grido d’arme (o g. di guerra) Parole pronunciate a gran voce nei tornei e in battaglia per far riconoscere il cavaliere al suo ingresso in campo o per esortare i soldati al combattimento. Nei tornei e nelle giostre erano gli araldi che levavano il g. del cavaliere, reso irriconoscibile dall’armatura e dalla celata calata sul viso, per renderlo identificabile al pubblico; nei combattimenti, invece, era usanza di coloro che portavano la bandiera (banderesi) lanciare il g. per raccogliere l’esercito, esortare il coraggio dei soldati, riconoscersi nella mischia e spaventare il nemico. In un’armata vi erano tanti g. quante erano le bandiere innalzate ma oltre a questi g. particolari ve ne era anche uno comune a tutto l’esercito: quello del comandante in capo o del re (quando questi guidava le truppe di persona).
I g. furono usati come ornamento esteriore dello stemma, posti su un listello svolazzante sopra lo scudo seguiti sempre da un punto esclamativo; se ne trovano numerosi sugli stemmi francesi, raramente su quelli spagnoli e italiani. Alcuni araldisti ne hanno tentato una classificazione distinguendoli in g. generali o d’esercito e particolari o di famiglia; C.F. Ménéstrier (La veritable art du blason, 1673) ne ha distinte 8 categorie in base alle finalità: di decisione, di invocazione, di sfida, di combattimento, di esortazione, di gioia, di avvenimento e di raccolta. Il g. di decisione o risoluzione aveva lo scopo di esortare a compiere un’impresa; il g. di invocazione era rivolto a Dio e ai Santi; vi era poi il g. di sfida; il g. di combattimento o terrore si confonde, invece, con quelli di sfida e di esortazione; il g di esortazione serviva per esortare il coraggio dei soldati; il g. di gioia era per il trionfo; il g. di avvenimento si riferiva a un fatto straordinario compiuto da un personaggio della famiglia o a un avvenimento importante accaduto alla famiglia; il g. di raccolta aveva la funzione di raccogliere i soldati intorno al proprio comandante, era spesso il nome stesso della famiglia o del feudo.