forza intimidatrice delle sue truppe accampate alle porte della città, ottenne il consolato, benché non fosse stato neppure questore. In cerca del favore popolare, si accinse a smantellare la costituzione sillana: con la legge Pompeia Licinia de tribunicia potestate (70) abolì i limiti posti all’intercessione dei tribuni e con altra legge tolse ai senatori l’esclusività nella composizione delle giurie. La nuova occasione, che egli sfruttò ai fini di crearsi una potenza personale, fu la lotta contro i pirati che destavano gravi preoccupazioni per le comunicazioni marittime, recando notevole pregiudizio all’approvvigionamento di Roma. Con la legge Gabinia (67) P. ottenne l’imperio proconsolare nel Mediterraneo e sulle coste per tre anni, con 500 navi, 20 legioni e 5000 cavalieri. In tre mesi riuscì a ridurre i pirati all’impotenza; per il prestigio di questo successo ottenne il comando della guerra contro Mitridate del Ponto, succedendo a Lucullo (legge Manilia, 66 a.C.). Con abilissima politica, mediante un’alleanza coi parti, riuscì a separare da Mitridate Tigrane d’Armenia, che divenne vassallo dei romani. Battuto da P. sul fiume Lico, Mitridate non poté rifugiarsi in Armenia e dovette ritirarsi nella Colchide, perdendo il regno pontico (che veniva organizzato a provincia romana). Sottratta a Mitridate anche la Cappadocia, P., senza colpo ferire, annullò il regno seleucidico di Siria arricchendo Roma d’una fiorente provincia. Contemporaneamente sistemò gli Stati che in qualche maniera dipendevano dalla Siria: in Giudea, nominato etnarca Ircano II e fatto prigioniero il fratello di lui, Aristobulo, dovette combattere gli ebrei in Gerusalemme, conquistando la città dopo tre mesi d’assedio. Uccisosi intanto Mitridate, che si era ritirato nel Bosforo Cimmerio, P. lasciò questo regno al figlio di costui, Farnace, e prese la via del ritorno. Sbarcato in Italia (62) sciolse le sue truppe, commettendo un errore che fu decisivo per la sua carriera politica: forse egli contò troppo sul favorevole effetto che avrebbe dovuto suscitare questa sua decisione, sperando di essere accolto a Roma come il solo onesto fautore della legalità; in realtà, mentre il senato dimostrò di non voler ricadere sotto la minaccia della sua potenza, il popolo non lo sosteneva più come in passato, anche a causa dell’influsso del nuovo capopartito, Cesare. P. dovette accostarsi a Licinio Crasso e a Cesare, del quale sposò la figlia Giulia. L’accordo, impropriamente detto primo triumvirato (non aveva infatti forma giuridica), ottenne a P. la ratifica dei provvedimenti presi in Asia e la distribuzione di terre ai veterani, ma aprì a Cesare, oltre che il consolato (59), il comando sulla Gallia Cisalpina e quindi la possibilità di controllare da vicino l’Italia disarmata. Nel tentativo di far concorrenza al rivale, P. alimentò a Roma la lotta delle bande armate, contrapponendo Milone al cesariano Clodio, per la cura dell’annona. La sua situazione migliorò col nuovo compromesso fra i triumviri (Lucca, 56) nel quale fu stabilito il rinnovo del comando per Cesare e il consolato per P. e Crasso (55) e successivamente un comando straordinario quinquennale, in Spagna per P., in Siria per Crasso. Durante il consolato, P. costruì grandiosi edifici, fra i quali il teatro in pietra, che da lui prese il nome; governò poi la Spagna per mezzo di legati, restando a Roma. La morte di Crasso (53) ruppe l’equilibrio politico e lasciò l’uno di fronte all’altro P. e Cesare, vincitore della Gallia. Contro quest’ultimo P. si appoggiava al senato e contava sulla forza della legalità, contestandogli il diritto di tenere la Gallia fino alla fine del 49 e di ambire da lontano al consolato per il 48; mirava egli stesso ad assicurarsi una specie di principato che molti oligarchici, compreso Cicerone, erano propensi ad accettare. Fu infatti invitato (50) a difendere la repubblica, ma si trovò disarmato davanti agli eserciti di Cesare che (49) varcarono il Rubicone, tanto che dovette abbandonare l’Italia e ritirarsi in Macedonia, seguito dal senato. Organizzato un esercito ragguardevole, ma certo inferiore per effettivi e per preparazione a quello di Cesare, ottenne alcuni successi sul nemico sbarcato a Durazzo; ma, lasciatosi indurre a battaglia campale presso Farsalo, fu sconfitto (48). Rifugiatosi a Lesbo, cercò poi aiuto in Egitto, regno del quale egli aveva sempre difeso l’indipendenza; ma presso la costa egiziana fu assassinato dai messi del re Tolomeo XIII che voleva conquistarsi l’amicizia di Cesare.