LETTERATURA.
– Tempo e storia. Identità e memoria. Esperienza e discorso. Bibliografia
Il 21° sec. è iniziato nel segno di un interrogativo cruciale: la possibilità della sopravvivenza della l. nell’età digitale. I sistemi di scrittura e lettura, la trasmissione della conoscenza, la comunicazione e l’organizzazione del sapere sono stati scardinati dall’imporsi dei nuovi media e di Internet. Le informazioni, non più contenute in un testo a una sola dimensione, diventano gestibili dinamicamente in uno spazio multidimensionale di rappresentazioni: la parola non ha più il primato dell’espressione (P. Lévy, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberspace, 1994; trad. it. 1996, p. 210). Ci si chiede se nella ‘cosmopedia’ il linguaggio letterario saprà ancora anticipare le traiettorie, mediare, descrivere e influenzare i mutamenti della società; se le modificazioni culturali avviate dalla rivoluzione tecnologica determineranno l’eclissi della l. così come è stata concepita negli ultimi secoli, o se essa debba piuttosto rassegnarsi a sopravvivere come un’attività residuale e obsoleta, che resiste pur avendo smarrito la propria utilità e ragion d’essere.
L’affermazione del libro elettronico (e-book) – perfezionato nel 1998 con la creazione dei maneggevoli dispositivi di lettura (e-reader) – ha fatto profetizzare l’imminente estinzione del libro di carta, finora considerato l’esito imperfettibile dell’evoluzione millenaria dell’oggetto destinato a conservare e tramandare la scrittura (tavoletta di argilla, rotolo di papiro, codice di pergamena, infine libro): e come nel 15° sec. il passaggio dal manoscritto alla stampa ha mutato non solo la ricezione e la trasmissione delle opere, ma la loro stessa concezione (dalla collettività e dall’oralità alla testualità e all’individualità), così il passaggio dalla carta allo schermo non potrà limitarsi al cambiamento di un supporto.
La crisi economica mondiale, che dal 1998 ha investito gli Stati Uniti e l’Europa, ha contribuito a squassare l’industria culturale. Ma sono state soprattutto la facilità di trasmissione e di diffusione dei contenuti, la riproducibilità dei testi elettronici e l’imporsi di nuove realtà di distribuzione – con i fenomeni opposti di proliferazione atomizzata dal basso di autoproduzioni di massa (self-publishing, blog ecc.) e di centralizzazione dal vertice (con la creazione di enti sovranazionali proprietari di contenuti) – a incrinare la triangolazione autore-editore-lettore che è stata alla base della circolazione della l. in epoca moderna.
Tuttavia la profezia, dettata da una sorta di determinismo tecnologico, si è avverata solo parzialmente. Nelle economie avanzate il mercato librario elettronico ha affiancato quello cartaceo, e il numero dei lettori di l. si è mantenuto stabile, continuando questi a privilegiare le forme e i generi già noti. Sono stati i Paesi con tradizioni e platee più friabili (l’Italia fra questi) a pagare il prezzo più alto: i lettori digitali sono cresciuti lentamente, mentre gli altri si sono rarefatti. L’antica società letteraria si dissolve senza che un’altra venga a sostituirla.
L’avvento della rete e le trasformazioni irreversibili della fruizione hanno alterato la pratica della l., ma in direzione contraria a quella ipotizzata. La l. ha assorbito il modello dello star system dalla società dello spettacolo: alla crescente smaterializzazione del libro si contrappone sempre più la personificazione dello scrittore. Invece di virtualizzarsi e divenire immateriale si incarna – in un volto, un corpo, una voce. Sul modello della Buchmesse di Francoforte e dell’Hay Festival inglese, hanno proliferato in tutto il mondo – dall’Europa all’Africa e all’Oceania, dalle Americhe all’Asia, dalle capitali fino a cittadine e villaggi remoti – festival e fiere dei libri. In essi, scrittori noti a livello globale o locale (ma anche affatto ignoti), di nicchia oppure titani del mass-market, leggono, discutono, dialogano in pubblico, annullando le barriere della lingua, della nazione, della razza. Proprio quando il pianeta è lacerato dai conflitti e il mondo dei libri diventa più aleatorio e periferico, si realizza l’utopia della socializzazione della cultura e di una comunità cosmopolita delle lettere.
Anche la produzione creativa non ha conosciuto discontinuità. L’essere umano ha bisogno di finzioni anche nel mondo postumano, e questa necessità genera storie. Che non vengono narrate ormai solo dalla l., ma anche dal cinema, dalla televisione, dal fumetto, dal videoclip (v. video), dai videogame: ne nasce un circuito che la rafforza invece di indebolirla, la espande invece di limitarla. Nella l., inoltre, la lunga durata delle forme oppone una sorta di inerzia agli eventi e al movimento della storia (F. Moretti, La letteratura vista da lontano, 2005, p. 29). Il flusso infinito e anonimo dell’informazione si frange contro la fissità autoriale della parola scritta. Così, declinandosi in una ricchissima varietà di generi e sottogeneri, il romanzo, già delegittimato e proscritto come inattuale, si è riappropriato «del proprio mandato storico» (Calabrese 2005, p. VIII) e resiste come forma privilegiata, se non egemone, crogiolo e sorgente di immaginario, miti, simboli e metafore. Non si è verificata, infatti, la morte dell’autore, né la fine del suo autoritarismo (quale demiurgo inventore/descrittore di mondi) e neppure il tramonto delle narrazioni individuali, articolate da un punto di vista stilistico e strutturale e caratterizzate dalla intransitività del discorso (che muove a senso unico, dall’autore al lettore) e dalla compiutezza del testo refrattario a interventi estranei. Né queste narrazioni verticali ‘chiuse’, teoricamente inadatte alla lettura contemporanea, episodica e orizzontale, sono state sostituite da scritture sintetiche ‘aperte’, non lineari (dove il discorso muove da e verso più direzioni) e plurime (nel senso che i lettori divengono autori a loro volta modificando il corso narrativo). La scrittura elettronica libera potenzialità finora imbrigliate, come connettere testi ad altri testi, permettendo al lettore-autore infiniti intrecci inter e ipertestuali: ma gli esperimenti di creazione di opere vere e proprie da parte dello ‘scrilettore universale’ (universal wreader: cfr. Maldonado 2005, p. 69) hanno finora dato deludenti esiti di retroguardia, riecheggiando quelli dei dadaisti del 20° secolo. Mentre le innovazioni più fertili della l. recente provengono da scrittori che hanno obbedito all’«imperativo del realismo: illuminare le vite private con le storie collettive, rappresentare i modi in cui il tempo e le forze impersonali agiscono all’interno dell’esperienza individuale e delle relazioni intime, saggiare i confini dell’azione morale» (Brenkman 2002, p. 647).
Questa l. narrativa si confronta con le metamorfosi antropologiche seguite alla virtualizzazione e alla globalizzazione: lo smarrimento del senso del tempo e della cronologia, la deterritorializzazione e lo svuotamento dello spazio, la nebulizzazione dell’identità, il disorientamento e l’incertezza sul posto che si occupa nel mondo. Si cercherà di mapparne, attraverso la selezione trasversale di pochi testi e autori, i temi dominanti, aggregandoli intorno ad alcune parole chiave: tempo e storia; identità e memoria; esperienza e discorso. La l. si propone ancora come strumento di analisi ed elaborazione simbolica dei conflitti: le sue risposte rispetto alle contingenze paiono svilupparsi soprattutto in antitesi e quasi in opposizione a esse.
Tempo e storia. – Il romanzo postmoderno aveva abolito il concetto di realtà e di storia. L’estetica postmoderna gli negava la possibilità di rappresentare il mondo mercificato del postcapitalismo nel quale mancano le condizioni per quella «cristallizzazione degli eventi, che chiamiamo storia, e per quel dispiegamento delle cause e degli effetti, che chiamiamo realtà» (J. Baudrillard, L’illusion de la fin, ou la grève des événements, 1992; trad. it. 1993). Riducendo la l. al linguaggio e identificando il gioco come suo unico possibile fine, aveva liquidato come mistificazione ottocentesca l’idea che il romanzo possa offrire un qualunque contributo alla conoscenza della prima e della seconda. Venuta meno l’inibizione di questa censura ideologica ed estetica, all’inizio del 21° sec. si è rinvigorita l’esigenza di riconsiderare entrambe.
Il ritorno al romanzo di storia, e di storie (di qui in avanti ‘romanzo della storia’), è un fenomeno essenzialmente europeo. Infatti nelle Americhe, in Africa, in Asia o in Israele, il salvataggio della memoria del passato e l’analisi del presente sono rimasti sempre al centro della riflessione letteraria (basti pensare ai grandi autori del tardo Novecento, da Chinua Achebe, ad Assia Djebar, Nadine Gordimer, John M. Coetzee, Ya’akov Shabtai, Abrāhām Yehoshua, Yoram Kaniuk, Carlos Fuentes, Mario Vargas Llosa, Elena Poniatowska, Mo Yan). Dopo la decolonizzazione e la globalizzazione, modelli e forme rimessi in circolo dalle antiche periferie letterarie tornano disponibili (e vitali) nell’ex centro, ormai privo di forza di attrazione gravitazionale, svuotato di futuro e costretto a ripensarsi per reinventarsi un destino.
Il dilemma del romanzo storico classico consisteva a livello teorico nel riuscire a calibrare l’azione microscopica dell’individuo e i macroeventi che colpiscono le collettività, e a livello pratico i fatti e i personaggi, ovvero la storia vera e propria e l’invenzione: anche gli scrittori contemporanei che si sono cimentati con il racconto delle epoche più oscure della storia dei loro Paesi o della loro gente (il nazismo, la shoah, il comunismo, il terrorismo, le guerre civili) hanno dovuto affrontarlo.
L’avversione novecentesca per la finzione e l’erosione delle fondamenta del romanzo (i personaggi, l’intreccio, il patto con il lettore, la sospensione dell’incredulità) hanno però lasciato ferite profonde. Le cicatrici sono talvolta ostentate, quasi fossero un marchio legittimante, talvolta occultate, quasi il silenzio invalidasse teorie letterarie ormai rancide. Così il nuovo romanzo della storia è germogliato secondo modalità diverse, e perfino opposte, come avviene nell’ologenesi.
Nella prima ‘specie’, il romanzo storico si contamina con il romanzo documentario, con l’autobiografia e con la saggistica, generando una narrazione ibrida, che mira a ricostruire circostanze e conflitti attraverso l’investigazione di fatti realmente accaduti e azioni di persone realmente esistite. Archiviato il narratore onnisciente, si affida a un personaggio che scrive in prima persona (spesso l’autore stesso): non più guida, ma gemello del lettore, brancola fra i detriti e i silenzi del tempo, alla ricerca di un’interpretazione degli eventi. Si vedano, per es., i romanzi di Javier Cercas (Soldados de Salamina, 2001, trad. it. Soldati di Salamina, 2002; Anatomia de un instante, 2009, trad. it. Anatomia di un istante, 2010): il primo è un’indagine biografica sulla collisione dei destini di un ideologo della Falange e di un miliziano repubblicano; il secondo è una disamina minuziosa e ossessiva del comportamento di una collettività colta in una frazione infinitesimale del tempo (il tentato golpe del 1983). In Italia, si veda Point Lenana (2013) di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara: anch’esso indagine in soggettiva su un personaggio reale, un fatto storico, un’epoca (l’assurgere del fascismo) e un modo di essere italiani.
I precursori di questa narrativa in soggettiva sono Christoph Ransmayr (Die Schrecken des Eises und der Finsternis 1984; trad. it. Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre, 1988), che poi ha sperimentato altre forme di romanzo (storico, ucronico, in versi), e Winfried G. Sebald: con freddezza da entomologo, in una prosa erratica e remota, programmaticamente antiromanzesca ha ritratto persone, luoghi, oggetti, città, edifici, libri, altri scrittori, incrociati nei propri pellegrinaggi nello spazio, nella catastrofe della storia e nella letteratura (Die Ringe des Saturn, 1995, trad. it. Gli anelli di Saturno, 1998; Luftkrieg und Literatur, 1999, trad. it. Storia naturale della distruzione, 1999; Austerlitz, 2001, trad. it. 2002).
La seconda morfologia di narrazioni, pur rifiutando l’invenzione pura e utilizzando anch’essa materiali di derivazione (memorie, biografie, lettere, storia orale), non esita a riprendere alcuni archetipi del romanzo storico classico. Non si rinuncia a un simulacro di intreccio né ai personaggi di finzione. La promiscuità fra questi e i personaggi reali accresce l’effetto-verità, amplificando il senso del racconto. La l. è l’alibi della storia. Così Primo Levi, Willi Münzenberg e altri protagonisti della cultura europea, risucchiati nel vortice della memoria, raccontati in chiave documentaria, convivono con i personaggi inventati in Sefarad (2001; trad. it. 2002) di Antonio Muñoz Molina: ne risulta un romanzo composito, vertiginoso collage di ricordi di secondo grado, epopea dell’esilio e della persecuzione, contro l’amnesia della storia, ma soprattutto rilettura dalla parte delle vittime dei totalitarismi del 20° secolo. Jonathan Littell capovolge la prospettiva, narrando il nazismo e lo sterminio degli ebrei dalla parte dei carnefici (Les bienveillantes, 2006; trad. it. Le benevole 2007). Per ricostruire con precisione microstorica quasi visionaria l’ambiente delle SS crea un protagonista di finzione, che narra in prima persona. Il racconto si fonda su un ammasso di materiali autentici, eppure la storia ha bisogno (e si serve) del romanzo, come unico reagente che possa smascherarla e darle significato.
Una serrata indagine sulla responsabilità personale svolge anche Ludmila Ulitskaja in Daniel′ Štajn, perevodčik (2008; trad. it. Daniel Stein, traduttore, 2010). Il romanzo della storia si polverizza in un puzzle di materiali disomogenei. Registrazioni di conversazioni, lettere, telegrammi, diari, articoli, atti giudiziari (autentici o fittizi, ma derivati da vere interviste, studi e viaggi dell’autrice, mossa dal «sincero desiderio di dire la verità» pur consapevole che questa intenzione è una «follia») compongono il mosaico dell’esistenza errante del protagonista eponimo, ispirato all’ebreo polacco realmente esistito Oswald Rufeisen.
Romanzi di storia che presuppongono la ‘ricostruzione’, ma la escludono dalla diegesi a vantaggio di una più sciolta narratività e di un’invenzione più libera, manufatti sorretti da solide architetture, lingua funzionale, personaggi rotondi firmano Chimamanda Ngozi Adichie (Half of a yellow sun, 2006; trad. it. Metà di un sole giallo, 2008), Gabriella Ghermandi (Regina di fiori e di perle, 2007), Sofi Oksanen (Puhdistus, 2008, trad. it. La purga, 2010; Kun kyyhkyset katosivat, 2012, trad. it. Quando le colombe scomparvero, 2014) e Almudena Grandes, che sceglie la struttura epica della ballata popolare, articolando in più volumi gli ‘episodi di una guerra interminabile’ (così recita il sottotitolo del ciclo dei romanzi Inés e l’alegría, 2010, trad. it. Inés e l’allegria, 2011; El lector de Julio Verne, 2012, trad. it. Il ragazzo che leggeva Verne, 2012; Las tres bodas de Manolita, 2014, trad. it. I tre matrimoni di Manolita, 2014).
Questa dicotomia di specie serva da metafora e non da categorizzazione. Gli itinerari infatti si incrociano: il rapporto fra demolizione e recupero oscilla né è mai risolto definitivamente, e le ricerche di quasi tutti gli autori citati in questa voce muovono in entrambe le direzioni – utilizzando a intermittenza l’una o l’altra forma.
Anche il dispositivo del ‘romanzo familiare’ viene riattivato. La ricostruzione della storia della propria famiglia da parte dell’autore può essere in soggettiva, oggettiva o pseudo-oggettiva; può essere fantastica, onirica, epica, oppure filologica, supportata da documenti e fotografie: ma sempre permette di narrare attraverso la vita di pochi singoli la storia collettiva (rivoluzioni fallite o tradite, guerre, esodi, utopie infrante). Anche qui si riproduce il meccanismo dell’ologenesi. Della prima specie, che smonta il romanzo familiare come un ingranaggio arrugginito, è esemplare Harmonia cælestis (2000; trad. it. 2003) di Péter Esterházy: attingendo liberamente alla memoria della propria aristocratica famiglia, sovvertendo la cronologia e facendo collassare la trama, compone un’epica straniata della storia dell’Ungheria. Il romanzo familiare decostruito incrocia il romanzo della storia nella specie ibrida. Dopo la scoperta della collaborazione forzata del padre con i servizi segreti comunisti, Esterházy ha aggiunto una postilla narrativa: in essa figura come personaggio alla ricerca della verità (Javított kiadás melléklet a Harmonia caelestishez, 2002; trad. it. L’edizione corretta di Harmonia cælestis, 2005).
Liberato dal dovere di raccontare una vicenda compiuta, decomponendosi come un corpo in putredine anche il romanzo familiare può cannibalizzare altri generi; può diventare diario di viaggio, cronaca di un reportage, racconto erotico, autobiografia di un fallimento amoroso, come in Un roman russe (2007; trad. it. La vita come un romanzo russo, 2009) di Emmanuel Carrère. Al centro di tutte le opere recenti dello scrittore, dopo il divorzio dal romanzesco, figurano personaggi reali e/o storici: ma è l’autore il propulsore della narrazione. Testimone indolente, attore o personaggio, collettore di storie minime di vita e cronaca nera o storie massime che attraversano cataclismi epocali, si addentra nel caos del passato alla ricerca della propria origine, o dell’origine di tutte le storie e di tutte le ideologie (L’adversaire, 2000, trad. it. L’avversario, 2000; D’autres vies que la mienne, 2009, trad. it. Vite che non sono la mia, 2011; Limonov, 2011, trad. it. 2012; Le royaume, 2014, trad. it. Il regno, 2015).
La seconda specie di romanzo familiare rivitalizza intreccio, contesto, personaggi, spesso anche il narratore. Il racconto diventa argine all’evaporazione e alla mistificazione della memoria. Si ricordano qui Jonathan Safran Foer (Everything is illuminated, 2002; trad. it. Ogni cosa èilluminata, 2002), Kader Abdolah (Spijkerschrift, 2000; trad. it. Scrittura cuneiforme, 2003), Feridun Zaimoglu (Leyla, 2006; trad. it. 2007), Julie Otsuka (The Buddha in the attic, 2011; trad. it. Venivamo tutte per mare, 2012), Sibylle Lewitscharoff (Apostoloff, 2009; trad. it. 2012), Nino Haratischwili (Das achte Leben, 2014). In Italia, Domenico Starnone (Via Gemito, 2000), Melania G. Mazzucco (Vita, 2003), Antonio Pennacchi (Canale Mussolini, 2010).
Diventano romanzo familiare anche narrazioni che pure nascono come memoirs, fedeli rievocazioni delle vicende dei propri antenati, genitori o parenti. Si vedano Amos Oz (Sipur ῾al ᾽ahavah e-oḥ̌ sekh, 2002; trad. it. Una storia di amore e di tenebra, 2003), Hanif Kureishi (My ear at his heart, 2004; trad. it. Il mio orecchio sul suo cuore, 2004), Amin Maalouf (Origines, 2004; trad. it. Origini, 2004), Daniel A. Mendelsohn (The lost: a search for six of six million, 2006; trad. it. Gli scomparsi, 2007), Lydia Salvayre (Pas pleurer, 2014), Katja Petrowskaja (Vielleicht Esther, 2014; trad. it. Forse Esther, 2014).
E se nel racconto non si è mai interrotta la grande tradizione del realismo (Alice Munro, Elizabeth Strout, Jhumpa Lahiri, Andrej Volos), persistono, sia nel romanzo della storia sia nel romanzo del presente, narrazioni riconducibili alle varie declinazioni del realismo. Nell’ultimo quindicennio lo statunitense Philip Roth ha abbandonato il romanzo-soliloquio per riaprire all’affresco collettivo e all’ucronia politica (si vedano The human stain, 2000, trad. it. La macchia umana, 2001, ultimo volume della ‘trilogia americana’, e i successivi The plot against America, 2004, trad. it. Il complotto contro l’America, 2005, e Nemesis, 2010, trad. it. Nemesi, 2011). Joyce Carol Oates (The falls, 2004, trad. it. Le cascate, 2006; The accursed, 2013, trad. it. Il maledetto, 2015), Jonathan Franzen (The corrections, 2002, trad. it. Le correzioni, 2002; Freedom, 2010, trad. it. Libertà, 2011), Donna Tartt (The goldfinch, 2013; trad. it. Il cardellino, 2014) e Richard Ford (Canada, 2012; trad. it. 2013) rinfrescano la tradizione del ‘grande romanzo americano’. Ford ha pure riesumato la struttura romanzesca ciclica, tramontata con il naturalismo, proseguendo l’epopea minimalista del suo antieroe Frank Bascombe (The lay of the land, 2006, trad. it. Lo stato delle cose, 2008; Let me be frank with you, 2014, trad. it. Tutto potrebbe andare molto peggio, 2015). In Italia, ricorrono alla struttura ciclica anche Elena Ferrante (L’amica geniale, 2011; Storia del nuovo cognome, 2012; Storia di chi fugge e di chi resta, 2013; Storia della bambina perduta, 2014) e Sandro Veronesi (Caos calmo, 2005; Terre rare, 2014): entrambi scelgono la focalizzazione privata per accompagnare i loro personaggi nel tempo e attraverso i cambiamenti dell’Italia.
Temi etici e scientifici innervano gli ultimi romanzi di narratori consolidati come Ian McEwan (Saturday, 2005, trad. it. Sabato, 2005; On Chesil beach, 2007, trad. it. Chesil beach, 2007; Solar, 2010, trad. it. 2010), Kazuo Ishiguro (Never let me go, 2005; trad. it. Non lasciarmi, 2006), Javier Marias (Tu rostro mañana, 3 voll., 2002-2007, trad. it. Il tuo volto domani, 3 voll., 2003-2010; Así empieza lo malo, 2014, trad. it. Così ha inizio il male, 2015).
La necessità di rappresentare la realtà innesca anche la narrazione di impegno civile e sociale, che incrocia il giornalismo e ne usa metodi e tecniche. Nei Paesi ispanofoni e nelle Americhe, dove è particolarmente fiorente, viene definita periodismo narrativo. In esso, secondo un’affermazione di Gabriel García Márquez, che ne è a sua volta capostipite (Noticia de un secuestro, 1996; trad. it. Notizia di un sequestro, 1996), «fiction e non fiction sono unite da ciò che le separa: la letteratura». Ne risultano scritture proteiformi, in cui si miscelano elementi diversi: «le capacità narrative del romanzo, i dati immodificabili del reportage, il senso drammatico del racconto, i dialoghi dell’intervista, il montaggio del teatro, l’argomentazione del saggio, la prima persona dell’autobiografia» (Relatoría del Taller de periodismo narrativo con Juan Villoro, http://www.caf.com/media/3156/RELATORIA_VILLORO_2010.pdf, 13 luglio 2015). Fra orrore e meraviglia, lo scrittore-testimone-reporter denuncia menzogne, corruzioni, violenze, gli abusi della cronaca, le devastazioni della guerra e le strategie di sopravvivenza della vita quotidiana (Ryszard Kapuściński, Heban, 1998, trad. it. Ebano, 2000, e L’Africa non esiste, 2006; Svetlana Aleksievič, Cernobyl′skaja molitva, 1997, trad. it. Preghiera per Černobyl′, 2002, Cinkovye mal′čiki, 1991, trad. it. Ragazzi di zinco, 2003, Vremja sekond hènd, 2013, trad. it. Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, 2014; Roberto Saviano, Gomorra, 2006, ZeroZeroZero, 2013; Lydia Cacho,Los demonios del Edén, 2005; Diego Osorno, El cártel de Sinaloa, 2009, e Z. La guerra de los Zetas, 2012, trad. it. Z. La guerra dei narcos, 2013; Magali Tercero, Cuando llegaron los bárbaros, 2011; Juan Villoro, ¿Hay vida en la tierra?, 2014). Le reazioni suscitate da queste scritture, le minacce e le persecuzioni subite dagli autori (fino all’esilio e, talvolta, all’assassinio) ridimensionano la tesi dell’esaurimento del ruolo degli intellettuali nella società contemporanea. Ogni volta che (non solo dove ignota o negata è la libertà di espressione) scrittori e giornalisti hanno scelto di indagare il presente le loro parole hanno colpito come proiettili, dimostrando che la ricerca della verità attraverso la scrittura rimane un formidabile veicolo di libertà.
Identità e memoria. – La ricerca che alimenta il romanzo storico e familiare conduce non solo nel passato, ma anche nel cuore del presente, la ‘modernità liquida’ caratterizzata dal punto di vista storico da emigrazione e immigrazione di massa e dal punto di vista sociale dalla liquefazione dell’identità personale (Bauman 2000). La scrittura diventa lo strumento per cartografare lo spaesamento che deriva dalla perdita del territorio di appartenenza e dal divorzio del sé da un luogo e del luogo dal sé (Sloterdijk 2001, trad. it. 2002, p. 170). Per chi non può più riconoscersi in uno spazio geografico, la scrittura costruisce l’unica dimora abitabile e possibile. Ma è a sua volta instabile e fluttuante. Non ha più una genealogia sicura, solo un’ascendenza meticcia: nessun autore del 21° sec. può essere sigillato nella clausura della sua tradizione nazionale; e non possiede nemmeno più un’unica lingua, percepita come materna e naturale: molti abbandonano l’originaria per un’altra, altri scrivono indifferentemente in più lingue, altri ancora scrivono in una lingua diversa da quella del Paese in cui vivono, o perfino in una lingua terza, che non è né la propria né quella del Paese d’adozione.
Mai come nel 21° sec. la mobilità – da un luogo, da una lingua, da una cultura, da un nome, da un’identità anagrafica, da un ruolo sociale a un altro – è divenuta soggetto e oggetto del discorso letterario. E il tema dell’identità infranta, revocata, scartata, multipla e composita del soggetto nomade fra diverse nazioni, patrie, culture, comunità e lingue, si irradia ovunque. Si tratta di una l. del transito, della diaspora universale o della ‘coscienza esilica’ (Sabin 2008): innumerevoli storie di esistenze sospese, sradica-mento, disappartenenza, tentativi ambigui di riconoscimento in una società o in un mondo perduto, convivenze precarie, trapianti, innesti, abrasioni di memoria.
Anche in questo caso, le strategie narrative scelte dagli autori espatriati (esuli, profughi, transfughi, immigrati di prima o seconda generazione) sono disparate: ricorso all’autobiografia, a narrative sperimentali, tradizionali, convenzionali, di genere (v. letterature migranti). Si ricorderanno qui la prosa secca e straniata di Ágota Kristóf, Herta Müller e Atiq Rahimi, le raffinate narrazioni psicologiche di Jhumpa Lahiri (Interpreter of maladies, 1999, trad. it. L’interprete dei malanni, 2000; The namesake, 2003, trad. it. L’omonimo, 2003; Unaccustomed earth, 2008, trad. it. Una nuova terra, 2008) e quelle ipnotiche di Marie Ndiaye (Trois femmes puissantes, 2009; trad. it. Tre donne forti, 2010), i romanzi di formazione di Elif Shafak (Honor, 2012; trad. it. La casa dei quattro venti, 2012) e Chimamanda Ngozi Adichie (Americanah, 2013; trad. it. 2014). In Italia, Amara Lakhous (Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, 2006; Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, 2013) e Cristina Ali Farah (Madre piccola, 2007; Il comandante del fiume, 2014).
Esperienza e discorso. – In apparente antitesi a questa narrativa postrealista ferve quella a lungo racchiusa nella categoria del postmoderno che, partendo dall’assunto della crisi del concetto di realtà e dell’impossibilità della sua rappresentazione, si concepisce solo come metaletteratura, o metafiction (non narra cioè una storia, ma il discorso che la racconta). All’estetica del vero oppone quella della menzogna, all’autenticità della materia (e dei materiali) della scrittura la sostanza artefatta e artificiale del testo, alla verosimiglianza l’implausibilità. Alla realtà delle cose e delle persone, l’irrealtà del mondo dei simulacri, corrosa dall’invadenza dei mass media. Alle culture elitarie, le sottoculture popolari; al sottinteso etico e pedagogico, l’intento ludico e ironico. Che può sfociare nel nichilismo: la «più inquietante e attraente tendenza delle letterature contemporanee» si aggira intorno all’impossibilità della scrittura: questa è l’unica strada aperta all’autentica creazione letteraria (E. Vila Matas, Bartleby y compañia, 2000, trad. it. Bartleby e compagnia, 2002, p. 13).
Ma anch’essa ha avuto un’evoluzione di tipo ologenetico. Da un lato, il romanzo postmoderno si è trasformato in una iperletteratura sovranazionale (il ‘romanzo globale’, secondo la definizione di Stefano Calabrese), in cui la proliferazione coltissima e giocosa di finzioni finisce per restituire alla narrazione la felicità del racconto puro. In questo senso, sono emblematiche le vicende del cileno Roberto Bolaño (1953-2003): esule in Messico e in Catalogna, è evoluto dal giovanile dadaismo infrarealista d’avanguardia (rievocato in Los detectives salvajes, 1998, trad.it. I detective selvaggi, 2003) fino ai labirinti verbali di 2666 (2004; trad. it. 2 voll., 2007-2008). E dell’anglo-pakistano Salman Rushdie, che dopo i primi romanzi, debitori della formula del realismo magico, ha virato verso ipertrofici sur-romanzi, o romanzi di romanzi (The ground beneath her feet, 1999, trad. it. La terra sotto i suoi piedi, 1999; Shalimar the clown, 2005, trad. it. Shalimar il clown, 2006). E, in Italia, di Alessandro Baricco (Mr. Gwyn, 2011; Tre volte all’alba, 2012).
Dall’altro, il romanzo postmoderno ha imboccato la strada del mimetismo parossistico: assorbendo e fagocitando nella l. anche ogni discorso degli altri media (pubblicità, TV, musica pop), ha raggiunto esiti di paradossale realismo massimalista. Ne sono scaturite narrazioni interminabili, proliferate sulle forme tradizionali implose, ingombre di note e divagazioni, dagli intrecci fantomatici. David Foster Wallace è stato l’esponente più dotato e consapevole di questo esito estremo del postmoderno, detto anche avant-pop (Infinite jest, 1996; trad. it. 2000).
Se l’autore può solo dire ‘come si vede mentre si vede vedere il mondo’, scriverà con disagio, sbalordimento e ironia di ogni microscopico dettaglio che cattura la sua attenzione labile. La frantumazione del reale in particelle conduce alla filologia dell’insignificanza: Wallace ha esibito il suo genio proprio nei reportage ‘ipnotico-sensoriali’ non finzionali, in cui la descrizione compulsiva di fenomeni apparentemente trascurabili, come il sistema di scarico del water ad alto tiraggio su una nave da crociera, l’incidenza del vento sul tennis nel Midwest, la cottura dei crostacei, restituisce l’immagine di un mondo di cui non si può più altrimenti fare esperienza (A supposedly fun thing I’ll never do again, 1997, trad. it. Un cosa divertente che non farò mai più, 1998, p. 47; Consider the lobster, 2005, trad. it. Considera l’aragosta, 2006).
L’abrogazione della rappresentazione e la crisi del rapporto tra realtà e l. hanno sviluppato anche un genere narrativo anfibio, che contamina autobiografia e finzione e che ha finito per riconoscersi nella dizione di ‘autofiction’ (coniata peraltro dallo scrittore francese Serge Doubrovsky già nel 1977).
Nell’autobiografia la scrittura memoriale, lo sguardo retrospettivo sul proprio privato, la rievocazione veritiera della propria esperienza la trasforma in un’esperienza generazionale e universale. Ciò confermano i recenti memoirs, pur diversissimi nei toni (lucidi, ironici, spietati, grotteschi, tragici) e negli scopi, dei principali scrittori del 20° sec. (Boris Pahor, Nekropola, 1967, trad. it. Necropoli, 1997; Martin Amis, Experience, 2000, trad. it. Esperienza 2002; Gabriel García Márquez, Vivir para contarla, 2002, trad. it. Vivere per raccontarla, 2002; Christa Wolf, Ein Tag imJahr 1960-2000, 2003, trad. it. Un giorno all’anno 1960-2000, 2006; Norman Manea, Intoarcerea huliganului, 2003, trad. it. Il ritorno dell’huligano, 2004; Günter Grass, Beim Häuten der Zwiebel, 2006, trad. it. Sbucciando la cipolla, 2007; Alice Munro, The view from Castle rock, 2006, trad. it. La vista da Castle Rock, 2007; Per Olov Enquist, Ett annat liv, 2008, trad. it. Un’altra vita, 2010; Salman Rushdie, Joseph Anton, 2012, trad. it. 2012).
Nell’autofiction invece il confine tra realtà e finzione non è più tracciabile. L’autore pone se stesso (con nome e cognome) al centro della narrazione, ma confonde deliberatamente l’invenzione con la realtà, rendendo impossibile al lettore distinguere l’una dall’altra. Come nel romanzo postmoderno, non esiste alcuna garanzia sulla veridicità della materia narrata. Anzi, il sospetto della menzogna è funzionale al meccanismo letterario. L’unico garante dell’autenticità del testo è lo scrittore stesso. Gli scrittori di autofiction narrano le proprie esperienze sessuali, professionali, esistenziali: traumatiche, alimentari, turistiche, tragiche, politiche (Amélie Nothomb, Stupeur et tremblements, 1999, trad. it. Stupori e tremori, 2001, Biographie de la faim, 2004, trad. it. Biografia della fame, 2005; Christine Angot, L’inceste, 1999, trad. it. L’incesto, 2000, Les petits, 2011; Walter Siti, Troppi paradisi, 2006; Annie Ernaux, Les années, 2008; Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, 2013; Georgi Gospodinov, Fizika na t′gata, 2011, trad. it. Fisica della malinconia, 2013; Karl Ove Knaus gård, Min kamp, 2009-2011, trad. it. La mia lotta, 2 voll., 2011-2012). Qualcosa di analogo aveva sperimentato Michel Houellebecq nei suoi primi romanzi (Les particules élémentaires, 1998, trad. it. Le particelle elementari, 1999; Plateforme, 2001, trad. it. Piattaforma: nel centro del mondo, 2001), nei quali il personaggio romanzesco era maschera trasparente dell’autore, che gli attribuiva le proprie invettive e il proprio naufragio nello squallore del presente. In seguito, però, Houellebecq si è indirizzato verso il romanzo distopico (La possibilité d’une île, 2005, trad. it. La possibilità di un’isola, 2005; Soumission, 2015, trad. it. Sottomissione, 2015; v. anche distopica, letteratura).
Infine non può non essere sottolineato che la cosiddetta letteratura di massa, caratterizzata dal ricorso consolatorio e rassicurante allo stereotipo, ha progressivamente occupato gli spazi (fisici e tematici) un tempo attribuiti alla letteratura. Ma è accaduto anche il contrario, e gli attrezzi della prima sono stati usurpati dalla seconda. Nel mondo digitale reticolare, ogni distinzione fra alto e basso, già rifiutata da teorici e scrittori degli anni Settanta del 20° sec., è solo un fossile culturale. Autori prolifici come Stephen King, James Ellroy, Ken Follett, John Le Carré, Andrea Camilleri utilizzano indifferentemente la narrativa di genere (horror, noir, spy-story, giallo, thriller) e il romanzo di formazione, politico, storico. I polizieschi hanno dimostrato che la ripetitività strutturale e la mediocritas linguistica del ‘genere’ costituiscono la zavorra che ancora il romanzo alla società, consentendo ai lettori identificazione catartica ed esplorazioni senza rimorso nei bassifondi dell’essere umano (Henning Mankell, Jean Claude Izzo, Joe R. Lansdale); i fantasy concepiti per i giovani lettori (la saga di Harry Potter di J.K. Rowling, quella dei vampiri di Stephanie Meyer) hanno sedotto un pubblico indifferenziato. Autori magni come David Grossman e Murakami Haruki scrivono romanzi per bambini e di fantascienza: le viete classificazioni risultano ormai inservibili. Nessuna dogana cinge i confini della l.; in un mondo aperto non esistono più autorità delegate a rilasciare documenti di accesso né permessi di soggiorno. La l. si inoltra nel 21° sec. senza timore di diventare campo archeologico di rovine.
Bibliografia: A. Appadurai, Modernity at large. Cultural dimensions of globalization, Minneapolis 1996 (trad. it. Roma 2001,Milano 2012); Z. Bauman, Liquid modernity, Cambridge-Oxford 2000 (trad. it. Roma-Bari 2002); P. Sloterdijk, Die letzte Kugel. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrischen Globalisierung, Berlin 2001 (trad. it. L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Roma 2002); J. Brenkman, Sull’innovazione. Romanzo, modernità, nichilismo, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, 3° vol., Storia e geografia, Torino 2002, pp. 64573; S. Gaeta, Semiotica del libro elettronico, 2004, http://www. tdmagazine.itd.cnr.it/files/pdfarticles/PDF31/gaeta.pdf (9 luglio2015); S. Calabrese, www.letteratura.global. Il romanzo dopo il postmoderno, Torino 2005; T. Maldonado, Memoria e conoscenza. Sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale, Milano 2005; Letteratura fluida, a cura di A. Abruzzese, G. Ragone,Napoli 2007; S. Sabin, Die Welt als Exil, Göttingen 2008 (trad.it. Il mondo come esilio. Multietnicità e letteratura, Firenze 2009);
A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari 2009; A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, 3 voll., Torino 2009; Oltre il libro elettronico. Il futuro dell’editoria, a cura di N. Cavalli, A. Solidoro, Milano 2009; A. Gnisci, F. Sinopoli, N. Moll, La letteratura del mondo nel XXI secolo, Milano 2010.